Autore Serge Latouche
CoautoreThierry Paquot, Daniele Pepino, Didier Harpagès
Titolo L'economia è una menzogna
SottotitoloCome mi sono accorto che il mondo si stava scavando la fossa
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2014, Temi 252 , pag. 150, cop.fle., dim. 11,4x19,4x1,2 cm , Isbn 978-88-339-2610-0
OriginaleItinérance. Du tiers-mondisme à la décroissance [2014]
TraduttoreFabrizio Grillenzoni
LettoreFlo Bertelli, 2015
Classe economia , economia politica , ecologia , globalizzazione












 

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Indice


  7 Prefazione all'edizione italiana
    di Serge Latouche

 11 Introduzione
    Un percorso con Serge Latouche
    di Thierry Paquot


    L'economia è una menzogna


 17 Itineranza I — Itinerario
    Conversazione con Thierry Paquot

    Per una critica dell'economia politica, 19
    L'invenzione del Terzo Mondo, 32
    Le fonti. Due pensatori fondamentali:
        Cornelius Castoriadis e Ivan Illich, 42
    La genesi dell'idea di decrescita, 54
    Quale futuro per il pianeta?, 66


 77 Itineranza II — Erranze
    Conversazione con Daniele Pepino

    La crisi, 79
    La moneta, 89
    La politica, 92
    Gli scenari, 97
    La felicità, 101
    La resilienza, 109
    Chi sarà il soggetto?, 114
    Il ruolo della tradizione, 121


107 Per concludere — Ultime domande
    Conversazione con Didier Harpagès


145 Indice dei nomi

149 Gli autori delle interviste


 

 

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Pagina 11

Introduzione

Un percorso con Serge Latouche

Thierry Paquot


È alto e ben piantato. Un bretone che con quella barba e quel berretto da marinaio potresti prendere per un pirata... È gioviale e gli piace ridere. Ma sa anche essere serio, a volte taciturno e spesso inquieto - a ragione - per dove sta andando il nostro piccolo pianeta. E non smette di leggere, non si stanca mai. E di scrivere in abbondanza: articoli, libri e di recente prefazioni per «Les Précurseurs de la décroissance» (come Jacques Ellul, Cornelius Castoriadis, Ivan Illich...), la collana che ha lanciato per le edizioni Le Passager clandestin.

[...]


L'espressione «obiettore di crescita» che Serge usa per presentarsi mi delizia, tanto che ormai l'ho fatta mia. So perfettamente che la crescita è nell'essenza di ogni essere vivente, ma a questa crescita «naturale», «organica», «biologica» si oppone la crescita nefasta e devastante dell'economia capitalistica (di mercato, di Stato, mista, poco importa la sua definizione, si tratta comunque del produttivismo e della sua logica del «sempre di più» alla quale noi opponiamo la logica del «sempre meglio»). Il saggio di Latouche Usa e getta riassume perfettamente i meccanismi perversi di un sistema produttivo fondato sul consumo per il consumo, con il suo assurdo saccheggio delle risorse non rinnovabili, l'esaurimento delle materie prime, l'accumulazione di scarti e altri rifiuti, l'inquinamento incontrollabile e soprattutto, come scrive Günther Anders, la trasformazione dell'individuo in dividuo, culmine dell'alienazione. Il percorso di pensiero che Latouche traccia a grandi linee in questo testo è esemplare, almeno per me. Perché? Perché è il percorso di una persona determinata, che accetta di correre dei rischi, limitati diranno alcuni, nel mondo universitario, che comunque non è tenero con i non conformisti e ancora meno con le donne e gli uomini che osano affrancarsene. Latouche non si limita a prendere le distanze dall'economia, ma opera una rottura, dimostrando in numerosi saggi ampiamente argomentati che l'economia non contiene nulla di «scientifico» e che serve ad avallare le assurde politiche sociali che derivano dalle sue analisi erronee. A questa economia «astratta», estranea alla realtà dell'esistenza degli individui e che disprezza totalmente la questione ambientale (per convincersene basta pensare al successo del concetto idiota di «sviluppo sostenibile»!), Serge Latouche oppone una ecologia politica, per la quale lavora instancabilmente. L'ecologia è l'approccio che consiste nel cogliere le interrelazioni esistenti tra i diversi elementi costitutivi di un insieme e nel riconfigurarne l'azione. Questa trasversalità non può accontentarsi di un modello economico, ma deve poggiare su almeno cinque piedi (per non dire «pilastri», termine ormai abusato...): l'economia (ma nel senso di economo, di frugale, di sobrio, che privilegia il locale...), il sociale (con la solidarietà, la condivisione, l'aiuto reciproco, la cooperazione...), l'ambientale (l'attenzione alla natura, la permacultura, i quattro elementi...), il culturale (che comprende la creazione, la bellezza, le lingue...) e il temporale (gustare il tempo, rispettare la cronobiologia degli esseri viventi e in particolare degli umani, considerare la lentezza come una forma di velocità, rispettare l'avvicendamento delle stagioni...). Questa ecologia politica gestisce la tecnologia e le impedisce di stravolgere l'ambiente, mentre al tempo stesso favorisce l'insediamento futuro di una ecologia esistenziale. Né Latouche né io siamo degli ingenui. Un orizzonte del genere si accosta all'utopia e il nostro mondo (cioè quello in cui ci troviamo a vivere oggi e che ci viene imposto) è sospettoso verso le sperimentazioni e le alternative. E tuttavia, di fronte alle miserie del presente e per scongiurare le minacce che gravano pesantemente sul futuro (isterilimento della terra per l'abuso di prodotti chimici, riscaldamento climatico, crisi petrolifera, guerre per l'acqua...) non si ha il dovere di proporre altri mondi possibili? Sono proprio le utopie concrete che dobbiamo incoraggiare, realizzare, valutare, correggere, per dimostrare che i giochi non sono ormai totalmente e definitivamente fatti.

