Copertina
Autore Serge Latouche
Titolo Per un'abbondanza frugale
SottotitoloMalintesi e controversie sulla decrescita
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2012, Temi 220 , pag. 150, cop.fle., dim. 11,5x19,5x1,3 cm , Isbn 978-88-339-2273-7
OriginaleVers une société d'abondance frugale. Contresens et controverses sur la décroissance [2011]
TraduttoreFabrizio Grillenzoni
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe sociologia , economia , economia politica , ecologia , politica , globalizzazione , movimenti
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Indice


  7 Prefazione

    Per un'abbondanza frugale

 13 Introduzione. Verso una società di abbondanza frugale

    Né crescita né austerità, 14
    La decrescita come può risolvere i problemi immediati dei
      nostri Stati?, 17
    La decrescita: malintesi e controversie, 23

 25 1.  I malintesi
    Confusione, volontaria o involontaria, tra crescita negativa e
      progetto della decrescita, 25
    La decrescita è lo stato stazionario e/o la crescita zero, 28
        ATTAC, i Verdi, la decelerazione e la crescita selettiva, 35
    La decrescita sarebbe contro la scienza, e dunque tecnofoba, 37
    La decrescita è il ritorno alla candela, 47
        La decrescita e i Lumi, 53
    La decrescita significa il ritorno a un ordine patriarcale
      comunitario, 56
    Decrescita uguale disoccupazione, 65
    La decrescita è incompatibile con la democrazia, 69
    La decrescita è compatibile con il capitalismo?, 76
        Sulla transizione, 83
    La decrescita è di destra o di sinistra?, 85
        Sull'antiproduttivismo di destra, 87

 90 2.  Le controversie

    La decrescita ha un fondamento scientifico erroneo, 90
    La crescita rimane sempre possibile, se sostenuta dalla produzione
      immateriale, 92
    La crescita del valore mercantile è compatibile con una riduzione
      del contenuto materiale, 97
    La decrescita implica una drastica riduzione della popolazione, 99
        Neomalthusianesimo e nuovi paesi industriali, 107
        Il dibattito scientifico, 108
        Come ci nutriremo?, 110
    La crescita è necessaria per eliminare la povertà al Nord, 113
    Come risolvere con la decrescita il problema della miseria
      nei paesi del Sud?, 116
    E i nuovi paesi industrializzati, la Cina, il Brasile, l'India?, 122
    Quale «soggetto» sarà portatore e realizzatore del progetto?, 126
    Il cambiamento avverrà dall'alto o dal basso?, 131


136 Conclusione

139 Bibliografia

147 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 7

Prefazione


Si racconta che il grande economista di Yale Irving Fisher (1867-1947) aveva un pappagallo che aveva ammaestrato a rispondere a tutte le domande degli studenti ripetendo: «È la legge della domanda e dell'offerta». Stanco delle interviste e dei dibattiti in cui si ripetono instancabilmente sempre le stesse domande sulla decrescita, sogno spesso di avere anch'io un collaboratore di quel tipo. Sfortunatamente però, mentre in economia la legge del mercato ha effettivamente una risposta a tutto, le cose stanno in modo completamente diverso nell'universo antieconomico della decrescita... Spiegare, anche in modo approssimativo, che cos'è la decrescita e rispondere alle obiezioni che solleva, supera le capacità degli uccelli parlanti. Si dovrebbe insegnare a un pappagallo a ripetere che la decrescita è una «finzione performativa», oppure una «utopia concreta», o ancora un progetto di costruzione di una società di abbondanza frugale per uscire dalle aporie della società dei consumi: sarebbe pertinente e rigorosamente esatto, ma queste risposte rischierebbero di lasciare l'interlocutore perplesso e insoddisfatto. Inoltre, la decrescita solleva interrogativi che non hanno risposte preconfezionate. Non ci sono ancora (e spero non ci saranno mai) dogmi: gli obiettori di crescita non hanno la vocazione ad avere una risposta a tutto e a chiudere il dibattito: ci sono controversie anche all'interno del movimento della decrescita. Tuttavia, con il tempo, e con le discussioni e i dibattiti con i pubblici più diversi, ho finito per catalogare i malintesi più frequenti e le obiezioni più ricorrenti. Da qualche anno ho messo a punto delle risposte standard che mi servono di base per le vere interviste ma che ormai utilizzo anche per soddisfare le richieste sempre più numerose di improbabili discussioni che mi arrivano per posta elettronica.

Offrendo al pubblico il repertorio che mi sono confezionato, non penso certo di sbarazzarmi completamente (ahimè!) dal fastidio di giornalisti importuni che comunque non leggeranno questo opuscolo più di quanto abbiano letto i miei precedenti lavori sull'argomento, nei quali avrebbero trovato abbondantemente risposta alla maggior parte delle loro domande. Mi preoccupo però, in primo luogo e soprattutto, dei numerosi «obiettori di crescita», il più delle volte giovani, che, nel loro ambiente familiare o professionale, di fronte a quegli stessi malintesi o obiezioni, si trovano a corto di argomenti. Contestati, durante un pranzo di famiglia, da un cognato che lavora in un'impresa multinazionale, spero potranno, ispirandosi a questo piccolo trattato, suscitare un dibattito, incrinare le certezze del loro interlocutore, e magari convincerlo.

L'originalità di questo testo sta dunque più nella forma che nel contenuto. La maggior parte degli argomenti avanzati, destinati a dissipare i malintesi e a contestare le obiezioni, si trovano già, sparsi, in diverse mie pubblicazioni precedenti. In effetti, il progetto di società della decrescita, al di là dello slogan blasfemo, è una sfida provocatoria: la perorazione in suo favore deve ricorrere a tutta l'argomentazione necessaria per controbattere le obiezioni che sorgono spontanee dal pensiero formattato dall'immaginario dominante.

