Copertina
Autore Serge Latouche
Titolo Giustizia senza limiti
SottotitoloLa sfida dell'etica in una economia mondializzata
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2003, Saggi Storia filosofia e scienze sociali , pag. 282, dim. 147x220x16 mm , Isbn 978-88-339-1452-7
OriginaleJustice sans limites. Le défi de l'éthique dans une économie mondialisée []
EdizioneArthème Fayard, Paris, 2003
TraduttoreAlfredo Salsano
LettoreCorrado Leonardo, 2003
Classe politica , economia , globalizzazione , diritto , storia criminale
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Indice

  7 Prefazione

    Giustizia senza limiti


 11 Introduzione - Il denaro non ha odore


    Parte prima - Il paradosso etico dell'economia


 25 1. L'impossibile neutralità dell'economia

    1. L'onnipresenza dell'etica, 27
    2. Oikonomika e crematistica, 32
    3. Bernard de Mandeville, o la svolta della filosofia
       morale occidentale, 36
    4. Il rovesciamento dei valori: dottor Adam e Mister
       Smith, 42
    5. L'insostenibile contraddizione della neutralità etica
       della scienza economica: il tentativo di uscire
       dall'aporia, 50

 57 2. L'ossimoro dell'economia morale

    1. Dal patronato all'impresa citoyenne: l'inferno delle
       buone intenzioni,58
    2. Disagio nell'associazione, o le ambivalenze
       dell'economia plurale e solidale, 74

 88 3. La pretesa morale dello sviluppo

    1. La crescita come valore, 90
    2. L'economia giustificata dallo sviluppo, 94
    3. L'insolubile paradosso dell'ecumenismo dello
       sviluppo, 97

    Parte seconda - L'ingiustizia del mondo


107 4. La banalità economica del male

    1. L'immaginario economico e la strumentalizzazione
       generalizzata, 109
    2. Ragione economica di Stato e ragione di Stato
       economica, 120
    3. L'immoralità economica, 128

141 5. La giustizia economica del libero scambio: una farsa

    1. I sofismi degli ideologi liberali: la giustizia
       illusoria, 142
    2. Piccola storia di una grande ingiustizia, o
       l'imperialismo occidentale dalle guerre dell'oppio
       all'OMC, 149

    Parte terza - Porre rimedio all'ingiustizia economica


181 6. L'utopia dello scambio eguale

    1. Scambio eguale, giusto prezzo e commercio equo, 183
    2. La relatività della giustizia dei prezzi e dei salari
       nel contesto mondiale, 193
    3. Consumatori di tutti i paesi, unitevi! 197
    4. Fare società con i diversi partners del gioco
       economico mondiale, 207

211 7. Uscire dall'economia e riappropriarsi del denaro e

       del mercato
    1. Riappropriarsi del denaro, 214
    2. Riappropriarsi del mercato, 228

244 Conclusione

    Ricostruire un mondo comune: l'esigenza morale e il
    paradosso etico contemporaneo

    Appendice

253 1. I falsi problemi di vocabolario: etica, deontologia,
       morale (e assiologia) da una parte; etica, equità e
       giustizia dall'altra

258 2. Il diabolico dottore di paradossi

261 3. Il campo semantico dell'economia

265 Bibliografia

 

 

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Pagina 11

Introduzione

Il denaro non ha odore


Poiché suo figlio Tito gli rimproverava di aver avuto l'idea di tassare persino le urine, gli mise sotto il naso la prima somma che gli fruttò tale imposta, chiedendogli se fosse disturbato dall'odore, e alla risposta negativa di Tito, disse: «Eppure è il prodotto dell'urina».

Svetonio



È nota la famosa replica dell'imperatore Vespasiano al figlio Tito che gli rimproverava di fissare una imposta su quel prodotto impuro e nauseabondo che è l'urina umana, utilizzata a Roma dai conciatori: «Pecunia non olet», il denaro non puzza. È vero che i miasmi di ammoniaca non si ritrovano più nelle monete sonanti e nei bei denari raccolti dal fisco, così come il sangue degli schiavi non macchiava gli scudi lucenti accumulati dai negrieri di Bordeaux o di Nantes, né il sudore delle operaie alla catena di montaggio delle fabbriche delocalizzate nel Sud-Est asiatico non gronda dalle banconote accumulate nei conti degli amministratori delegati di Nike o di Adidas. In questo consiste del resto la meravigliosa alchimia dell'«equivalente generale»: la sofferenza e l'ingiustizia non traspaiono dal luccichio dell'oro delle Americhe e ancor meno dalla moneta elettronica.

Eppure, come per le mani di Lady Macbeth, tutti i profumi dell'Arabia riusciranno mai a far sparire l'odore di sangue che emana dal cash?

[...]