Maggio 2014

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Pagina 19

Per una critica dell'economia politica

THP: Serge Latouche, lei è uno dei principali teorici della decrescita, e si presenta spesso come obiettore di crescita: ma obiettore di crescita non si nasce, si diventa, ed è questo itinerario che le domandiamo di tracciare a grandi linee. Da economista, per quanto già critico e vicino al marxismo, lei accettava l'idea che tutti i paesi e tutti i popoli si sviluppassero necessariamente. Questa idea, all'epoca largamente condivisa, oggi lei non esita a rifiutarla e a combatterla per «diseconomizzare» le menti, se così ci si può esprimere, e denunciare l'illusione sviluppista, anche nella sua versione cosiddetta sostenibile.

Lei è nato nel 1940 a Vannes, nel Morbihan. Che ci può dire della sua infanzia?


SL: Sono nato durante la «strana guerra», cosa che ha permesso a mio padre di ottenere una licenza speciale: era agente di collegamento a Colpo, a 15 chilometri da Vannes, dove sono nato. La mia infanzia dunque è stata segnata innanzi tutto dalla guerra, e i miei primi ricordi sono dell'occupazione. Ho dei ricordi molto precisi, nei quali paradossalmente mi vedo come un adulto. Un adulto accanto a mio padre, quando i tedeschi vengono a casa nostra perché qualcuno aveva segnalato che c'era della luce e le tende dell'oscuramento non erano ben chiuse. Suppongo che mio padre avesse il fifometro a zero, come si suol dire! E io gli stavo tra le gambe, ricordo benissimo.

I ricordi che mi hanno segnato di più sono quelli delle mie frustrazioni. Alla fine della guerra eravamo nella «sacca», cioè nella parte ancora non liberata della Bretagna. Gli alleati avevano riconquistato una parte del paese, e i tedeschi erano accerchiati insieme ai loro ausiliari - qualcosa di simile ai nostri harki della guerra di Algeria. Si diceva che fossero georgiani provenienti dalla Russia. I tedeschi li avevano abbandonati - gli ausiliari vengono sempre lasciati indietro - e la popolazione li accusava di tutti gli orrori possibili e immaginabili. I partigiani avevano catturato questi georgiani e li stavano portando in prigione. La prigione stava in fondo alla strada dove abitavo, accanto alla piazza del mercato. All'epoca le automobili praticamente non esistevano, e noi passavamo la giornata per strada. Quel giorno c'era animazione: la gente si accalcava per linciare i georgiani, che probabilmente non sono arrivati vivi alla prigione. Mia madre - non so come avesse saputo quello che succedeva - pensò che non fosse uno spettacolo per dei bambini, e allora mi afferrò per i pantaloni proprio mentre insieme agli altri monelli stavo andando verso la piazza del mercato. Rimasi molto frustrato per non poter assistere all'avvenimento.

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Pagina 25

THP: Ritorniamo alla critica dell'economia politica, perché gli anni sessanta in Francia ne sono impregnati. Non si poteva pensare la rivoluzione (per quelli che ci credevano) senza fare una critica dell'economia politica, borghese, capitalistica, ma al tempo stesso c'erano molte correnti di pensiero, riviste, gruppi che puntavano a rinnovare, approfondire un marxismo che sembrava un po' troppo rinchiuso nel suo rigido determinismo. Qual era la sua posizione?

SL: Su questo non ci sono dubbi. Ci fu un avvenimento che segnò il piccolo mondo degli economisti eterodossi dell'epoca, e cioè la pubblicazione del libro di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci, che ho tradotto in francese [1970]. C'era una grande effervescenza, a partire da un approccio che veniva definito «ricardiano-marxista», che intendeva formalizzare Marx attraverso il sistema di Sraffa. Tutta una generazione di economisti francesi, italiani, inglesi (la cosiddetta scuola «neocambridgiana») si è dedicata a questo sforzo con una gran quantità di convegni, discussioni, seminari, e io ero preso in questo movimento anche se mantenevo una distanza critica, perché già sentivo la necessità di superare l'economia.


THP: E riguardo a Freud? Lei ha pubblicato un'opera notevole, non solo per la mole ma anche per il contenuto, intitolata Epistémologie et économie. Essai sur une anthropologie sociale freudomarxiste.

SL: Questa è un'altra storia. In effetti durante i miei studi mi ero interessato alla psicoanalisi e, abbastanza curiosamente, chi mi ha spinto in questo senso è stato Maurice Duverger con le sue lezioni.

THP: Stupisce, perché insegnava Scienze politiche.

SL: Sì, in effetti. Durante il servizio militare avevo fatto un DES in Scienze politiche, per il quale avevo seguito i corsi di Duverger: era uno dei pochi professori interessanti. Ci aveva parlato di un'opera, La vita contro la morte dell'americano Norman O. Brown, il cui sottotitolo era Il significato psicoanalitico della storia. Comprai il libro, che mi segnò profondamente perché l'autore parlava molto di economia, del significato psicoanalitico del denaro e dell'attività economica; riprendeva le teorie di Max Weber, ma da un punto di vista psicoanalitico. Mi resi conto che i miei «maestri», gli economisti, non mi avevano mai parlato di quel genere di questioni. Che la psicoanalisi aveva molte cose da dire sull'economia, di cui gli economisti non avevano mai tenuto conto e che mettevano in discussione molte idee acquisite, cose che anche Marx ovviamente ignorava. Insomma, al di là della critica dell'economia politica ricardiana di Marx c'era una critica dell'economicità, in un certo qual modo della vita economica stessa. La vita economica era essa stessa un discorso che aveva dei significati, non cadeva dal cielo. Un approccio del genere permetteva di fare una critica molto più radicale del naturalismo dell'economia.

THP: Che rapporti aveva con altri colleghi, all'epoca lavorava da solo o in piccoli gruppi?

