Autore Serge Latouche
Titolo La decrescita prima della decrescita
SottotitoloPrecursori e compagni di strada
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2016, Temi 265 , pag. 202, cop.fle., dim. 11,5x19,5x1,8 cm , Isbn 978-88-339-2803-6
OriginaleLes Précurseurs de la décroissance. Une anthologie [2016]
TraduttoreFabrizio Grillenzoni
LettoreGiorgia Pezzali, 2016
Classe economia , ecologia , politica , biografie , movimenti












 

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Indice


        La decrescita prima della decrescita

  9     Introduzione

        Perché bisogna scoprire, pubblicare e leggere
        i precursori della decrescita?, 10
        Chi sono i precursori?
        Un abbozzo di dizionario ragionato, 25


 29  1. Prima o al di fuori della modernità

        I grandi antenati, 29
        Le culture anonime e le tradizioni, 33

 42  2. Le guide e i pionieri: i critici della prima
        rivoluzione industriale

 57  3. La critica della società dei consumi e
        i fondatori dell'ecologia politica

121  4. Romanzieri, poeti e giornalisti

144  5. I politici

155  6. Gli infrequentabili e gli inclassificabili

        Gli infrequentabili, 156
        Gli inclassificabili, 165


171     Elenco alfabetico dei precursori

173     Appendice
        Compagni di strada e colleghi

193     Conclusione

197     Indice dei nomi


 

 

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Pagina 9

Introduzione


Il termine «decrescita» è stato lanciato, un po' per caso, come uno slogan provocatorio nel 2001-02, per denunciare l'impostura dello sviluppo sostenibile. La decrescita dunque non si è presentata come un concetto, e in ogni caso non come un concetto simmetrico alla crescita. Si tratta di uno slogan politico con implicazioni teoriche: la parola d'ordine della decrescita ha come oggetto soprattutto quello di sottolineare con forza l'abbandono dell'obiettivo della crescita per la crescita, obiettivo insensato il cui motore non è altro che la ricerca sfrenata del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l'ambiente. A rigore, bisognerebbe parlare di «a-crescita», come si parla di «a-teismo», piuttosto che di decrescita. In effetti si tratta precisamente dell'abbandono di una fede, quella nel progresso, e di una religione, quella dell'economia, della crescita e dello sviluppo. Il termine è entrato nell'uso corrente molto di recente nel dibattito economico, politico e sociale, anche se l'origine delle idee portate avanti dagli «obiettori di crescita» ha una storia e delle radici culturali chiaramente più antiche. Esistono quindi dei precursori della decrescita. Perché è interessante riscoprire questi precursori, pubblicarli e leggerli, e chi sono esattamente?




Perché bisogna scoprire, pubblicare e leggere i precursori della decrescita?


Ci sono tre ragioni principali per interessarsi ai precursori della decrescita: dare maggiore legittimità al nuovo progetto di società sostenuto dagli obiettori di crescita, rendere giustizia agli autori che l'hanno ispirato e infine formare ed educare i suoi giovani sostenitori. Interessarsi ai precursori della visione del mondo delineata dalla decrescita permette in primo luogo di prendere coscienza del lunghissimo cammino del progetto di costruzione di una società alternativa al produttivismo. Si tratta di scoprire che dietro questa parola-bomba, per riprendere l'espressione di Paul Ariès, si va costruendo una visione ricca e diversificata, per nulla monolitica, dogmatica o settaria. La sfida è di mostrare che gli obiettori di crescita non sono dei marginali o dei visionari (e comunque non solo) e che al contrario sono la crescita e i suoi turiferari a essere nient'altro che una parentesi tanto nella storia dell'umanità quanto in quella della riflessione sociologica e filosofica. Crescita e decrescita sono entrambe sicuramente delle utopie, ma la più utopica delle due non è certo la seconda.

La parentesi dell'era della crescita si apre con la modernità. Modernità che si è costruita sul rifiuto della tradizione e la negazione dei limiti. La novità, con la modernità, è non soltanto di avere rinunciato alla lotta contro la dismisura, ma di avere fondato prima l'economia, e poi l'insieme della società, sull'illimitato eretto a principio supremo. Il modo di produzione capitalistico partorito dalla modernità ha come essenza stessa la logica della crescita per la crescita. Tuttavia, soltanto con quella che viene chiamata «globalizzazione», che in realtà non è che la onnimercantilizzazione del mondo, la trasgressione diventa l'etica paradossale dominante. Proclamando con il canto dell' Internazionale «del passato facciamo tabula rasa», il marxismo si inscrive pienamente nella continuità del progetto liberale di negazione di qualsiasi eredità. L'individuo della società di mercato, ingranaggio funzionale dell'economia capitalistica della crescita, non ha né radici né tradizioni. E così diviene preda indifesa della pubblicità, in balia della tossicodipendenza consumistica. Riappropriarsi del passato, nel caso rivisitandolo, è un elemento-chiave del progetto della decrescita. Il recupero della memoria perduta è importante per alimentare la resistenza alla megamacchina, che è anche una mostruosa impresa di lobotomizzazione. Un inventario e al tempo stesso una base per ritrovare un senso che si opponga al disincantamento del mondo. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la cosa non riguarda soltanto i Paesi benestanti. Per i Paesi del Sud del mondo, rimettere in valore un patrimonio culturale fondato su visioni diverse dalla dismisura dell'Occidente moderno è non meno necessario per resistere al rullo compressore del produttivismo globalizzato e per dare vita a progetti di sopravvivenza alternativi.

