Copertina
Autore Stieg Larsson
Titolo La regina dei castelli di carta
EdizioneMarsilio, Venezia, 2009, Farfalle , pag. 860, cop.fle., dim. 13,4x20,4x5,5 cm , Isbn 978-88-317-9677-4
OriginaleLuftslottet som sprängdes [2007]
TraduttoreCarmen Giorgetti Cima
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa svedese , gialli
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Pagina 9

1.
Venerdì 8 aprile



Il dottor Anders Jonasson fu svegliato dall'infermiera Hanna Nicander. Mancavano pochi minuti all'una e mezza di notte.

«Che c'è?» domandò confuso.

«Elicottero in arrivo. Due pazienti. Un uomo anziano e una giovane donna. La donna ha ferite d'arma da fuoco.»

«Aha» fece Anders Jonasson stancamente.

Si era appisolato una mezz'oretta e aveva ancora sonno. Stava facendo il turno di notte al pronto soccorso dell'ospedale Sahlgrenska di Göteborg. Era stata una serata alquanto faticosa. Da quando era entrato in servizio alle sei di sera, l'ospedale aveva accolto quattro persone reduci da uno scontro frontale subito fuori Lindome. Una era in gravi condizioni e di un'altra era stato constatato il decesso subito dopo l'arrivo. Il dottore aveva anche curato una cameriera con un'ustione a una gamba conseguente a un incidente nelle cucine di un ristorante dell'Avenyn, il corso principale di Göteborg, e salvato la vita a un bambino di quattro anni, che era arrivato con un blocco respiratorio dopo aver ingerito la ruota di una macchinina giocattolo. Inoltre, aveva fatto in tempo a medicare un'adolescente finita in una buca con la bicicletta. La manutenzione stradale aveva scelto opportunamente di piazzare lo scavo all'uscita di una pista ciclabile, e qualcuno aveva buttato i cavalletti di avvertimento dentro lo scavo. La ragazza era stata ricucita con quattordici punti in faccia e avrebbe avuto bisogno di due incisivi nuovi. Jonasson aveva poi riattaccato un pezzo di pollice che un entusiasta falegname della domenica si era mozzato con la pialla.

Verso le undici il numero delle urgenze era diminuito. Aveva fatto il giro per controllare lo stato dei pazienti ricoverati e poi si era ritirato nel suo studio per riposarsi un po'. Era di turno fino alle sei e non aveva l'abitudine di dormire, anche se non arrivavano emergenze, ma proprio quella notte si era appisolato quasi subito.

Hanna Nicander gli allungò una tazza di tè. Non aveva ricevuto altri dettagli sui due casi in arrivo.

Anders Jonasson sbirciò fuori dalla finestra e vide che al largo sul mare era tutto un susseguirsi di lampi. L'elicottero aveva fatto veramente appena in tempo. D'improvviso cominciò a piovere a dirotto. Il temporale era arrivato su Göteborg.

Mentre era in piedi accanto alla finestra, sentì il rombo del motore e vide l'elicottero barcollare nella burrasca verso la piattaforma di atterraggio. Trattenne il respiro quando il pilota parve avere qualche difficoltà a mantenere il controllo. Poi il velivolo sparì dal suo campo visivo e si sentì il motore che calava di giri. Bevve un sorso di tè e mise da parte la tazza.


Anders Jonasson accolse le barelle all'ingresso del pronto soccorso. La collega Katarina Holm si fece carico del primo paziente che fu portato dentro – un uomo di una certa età con estese ferite al viso. Toccò invece al dottor Jonasson occuparsi dell'altro paziente, la donna con ferite d'arma da fuoco. Fece un rapido controllo e constatò che all'apparenza si trattava di un'adolescente, tutta insudiciata e sanguinante, con gravi ferite. Sollevò la coperta che il personale di soccorso le aveva avvolto intorno al corpo e notò che qualcuno aveva chiuso le ferite all'anca e alla spalla con del largo nastro adesivo argentato, iniziativa che giudicò insolitamente intelligente. Il nastro teneva lontani i batteri e fermava la fuoriuscita di sangue. Una pallottola aveva colpito l'anca penetrando attraverso il tessuto muscolare. Le sollevò la spalla e localizzò il foro d'ingresso nella schiena. Non c'erano fori d'uscita, il che significava che la pallottola era ancora da qualche parte dentro la spalla. Sperava che non avesse forato il polmone, e siccome non rilevò la presenza di sangue nella cavità orale della ragazza, trasse la conclusione che probabilmente non era successo.

«Radiografia» ordinò all'infermiera. Non c'era bisogno di spiegare altro.

Infine tagliò la fasciatura con la quale il personale di soccorso le aveva avvolto il cranio. Si raggelò quando con le dita sentì il foro d'ingresso e si rese conto che la ragazza era stata colpita anche alla testa. Neppure lì c'erano fori d'uscita.