SL: Ricordo che una volta dissi al mio psicoanalista, che rimase scioccato, che non ero discepolo di nessuno ma che avrei avuto dei discepoli. Il contesto era un po' particolare. Sono entrato all'università come professore incaricato dopo il mio ritorno dal Laos, nel 1967. Appena arrivato a Lille esplose il maggio '68, e tutti i professori di Lille, proprio tutti, se ne andarono a Parigi. C'era il vuoto totale. Così mi trovai completamente libero di insegnare ciò che volevo. Allora decisi di fare un corso di epistemologia, e all'inizio della prima lezione - alcuni dei miei vecchi studenti ancora se ne ricordano - annunciai in modo molto dogmatico: Timeo hominem unius libri («Temo l'uomo di un solo libro», la formula di Tommaso d'Aquino), e subito dopo scrissi alla lavagna: «Epistemologia economica = Marx + Freud». È cominciato così.

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Pagina 32

THP: Nello Zaire, come successe a Charles Bettelheim in Guinea, lei si trovò a fare i conti con il governo del despota terzomondista Sékou Touré, il quale era convinto che il sottosviluppo esistesse, ed esistesse in rapporto a qualcosa d'altro che veniva definito «sviluppo». Lei sapeva che era stato il presidente Truman a lanciare questa idea e questa terminologia?

SL: No. Penso che allora non lo sapessi. Gli economisti non si interessano alla storia, e sempre di meno anche alla storia della loro disciplina. Sono dei modellisti; giocano con i modelli di crescita, con strategie che sono delle piccole meccaniche atemporali. Quello che propone la Banca mondiale non è cambiato di una virgola dalla creazione di quell'istituzione. Sono sempre gli stessi modelli, le stesse strategie, le stesse ricette, gli economisti non conoscono la storia dello sviluppo. I fallimenti non spingono a nessun ripensamento. Si avevano dei criteri per definire il sottosviluppo, e lo Zaire rispondeva a questi criteri. Già da studente avevo un interesse per la psicoanalisi e per l'antropologia, e dunque sono partito per l'Africa con i miei testi di tecnica di pianificazione - pensavo che l'Africa dovesse svilupparsi, ma secondo un modello pianificato di stile sovietico -, ma avevo con me anche una serie di libri di antropologi, perché comunque l'Africa era la terra delle maschere, delle tradizioni, delle credenze interessanti da studiare dal punto di vista dell'antropologia. Leggevo Lévi-Strauss e vivevo, come tutti del resto, in una situazione di vera e propria schizofrenia: un emisfero del mio cervello era quello di un economista che incitava gli studenti a fare la rivoluzione, mentre l'altro emisfero si appassionava della cultura africana. Tutti i fine settimana andavo nella savana. Mi interessavo in particolare dei culti sincretistici. Sono andato fino a Nkamba-Gerusalemme, la capitale dei kimbanguisti. Facevo collezione di maschere, in particolare chokwé, dal nome di un'etnia del Kasai. Ma tra i due emisferi del mio cervello non c'era nessun collegamento. Sono entrati in contatto solo nel Laos.

THP: Che cosa è successo nel Laos?

SL: Dopo due anni in Congo ho avuto l'opportunità di una missione di cooperazione identica nel Laos. E là c'è stata la mia via di Damasco. Avevo perduto la religione cristiana della mia infanzia a diciotto anni, e nel Laos, a ventisette-ventotto anni, ho perduto la mia religione di economista. Perché? Perché ho avuto la stessa esperienza raccontata benissimo dall'antropologa inglese Helena Norberg-Hodge in un libro che ha avuto un certo successo. La Norberg-Hodge ha avuto la sua rivelazione nel Ladakh, io la mia nel Laos. Entrambi ci siamo trovati di fronte a società che non erano né sviluppate né sottosviluppate, società che stavano al di fuori dello sviluppo e in cui persone senza automobili e senza computer erano incredibilmente felici - o meglio relativamente felici, come è dato esserlo su questa terra. Comunque sia, erano festose e lavoravano molto poco. Il Laos è un paese particolare, perché ha un immenso territorio in cui, a differenza del vicino Vietnam, la densità della popolazione è molto bassa. All'epoca era di 6 abitanti per km2. Dunque nessun problema fondiario. Gli abitanti seminavano il riso colloso (una particolare qualità di riso) e poi lo ascoltavano crescere, come loro dicevano, il che lasciava molto tempo libero. C'erano cinquantadue feste ufficiali all'anno, in genere organizzate dalla pagoda locale. In quelle occasioni la gente si lasciava andare al lamvong, la danza tradizionale. È molto graziosa, assomiglia un po' a quella che si danza nei templi di Angkor. Durante queste feste si mangiava e si beveva in abbondanza e nel tempo che restava si andava a caccia e a pesca. Il solo problema erano i B52 americani che bombardavano la pista di Ho Chi Minh che attraversava il Laos, facendo non pochi danni collaterali. Gli americani avevano insediato nel Sud del paese un governo fantoccio con a capo il principe Boun Oum. A nord i comunisti, legati alla Cina e al Vietnam, controllavano due province. Al centro, il principe Suvanna Phouma cercava di barcamenarsi e a Luang Prabang il re Sri Savang Vattana regnava simbolicamente su tutto il paese e di fatto su niente. Dopo il raccolto del riso i militari delle diverse parti e i banditi venivano a taglieggiare i contadini - un po' come nei Sette samurai o nei Magnifici sette - e si portavano via ciò che avanzava. I contadini nei villaggi volevano una cosa sola, che li lasciassero in pace! Oggi con il turismo questa aspirazione è un bel sogno svanito.

THP: In quel periodo alcuni militanti della causa terzomondista come l'agronomo René Dumont e l'economista Ignacy Sachs proponevano altre vie per un altro sviluppo, come l'eco-sviluppo. Lei li frequentava?