[...]

Ciò detto, all'interno dei precursori moderni che hanno criticato la società della crescita vivendo in tale società in fasi più o meno avanzate della sua storia, si deve introdurre una distinzione tra quelli che hanno visto la mutazione del capitalismo in sistema termo-industriale (grosso modo la prima rivoluzione industriale) e quelli che hanno conosciuto la società dei consumi (grosso modo la seconda rivoluzione industriale e soprattutto i «trenta gloriosi»). Nel primo gruppo incontriamo innanzi tutto autori che, sulla scorta di Friedrich Engels, vengono definiti socialisti «utopisti», «romantici» o «aristocratici», come William Morris, Charles Fourier, Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, Robert Owen, o pensatori anarchici come Pierre-Joseph Proudhon, Michail A. Bakunin, Pëtr A. Kropotkin o Henry D. Thoreau. Sono le guide in senso stretto, quelli che hanno aperto la strada. Poi, più vicini a noi, incontriamo i pionieri, pensatori che a partire dagli anni trenta e soprattutto dagli anni sessanta, vivendo in piena società dei consumi, sono stati in grande misura i fondatori dell'ecologia politica, personalità come Ivan Illich, Cornelius Castoriadis, André Gorz, Jacques Ellul, Bernard Charbonneau, François Partant, Nicholas Georgescu-Roegen, Lanza del Vasto. A questi bisogna poi aggiungere tutta una costellazione di quasi contemporanei, meno conosciuti in Francia perché stranieri, come Murray Bookchin, Barry Commoner, Aldous Huxley, Aleksandr V. Cajanov, Lewis Mumford o Theodore Roszak. Infine ci sono coloro ai quali non si pensa necessariamente, perché si tratta soprattutto di politici, scrittori o giornalisti che hanno scritto perlopiù in un periodo intermedio tra i due gruppi precedenti, come Lev N. Tolstoj, Jean Giono, René Barjavel, Georges Bernanos, Simone Weil, Alex Langer, Laura Conti, Enrico Berlinguer e Tiziano Terzani, o anche certi autori di fantascienza. Tutti questi hanno contribuito ugualmente a stimolare la riflessione sull'obiezione di crescita o la costruzione di un altro mondo non produttivistico, ma a partire da una sfera autonoma, in un universo in qualche modo parallelo.

Quanto ai grandi antenati, che appartengano o meno all'area occidentale, sono indubbiamente estranei al contesto della società della crescita. Vivendo in società non capitalistiche, è evidente che non hanno subito le conseguenze dell'accumulazione illimitata del capitale. Nel migliore dei casi, hanno intuito i pericoli di lasciare libero corso al gioco mercantile o usurario, con lo snaturamento del denaro da strumento degli scambi a mezzo per fare denaro col denaro. Al tempo stesso però hanno capito perfettamente i pericoli dell'illimitatezza, tanto per la società quanto per la buona vita dei suoi membri. La loro saggezza, fondata sulla necessità di padroneggiare le passioni (in particolare per la ricchezza e il potere), ci parla ancora e può ispirarci, magari al prezzo di qualche anacronismo e incongruenza, gli elementi di un'etica adeguata ad affrontare le sfide dell'Antropocene. È fuori dubbio che questi uomini vivevano in un'altra società, ma nei loro scritti troviamo alcune basi filosofiche in sintonia con la visione del mondo degli obiettori di crescita. In effetti, al di là dello slogan provocatorio, la decrescita in quanto rottura con la società della crescita, e dunque con l'economia capitalistica e produttivistica, sta a indicare anche una rottura con l'occidentalizzazione del mondo. E di conseguenza implica la riapertura della storia alla diversità delle culture.