Anders Jonasson si fermò un secondo a osservarla. D'improvviso si sentiva scoraggiato. Da lui arrivavano ogni giorno persone in condizioni molto diverse ma con un unico scopo – ricevere aiuto. Signore di settantaquattro anni che si erano afflosciate al centro commerciale di Nordstan per un arresto cardiaco, ragazzi di quattordici con il polmone sinistro perforato da un cacciavite, ragazze di sedici che avevano rosicchiato pasticche di ecstasy e ballato per diciotto ore di fila per poi crollare con la faccia cianotica. Vittime di incidenti sul lavoro e di maltrattamenti. Bambini aggrediti da cani da combattimento in Vasaplatsen e uomini in gamba che dovevano soltanto segare qualche asse con il Black & Decker e avevano finito quasi per amputarsi una mano. Anders Jonasson stava fra il paziente e le pompe funebri. Era la persona che stabiliva cosa era necessario fare. Se prendeva la decisione sbagliata, il paziente poteva morire o essere condannato all'invalidità. Il più delle volte faceva la cosa giusta, il che dipendeva dal fatto che la grande maggioranza dei pazienti aveva un problema specifico evidente. Una coltellata in un polmone o una frattura in conseguenza di un incidente automobilistico erano fenomeni comprensibili. Il paziente sopravviveva a seconda della natura del danno e di quanto lui era stato abile.

Ma c'erano due tipi di lesioni che Anders Jonasson detestava. Le ustioni gravi, le cui conseguenze, a prescindere dalle misure che avesse adottato, si sarebbero protratte per tutta la vita. E le lesioni alla testa.

La ragazza che aveva di fronte poteva vivere con una pallottola nell'anca e una pallottola nella spalla. Ma una pallottola da qualche parte nel cervello era un problema di tutt'altro ordine di grandezza. D'un tratto sentì che Hanna stava dicendo qualcosa.

«Prego?»

«È lei.»

«Lei chi?»

«Lisbeth Salander. La ragazza cui stanno dando la caccia per il triplice omicidio di Stoccolma.»

Anders Jonasson guardò il viso della paziente. Hanna aveva perfettamente ragione. Era la sua foto che lui e tutti gli altri svedesi avevano visto sulle locandine fuori da ogni edicola nei giorni di Pasqua. E adesso l'assassina era stata a sua volta colpita, il che costituiva forse una sorta di poetica giustizia.

Ma la cosa non lo riguardava. Il suo lavoro era salvare la vita dei suoi pazienti, che fossero pluriomicidi o premi Nobel. O tutte e due le cose allo stesso tempo.


Quindi scoppiò il caos efficiente che caratterizza un pronto soccorso. Il personale della squadra di Jonasson si mise all'opera con consumata abilità. Gli indumenti rimasti addosso a Lisbeth Salander furono tagliati con le forbici. Un'infermiera riferì la pressione sanguigna, cento e settanta, mentre il dottore poggiava lo stetoscopio sul petto della paziente e auscultava un battito che sembrava relativamente regolare e un respiro che non lo era altrettanto.

Il dottor Jonasson non esitò a classificare immediatamente le condizioni di Lisbeth Salander come critiche. Le ferite alla spalla e all'anca per il momento potevano aspettare, tamponate con un paio di compresse di garza o anche con gli stessi pezzi di nastro che qualche anima ispirata ci aveva messo sopra. L'importante era la testa. Il dottor Jonasson ordinò che fosse fatta una tac, con l'apparecchiatura nella quale l'ospedale aveva investito la sua parte di tasse.

Anders Jonasson era biondo con gli occhi azzurri, ed era originario di Umeå. Lavorava da vent'anni al Sahlgrenska e all'Östra Sjukhuset alternativamente come ricercatore, patologo e medico del pronto soccorso. Aveva una peculiarità che sconcertava i colleghi e rendeva il personale orgoglioso di lavorare con lui: nessun paziente doveva morire nelle mani della sua squadra, e in qualche modo miracoloso era effettivamente riuscito a mantenere a zero il numero dei decessi. Alcuni dei suoi pazienti erano morti, è vero, ma era sempre accaduto nel corso dei trattamenti successivi o per cause del tutto diverse dai suoi interventi.

Jonasson aveva una visione talvolta poco ortodossa della medicina. A suo parere, alcuni dottori tendevano a trarre conclusioni senza fondamento e di conseguenza si arrendevano troppo in fretta. Oppure dedicavano troppo tempo a individuare con esattezza il problema del paziente per procedere a un trattamento corretto. Certamente era il metodo suggerito dal manuale, il problema era che il paziente rischiava di morire mentre i medici erano ancora lì a riflettere.