Per il lettore assiduo del settimanale «Politis», negli ultimi anni ho pubblicato una serie di testi che intendevano chiarire i punti oscuri del progetto della decrescita o rispondere alle obiezioni dei compagni della sinistra più o meno radicale. Diversi di tali testi vengono ripresi nelle pagine che seguono, ma sono stati rielaborati, modificati e, dove necessario, attualizzati per rispondere all'obiettivo specifico di questo opuscolo.

La curiosità suscitata negli ultimi anni dallo strano oggetto non identificato che è la decrescita ha dato luogo a una fioritura di scritti. Alcuni hanno un obiettivo molto vicino al mio. Mi è sembrato però che un'argomentazione sintetica, basata su un'esperienza ormai lunga e nutrita, poteva corrispondere meglio allo scopo e al tempo stesso fare maggiore chiarezza e costituire un approccio originale per il lettore curioso ma ancora nuovo alla tematica.

Infine, al momento di dare questo testo alla stampa, abbiamo scoperto, gli editori e io, che Jean-Baptiste de Foucauld aveva pubblicato nell'aprile del 2010 un libro intitolato L'Abondance frugale. Pour une nouvelle solidarité. Confesso che ignoravo che qualcuno avesse inventato prima di me questo apparente ossimoro, e per di più già nel 1980, come si legge nella prefazione del libro, il che assicura una incontestabile precedenza, anche se sono già alcuni anni che io utilizzo l'espressione nelle mie conferenze. Che due autori (almeno) abbiano ognuno per proprio conto osato utilizzare lo stesso ardimento semantico non meraviglia affatto, in quanto si trovano a vivere nello stesso contesto di una società della crescita globalizzata malata della propria ricchezza e della distruzione del proprio ambiente. Inoltre, anche se ho pochi contatti diretti con Foucauld, siamo impegnati, comunicando attraverso amici comuni come Alain Caillé del MAUSS, Patrick Viveret o Bernard Guibert, nella stessa ricerca di un progetto alternativo alla dismisura del sistema, seguendo la via tracciata da Ivan Illich , quella della «gioiosa ebbrezza della sobrietà volontaria».

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Pagina 13

Introduzione

Verso una società di abbondanza frugale


                In quanto entrambi eliminano il dolore della fame, un
                cibo frugale o un pasto sontuoso danno un piacere uguale.
                                               Epicuro, Lettera a Meneceo


                Cosa può mancare all'uomo estraneo al desiderio di ogni
                cosa?
                                                   Seneca, La vita felice


                La saggezza suprema del nostro tempo consiste forse nel
                pensare da pessimisti, in quanto la natura delle cose è
                crudele e triste, e nell'agire da ottimisti, in quanto
                l'intervento umano è efficace per il miglioramento morale
                e sociale e nessuno sforzo di giustizia e di bontà è mai
                vano.
                                          Benolt Malon, La Morale sociale



Il fallimento dell'obiettivo della felicità per tutti promessa dalla società della crescita obbliga a interrogarsi sul contenuto della promessa stessa. Il sovraconsumo materiale lascia una parte sempre più consistente della popolazione nella penuria e non assicura neppure un vero benessere agli altri. La ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale»: questa è la rottura proposta dal progetto della decrescita. Una rottura che presuppone che si esca dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e di prodotti, come pure dalla frustrazione crescente che questa genera, e contemporaneamente che si compensi attraverso la convivialità l'egoismo derivante da un individualismo ridotto a una massificazione uniformizzante.

L'abbondanza consumistica pretendeva di realizzare la felicità attraverso il soddisfacimento dei desideri di tutti, ma questo soddisfacimento dipendeva a sua volta da redditi distribuiti in modo estremamente ineguale e sempre insufficienti a permettere all'immensa maggioranza di coprire le spese essenziali. Inoltre, il buon funzionamento del sistema si basa sull'insoddisfazione generalizzata. Come sanno bene i pubblicitari, le persone felici sono cattivi consumatori. Ribaltando completamente questa logica, la società della decrescita si propone di fare la felicità dell'umanità attraverso l'autolimitazione, per realizzare l'abbondanza frugale.


Né crescita né austerità

I nostri governi vedono la soluzione della crisi economica e finanziaria attuale della società dei consumi soltanto nell'austerità, e le opposizioni soltanto in un problematico rilancio dell'economia. La prima ci porta in un vicolo cieco abbinato a una grande miseria per una parte rilevante della popolazione, mentre il secondo sarebbe una calamità per il pianeta. Cosa ancora peggiore è un programma che combina il rilancio economico e l'austerità. È in sostanza quello che è stato proposto al vertice (G8/G20) di Toronto del giugno 2010. La cancelliera tedesca Angela Merkel sosteneva una politica energica di rigore e di austerità. Il presidente americano Barack Obama, per paura di soffocare la timida ripresa dell'economia mondiale e statunitense con una politica deflazionista, era invece partigiano di un rilancio ragionevole. L'accordo finale è stato raggiunto su una sintesi zoppa: ripresa controllata nel rigore e austerità temperata dal rilancio. La ministra francese dell'economia Christine Lagarde si è addirittura avventurata nel neologismo rilance, contrazione dei termini francesi rigueur («rigore») e relance («rilancio»)! L'impagabile consigliere ufficioso del presidente Sarkozy, Alain Minc, l'esperto autoproclamato che ha regolarmente sbagliato tutte le sue previsioni e i cui giudizi perentori molto spesso si sono rivelati privi di senso, alla domanda su cosa si doveva fare in questa situazione critica, ha sfornato l'ammirevole formula: bisogna «spingere contemporaneamente sul freno e sull'acceleratore».