Nonostante gli sforzi meritevoli e talvolta disperati degli economisti per affermare la neutralità etica della moneta in virtù della sua pura funzionalità, i comuni mortali non si sono fatti ingannare. Per chi ha drammaticamente bisogno di denaro, la moneta è forse «un velo», ma un velo della violenza di cui è fatto oggetto nello scambio mercantile.

Non foss'altro che un «velo» delle relazioni reali, come affermano gli economisti ortodossi al seguito di Jean-Baptiste Say (cosa di cui Keynes, grande lettore di Freud, ha fatto giustizia) la moneta sarebbe nondimeno un testimone a carico dell'ingiustizia del nostro mondo. Essendo la misura (e la dismisura) dello scambio sociale, essa è al cuore del problema della giustizia. In essa si cristallizza tutta la violenza esercitata dagli uni per spogliare gli altri delle loro opere e privarli della loro parte del mondo. La moneta e il denaro condensano quindi la grande sfida della giustizia in economia nel mondo attuale. Certo, questa sfida non è nuova, attraversa tutta la modernità, ma la globalizzazione dei mercati, cioè la mercatizzazione generalizzata del mondo la spinge al parossismo. Il trionfo planetario del mercato totale liquida, in effetti, ogni sopravvivenza delle morali ereditate, delle preoccupazioni etiche degli attori sociali e delle deontologie professionali che facevano da contrappeso al regno assoluto della finanza. L'attuale successo dell'etica sembra strettamente proporzionale al disprezzo in cui sono in concreto tenute le sue regole.

[...]

Il positivismo, l'economicismo, il marxismo che presiederanno alla nascita delle scienze sociali e satureranno in buona misura l'ideologia dominante dei tempi moderni faranno il possibile per escludere e delegittimare l'etica. I fatti che si pensa parlino da soli, la storia il cui senso si impone a tutti e gli interessi bene intesi che compongono un'armonia naturale creano una morale proprio mentre la rendono inutile. Il principe, diceva Machiavelli, non chiama «giusto» ciò che è conforme all'insegnamento della morale tradizionale (cioè della Chiesa) ma ciò che ha successo. Nella sua epoca, del resto, abbondano uomini di Stato che moltiplicano impunemente i crimini e i tradimenti più vergognosi: i Visconti, i Medici, ma anche i re di Francia e di Spagna. Grandi scellerati a giudicare in base alla morale che si raccomanda ai privati, essi contribuiscono alla realizzazione di un grande disegno: costruire la società moderna. Da allora l'efficienza del reale è razionale e giusta. La ragion di Stato, politica o economica che sia, traduce lo stato della ragione e costituisce la Legge. Il fatto ha la meglio sul giusto, anzi se necessario lo istituisce. D'altra parte, le scienze sociali, per essere scienze, devono sbarazzarsi completamente dei valori. E gli economisti, dal canto loro, hanno ben appreso la lezione. Diventando la scienza del valore, l'economia liquida ogni preoccupazione etica. Poiché ogni valore ha un prezzo e solo ciò che è mercantile merita considerazione, non ci sono altri valori che quelli quotabili in Borsa. I campioni di questa scienza aggiungono anzi senza pudore - ci torneremo - un'apologetica dell'ordine naturale delle cose che nessun teologo avrebbe osato spingere tanto oltre.

Il marxismo, su questo punto, rientra nel paradigma così delineato. Come l'economia politica classica esso afferma che la società razionale realizza la morale e dunque non la rende più necessaria. Nella società comunista non c'è più posto per il male. Il regno del bene si realizza senza che gli uomini nuovi abbiano bisogno di imporsi regole severe; l'abbondanza permette a tutti di godere senza ostacolo. A differenza di quanto previsto dall'economia politica, questo risultato non si realizza sin d'ora grazie alla mano invisibile del mercato e della concorrenza. L'impostura dell'angelismo liberale è denunciata, poiché il gioco economico maschera la lotta delle classi e la guerra spietata di interessi antagonistici. Semplicemente, la storia si incaricherà di risolvere queste contraddizioni. La classe operaia e/o la sua organizzazione (il partito) faranno partorire la nuova società in gestazione nella vecchia. Compagna della religione, oppio del popolo, la morale stabilita è denunciata come una invenzione della classe dominante per mantenere i dominati nell'obbedienza e impedirne la rivolta. E ciò è in larga misura vero. Ancor oggi la morale serve in gran parte a giustificare l'ingiustizia e a trasformare le vittime in colpevoli. Come risulta dai discorsi dominanti, i disoccupati e i «sottosviluppati» sono considerati responsabili della loro sorte. La morale del rivoluzionario, dal canto suo, è un altro machiavellismo sacrificale tinto di economicismo. Non deve farsi alcuno scrupolo per far trionfare la causa del proletariato. Il fine (la società senza classi) giustifica i mezzi (sabotaggio, assassinio politico, provocazione, menzogna ecc.).