SL: Devo essere sincero: in quegli anni io ignoravo del tutto la questione ambientale. Non motivava la mia riflessione contro la distruzione degli equilibri tradizionali. Ancora non avevo maturato l'idea che lo sviluppo distrugge le società, distrugge la cultura, non è che una occidentalizzazione del mondo. L'idea che in Occidente, grazie alla rivoluzione termo-industriale, lo sviluppo produce un certo benessere, anche per la classi inferiori, mentre nei paesi del Sud è una forza completamente distruttiva. La questione ambientale l'ho incontrata solo molto più tardi.

THP: All'epoca però c'era già stato il rapporto del Club di Roma che parlava di «crescita zero»: lei era d'accordo?

SL: Per niente.

THP: Per niente?

SL: Proprio così. Non è che non lo conoscessi, ma non metteva in discussione i miei schemi.

THP: Eppure è del 1972.

SL: Il messaggio di fondo dell'ecologia è che lo sviluppo non è sostenibile. E l'idea formulata nello stesso periodo da Nicholas Georgescu-Roegen: «Una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito». Il mio ordine di idee è diverso: per me lo sviluppo, semplicemente, è un fatto negativo, perché produce ingiustizie, diseguaglianze e distruzioni, è soltanto il proseguimento, il prolungamento del colonialismo con altri mezzi, e soprattutto si basa sulla colonizzazione dell'immaginario - come dimostra Gérard Althabe nel suo libro sul Madagascar o Robert Jaulin, il discepolo di Lévi-Strauss, che denuncia instancabilmente l' etnocidio. La distruzione delle culture ha come risultato la distruzione dell'identità delle società, come mostrano gli esempi del Mali o dell'Africa centrale, che si trovano in un vicolo cieco.

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Pagina 37

SL: Lo sviluppo è un'impresa di occidentalizzazione del mondo che omogeneizza, pialla tutte le differenze e distrugge tutte le culture. Di fatto le nega. In realtà l'uomo vive nella cultura e per la cultura. E lo sviluppo sostituisce la cultura con che cosa? Con il consumo. In fin dei conti il consumo non ha senso. Questa riflessione si concretizza in un piccolo libro che ha avuto un certo successo - il mio primo libro pubblicato con le edizioni La Découverte -, L'occidentalizzazione del mondo, che annuncia i successivi e in particolare Il pianeta dei naufraghi. L'occidentalizzazione del mondo mi sembra votata al fallimento, si tratta di un'impresa di unificazione planetaria che distrugge le culture ma che provoca reazioni, resistenze e rigetti. La resistenza può essere l'islamismo, ma anche l'autorganizzazione degli esclusi. In quel periodo ripresi contatto con l'Africa. Da allora tornai in Africa tutti gli anni, per tre settimane o un mese, per delle missioni, per insegnare, per fare inchieste. In quelle occasioni incontravo amici e colleghi africani che lavoravano sul terreno e che confermavano le mie analisi. Alla fine dell' Occidentalizzazione del mondo prevedevo in qualche modo l'autorganizzazione degli esclusi, e in quel periodo incontrai un senegalese che lavorava sul Grand Yoff e che aveva appena pubblicato un libro intitolato L'arcipelago urbano. Con quello studio mi forniva la verifica concreta, sperimentale, di ciò che avevo immaginato o dedotto teoricamente. Per me fu straordinario.

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Pagina 56

THP: Una decrescita che chiaramente non è né la «crescita verde» né una «crescita negativa».

SL: Proprio così. È piuttosto divertente vedere che a partire dalla crisi del 2007 - dunque alcuni anni dopo che abbiamo cominciato a usare il termine - la decrescita è stata ripresa da personaggi mainstream nostri avversari, che hanno cominciato a dire: «Lo vedete, siamo in decrescita, ma non è né conviviale, né serena, né gioiosa». È divertente, perché queste persone prima non avevano mai utilizzato la parola; gli economisti parlavano eventualmente di crescita negativa, che è un'antinomia, ma la decrescita non figurava in nessun dizionario di economia. Chiaramente, dietro lo slogan c'è il progetto di costruire un'alternativa alla società della crescita. Non alla crescita, insisto, ma alla società della crescita. Questa alternativa non ha niente a che vedere con la recessione e con la crisi. Della depressione che abbiamo di fronte fin dall'inizio abbiamo detto: «Non c'è niente di peggio di una società della crescita senza crescita». Perlomeno, in una società della crescita con crescita c'è occupazione, ci sono risorse per finanziare i bilanci della sanità, dell'istruzione, della cultura ecc. Si distrugge l'ambiente, si sfrutta il Terzo Mondo, ma almeno qualcosa c'è. Invece, in una società della crescita senza crescita c'è la disoccupazione, che è una tragedia, e poi non ci sono più i mezzi per finanziare tutto ciò che in una società della crescita, cioè in una società capitalistica di sfruttamento e di alienazione, garantisce malgrado tutto un po' di qualità della vita: la cultura, l'istruzione, la salute ecc. e anche un certo riguardo per l'ambiente.


THP: Lei parla di abbondanza frugale, non è un po' un ossimoro?