In effetti, per i governi in carica lo slogan «sia rilancio sia austerità» significa il rilancio per il capitale e l'austerità per tutti gli altri. In nome del rilancio, peraltro largamente illusorio, degli investimenti e, totalmente falso, dell'occupazione, si riducono o si sopprimono gli oneri sociali, la tassa professionale e l'imposta sui profitti delle imprese. Si rinuncia a qualsiasi imposizione sui superprofitti bancari e finanziari, mentre lo scudo fiscale permette ai più ricchi di pagare sempre meno tasse. Contemporaneamente, l'austerità colpisce pesantemente gli operai e le classi medie e inferiori, che soffrono di un abbassamento dei redditi, della riduzione delle prestazioni sociali e dell'aumento dell'età pensionistica (il che significa concretamente un abbassamento delle pensioni e una privatizzazione galoppante del sistema). Per completare il quadro e preparare attivamente la mitica ripresa, in nome del «risanamento» dei deficit di bilancio vengono smantellati sistematicamente i servizi pubblici e si privatizza a tutto gas quello che ancora non è stato privatizzato. Si assiste addirittura a una strana e masochistica concorrenza nella corsa all'austerità. Ma non si tratta di quell'austerità virtuosa sostenuta da Illich e che noi preferiamo chiamare frugalità, bensì di un'austerità che priva non soltanto del superfluo ma anche di una parte sempre più grande del necessario. Il paese A annuncia una riduzione dei salari del 20% e subito il paese B annuncia che farà meglio, riducendoli del 30, mentre il paese C, per non essere da meno, si affretta ad aggiungere misure ancora più rigorose: il tutto per compiacere le agenzie di rating e i mercati finanziari internazionali con cui i paesi A, B e C hanno contratto prestiti. Incitate dalla onnipresente pubblicità a continuare a consumare sempre di più senza averne i mezzi e a indebitarsi senza prospettive di poter rimborsare i prestiti, le popolazioni, ipnotizzate e come colpite da un senso di colpa, reagiscono poco, incapaci di vedere una politica alternativa credibile. Come se si fosse condannati a espiare la pseudofesta consumistica continuando a parteciparvi cupamente.

Questa stupida politica di austerità può soltanto portare a un ciclo deflazionistico che farà esplodere una nuova crisi, che il rilancio — prevedibile soltanto nel settore speculativo — non potrà impedire. E questa volta gli stati esangui non potranno più salvare le banche a colpi di migliaia di miliardi di dollari.

Di fronte a questa minaccia molto reale, alcune anime belle, come l'economista americano Joseph Stiglitz , ripropongono le vecchie ricette keynesiane del rilancio dei consumi e degli investimenti per far ripartire la crescita. Ma questa terapia non è praticabile, perché il pianeta non può sopportarla e perché, dato l'esaurimento delle risorse naturali (intese in senso lato), già dagli anni settanta i costi della crescita (quando si realizza) sono superiori ai benefici. Gli aumenti di produttività prevedibili sono nulli o quasi. Per prolungare soltanto di qualche anno l'illusione della crescita bisognerebbe privatizzare e mercantilizzare le ultime riserve della vita sociale e far crescere il valore di una massa inalterata o in diminuzione di beni d'uso.

Questo programma socialdemocratico, una sorta di fondo di magazzino dei partiti di opposizione, non è credibile, in primo luogo perché questi partiti non sono in grado di mettere in discussione la camicia di forza del neoliberalismo che loro stessi hanno contribuito a costruire negli ultimi trent'anni, e poi perché la logica attuale del sistema presuppone una sottomissione senza tentennamenti ai dogmi monetaristi. La speculazione immobiliare degli anni novanta e duemila e l'aumento del prezzo del grano e dei prodotti alimentari, seguito a quello del petrolio del 2007, ci ha già offerto un assaggio di queste politiche di crescita. L'esempio della Grecia è eloquente per illustrare il fallimento della pseudoalternativa di sinistra: un popolo vota in massa per un partito socialista con un programma socialdemocratico classico; sotto la pressione dei mercati finanziari il governo socialista attua una politica di austerità neoliberale, obbedendo alle ingiunzioni congiunte della Commissione europea di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale (FMI). D'altra parte, è verosimile che il popolo greco non sarebbe pronto ad accettare le rotture necessarie per un'altra politica: uscita dall'euro, cancellazione almeno parziale del debito pubblico, probabile messa al bando dall'Europa ed embargo da parte dei paesi «spoliati», con conseguente fuga di capitali. Comunque sia, il rilancio della crescita, forse concepibile per un piccolo paese (Grecia, Ungheria, Irlanda) che scegliesse la via dell'autonomia, rimane problematico a livello globale. E tuttavia sono questi pseudorimedi di una ripresa più o meno credibile della crescita che vengono proposti per far fronte al disastro neoliberale.

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Pagina 17

La decrescita come può risolvere i problemi immediati dei nostri Stati?

Se il progetto di costruzione di una società di decrescita è credibile per il lungo termine, gli obiettori di crescita come contano di attrezzarsi per affrontare le sfide di fronte a cui ci troviamo a breve termine, per esempio ridurre il debito pubblico e la disoccupazione?