Il progetto di un'alternativa alla società della crescita, e dunque alla civiltà occidentale, promosso dalla decrescita possiede in effetti una storia plurale relativamente complessa e una incontestabile portata analitica e politica che va ben al di là del suo luogo di nascita. Per la maggioranza delle persone non addentro alla questione, e anche per una parte non trascurabile degli obiettori di crescita (in particolare quelli che fanno riferimento principalmente al pensiero di Georgescu-Roegen ), il termine «decrescita» viene inteso in senso letterale, in sostanza come un'inversione della curva della crescita. Ed è in questo senso che la intendono tutti i nostri avversari, il che costituisce un problema. La differenza tra noi e i nostri avversari è che costoro, anziché vedere la decrescita in termini performativi, la considerano una visione catastrofistica da stigmatizzare e da combattere con tutte le forze. La parola «decrescita» indica indubbiamente una diminuzione, ma di che cosa esattamente? E fino a che punto? Nessun obiettore di crescita sostiene la necessità di una decrescita infinita, come vogliono far credere coloro che ne danno un'immagine caricaturale: con «decrescita» si intende implicitamente o esplicitamente la necessità di ritornare a un livello di produzione sostenibile, compatibile con la riproduzione degli ecosistemi. D'altra parte, bisogna intendersi esattamente su che cosa debba decrescere. Per la maggioranza degli obiettori di crescita la risposta è che bisogna relegare in secondo piano l'indice-feticcio della crescita, cioè il PIL. È ciò che sostiene esplicitamente Maurizio Pallante , autore di un manifesto della decrescita felice. Per Pallante è necessario ridurre la produzione dei beni e servizi commerciali che entrano, in quanto merci, nel calcolo del PIL e aumentare quella dei beni e servizi non commerciali che non vi rientrano: autoproduzione, economia del dono e della reciprocità. Dal canto loro, gli adepti della semplicità volontaria e, in Francia, i discepoli di Pierre Rabhi, sostengono una posizione analoga ma meno precisa, con lo slogan «meno beni, più legami». Meno precisa perché dal punto di vista economico il legame può essere considerato come produttore di servizi non commerciali, e dunque di beni (nel senso di Pallante). Comunque sia, questa riduzione permette la sostenibilità senza ridurre la felicità, anzi il contrario. Per gli ecologisti ortodossi, invece, ciò che va ridotto non è il PIL in sé ma l'impronta ecologica, ovverosia l'impatto e la pressione del nostro modo di vita sugli ecosistemi: insomma, bisogna ridurre innanzi tutto la produzione materiale. In termini puramente statistici, il PIL dunque potrebbe teoricamente aumentare senza un aumento dei prelievi di risorse non rinnovabili né della pressione sulla biosfera, grazie allo sviluppo di beni immateriali commerciali (servizi alla persona o altro). Da questa visione discendono le posizioni dei Verdi, di Jean-Marie Harribey, Alain Lipietz, Attac ecc.: non decrescita globale, ma decrescita selettiva (e dunque crescita selettiva). Se è innegabile che per tutti gli obiettori di crescita sia essenziale ritrovare una impronta ecologica sostenibile, il che passa in larga misura per una riduzione del PIL, di cui peraltro si denunciano le incoerenze e le debolezze, limitarsi a una concezione letterale della decrescita presenta il grave inconveniente di consentire ai nostri avversari di delegittimarci facilmente. Da una parte, perché la crescita, in quanto fenomeno naturale, è cosa positiva e desiderabile, e dunque dichiararsi radicalmente contrari all'idea stessa di crescita non è soltanto qualcosa di iconoclasta ma decisamente un'assurdità. Tutti gli organismi crescono, è una legge di natura. Bisogna dunque insistere sulla differenza tra gli organismi naturali e l'organismo economico: quest'ultimo non ha nulla di naturale e pretende inoltre di sfuggire al declino e alla morte, come pure alle conseguenze del suo inserimento nell'ecosistema planetario e dunque alla seconda legge della termodinamica, la legge dell'entropia. Dall'altra, una visione del genere permette ai nostri avversari, a quelli in buonafede e soprattutto a quelli in malafede, di assimilare decrescita e recessione. La crisi che oggi conosciamo viene presentata come decrescita, certo forzata, ma che non ha niente di gioioso, di sereno e di conviviale. Dunque bisogna opporre alla decrescita che subiamo, non desiderabile, la decrescita che scegliamo, che sarà invece felice.

[...]

In questo quadro, il progetto di costruzione di società conviviali autonome ed econome si configura in modo diverso nel Nord e nel Sud del mondo. Nel Sud la decrescita dell'impronta ecologica (o del PIL) non è né necessaria né auspicabile, anche se non per questo se ne deve concludere che è necessario costruire una società della crescita o non uscirne se già ci si è dentro. Il progetto della decrescita non è né un progetto di un' altra crescita né di un altro sviluppo ( sostenibile, sociale, solidale ecc.), ma riguarda la costruzione di un' altra società, una società di abbondanza frugale o di prosperità senza crescita ( Tim Jackson ). In altre parole, non si tratta di un progetto economico, foss'anche di un' altra economia, ma di un progetto di società che implica la fuoriuscita dall'economia in quanto realtà e in quanto discorso di natura imperialistica.