SL: Sembra un ossimoro perché il nostro immaginario è colonizzato dalla religione della crescita. Noi ci siamo convinti, perché ci è stato detto e ripetuto, di vivere in società dell'opulenza: sull'argomento sono stati pubblicati libri famosi, in particolare La società opulenta di Galbraith. Ma in realtà lo stesso Galbraith diceva che si trattava di una falsa opulenza, e poi Baudrillard si è mosso su questa stessa linea, denunciando magnificamente la società dei consumi e mostrando che si trattava di una mistificazione. E tuttavia si è convinti che con la società dei consumi, malgrado gli enormi sprechi, si viva nell'abbondanza. In realtà si vive nella scarsità e nella frustrazione. I principali pilastri del sistema, i pubblicitari, lo sanno benissimo. Dicono chiaramente: «I popoli contenti non consumano». Alcuni particolarmente cinici come Frédéric Beigbeder arrivano a dire: «Il mio mestiere è di frustrarvi, è di rendervi insoddisfatti di quello che avete per farvi desiderare quello che non avete». Dunque in questa società abbiamo sempre qualcosa che ci manca, il che è l'esatto contrario dell'abbondanza. Non ci sono società dell'abbondanza possibili, se non c'è un limite. E noi siamo in una società dell'illimitato. Occorre fissare dei limiti, perché soltanto se si hanno dei limiti si può sperare di soddisfare i propri desideri o i propri bisogni. Utilizzando l'espressione «abbondanza frugale» avevo in mente l'antropologia di Marshall Sahlins, che ha scritto il bellissimo libro L'economia dell'età della pietra. Anche questo libro era una provocazione: l'autore ci spiega che nella storia le uniche società dell'abbondanza sono state quelle del paleolitico, società di cacciatori-raccoglitori in cui le persone potevano soddisfare i loro bisogni perché ne avevano molto pochi e svolgevano un'attività che non aveva niente a che fare con il lavoro come oggi lo intendiamo, un'attività divertente di caccia, pesca e raccolta, che occupava due o tre ore al giorno. Gli antropologi che studiano le ultime società di cacciatori-raccoglitori, nel Kalahari e altrove, verificano ancora oggi questa situazione. Il resto del tempo la gente danza, gioca, medita, sogna, come gli aborigeni australiani ecc. Non si tratta, come ci accusano i nostri avversari, di ritornare all'età della pietra - anche se alcuni, i primitivisti americani alla Zerzan, hanno sviluppato questa idea; si tratta di inventare una società postmoderna che sia sofisticata senza per questo produrre e consumare sempre di più. Come sostiene il mio collega inglese Tim Jackson, in fin dei conti anche lui partigiano della decrescita, si tratta di inventare una società della prosperità senza crescita. Non solo è possibile, ma in realtà ci può essere vera prosperità soltanto se si esce dalla crescita, ossia se ci si pone dei limiti. Oggi abbiamo tutto ciò che ci serve per soddisfare più che abbondantemente i bisogni di tutti, ma, per parafrasare Gandhi, aggiungerei anche che non ce ne sarà mai abbastanza per soddisfare l'avidità dei predatori.

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Pagina 62

THP: L'agricoltura produttivista è la componente agricola della logica della società della crescita, con l'esaurimento del suolo e il sovraconsumo d'acqua. Che fare?

SL: Una delle obiezioni frequenti mosse alla decrescita è: «Ma con il vostro sistema come potrete nutrire il pianeta nel 2050, quando ci saranno 10 miliardi di abitanti?». Non sono un agronomo, e non sono sicuro, come Marie-Monique Robin nelle Moissons du futur, che con l'agricoltura biologica si riuscirà ampiamente a nutrire 10-12 miliardi di abitanti e anche più. Ma sono sicuro di una cosa, e cioè che con l'agricoltura produttivista non ci si riuscirà. Per almeno due ragioni: da una parte, non ci sarà più petrolio a buon mercato, e l'agricoltura produttivista dipende fondamentalmente dal petrolio (i pesticidi, i concimi, i trattori, i sistemi di refrigerazione per la grande distribuzione dipendono dal petrolio); dall'altra, perché questa agricoltura a lungo termine distrugge il suolo. Distrugge tutta la vita del suolo, tanto che i pesticidi vengono chiamati biocidi. Con l'uso intensivo che facciamo di prodotti chimici, distruggiamo circa 16-17 milioni di ettari ogni anno. Per il momento, le terre distrutte vengono compensate distruggendo le foreste e coltivando soia nella foresta amazzonica, ma nel 2050 in Amazzonia non ci sarà più un solo albero per sostituire quello che è stato distrutto. Questo tipo di agricoltura non ha futuro. Invece l'agricoltura biologica è la più produttiva al metro quadrato. Naturalmente è necessario un grande investimento di lavoro, e non è un caso d'altronde che la permacultura (agricoltura permanente) sia nata in Giappone: in Asia da secoli e secoli si riesce a nutrire famiglie numerose su piccoli appezzamenti, realizzando un'agricoltura estremamente produttiva che può dare due o tre raccolti all'anno, ma che chiaramente richiede una grande cura della terra.

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Pagina 87

A causa di tutto questo, oggi la situazione è terribile. Abbiamo milioni e milioni di disoccupati, che aumentano ogni giorno. La disoccupazione è una tragedia, ma c'è di più: pensiamo a quello che succede in Italia, in particolare nel Veneto, a tutti quei piccoli imprenditori che si suicidano perché sono strangolati dalle banche e non riescono più a rimborsare i debiti. Una catastrofe terribile.

Di fronte a tutto questo, quali sono le nostre proposte? Il nostro progetto si basa su tre pilastri:

a) La rilocalizzazione. Rilocalizzare significa anzitutto «deglobalizzare». Quella che viene chiamata «globalizzazione» in realtà è soltanto un gioco al massacro su scala globale. Una competizione nella quale i popoli si autodistruggono. Ormai è evidente che dobbiamo recuperare le attività produttive locali. In Italia la tragedia forse è ancora più acuta perché a livello locale esistono tutte le competenze, i saperi e le tradizioni (ad esempio nell'industria tessile, ma anche in tutti i settori che hanno creato la fama della «terza Italia») e malgrado questo ci sono sempre più disoccupati. Rilocalizzare significa recuperare tutte queste attività e reimpiantarle nei territori.