In una società di decrescita, il problema del debito pubblico probabilmente non si porrebbe. In primo luogo, normalmente il bilancio sarebbe in equilibrio e le entrate provenienti dalla fiscalità coprirebbero le spese. Ci sarebbe fondamentalmente una nuova logica fiscale. Lo Stato di una società autonoma liberata dal culto della crescita ricaverebbe le proprie risorse soprattutto da imposte dirette progressive, che costituiscono la forma di imposizione più giusta. Per i redditi superiori al massimo legale (la fissazione di un reddito massimo fa parte del programma della decrescita), la progressività potrebbe arrivare addirittura al 100%. Dovrebbe poi essere mantenuta o introdotta una fiscalità indiretta sui beni di lusso, che potrebbe colpire, secondo la sottile proposta di Paul Ariès, il cattivo uso delle risorse naturali, dei beni e dei servizi. Al posto di una tariffa degressiva, come viene praticata attualmente, per l'acqua, il gas, l'elettricità, il telefono ecc., potrebbe essere introdotto, al di là di una quantità gratuita o debolmente tassata corrispondente al consumo di base, un prezzo progressivamente sempre più elevato che colpisce il sovraconsumo. Una tassa significativa sul patrimonio (residenze secondarie, yacht, scuderie di cavalli da corsa ecc.) completerebbe il dispositivo per limitare le eccessive differenze di ricchezza. Se, per motivi contingenti, le spese dovessero superare le entrate, il ricorso all'emissione di moneta per finanziare il deficit di bilancio non sarebbe un tabù. Una leggera erosione monetaria («a gentle rise of price level»), come raccomandava Keynes, non comporterebbe inconvenienti, se non per i rentiers - di cui Keynes auspicava l'eutanasia.

Nella società di mercato, il ricorso al prestito sui mercati finanziari riscuote il favore dei banchieri e della maggioranza dei politici perché dovrebbe evitare l'orrore dell'inflazione; inoltre, offre alle banche l'occasione di investimenti succulenti; quanto ai politici, optano volentieri per questa «soluzione» che permette di rinviare nel tempo l'aumento della pressione fiscale sui contribuenti. Per queste stesse ragioni, da parte di uno Stato della decrescita, il prestito sui mercati finanziari dovrebbe essere evitato in tutta la misura del possibile. È evidente che un paese che, come la Francia, per decenni ha fatto sistematicamente ricorso al prestito per finanziare il proprio debito, ha un bisogno vitale di crescita - una crescita che è la garanzia di un regolare aumento delle entrate fiscali destinate al bilancio dello Stato e al rimborso del debito, ovverosia al rimborso con interesse dei prestiti pregressi. Oggi una parte sempre più consistente delle imposte e delle tasse non serve più a finanziare il funzionamento dello Stato, ma a ingrassare i detentori di titoli (banche, fondi pensione, fondi speculativi, compagnie di assicurazioni ecc.). La crescita a ogni costo, a detrimento della natura e del futuro: ecco l'ingrediente indispensabile per rendere meno insopportabile l'ingiustizia del sistema capitalistico. Quando «la crescita non c'è» in una società della crescita - più o meno la nostra situazione attuale - lo Stato si trova legato mani e piedi, alla mercé dei suoi creditori, che finiscono sempre per imporgli di attuare una politica di feroce austerità: in primo luogo austerità salariale, abbinata alla distruzione dei servizi pubblici e alla privatizzazione di quello che ancora resta da vendere dei gioielli di famiglia. Così facendo, lo Stato rischia di creare deflazione e di entrare nel ciclo infernale di una spirale depressiva. È proprio per scongiurare il pericolo di entrare in questo ingranaggio che bisogna iniziare a uscire dalla società della crescita e a costruire una società della decrescita.

Prima che questa prospettiva si realizzi pienamente, se gli obiettori di crescita fossero chiamati a gestire, per esempio, gli affari della Grecia, quale sarebbe la loro politica? La cancellazione pura e semplice del debito, ovverosia la bancarotta dello Stato, sarebbe una cura da cavallo che risolverebbe il problema sopprimendolo. Sarebbe la giusta ricompensa offerta all'ipocrisia della Goldman Sachs, che nella doppia veste di consulente e di controllore dei conti si è fatta pagare per truccare i conti dello Stato, mentre contemporaneamente speculava sulla fragilità della situazione greca. Ma questa soluzione radicale, che avrebbe incontrato il favore dei «decrescenti», è stata immediatamente scartata. I dirigenti - finanziari, politici ed europei - hanno preferito evitare il mancato pagamento e si sono dati l'obiettivo di «ristrutturare» il debito sovrano greco. Bisogna dire però che la risposta teorica al solo problema del debito degli Stati è ben più facile da trovare di quella che riguarda la soluzione del problema generale dell'inflazione mondiale dei crediti provocata dalla speculazione finanziaria. In effetti, secondo la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, nel febbraio del 2008 la creazione di prodotti derivati aveva raggiunto 600 000 miliardi di dollari, cioè da undici a quindici volte il PIL mondiale! Una volta raggiunto un simile livello, ci si può aspettare soltanto il crollo, e anche un «decrescente» non possiede il rimedio miracoloso per un atterraggio dolce... Il debito degli Stati, anche dei più indebitati, non supera il volume del prodotto interno lordo del paese. È esagerato, ma è ancora gestibile.