[...]

All'interno del quadro storico generale, si è dunque scelto di incrociare i diversi criteri, forse in modo discutibile, ma con la speranza di aver salvaguardato una certa coerenza. Dopo il primo capitolo, dedicato, come era doveroso, ai grandi antenati e alle tradizioni non occidentali, abbiamo separato i teorici precursori della decrescita della modernità in due gruppi, quello delle guide e dei pionieri del XIX secolo (secondo capitolo) e quello dei fondatori dell'ecologia politica (terzo capitolo). Segue poi un quarto capitolo dedicato a romanzieri, poeti e giornalisti, a cui si aggiunge un quinto capitolo che riunisce gli uomini politici, anche se alcuni romanzieri, poeti e giornalisti sono stati degli attori politici o dei teorici, e viceversa.

E poi, come in ogni famiglia, ci sono i parenti infrequentabili, figlioli prodighi pentiti e non pentiti, precursori inconfessabili, troppo compromessi politicamente o ideologicamente con correnti o esperienze condannabili (sesto capitolo). Se è impossibile, anche liberandosi della dittatura del politicamente corretto, dedicare a questi ultimi un'intera opera, è giusto segnalarli e riconoscere il debito degli obiettori di crescita nei loro confronti. Nonostante la decrescita renda largamente obsoleta la tradizionale opposizione destra/sinistra, è necessario comunque prendere le distanze da una certa decrescita «di destra», di cui gli autori in questione sono stati gli ispiratori. La cosa riguarda per esempio Martin Heidegger o Ezra Pound, o ancora Armand Petitjean.

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Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994)


Nato in Romania, Nicholas Georgescu-Roegen ottenne un dottorato in statistica matematica alla Sorbona e a Londra. Il suo incontro con Schumpeter alla metà degli anni trenta lo orientò verso l'economia, all'epoca in via di matematizzazione. Frequentò Wassily Leontief e alla Harvard University strinse amicizia con Paul Samuelson. Fece una brillante carriera come professore di Economia alla Vanderbilt University di Nashville dal 1949 al 1976, e insegnò alcuni anni all'Università di Strasburgo. Fu sostanzialmente il primo, negli anni settanta, a sollevare la questione dell'ecologia all'interno dell'economia, mettendo così in discussione l'intera disciplina. In effetti Georgescu-Roegen osserva che l'economia, adottando il modello della meccanica classica newtoniana, esclude il tempo storico. Dunque ignora l'entropia, cioè la non-reversibilità delle trasformazioni dell'energia e della materia. Così gli scarti e l'inquinamento, per quanto prodotti dall'attività economica, non rientrano nei fattori di produzione riconosciuti. Con l'eliminazione della terra da questi fattori, intorno al 1880, si era rotto l'ultimo legame con la natura. Essendo scomparso ogni riferimento a qualsiasi sostrato biofisico, la produzione economica, così come viene concepita dalla maggioranza dei teorici neoclassici, non appare condizionata da nessun limite ecologico. Così Yves Cochet: «La teoria economica neoclassica contemporanea maschera sotto un'eleganza matematica la sua indifferenza alle leggi fondamentali della biologia, della chimica e della fisica, specialmente quelle della termodinamica». Di conseguenza, si favorisce uno spreco incosciente delle risorse rare disponibili e la sottoutilizzazione del flusso abbondante di energia solare. Insomma, il processo economico reale, a differenza del modello teorico, non è puramente meccanico e reversibile: è di natura entropica e si svolge in una biosfera immersa in una dimensione temporale. Georgescu-Roegen mette in luce le implicazioni bioeconomiche della legge dell'entropia, già intuite negli anni quaranta e cinquanta da Alfred J. Lotka, Erwin Schrödinger, Norbert Wiener e Léon Brilloin, cioè l'impossibilità di una crescita infinita in un mondo finito. Inoltre, estende l'irreversibilità alla trasformazione della materia, fenomeno che battezza «quarta legge della termodinamica»: «Possiamo riciclare le monete metalliche usate, ma non le molecole di rame andate perdute con l'uso». Non è possibile coagulare i flussi di atomi dispersi nel cosmo per farne dei giacimenti minerari sfruttabili dall'uomo: è un lavoro compiuto dalla natura in miliardi di anni di evoluzione. Dall'impossibilià di una crescita illimitata deriva, secondo Georgescu-Roegen, non la possibilità di una crescita nulla, bensì la necessità della decrescita. «Non possiamo - scrive - produrre frigoriferi, automobili e aerei a reazione "migliori e più grandi" senza produrre anche rifiuti "migliori e più grandi"». Propone dunque di sostituire la scienza economica tradizionale con una bioeconomia, cioè di pensare l'economia all'interno della biosfera. E in effetti è pienamente giustificato che si sia utilizzato il termine «decrescita» nel titolo di una raccolta di suoi saggi. Negli anni novanta Georgescu-Roegen scende poi in campo contro lo sviluppo sostenibile, che definisce una «bella ninna nanna». «Lo sviluppo sostenibile - controbatte al suo discepolo Herman Daly - non può assolutamente essere separato dalla crescita economica ... In effetti, chi mai può aver pensato che lo sviluppo non implichi necessariamente una qualche crescita?»