b) La ristrutturazione e la riconversione ecologica. L'agricoltura industriale produttivista è un suicidio collettivo, fonte di tumori, intossicazioni, epidemie, pandemie animali ecc. Dobbiamo innanzi tutto riconvertire l'agricoltura per ritrovare un'alimentazione sana, con una produzione stagionale di qualità. Questo presuppone che si ricreino milioni di contadini produttivi ed efficienti, ma non prigionieri del produttivismo. Dunque un'agricoltura senza pesticidi, senza OGM ecc. Un secondo obiettivo è la riconversione del settore energetico, con l'abbandono del nucleare e lo sviluppo delle energie rinnovabili. Infine, sarà necessario battersi contro le produzioni parassitarie (come la pubblicità) o nocive (come gli armamenti), delle quali ci si dovrà liberare progressivamente. Ma sarà anche necessario ripensare radicalmente l'industria automobilistica. In Francia abbiamo l'esempio della Peugeot, che conosce una crisi grave ma che ha il potenziale per avviare produzioni diverse: innanzi tutto mezzi di trasporto pubblici perché, come tutte le fabbriche concepite per produrre automobili, è in grado di produrre autobus e tram, ma anche sistemi di cogenerazione, come suggerisce Maurizio Pallante. Lo sviluppo di queste produzioni creerebbe posti di lavoro senza entrare nella logica del produrre sempre di più, ma al contrario nella logica di una produzione destinata a soddisfare bisogni reali. Un altro aspetto di questo progetto riguarda la necessità di ridurre gli sprechi e di lottare contro l'obsolescenza programmata: non si tratta di rinunciare alla lavatrice, ma di non doverla cambiare ogni due anni. Lo stesso vale per i computer: bisogna imporre ai produttori una garanzia di almeno dieci anni, il che avrebbe un impatto positivo sulla riduzione dei rifiuti e il consumo di risorse naturali, garantendo comunque un livello di benessere identico (o addirittura superiore, perché ci libereremmo della preoccupazione di cambiare continuamente apparecchi, della necessità di andare a comprarli, dell'ansia dei continui guasti).

c) La riduzione dell'orario di lavoro. La situazione attuale è completamente assurda. Se un marziano sbarcasse sulla terra e vedesse come viviamo penserebbe che siamo pazzi e rimarrebbe stupefatto della stupidità con cui gli umani si organizzano: da una parte ci sono milioni e milioni di disoccupati, e dall'altra milioni di uomini e di donne che lavorano come folli. Fino a 15 ore al giorno. Una stupidità assoluta. Bisogna lavorare meno per lavorare tutti. Oggi, tra l'altro, più si lavora e meno si guadagna, perché si è intrappolati in una concorrenza spietata. Lavorando di meno si potrebbe guadagnare di più e soprattutto vivere meglio.

Naturalmente questo programma, che mi sembra un fatto di semplice buon senso, è qualcosa che i nostri politici non potranno mai realizzare, perché facciamo parte dell'Unione Europea e per di più siamo nell'eurozona, per non parlare del WTO, e dunque siamo legati mani e piedi. Che fare allora? Tanto per cominciare dovremmo riappropriarci della moneta. È chiaro: dobbiamo uscire dall'euro, almeno così come funziona attualmente, altrimenti non c'è nessuna possibilità di realizzare il nostro programma.




La moneta

DP: Può spiegare più precisamente che cosa intende quando parla della necessità di «riappropriarsi della moneta», e innanzi tutto che cosa intende per «moneta»?

SL: Riappropriarsi della moneta è un programma di grande respiro. Soprattutto perché nessuno sa veramente che cos'è la moneta. A livello razionale si può dire che la moneta è uno strumento inventato per favorire gli scambi e servire da intermediario nella circolazione dei beni. Ma in realtà la moneta è, ed è sempre stata, qualcosa di più.

Fin dall'inizio, a differenza del baratto, la moneta ha avuto un legame con il sacro. Il baratto è uno scambio diretto, io ti do una cosa in cambio di un'altra che tu mi dai. Nello scambio mediato dal denaro le cose funzionano diversamente. Se sono un contadino e ti vendo una vacca, tu non mi dai un'automobile o qualcos'altro, ma mi dai un pezzo di carta su cui c'è scritto In God we trust. Ovviamente alla base dell'accettazione di questo scambio c'è la convinzione che posso fidarmi di quel pezzo di carta come ripongo la mia fiducia in Dio, e per questo è importante che Dio sia della partita, altrimenti sarebbe un imbroglio, avrei scambiato una vacca con un pezzo di carta. Ma tutto questo non è per niente razionale! Si basa sulla fede, è una specie di magia. E quasi tutti i popoli hanno più o meno questa esperienza. Per alcuni è stata la magia dell'oro, per altri quella delle conchiglie, per altri ancora quella dei wampum o dei pezzi di rame coniati. Nella moneta c'è sempre stato qualcosa di magico. Ed è questo che sta all'origine del fenomeno dell'accumulazione della moneta: il valore della moneta non è più soltanto convenzionale ma si trasforma in feticcio. Dunque riappropriarsi della moneta significa anche, e fondamentalmente, demitizzarla e demistificarla.

La moneta sicuramente è uno strumento utile. E in questo senso è un bene comune di cui dobbiamo riprendere il controllo. Le banche forniscono il servizio di emettere moneta per favorire gli scambi, ma così facendo acquistano il monopolio di un potere enorme. Con il nostro denaro possono lanciarsi in speculazioni sfrenate di ogni tipo. E se falliscono sono i soldi per la nostra vecchiaia che vanno in fumo. Riappropriarsi della moneta significa anche che la moneta non deve più essere controllata unicamente dallo Stato, con il pretesto che lo Stato rappresenta il popolo. Sappiamo benissimo che sfortunatamente le cose non stanno affatto così. Per riappropriarci della moneta dobbiamo essere in grado di controllare le banche, di avere delle banche popolari, e non soltanto di nome.

Sicuramente la cosa migliore sarebbe avere una moneta locale gestita direttamente dai suoi utilizzatori e impiegare il risparmio locale per far funzionare le imprese e finanziare le attività locali. È il colmo che nel Veneto degli imprenditori siano arrivati a suicidarsi perché non riuscivano a ottenere credito dalle banche mentre a livello locale c'è una grande quantità di risparmio privato che potrebbe finanziare le attività produttive. Il paradosso si spiega con il fatto che non ci sono più banche locali: le banche ormai sono nazionali o transnazionali e non utilizzano il risparmio locale per fornire prestiti. Non lo fanno in parte perché non hanno abbastanza fiducia. In effetti il problema sta nella presenza o nell'assenza di fiducia. E a livello locale si ha una conoscenza diretta delle persone che lavorano, che dirigono imprese o che svolgono varie attività produttive o commerciali. Questo crea rapporti di fiducia più solidi, che permettono di affrontare meglio le incertezze della congiuntura economica.