La cancellazione pura e semplice del debito pubblico danneggerebbe non soltanto le banche e gli speculatori, ma anche direttamente o indirettamente i piccoli risparmiatori che hanno dato fiducia al loro Stato. Una riconversione negoziata (che equivale a una bancarotta parziale), come quella attuata in Argentina dopo il crollo del peso nel 2001, è sicuramente preferibile. Si potrebbe anche prevedere il mantenimento del valore dei titoli dei piccoli portatori e un deprezzamento del 40-60% di quello degli altri. Per ripagare il debito restante sarebbe opportuno un aumento delle entrate fiscali grazie a un prelievo eccezionale sui profitti finanziari (il governo populista ungherese, sebbene di destra, non esita a ricorrere a una misura del genere), accompagnato dall'introduzione di una fiscalità progressiva con, in primo luogo, nel caso francese, l'abbandono dello scudo fiscale. Per il resto, dal punto di vista dei «decrescenti», sarebbe opportuno il ricorso all'iniezione di liquidità, e cioè a una inflazione controllata (diciamo di più o meno il 5% all'anno). Questa misura keynesiana, che significa il ricorso a una moneta che crea e stimola l'attività economica, senza entrare però nella logica della crescita illimitata, favorirebbe la soluzione dei problemi sollevati dall'abbandono della religione della crescita. In effetti, il primo obiettivo della transizione dovrebbe essere il perseguimento della piena occupazione per rimediare alla miseria di una parte della popolazione. Questo potrebbe essere ottenuto attraverso una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie, come la pubblicità, o nocive, come il nucleare o l'industria degli armamenti, e una riduzione programmata e significativa dell'orario di lavoro. Ovviamente questo bel programma è più facile da enunciare che da realizzare. Nel caso della Grecia (o dell'Irlanda) presuppone quanto meno l'uscita dall'euro e il ritorno alla vecchia moneta nazionale, con quello che ciò comporta: controllo dei cambi e ristabilimento delle dogane. Il necessario protezionismo selettivo di questa strategia farebbe orrore agli esperti di Bruxelles e dell'Organizzazione mondiale del commercio. Ci si dovrebbero dunque aspettare delle misure di ritorsione e dei tentativi di destabilizzazione esterni, uniti al sabotaggio da parte degli interessi interni colpiti. Questo programma, peraltro ancora molto lontano dalla necessaria «uscita dall'economia» che la decrescita persegue, oggi appare dunque quanto mai utopistico, ma quando toccheremo il fondo del marasma e della vera crisi che è in agguato, apparirà desiderabile e realistico.

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Pagina 21

Il progetto di uscita dalla società dei consumi per costruire una società di «abbondanza frugale» non può non creare malintesi, suscitare obiezioni e scontrarsi con resistenze, quali che siano i corsi e i percorsi della decrescita. In primo luogo, si dirà, l'espressione stessa «abbondanza frugale» non è un ossimoro peggiore di quello «sviluppo durevole» che non smettete di denunciare?

Si può, al limite, concepire e accettare una «prosperità senza crescita», ma un'abbondanza nella frugalità è veramente troppo! Effettivamente, finché si rimane prigionieri dell'immaginario della crescita, una cosa del genere non può che sembrare una insopportabile provocazione. Invece, se si riesce a sottrarsi anche un poco alla propaganda produttivista e consumistica, diventa evidente che la frugalità è una condizione di qualsiasi forma di abbondanza. Come qualsiasi società umana, una società della decrescita dovrà necessariamente organizzare la produzione indispensabile alla propria sussistenza e al proprio modo di vita, e cioè utilizzare ragionevolmente le risorse del proprio ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e dei servizi. Ma lo farà un poco come le «società dell'abbondanza» dell'età della pietra descritte dall'antropologo Marshall Sahlins, che non sono mai entrate nell'economico e hanno ignorato la camicia di forza della rarità, dei bisogni, del calcolo economico e dell' homo oeconomicus. Devono essere messi in discussione i fondamenti immaginari dell'istituzione dell'economia. Jean Baudrillard lo aveva già capito a suo tempo: «Una delle contraddizioni della crescita — scrive — è che produce sì nello stesso tempo dei beni e dei bisogni, tuttavia essa non li produce allo stesso ritmo». Ne deriva quella che Baudrillard definisce una «depauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzata, che «definisce la società della crescita come l'opposto di una società di abbondanza».

In effetti, la vera povertà consiste nella perdita dell'autonomia e nella tossicodipendenza da consumismo. Un proverbio amerindio dice: «Essere dipendenti vuol dire essere poveri, essere indipendenti vuol dire accettare di non arricchirsi». Noi dunque siamo poveri, o più esattamente miserabili, prigionieri come siamo di così tante protesi. La frugalità ritrovata permette per l'appunto di ricostruire una società di abbondanza sulla base di quella che Illich chiamava la «sussistenza moderna». Ovverosia il «modo di vita predominante in un'economia postindustriale in cui la gente sia riuscita a ridurre la propria dipendenza dal mercato, e ci sia arrivata proteggendo, con mezzi politici, un'infrastruttura dove le tecniche e gli strumenti servano in primo luogo a creare valori d'uso non quantificati né quantificabili dai fabbricanti professionali dei bisogni».

La crescita del benessere è dunque la via maestra della decrescita, perché se si è felici si è meno soggetti alla propaganda televisiva e alla dipendenza dagli acquisti compulsivi. In sostanza si tratta di uscire dall'immaginario dello sviluppo e della crescita, e di ricondurre l'economia nel sociale e nel politico, superandola — o abolendola —, come prometteva il marxismo, che però non ha saputo raggiungere il suo scopo. Nel 1923, il pensatore marxista più lucido della sua epoca, György Lukàcs , scriveva a proposito della futura «economia socialista»: «Questa "economia" tuttavia non ha più la funzione che aveva in passato ogni economia: deve essere la servitrice della società coscientemente diretta; deve perdere la sua immanenza, la sua autonomia che ne faceva per l'appunto una economia; deve essere soppressa in quanto economia». È esattamente a questa concezione del socialismo che intende riallacciarsi la decrescita. L'abbondanza frugale è un orizzonte di senso per una fuoriuscita dalla società dei consumi, ma anche un obiettivo politico a breve termine da opporre alle pseudoterapie neoliberali o keynesiane nella situazione attuale di depressione repressiva. Un simile progetto iconoclasta non può non scontrarsi con incomprensioni e obiezioni.