Alcuni hanno tentato di confutare le idee di Georgescu-Roegen sostenendo che la necessità di una decrescita, o più precisamente di un abbandono della crescita e dunque di una fuoriuscita dalla società della crescita, non sarebbe fondata scientificamente. In effetti, la seconda legge della termodinamica, la legge dell'entropia, a rigore si applica soltanto in un sistema chiuso, mentre l'ecosistema terrestre è un sistema aperto. In particolare, riceve dei flussi di energia solare, per di più in quantità quasi illimitata. L'obiezione, apparentemente di carattere tecnico, è avanzata dai sostenitori dello sviluppo sostenibile nel tentativo di salvare un concetto che fa acqua da tutte le parti. Si tratta di un'obiezione che nasconde una forma di resistenza alla messa in discussione radicale dello sviluppo propria dell'idea della decrescita. Sostenuta da alcuni in buonafede, viene ripresa dagli spiriti «cornucopiani» e dagli adoratori del progresso scientifico e tecnico il cui ottimismo è figlio del rifiuto di vedere la realtà.

Evidentemente, Georgescu-Roegen e dopo di lui gli obiettori di crescita non ignorano che la Terra riceve un flusso enorme di energia solare. Ed è un bene, perché altrimenti la società della decrescita, per quanto frugale, non sarebbe né serena né sostenibile: sarebbe semplicemente impossibile. La captazione dell'energia solare, in particolare attraverso la fotosintesi delle piante, è la base di tutta la vita sulla Terra. Tuttavia questa azione antientropica del sistema solare e del cosmo, ovverosia un processo destinato a invertire il passaggio dalla bassa entropia all'alta entropia provocata dall'azione umana (con la ricostituzione delle riserve di petrolio e di altri minerali), si svolge a una velocità infinitamente bassa e il tempo necessario di riciclaggio si misura in milioni se non in miliardi di anni, il che non ha alcun rapporto con i tempi storici dell'umanità. Stando così le cose, per una crescita infinita, anche a ritmi lenti, sarebbe necessaria una crescita illimitata della captazione solare. Ma, al di là della captazione «naturale», qualsiasi captazione artificiale, per esempio con i pannelli fotovoltaici, ha un costo energetico, ecologico ed economico che ne limita seriamente il rendimento. Le possibilità concrete appaiono ridotte, e comunque senza comune misura con i bisogni attuali soddisfatti dalle energie fossili. Si pensi soltanto che l'agricoltura produttivistica è dal punto di vista del bilancio energetico l'invenzione più antieconomica dell'ingegno umano. Ci vogliono decine, e nel caso delle culture irrigue in serra, centinaia di calorie fossili per produrre una caloria vegetale, e da 5 a 10 calorie vegetali per produrre una caloria animale. Dunque è del tutto corretto considerare la biosfera un sistema quasi chiuso, e l'affermazione secondo la quale una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito è inconfutabile. «La crescita pura - scrive Georgescu-Roegen - non può superare un certo limite, difficile da determinare, senza un aumento del tasso globale di esaurimento e del tasso di inquinamento che ne deriva». Per lui era fuor di dubbio che la terra fosse sovrappopolata e che fosse necessario realizzare una consistente riduzione della popolazione. Già nel 1975 proponeva un programma che al punto terzo prevedeva che si riducesse la popolazione «portandola a un livello in cui l'alimentazione possa essere adeguatamente fornita dalla sola agricoltura organica». Questa necessaria transizione demografica avrebbe dovuto essere discussa democraticamente e realizzata con tutti gli accorgimenti opportuni e i tempi necessari. Infine, anche se il progetto di bioeconomia come lui lo intendeva non è mai veramente decollato - la definizione peraltro è stata snaturata nel senso di una economicizzazione del vivente agli antipodi della sua concezione - Georgescu-Roegen è incontestabilmente uno dei padri più importanti della decrescita.