DP: Dunque «riappropriarsi della moneta» significa restituire alla moneta il suo senso di strumento degli scambi.

SL: Certo. E ridurre drasticamente, se non sopprimere, l'enorme potere del denaro di creare denaro, cosa che già Aristotele aveva definito «contro-natura».

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SL: C'è una grande differenza. Ma su questo punto forse in quello che ho scritto non sono stato abbastanza esplicito, probabilmente perché io stesso non avevo ancora le idee chiare. Riconosco che ho scritto una cosa sbagliata o quantomeno imprecisa, quando ho sostenuto che quello della decrescita era un progetto politico. Oggi non lo definisco più così: a rigor di termini, la decrescita non è un progetto politico ma un progetto sociale, o meglio di società. Si tratta di trasformare la società, non di prendere il potere.

Il nocciolo del progetto è uscire da una civiltà e crearne un'altra, uscire da una religione e inventare un altro immaginario. Ovviamente un progetto del genere ha evidenti implicazioni politiche, in quanto è indispensabile adottare certe misure politiche per impedire la distruzione dell'ecosistema, per preservare le risorse naturali e così via. Ed è proprio questo che in quanto contropotere, contropotere sociale, tentiamo di imporre ai poteri politici ed economici. È all'interno dell'orizzonte di senso rappresentato dall'utopia concreta della società della decrescita che si colloca l'azione quotidiana, di contropotere, che si scontra con i poteri politici ed economici.

A questo livello, nelle lotte quotidiane, naturalmente possiamo fare delle alleanze. Ci sono convergenze possibili con una varietà di altri movimenti: gli antinuclearisti, gli altermondialisti, i difensori dei beni comuni come l'acqua, i movimenti contro l'austerità ecc., perfino la lega per la difesa degli uccelli.




Gli scenari

DP: Al di là delle intenzioni e delle speranze, quali scenari pensa siano probabili da un punto di vista obiettivo e storico? La società della decrescita si realizzerà (se mai si realizzerà) attraverso un processo progressivo? Nascerà a seguito di una serie di crisi e di crolli o sarà il risultato di una successione di avvenimenti catastrofici? Si realizzerà in modo uniforme, contemporaneo in tutto il pianeta? Oppure dobbiamo pensare piuttosto a fenomeni di decomposizione, di secessioni di territori (qualcosa di simile al declino dell'Impero romano)?

SL: Non sono un profeta, non posso rispondere in modo netto. Mi sembra comunque che lo scenario di una trasformazione lenta e progressiva sia il più probabile. La situazione in cui ci troviamo è evidente da almeno cinquant'anni: il primo allarme sulla crisi ecologica si può far risalire all'uscita del libro di Rachel Carson Primavera silenziosa, tutto era abbastanza chiaro fin da allora. Da quel momento in poi si sono sviluppati movimenti come quello dei Verdi ed è cresciuta una coscienza ecologica. Abbiamo avuto la prima conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente a Stoccolma nel 1972, poi quella di Rio nel 1992, poi quella di Johannesburg, poi ancora Rio, per non dire delle altre. Ma se facciamo un bilancio, si può dire che abbiamo fatto «un passo in avanti e due indietro». Nella realtà, la forza, la capacità di resistenza del sistema è talmente forte che soltanto un crollo può aprire la strada a una via d'uscita. E una volta trovata questa via d'uscita, quale direzione prenderemo?

È questo l'interrogativo. Sarà ecosocialismo o barbarie. Oggi siamo arrivati più o meno al momento della verità. In alcune zone del pianeta la tendenza sembra piuttosto favorevole all'ecosocialismo (penso, ad esempio, all'Ecuador e alla Bolivia), mentre altri paesi, come gli Stati Uniti (basta seguire la campagna elettorale), sembrano invece orientarsi verso forme di ecofascismo, verso un sistema di barbarie. Non posso dire che cosa verrà fuori da questa lotta titanica tra le forze del bene e le forze del male. E difficile da prevedere. Con tutta probabilità comunque stiamo andando incontro a un caos incredibile.

Ho intitolato un mio recente contributo La caduta dell'Impero romano non ci sarà, ma l'Europa di Carlo Magno è destinata a esplodere. Con questo titolo volevo sottolineare il fatto che l'Impero romano in un certo senso non è mai crollato, cioè che è difficile fissare la data della sua caduta: sicuramente non il 410, con il sacco di Roma da parte dei visigoti di Teodorico, e neppure il 476, con la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre. Dopo c'è Bisanzio, la Roma bizantina che nel VI secolo vede una certa rinascita. E in seguito c'è il Sacro Romano Impero germanico, fino al 1806, e comunque negli anni successivi restano due cesari, il kaiser tedesco e lo zar russo. L'Impero di Carlo Magno invece in fin dei conti è durato soltanto cinquant'anni! Si è disgregato perché era un'impresa controcorrente rispetto alla storia del momento. L'Unione Europea oggi si trova nella stessa situazione. Di questa Europa non si può dire che si è costruita controcorrente, ma piuttosto contro il buon senso. Per questo stiamo vivendo il crollo di questa costruzione la cui idea di partenza era seducente, ma che è stata costruita su basi sbagliate.

Le catastrofi le abbiamo già davanti agli occhi, e ce ne saranno ancora. Ma al tempo stesso c'è anche la capacità del sistema di riorganizzarsi. L'Impero romano si è riorganizzato molte volte. Ma nel IV secolo d.C. la popolazione di Roma era passata da circa 2 milioni (questa è la stima al suo apogeo) a 30000. Ai giorni nostri, la popolazione di Detroit è passata da circa 2 milioni a 700000. Che cosa è successo? In entrambi i casi le persone non sono scomparse, non sono state massacrate: molte sono andate a stabilirsi altrove e quelle che sono restate hanno riconvertito la zona centrale di Detroit in giardini urbani. È un'altra civiltà che nasce. Probabilmente succederà lo stesso a Parigi e a New York, sarà un cambiamento enorme ma che avverrà poco a poco.