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Pagina 23

La decrescita: malintesi e controversie

Ho scelto di organizzare la trattazione che segue in due capitoli, «malintesi» e «controversie», in modo da dare un certo ordine al testo. Alcune argomentazioni puntano a chiarire dei malintesi per evitare possibili confusioni. Altre, frutto di polemiche insorte, vogliono dimostrare punti contestabili o confutare giudizi erronei. È evidente che l'inserimento dei diversi temi in un capitolo o nell'altro ha qualcosa di arbitrario. Tentando di chiarire alcuni malintesi, confutiamo al tempo stesso le affermazioni dei nostri oppositori; e rispondendo alle obiezioni siamo necessariamente portati a chiarire alcuni punti che si prestano a confusione.

I diciotto temi affrontati non pretendono comunque di dare risposta a tutte le domande che ci si possono porre sulla decrescita, tanto più che alcuni argomenti suscitano un dibattito all'interno dello stesso movimento degli obiettori di crescita, come per esempio «È necessario un partito della decrescita?» o «La decrescita è umanesimo?». Questi ultimi temi, già trattati nel Petit traité de la décroissance sereine, non vengono ripresi, proprio perché si tratta di controversie interne e perché non abbiamo nulla da aggiungere a quanto già detto. Quanto alla domanda ricorrente nelle discussioni pubbliche riguardo al rapporto tra decrescita e sviluppo durevole, non abbiamo ritenuto opportuno ritornare sulla questione. Poiché la necessità di denunciare l'impostura dello sviluppo durevole è storicamente all'origine del movimento della decrescita, tutte le nostre precedenti pubblicazioni hanno abbondantemente trattato l'argomento.

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Siamo dunque in presenza di quattro fattori: 1) una riduzione della produttività teorica globale, così come calcolata dagli economisti, incontestabile in quanto conseguenza dell'abbandono del modello termoindustriale, del rifiuto delle tecniche inquinanti e dell'uso sconsiderato delle energie fossili e del rigetto delle attrezzature energivore; 2) la rilocalizzazione delle attività e la fine dello sfruttamento del Sud; 3) la creazione di posti di lavoro a contenuto ecologico in tutti i settori di attività; 4) un cambiamento di modo di vita e la soppressione dei bisogni inutili («dimagrimenti» consistenti nella pubblicità, il turismo, i trasporti, l'industria automobilistica, l'agrobusiness, le biotecnologie ecc.). I primi tre sviluppi vanno nel senso di un aumento della quantità di lavoro, l'ultimo in senso opposto. Ma, comunque sia, una società della decrescita dovrebbe offrire posti di lavoro salariati e non salariati produttivi per tutti, piuttosto che trasformare, più o meno artificialmente, attività non mercantili in lavoro salariato e moltiplicare i lavori parassitari o servili, come fanno i responsabili dei paesi del Nord, per fronteggiare la crisi del modello produttivista e tenere in vita il fantasma della crescita.

Va organizzata una transizione non traumatica, più o meno lunga, verso una società in cui il lavoro sarà abolito in quanto significazione immaginaria centrale. Per rendere più sereno il passaggio dal vecchio ordine al nuovo e dare alle persone il tempo di adattarsi, si potrebbero tradurre gli aumenti di produttività, fin quando questa nozione continuerà ad avere un senso, in riduzione del tempo di lavoro e in creazione di occupazione, senza incidere sui livelli salariali (e comunque non sui più bassi) né sul livello di produzione finale, salvo cambiarne il contenuto. Complessivamente, gli aumenti di produttività non dovrebbero tradursi in una crescita del prodotto finale. Negli anni ottanta, André Gorz aveva costruito degli scenari di questo tipo, in parte ripresi nel programma della socialdemocrazia tedesca, ma il progetto è finito nel nulla a causa della caduta del muro di Berlino e dell'assenza di una reale volontà di rottura da parte della maggioranza dell'SPD. Bisogna avere ben chiaro che se è vero che il passaggio può avvenire senza traumi, è necessario però essere intransigenti sugli obiettivi. Cambiando la vita, si risolverà il problema della disoccupazione, mentre concentrandosi sul problema della disoccupazione in quanto tale, senza riflettere sulla sua natura, si rischia di non cambiare mai la società e di correre verso il disastro finale.

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Uscire dallo sviluppo, dall'economia e dalla crescita non significa dunque rinunciare a tutte le istituzioni sociali di cui l'economia si è appropriata, ma reinquadrarle in una logica differente. Non si tratta di abolire tutte le istituzioni colonizzate dall'economico, ma di restituirle alla socialità. Gli scambi di prodotti e di servizi (compreso il lavoro) non sarebbero più dei puri scambi tra cose, oggetto di calcolo monetario, ma ridiventerebbero scambi tra uomini (con le incertezze che ciò comporta...). Insistiamo: l'uscita dall'economia significa esattamente una Aufhebung nel senso hegeliano di abolizione/superamento. Ma questa uscita implica la rinuncia all'idea di una scienza economica come disciplina indipendente e formalizzata.

La decrescita può dunque essere considerata un «ecosocialismo», soprattutto se per socialismo bisogna intendere, con André Gorz, «la risposta positiva alla disintegrazione dei legami sociali sotto l'effetto dei rapporti mercantili e di concorrenza, caratteristici del capitalismo».

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1. La decrescita è innanzitutto una critica radicale del liberalismo, inteso come l'insieme dei valori che sono alla base della società dei consumi. Nel progetto politico dell'utopia concreta della decrescita in otto «R» (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare), in particolare due «R», rivalutare e ridistribuire, attualizzano questa critica. Rivalutare significa rivedere i valori in cui crediamo, in base ai quali organizziamo la nostra vita, e cambiare quelli che portano al disastro. L'altruismo dovrà avere la meglio sull'egoismo, la cooperazione sulla concorrenza sfrenata, l'importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, l'autonomia sull'eteronomia, il ragionevole sul razionale, il relazionale sul materiale ecc. Soprattutto, si tratta di mettere in discussione il prometeismo della modernità così come espresso da Cartesio (l'uomo «come padrone e possessore della natura») o da Bacone («asservire la natura»). Si tratta in sostanza di un cambiamento di paradigma.