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Ivan Illich (1926-2002)


Come l'amico Ellul, Ivan Illich non ha utilizzato il termine «decrescita» forse semplicemente perché la parola è inesistente nelle lingue in cui più spesso si esprimeva (inglese, tedesco). Comunque fa sua, almeno implicitamente, l'idea di una decrescita necessaria e auspicabile, e nella sua opera si ritrovano pressoché tutte le tematiche dell'obiezione di crescita: l'insostenibilità dello sviluppo e del nostro modo di vita, il disvalore e la controproduttività dei sistemi e delle istituzioni oltre certe dimensioni, la colonizzazione dell'immaginario, l'autolimitazione dei bisogni, la convivialità, addirittura la pedagogia delle catastrofi.

Fin dagli anni settanta, e in particolare in Celebration of Awareness. A Call for Institutional Revolution (1970), Illich aveva mostrato che la nostra crescita e il nostro sviluppo non sono sostenibili. Questa insostenibilità è dovuta a ragioni sia sociali sia ecologiche, che Illich illustra nelle sue analisi. In effetti tutta l'opera di Illich è una messa in discussione dello sviluppo, della crescita economica, dell'industrializzazione, con la sua tecnica eteronoma, e del modo di vita moderno. Tuttavia Illich non critica mai frontalmente, ma lo fa attraverso l'analisi delle istituzioni e delle trasformazioni della società. Archeologo della modernità e storiografo dei mutamenti (si definiva uno storico del XII secolo), Illich studia minuziosamente la creazione dei servizi, la nascita dei bisogni, la distruzione del «vernacolare», cioè dei modi di vita tradizionali, e la perdita di autonomia, senza mai tentare una sintesi. In un certo qual modo, ha affidato ai suoi discepoli Wolfgang Sachs e Gustavo Esteva il compito di farlo. In Towards a History of Needs (1977), Illich fa una critica radicale dello sviluppo come generatore di quella che chiama la «povertà modernizzata». La generalizzazione dello sviluppo distrugge la povertà-frugalità «vernacolare», strappa le persone «all'ordinario culturale tradizionale» e genera bisogni che è incapace di soddisfare. La crescita e lo sviluppo fanno di tutti gli individui degli «intossicati indigenti». Con la globalizzazione si assiste addirittura alla mutazione dell' Homo oeconomicus in Homo miserabilis, l'uomo indigente.

Una delle cause fondamentali dei problemi della società della crescita riguarda il fenomeno della controproduttività. Questo tema centrale del pensiero di Ivan Illich ha probabilmente origine, nelle sua filosofia e anche nella sua teologia, nell'adagio scolastico che dà il titolo al suo ultimo libro: «La corruzione del meglio genera il peggio». L'idea della controproduttività si fonda sull'osservazione che oltre una certa soglia gli effetti di una istituzione (che si tratti di un'invenzione sociale o tecnica) da positivi diventano negativi. Vale per i sistemi sanitario, scolastico, dei trasporti, della crescita e dello sviluppo. La medicina finisce per far ammalare le persone, la scuola rende ignoranti, la crescita-sviluppo impoverisce i cittadini. L'analisi più eloquente della controproduttività, condotta da Illich insieme con Jean Robert e Jean-Pierre Dupuy, è quella del sistema di trasporto automobilistico. Al di là di una certa soglia, la mobilità che l'automobile dovrebbe offrire diventa illusoria. Lo si constata nei grandi centri urbani, dove la quantità di automobili in circolazione ha ridotto l'utilità dell'automobile e ha fatto diventare chi si muove con le proprie gambe un privilegiato. Il sistema di trasporto tramite automobile è sicuramente il più inefficiente di tutti quelli inventati dall'uomo. Se si integrano nel tempo di spostamento di un veicolo il tempo di fermata negli ingorghi, il tempo di lavoro necessario per guadagnare il denaro con cui comprare un'auto e poi pagare il carburante, gli pneumatici, i pedaggi, l'assicurazione, le contravvenzioni (per non parlare degli incidenti), quella che può essere definita la «velocità generalizzata» non supera i 6 chilometri all'ora, che è più o meno quella di un pedone. In una situazione del genere la bicicletta è di gran lunga superiore all'automobile.

La società della crescita genera inoltre dei «disvalori», termine che in Illich sta a indicare le perdite non misurabili in termini economici. Così, secondo Illich, «non c'è modo di calcolare che cosa succede a una persona che di fatto perde l'uso concreto dei piedi perché l'automobile ha il monopolio assoluto della locomozione. Quello di cui la persona in questione è privata non appartiene alla sfera della scarsità. Oggi per andare da qui a là deve comprare una certa quantità di chilometri-passeggero. L'ambiente geografico gli paralizza i piedi. Lo spazio è stato trasformato in una infrastruttura destinata ai veicoli. Vuol dire che i piedi sono obsoleti? Certamente no. I piedi non sono "mezzi rudimentali di trasporto personale" come certi responsabili delle reti stradali vorrebbero farci credere. Ma sta di fatto che, essendo ormai invischiate nell'economico (per non dire anestetizzate), le persone sono diventate indifferenti alla perdita indotta dal disvalore». La produzione di disvalori procede con l'imperialismo economicistico e la mercantilizzazione senza tregua del «vernacolare». Si arriva addirittura a deplorare che il lavoro non abbia esteso abbastanza il suo dominio e la sua penetrazione in tutti i campi della vita, e che i compiti domestici o il volontariato non siano presi in considerazione nelle contabilità nazionali, o retribuiti. Dunque, se si vuole tenere conto della dignità delle persone bisogna battersi contro l' economicizzazione del mondo, come vuole la decrescita.