Ad Anders Jonasson però non era mai capitato in precedenza qualcuno con una pallottola in testa. Qui probabilmente c'era bisogno di un neurochirurgo. Si sentì inadeguato, ma d'un tratto si rese conto di essere forse più fortunato di quanto non meritasse. Prima di lavarsi e infilarsi il camice gridò a Hanna Nicander: «C'è un professore americano che si chiama Frank Ellis e lavora al Karolinska a Stoccolma, ma in questo momento è a Göteborg. È un noto studioso del cervello e un mio buon amico. È all'Hotel Radisson, sulla Avenyn. Puoi trovarmi il numero di telefono?»

Mentre Anders Jonasson aspettava le radiografie, Hanna Nicander tornò con il numero del Radisson. Jonasson diede un'occhiata all'orologio, l'una e quarantadue, e alzò la cornetta. Il portiere era assolutamente contrario a passare qualsiasi chiamata a quell'ora di notte e il dottor Jonasson fu costretto a usare qualche parola molto dura prima che la sua chiamata fosse inoltrata.

«Buon giorno, Frank» disse quando la cornetta fu finalmente sollevata. «Sono Anders. Ho sentito che eri a Göteborg. Avresti voglia di venire su al Sahlgrenska per assistermi in un intervento al cervello?»

«Are you bullshitting me?» si sentì dall'altra parte del telefono. Nonostante Frank Ellis abitasse in Svezia ormai da anni e parlasse correntemente lo svedese – pur con accento americano – la sua lingua rimaneva l'inglese. Jonasson parlava in svedese ed Ellis rispondeva in inglese.

«Frank, mi dispiace di aver perso la tua conferenza, ma pensavo che avresti potuto darmi qualche lezione privata. Ho qui una giovane donna alla quale hanno sparato in testa. Foro d'ingresso subito sopra l'orecchio sinistro. Non ti telefonerei se non avessi bisogno di una second opinion. E mi è difficile immaginare una persona più adatta a cui chiederla.»

«È una cosa seria?» domandò Ellis.

«Si tratta di una ragazza sui venticinque anni.»

«E le hanno sparato alla testa?»

«Foro d'ingresso, nessun foro d'uscita.»

«Però è viva?»

«Battito debole ma regolare, respiro meno regolare, pressione cento e settanta. Inoltre ha una pallottola nella spalla e una nell'anca. Ma quelli sono due problemi che posso trattare io.»

«Sembra incoraggiante» disse il professor Ellis.

«Incoraggiante?»

«Se una persona ha una pallottola in testa ed è ancora viva, la situazione dev'essere considerata incoraggiante.»

«Mi puoi assistere?»

«Devo ammettere che ho passato la serata in compagnia di buoni amici. Sono andato a letto all'una e ho probabilmente un tasso alcolico impressionante...»

«Sarò io a prendere le decisioni e ad agire in concreto. Ma ho bisogno di qualcuno che mi assista e mi dica se sto facendo qualche idiozia. E, detto sinceramente, un professor Ellis ubriaco fradicio è probabilmente molto meglio di me quando si tratta di giudicare dei danni cerebrali.»

«Okay. Arrivo. Però mi devi un favore.»

«C'è un taxi che ti aspetta fuori dall'albergo.»


Il professor Frank Ellis si spinse gli occhiali sul naso e si grattò la nuca. Focalizzò lo sguardo sullo schermo del computer che mostrava ogni angolo del cervello di Lisbeth Salander. Ellis aveva cinquantatré anni, i capelli di un nero corvino spruzzati d'argento e la barba scura, e sembrava uno che recitasse una parte secondaria in E. R. - Medici in prima linea. Il suo corpo lasciava capire che trascorreva un certo numero di ore alla settimana in palestra. Frank Ellis si trovava bene in Svezia. Era andato lì come giovane ricercatore ospite alla fine degli anni settanta e si era fermato per due anni. Poi c'era tornato in ripetute occasioni, finché gli era stato offerto un posto di professore al Karolinska. A quel punto era già un nome noto e rispettato a livello internazionale.

Anders Jonasson conosceva Frank Ellis da quattordici anni. Si erano incontrati a un seminario a Stoccolma e avevano scoperto di essere entrambi appassionati di pesca sportiva; così Anders aveva invitato Frank ad accompagnarlo in un tour di pesca in Norvegia. Negli anni si erano tenuti in contatto e i tour di pesca si erano ripetuti. Ma non avevano mai lavorato insieme.

«I cervelli sono un mistero» disse il professor Ellis. «Ho dedicato vent'anni allo studio del cervello. Anche di più.»

«Lo so. Scusami se ti ho disturbato, ma...»