Ridistribuire vuol dire mettere mano alla ripartizione delle ricchezze e dell'accesso al patrimonio naturale tanto tra Nord e Sud quanto all'interno di ciascuna società. La giusta ripartizione delle ricchezze è la soluzione naturale del problema sociale. Proprio perché la ripartizione è il valore etico fondante della sinistra, il modo di produzione capitalistico, basato sulla disuguaglianza di accesso ai mezzi di produzione e generatore di sempre maggiori disuguaglianze di ricchezza, deve essere abolito.

2. La decrescita riprende l'ispirazione originaria del socialismo, espressa da pensatori indipendenti come Élisée Reclus o Paul Lafargue. E si ricollega, attraverso questi iniziatori, al pensiero di Jacques Ellul e di Ivan Illich , facendo proprie le critiche dei precursori del socialismo contro l'industrializzazione. Una rilettura dell'artista e rivoluzionario britannico William Morris e di altri pensatori tra anarchia e socialismo, come pure una rivalutazione del luddismo, fanno vedere da dove proviene l'ecologia politica sviluppata da André Gorz o Bernard Charbonneau. L'elogio della qualità dei prodotti, il rifiuto del brutto, una visione poetica ed estetica della vita sono essenziali per ridare un senso al progetto comunista.

3. In quanto critica radicale della società dei consumi e dello sviluppo, la decrescita è, come si è visto, una critica ipso facto del capitalismo. Paradossalmente, si potrebbe addirittura presentare la decrescita come un progetto autenticamente marxista: il progetto che il marxismo (e forse Marx stesso) ha tradito. La crescita in effetti non è altro che il nome «volgare» di quello che Marx ha analizzato come crescita illimitata del capitale, fonte di tutti i vicoli ciechi e di tutte le ingiustizie del capitalismo. Tutto, o quasi, si trova nella famosa formula spesso citata e commentata (ma di fatto rinnegata) dai guardiani del tempio: «Accumulate, accumulate! Questa è la legge e questo dicono i profeti!». L'essenza del capitalismo sta nell'accumulazione del capitale, resa possibile dall'estorsione di un plusvalore ai lavoratori. Ottenere un profitto sufficiente è una condizione dell'accumulazione, che ha come unico scopo la realizzazione di un profitto ancora più grande. I singoli capitalisti, sottolineava Marx, non possono sfuggire a questa logica: quelli che non le obbediscono vengono eliminati dalla concorrenza (tra i capitali).

In sostanza, dire che la crescita o l'accumulazione del capitale è l'essenza stessa del capitalismo, la sua finalità, è altrettanto corretto che dire che il capitalismo si fonda sulla ricerca del profitto. Nel caso specifico il fine e i mezzi sono intercambiabili. Il profitto è il fine dell'accumulazione del capitale e l'accumulazione del capitale è il fine del profitto. Parlare dunque di una buona crescita o di una buona accumulazione del capitale, di un buono sviluppo — per esempio di una mitica «crescita al servizio di un migliore soddisfacimento dei bisogni sociali» - equivale a dire che può esistere un buon capitalismo (che si presenta come verde o sostenibile/durevole), con tanto di buono sfruttamento. Per uscire dalla crisi che è al tempo stesso, e inestricabilmente, ecologica e sociale, bisogna uscire da questa logica di accumulazione senza fine del capitale e di subordinazione di tutte le decisioni alla legge del profitto. È per questo che la sinistra, se non vuole rinnegare se stessa, dovrebbe accogliere senza riserve le tesi della decrescita.

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Dietro le disquisizioni sul termine, di cui alcuni si servono per lanciare l'anatema contro la decrescita, si nasconde, sia a destra sia a sinistra, la resistenza, nel senso psicoanalitico del termine, al progetto della decrescita. «Decrescita» non sarebbe una parola d'ordine pregnante, e per di più sarebbe ambigua (come se non fossero ambigui i termini «pigliatutto» come progresso, crescita, sviluppo, e soprattutto sviluppo durevole...). Inoltre, il termine è negativo, cosa imperdonabile in una società in cui bisogna a tutti i costi «pensare positivo» (come se quelli che vogliono cambiare la società dovessero sottomettersi alla dittatura della sua ideologia perversa). In poche parole, la decrescita non sarebbe sexy. In questo c'è del vero. Sarei addirittura tentato di dire che decrescita è sicuramente il termine peggiore per descrivere il progetto di democrazia ecologica e di società di abbondanza frugale, ma dopo tutti gli altri. In quanto slogan, il termine «decrescita» è tuttavia una trovata retorica piuttosto felice, in quanto il suo significato non è interamente negativo, in particolare in francese. Il riflusso di un torrente straripato in fin dei conti è una buona cosa. E siccome il fiume dell'economia è uscito dagli argini, è quanto mai auspicabile che vi rientri.

«Una delle resistenze alla decrescita - aggiunge la politologa Marie-Dominique Perrot - deriva dal fatto che il termine destinato a essere uno strumento di decolonizzazione dell'immaginario in realtà è colonizzato dall'immaginario della crescita, di cui non può sbarazzarsi in quanto assume dentro di sé (quasi inconsapevolmente) la magia del termine "crescita" pur volendosene sbarazzare apertamente e radicalmente grazie al prefisso "de-". La decrescita è colpita e infettata dal significante "crescita", che la divora dall'interno». Molto saggiamente, la Perrot propone dunque un rimedio: «Bisogna sostituire alla magia della crescita una poetica della decrescita... La decrescita propone di abbandonare l'universo magico del "fiat" senza fine. Con, per corollario, l'ingresso in un'era di poetica, una poetica che non vuole essere né sentimentale, né estetica, né moralizzante, ma soltanto immaginativa e creativa».