Anche se in quanto formulazione la colonizzazione dell'immaginario rinvia più a Castoriadis che a Illich, in Illich se ne trovano le basi nella critica della scuola e nella storia dei bisogni. Per Illich è necessario dichiarare guerra alle parole tossiche e procedere a una pulizia semantica. Questo vale, per esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà, ma anche per il binomio infernale scarsità/abbondanza che è il fondamento dell'immaginario economico, e che è essenziale decostruire. L'economia trasforma l'abbondanza naturale in scarsità con la creazione artificiale della mancanza e del bisogno e attraverso l'appropriazione della natura e la sua mercantilizzazione. Gli OGM sono l'ultimo esempio di espropriazione dei contadini, che vengono privati della fecondità naturale delle piante a vantaggio delle imprese agroalimentari. La privatizzazione del vivente è stata definita a giusto titolo come una nuova forma di enclosure, cioè di appropriazione esclusiva di beni comuni. L'estrazione delle energie fossili permette una straordinaria valorizzazione del lavoro umano: il risultato è la «sovrabbondanza» di cui gli ipermercati sono la vetrina più spettacolare, mentre i beni naturali (aria respirabile, acqua potabile, cibo sano) scarseggiano.

Per contrastare la società della crescita, Illich sostiene l'autolimitazione dei bisogni e la pratica del tecnodigiuno: «L'avvento del fascismo tecnoburocratico non è scritto negli astri. Esiste un'altra possibilità: un processo politico che permetta alla popolazione di stabilire il massimo che ciascuno può esigere, in un mondo dalle risorse manifestamente limitate; un processo che porti a concordare entro quali limiti va tenuta la crescita degli strumenti; un processo che incoraggi la ricerca radicale intesa a far sì che un numero crescente di persone possa fare sempre di più con sempre di meno». E aggiunge: «Un programma del genere può ancora apparire utopistico al punto in cui siamo [1973]: se si lascia aggravare la crisi, lo si troverà ben presto di un realismo estremo». Quest'ultima affermazione spiega il successo (relativo) che oggi sta raccogliendo il progetto della decrescita, che punta esattamente alla realizzazione della società autonoma sognata da Illich, dove i bisogni saranno autolimitati. In effetti questa è la sola via per sfuggire all'ecofascismo che ci minaccia. Illich denuncia la «condizione umana» attuale, nella quale le tecnologie diventano «così invasive che non si arriva più a trovare gioia altro che nel tecnodigiuno. La necessaria limitazione del consumo e della produzione, così come l'arresto dello sfruttamento della natura e del lavoro da parte del capitale, per Illich non significano un «ritorno» a una vita di privazioni e di fatica. Significano al contrario - se si è capaci di rinunciare alle comodità materiali - una liberazione della creatività, un rinnovamento della vita sociale e la possibilità di vivere una vita dignitosa. È la «sobria ebbrezza della vita» di cui Illich parla nel suo libro più conosciuto, Tools for Conviviality (1973).

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Enrico Berlinguer (1922-1984)