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Si tende sempre a considerare l'avversario come un nemico. Rispettare l'avversario significa credere che sia in buona fede. Naturalmente sappiamo che ci sono persone in malafede, ma in linea di principio bisogna dare credito a chi non è d'accordo con te, perché altrimenti non c'è dialogo possibile. Bisogna cercare di ascoltare e provare a convincere. Ma anche il tuo interlocutore può volerti convincere, anche se evidentemente si è portati a pensare che si ha più da convincere che da essere convinti.

Faccio un esempio che mi ha molto colpito. Avevo scritto per «Politis» un piccolo articolo sul tema «lavorare di più per guadagnare di più», sostenendo tra l'altro che tutti gli economisti avrebbero dovuto scendere in piazza per denunciare l'assurdità di un simile slogan, perché è totalmente contrario alla sacra legge della domanda e dell'offerta. In macroeconomia, se si lavora di più è inevitabile che si guadagni di meno. Ero di passaggio nella mia vecchia facoltà, dove avevo fatto fotocopiare l'articolo, e siccome dividevo lo studio con una collega molto neoclassica e molto ortodossa (con cui ho peraltro buoni rapporti) gliene ho lasciato una copia. Siccome è una persona in buona fede, la sua reazione è stata: «Hai ragione, non ci avevo pensato!». Questo dimostra che un fatto evidente, ovvio, non sempre viene colto. Gli economisti vedono perfettamente che gli alti salari frenano gli investimenti delle imprese, così come vedono che la legge della domanda e dell'offerta è perfetta quando si tratta di spiegare la riduzione dei salari degli operai con la perdita di competitività dell'economia. Ma quando non c'è abbastanza offerta di lavoro e dunque bisognerebbe aumentare i salari, il discorso non vale più. D'altronde storicamente ci si può rifare all'esempio della peste nera che nel XIV secolo provocò la scomparsa di un terzo della popolazione europea. I salari dei lavoratori aumentavano enormemente perché l'offerta di lavoro era scarsa. Allora i governi presero delle misure per bloccare l'aumento e impedire ai datori di lavoro di fare offerte sempre più vantaggiose per procurarsi la manodopera. L'aumento del costo del lavoro era considerato insostenibile. L'esempio dimostra che l'economia non è neutrale, e che operai e datori di lavoro non hanno lo stesso trattamento. L'economia è piena di comprensione per il punto di vista del datore di lavoro, mentre è completamente cieca rispetto alle condizioni del lavoratore.

[...]

DH: Ho notato un'ambivalenza di alcune sue analisi, dovuta molto probabilmente alla complessità della realtà sociale. Ad esempio, lei ritiene che nella situazione attuale si debba sostenere lo Stato, sperando al tempo stesso che emergano nuove iniziative che vadano nel senso del suo superamento e della sua eliminazione. Insomma lei sostiene che non bisogna rinunciare alla democrazia rappresentativa, anche se la creazione di un contropotere sarebbe la benvenuta. La tradizione non deve essere rifiutata ma modernizzata. Bisogna combattere il potere ma non prenderlo.

La pensa così per prudenza, per rifiuto del manicheismo? E questo approccio non la porta in fin dei conti ad adottare un metodo dialettico che vuole superare le contraddizioni apparenti?

SL: La risposta sta nella domanda. Bisogna tenere presente che la tradizione occidentale è fondamentalmente basata sulla logica formale aristotelica, che spinge in certo qual modo verso una forma di pensiero manicheo. Io penso che la realtà sia complessa, come lei dice, e che soprattutto nell'azione concreta dobbiamo tenere conto di questa complessità. Le cose non sono bianche o nere, e con la realtà bisogna giocare d'astuzia.

L'esempio dello Stato è molto interessante perché non si può essere totalmente contro lo Stato, non si possono prendere i propri desideri per la realtà, bisogna conviverci. Oggi abbiamo un nemico temibile che è l'oligarchia mondiale, e questo nemico è talmente potente che il male (lo Stato) che può difenderci contro di esso diventa un bene. Anche se lo Stato-nazione è condannato e condannabile, è ancora in una certa misura un bastione contro la privatizzazione totale e la distruzione di quello che resta dello Stato sociale. Da questo punto di vista, pur combattendolo e puntando a superarlo, bisogna appoggiarvisi. Bisogna combattere su due fronti e non irrigidirsi in una posizione dogmatica. Dobbiamo usare il male per ricavarne del bene, ed è per questo che la tematica del contropotere è importante.

Quello che ha prodotto il movimento amerindiano in America Latina è una rivoluzione nella rivoluzione. Le parole del subcomandante Marcos il 1° gennaio 1994 furono: «Noi non vogliamo prendere il potere, perché sappiamo per esperienza che se prendessimo il potere saremmo catturati dal potere. Non vogliamo prendere il potere, ma vogliamo che il potere ci ascolti e agisca secondo i nostri interessi». Certo si deve sperare che il potere sia più democratico e più sensibile alle rivendicazioni, ma anche di fronte a un potere fascista non bisogna rinunciare. Così è stato in Bolivia, dove nella guerra dell'acqua dell'aprile 2001 i manifestanti hanno fatto pressione su un governo di destra e hanno ottenuto l'annullamento di un contratto di privatizzazione dell'acqua.

Non si ha mai un potere ideale, una cosa del genere non esiste. Pensiamo all'autogoverno. Una delle poche esperienze storiche che abbiamo è quella dell'Atene del V secolo a.C., che ha sempre fatto sognare Castoriadis. Eppure non era l'ideale. Funzionava più o meno perché Pericle aveva confiscato buona parte del potere a proprio vantaggio. E poi le cose sono precipitate.

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