La decrescita è dunque uno slogan al livello delle parole e un ritorno dentro gli argini al livello delle cose. Inoltre, per decrescere bisogna «de-credere», e costruire la poetica di cui parla Perrot.

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La risposta all'obiezione della povertà al Nord impone di ritornare sulla collusione tra sinistra e società della crescita e di denunciare ancora una volta la trappola del consumismo.

1. È più che certo che senza economia della crescita, senza società dei consumi, non ci sarebbe socialdemocrazia. Il movimento socialista (partiti comunisti compresi) sarebbe stato condannato a fare la rivoluzione per strappare il proletariato alla miseria. Storicamente, la crescita è quello che ha permesso ai paesi occidentali di risparmiarsi la rivoluzione, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, senza affrontare seriamente il problema di fondo della distribuzione della ricchezza. Oggi però la crisi ecologica costringe a porsi di nuovo la questione della divisione di una torta che non può più, e non deve più, ingrandirsi. E costringe anche a interrogarsi sul contenuto della torta. In effetti, la crescita si nutre delle contraddizioni del sistema. L'inquinamento, gli ingorghi, il tabagismo, l'alcolismo favoriscono la crescita.

2. In ogni caso, la crescita del PIL degli ultimi trent'anni, i «Trenta Pietosi» come dicono gli economisti della regolazione, non ha creato occupazione né ha dato più benessere. Herman Daly ha dimostrato con il Genuine Progress Indicator (indice del progresso autentico) che al di là di una certa soglia, che coincide grosso modo con gli anni settanta, i costi della crescita (spese di riparazione e di compensazione) sono stati in media superiori ai suoi benefici. Questo rafforza l'intuizione di Ivan Illich secondo la quale «il tasso di crescita della frustrazione supera di gran lunga quello della produzione». Siamo dunque di fronte al sofisma della formula giornalistica provocatoria utilizzata per la maggior parte dei paesi in crescita in questo o quel momento tra gli anni ottanta e novanta: «L'economia va bene, ma i cittadini stanno male». Questo è particolarmente d'attualità con la globalizzazione, dato che il famoso effetto di percolazione, o trickle-down, dello sviluppo si è trasformato in trickle-up, cioè in un aumento delle disuguaglianze. La crescita delle disuguaglianze al Nord si è notevolmente accelerata, come anche la «pauperizzazione psicologica» provocata dall'aumento dei bisogni (reali o artificiali) non soddisfatti.

3. Se si rimane prigionieri dei parametri del sistema e si considera che la società della crescita è un dato intangibile, si è bloccati tra due tragedie: quella di una società della crescita senza crescita, con il suo corteo di disoccupazione e di malessere, e quella della distruzione del pianeta provocata da questa stessa logica. È esattamente quello che fanno i nostri critici: vogliono applicare vecchie ricette basate su compromessi che non funzionano più e di cui non si possono più ignorare i danni collaterali in termini ecologici. Le vostre proposte di sobrietà ecologica, dicono, non rischiano di aumentare ancora di più le disuguaglianze e, distruggendo posti di lavoro, di far aumentare la disoccupazione?

È vero esattamente il contrario. Perseverare nel mito della crescita, che oggi vuol dire nel mantenimento di una società della crescita senza crescita, significa condannarsi all'austerità imposta, e cioè alla combinazione più iniqua immaginabile, di spreco e penuria. Costretti a ridurre la nostra impronta ecologica, dobbiamo prendere la strada della guerra per la sopravvivenza dell'umanità. E la logica di guerra è una logica di razionamento. Se non ci sarà più acqua si dovrà razionare, e questo vorrà dire una politica di ridistribuzione. Oggi ci troviamo in una situazione di disuguaglianza eclatante. Meno del 20% della popolazione mondiale consuma l'86% delle risorse del pianeta. Noi siamo convinti che un'altra società è possibile, necessaria e auspicabile: è questa la sfida della decrescita. Un'altra società è necessaria anche (e forse soprattutto) per eliminare la povertà materiale e psicologica del Nord. Per questo bisogna uscire dalla tirannia della crescita, avviare una nuova ripartizione delle risorse, abbandonare il credo dello sviluppo che ci rende tossicodipendenti. Ripartire equamente le ricchezze materiali limitate non vuol dire l'austerità così come la intendono i governi, ma una frugalità che, se saremo capaci di uscire dalla logica consumista e di definire i nostri «veri» bisogni, non esclude l'abbondanza. Soprattutto, si tratta di concepire forme di ricchezza diverse da quella materiale.

Dobbiamo rivedere i valori nei quali crediamo. La povertà materiale e una certa sobrietà sono state per secoli valori positivi. È stata l' economicizzazione del mondo a creare la miseria che oggi conosciamo in numerose regioni del pianeta. Una miseria che non ha niente a che vedere con la povertà conviviale che conoscevano le società vernacolari, come mostra Majid Rahnema nel suo libro Quand la misère chasse la pauvreté. La nostra vita può diventare tanto più ricca quanto più sappiamo limitare i nostri bisogni. Sarà compito delle società della decrescita inventare nuove forme di lusso per soddisfare i bisogni di ostentazione, di esibizione o semplicemente di festa, che non si vogliono assolutamente negare ma che possono essere soddisfatti senza distruggere il pianeta né condannare una parte dell'umanità alla miseria e alla schiavitù.

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