Enrico Berlinguer rappresenta il caso unico e paradossale di un comunista (e non di un comunista qualsiasi, ma del segretario generale del Partito comunista italiano dal 1972 al 1984) sostenitore della decrescita (o quasi). Ispirato forse da una vita privata di grande sobrietà e probità, Berlinguer negli anni settanta opera una svolta clamorosa, in particolare con i due discorsi sull'austerità del gennaio 1977, nei quali sviluppa una critica senza compromessi del consumismo. Insiste sulla necessità di una riconversione del sistema industriale e si schiera per l'uscita dalla corsa sfrenata verso una crescita illimitata fondata sulla frustrazione e lo sfruttamento, che distrugge l'ecosistema senza offrire la felicità promessa. Rifacendosi alle radici del primo socialismo, non produttivistico ma redistributivo, e al giovane Marx che denunciava l'alienazione dei lavoratori nell'economia capitalistica, Berlinguer sviluppa l'idea che si potrebbe vivere meglio con meno, e dunque senza crescita, in particolare grazie a una redistribuzione meno disuguale della ricchezza. «Per noi l'austerità - dice nel discorso del 15 gennaio 1977 - è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l'esaltazione di particolarismi e dell'individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». I discorsi di Berlinguer, in seguito quasi completamente dimenticati in Italia, all'epoca ebbero una qualche eco in Francia, in particolare tra i circoli della «nuova sinistra» e in Ellul. Curiosamente, le idee di Berlinguer sembrano all'origine dell'apparente ossimoro dell'abbondanza frugale utilizzato, attraverso Foucauld ed Ellul, dai partigiani della decrescita. Per Foucauld, sostenitore del «tempo scelto» insieme con il gruppo Échange et Projects, e per gli obiettori di crescita che verranno dopo di lui, l'abbondanza frugale riecheggia l'analisi di Sahlins e la società dell'abbondanza del Paleolitico: «Si può osservare, tra l'altro, che il concetto di lavoro a tempo limitato non è in sé particolarmente originale o recente: modalità d'impiego di questo tipo venivano praticate con successo nelle società primitive e preindustriali, e sono tuttora in uso presso alcune culture contemporanee; si tratta di realtà spesso ben lontane dalla sottoccupazione, nelle quali può manifestarsi, anzi, una diversa forma di equilibrio economico e sociale, fondata sulla limitazione volontaria delle produzioni non indispensabili. Lo sviluppo del lavoro a tempo scelto appare quindi, in questo contesto, come una specie di rivoluzione, nel senso del moto con cui i corpi celesti ritornano periodicamente alla loro origine».

Inutile dire che questo tentativo di fare del PCI un partito della decrescita non ebbe futuro. L'utopia di Berlinguer (accusato, come oggi gli obiettori di crescita, di moralismo e di una visione sacrificale dai suoi stessi compagni, o di opportunismo retorico dall'estrema sinistra) fu salutata positivamente soltanto da ecologisti come Alex Langer, ma non aveva speranza di potersi tradurre in una politica concreta nell'Italia degli anni ottanta.

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Alexander Langer (1946-1995)


Sudtirolese di Bolzano, Alex Langer rimase sempre fortemente legato alla sua terra, con gli splendidi paesaggi delle Dolomiti, luoghi di incontro e di conflitti tra il mondo germanico, quello latino e in misura minore quello slavo. Langer per tutta la vita si sforzò di gettare un ponte tra queste diverse culture e di lavorare per la pace, in particolare nella ex Jugoslavia. Ecopacifista, come si definiva, fu negli anni ottanta tra i fondatori e gli animatori dei Verdi italiani. Eletto eurodeputato per due legislature, tentò il dialogo con le altre culture politiche, i cattolici progressisti e i comunisti di Berlinguer, nel momento in cui sembravano tentati dalla prospettiva dell'austerità rivoluzionaria. Deluso dal riflusso del movimento sociale ed ecologico, e di fronte alla contro-rivoluzione neoliberale di Thatcher-Reagan e alla meschinità dei giochi politici, anche tra i Verdi, cadde in una profonda depressione e mise fine ai suoi giorni.

Langer ha insistito con forza e originalità sulla necessità di uscire dal paradigma della crescita e dell'economia consumistica. Al motto olimpico Citius, altius, fortius («più veloce, più in alto, più forte»), che per lui rappresentava il simbolo dell'economia moderna produttivistica con al centro la concorrenza, opponeva i valori che dovrebbero fondare una società alternativa: Lentius, profundius, suavius («più lento, più profondo, più dolce»).

«Accettare oggi la positiva necessità ... di una contrazione di quel "troppo" e di una ragionevole e graduale de-crescita e rilanciare, di fronte alla gravissima crisi, un'idea positiva di austerità come stile di vita più compatibile con un benessere durevole e sostenibile, sarà possibile solo a patto che essa venga vissuta non come diminuzione, ma come arricchimento di vitalità e di autodeterminazione ... [Ciò rende necessaria] una notevole rivoluzione culturale e una cospicua riscoperta della dimensione comunitaria. Perché, con meno beni e meno denaro si può vivere bene solo se si può tornare a contare sull'aiuto gratuito degli altri, sull'uso in comune di tante opportunità ... sulla fruizione della natura come bene comune, non riducibile a merce».

Vicino a Illich e alla sua concezione della convivialità, il pensiero di Langer, con le sue proposte di una conversione ecologica dell'economia e della vita in generale, è più attuale che mai, di fronte alla crisi ambientale a cui assistiamo e di fronte alla minaccia di un crollo della civiltà moderna. Sebbene non utilizzi molto spesso il termine «decrescita» - che comunque si ritrova a più riprese nei suoi articoli - Langer può essere considerato un precursore ravvicinato del progetto, e la maggior parte dei primi seguaci italiani del movimento della decrescita sono stati suoi amici o si sono ispirati a lui.

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