«Lascia perdere.» Ellis agitò una mano per chiudere l'argomento. «Ti costerà una bottiglia di Cragganmore la prossima volta che andiamo a pescare.»

«Okay. Me la cavo con poco.»

«Ebbi una paziente qualche anno fa quando lavoravo a Boston, scrissi di quel caso sul New England Journal of Medicine. Si trattava di una ragazza della stessa età di questa. Stava andando all'università quando qualcuno la prese di mira con una balestra. La freccia penetrò al margine esterno del sopracciglio sinistro, attraversò tutta la testa e uscì quasi al centro della nuca.»

«E lei sopravvisse?» domandò Jonasson stupefatto.

«La situazione sembrava disperata quando arrivò al pronto soccorso. Tagliammo le parti sporgenti della freccia e le infilammo la testa in un tomografo. La freccia attraversava tutto il cervello. Secondo ogni ragionevole stima avrebbe dovuto essere morta o in ogni caso avere un trauma così esteso da essere in coma.»

«Com'erano le sue condizioni?»

«È sempre stata cosciente. Non solo. Ovviamente era terrorizzata, ma perfettamente lucida. Solo, aveva una freccia che le attraversava la testa.»

«Cosa hai fatto?»

«Be', presi una pinza e tirai fuori la freccia e poi ap- plicai dei cerotti sulle ferite. All'incirca.»

«Se la cavò?»

«Non sciogliemmo la prognosi per alcuni giorni, è ovvio, ma detto onestamente avremmo potuto mandarla a casa subito. Non ho mai avuto un paziente più in buona salute.»

Jonasson si chiese se non lo stesse prendendo in giro.

«D'altro lato» continuò Ellis, «qualche anno fa a Stoccolma ebbi un paziente di quarantadue anni che aveva battuto la testa contro lo stipite di una finestra riportando una leggera commozione. Si era sentito male e l'avevano portato in ambulanza al pronto soccorso. Quando arrivò da me era privo di conoscenza. Aveva un piccolo bernoccolo e una piccolissima emorragia. Ma non si riprese mai e morì dopo nove giorni di terapia intensiva. Ancora oggi non so quale sia stata la causa del decesso. Nel referto autoptico scrivemmo emorragia cerebrale post-traumatica, ma nessuno di noi era soddisfatto di quella conclusione. L'emorragia era estremamente circoscritta, e dalla posizione non avrebbe dovuto avere alcuna influenza su nulla. Eppure fegato, reni, cuore e polmoni smisero a poco a poco di funzionare. Più divento vecchio, più mi sembra una specie di roulette. Personalmente credo che non scopriremo mai esattamente come funziona il cervello. Ora cosa pensi di fare?»

Picchiettò con una penna sull'immagine che compariva sullo schermo.

«Speravo che me l'avresti detto tu.»

«Sentiamo il tuo giudizio.»

«Be', anzitutto sembra trattarsi di una pallottola di piccolo calibro. È entrata all'altezza della tempia e si è fermata circa quattro centimetri all'interno del cervello. Poggia contro il ventricolo laterale e in quel punto c'è un'emorragia.»

«Misure?»

«Per usare la tua terminologia, prendere una pinza e tirare fuori la pallottola per la stessa strada per cui è entrata.»

«Ottima idea. Ma io userei la pinzetta più sottile che hai.»

«Così semplice?»

«In questo caso, cos'altro possiamo fare? Possiamo lasciare la pallottola lì dove sta, e lei forse continuerà a vivere fino a cent'anni, ma anche questo è un rischio. La paziente potrebbe avere problemi di epilessia, emicrania, ogni genere di disturbo. E una cosa che nessuno vorrebbe fare è trapanarle il cranio fra un anno quando la ferita sarà guarita. La pallottola si trova a una certa distanza dalle grandi arterie. In questo caso raccomanderei che tu la estraessi, ma...»

«Ma cosa?»

«Non è la pallottola in sé che mi preoccupa. È questo l'aspetto affascinante delle lesioni al cervello, se è sopravvissuta al fatto di avere una pallottola in testa, allora è segno che sopravviverà anche se gliela togliamo. Il problema è piuttosto qui...» indicò sullo schermo «... intorno al foro d'ingresso c'è una quantità di frammenti ossei. Posso vederne almeno una dozzina di lunghi qualche millimetro. Alcuni sono penetrati nel tessuto cerebrale. Ecco quello che potrebbe ucciderla, se non operi con la dovuta cautela.»

«Questa parte del cervello è associata all'uso della parola e alle capacità matematiche.»

Ellis alzò le spalle.

«Bah. Non saprei dire a cosa servano nello specifico queste cellule grigie. Tu puoi soltanto fare del tuo meglio. Sei tu quello che opera. Io guarderò da sopra la tua spalla. Posso prendere un camice e lavarmi da qualche parte?»

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