[...]

Ultimo paradosso, la filosofia accademica, ultimo rifugio della morale, fa una requisitoria senza appello contro l'economia ufficiale, ma nello stesso tempo non sottopone veramente alla riflessione tale condanna. La maggior parte dei filosofi «continentali», cioè non anglosassoni, ritengono che l'economia di mercato o capitalistica sia per eccellenza il luogo dell'ingiustizia. È talmente evidente per loro che si limitano ad accennarvi incidentalmente per passare subito ad altro, a cose dal loro punto di vista più importanti e fondamentali, come la questione dell'essere, e soprattutto meno rischiose (in ogni caso per la loro carriera o la loro reputazione...) Così è da Kant a Lévinas passando per Hegel e Heidegger. «I limiti della moralità e dell'amor proprio - nota Kant in Kritik der praktischen Vernunft (1788) - sono segnati con tanta chiarezza e precisione, che anche l'occhio più volgare non può mancare di distinguere se qualcosa appartenga all'una o all'altro». E prende come esempio di obbedienza all'amore proprio e di flagrante immoralità un uomo d'affari che assomiglia in tutto e per tutto a uno degli eroi del nostro tempo (capo di Stato o d'impresa), insomma un uomo «di attività instancabile che non lascia passare nessuna occasione senza trarne profitto» ma che non esiterebbe a impiegare «il denaro e la roba altrui [...] come i propri, appena sapesse di poterlo fare senz'essere scoperto e liberamente». Quest'uomo poco scrupoloso per quel che riguarda i mezzi può tuttavia non essere un egoista volgare e cercare soddisfazione non «nell'ammassare denaro o nella libidine brutale, ma nell'estendere le sue cognizioni, in una scelta conversazione istruttiva, e anche nel far del bene al bisognoso». Non è sicuro che questa «verità così evidente» per Kant dell'immoralità di quell'uomo lo sia anche agli occhi dei nostri contemporanei, nella misura in cui non ne siano direttamente vittime, poiché essi non esitano a rieleggere uomini politici notoriamente corrotti e a plebiscitare uomini d'affari disonesti.

Emmanuel Lévinas, filosofo dell'etica per eccellenza, non è da meno:

Ma se la totalità comincia nell'ingiustizia (che non ignora la libertà altrui ma, nella transazione economica, porta questa libertà al tradimento), l'ingiustizia non è ipso facto conosciuta come ingiustizia. [...] Questa libertà mi è presentata già quando acquisto o sfrutto. Perché io conosca la mia ingiustizia - perché io intraveda la possibilità della giustizia - ci vuole una situazione nuova: occorre che qualcuno mi chieda dei conti.

A parte il caso di Marx (ma non è possibile considerarlo come un filosofo di professione) questi filosofi si guardano bene dal dirci come uscire dalla flagrante ingiustizia economica, come tentare di sfuggire a questa schiacciante «banalizzazione del male». Quanto alla risposta marxista - l'abolizione del sistema capitalistico mediante la rivoluzione - è noto ormai che essa non è soddisfacente né in teoria né in pratica. Cacciata dalla porta, l'economia e la sua ingiustizia rientrano dalla finestra con un potere accresciuto. Non basta in effetti denunciare la lotta di classe e la proprietà privata dei mezzi di produzione. Se tutto ciò che struttura l'immaginario economico resta al suo posto - la credenza nel progresso, il dominio della natura, il culto della razionalità - l'accumulazione del capitale, lo sfruttamento, l'alienazione e dunque le ineguaglianze e l'ingiustizia si perpetuano in modo ancora più feroce per certi aspetti sotto forme apparentemente modificate. Lo attestano le varie esperienze di socialismo reale.

Quindi, l'etica e la morale lavorano una società mondializzata che a volte si presenta come del tutto priva di legge (se non quella del mercato...) Il trionfo dell'economia e della finanza, con il suo emblema falsamente innocente - il denaro - seppellisce l'inquietudine relativa ai valori solo per meglio tornare a ossessionare la nostra vita quotidiana. E questo tanto più in quanto la crisi ecologica pone per la prima volta e in modo drammatico per l'umanità il problema di una ripartizione equa delle quote di natura tra i viventi e tra la nostra generazione e quelle future. Questa crisi è forse l'occasione di rimettere al suo posto il problema della giustizia, cioè nel rapporto che intratteniamo con gli altri nello scambio sociale.

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Pagina 32

2. Oikonomika e crematistica


La questione etica dell'economia consiste semplicemente nel sapere se l'economia è una buona cosa. L'economia è la vita economica, la divisione del lavoro, lo scambio nazionale e internazionale, la speculazione in Borsa, il cambio delle divise, la concorrenza e la legge del mercato, la crescita e lo sfruttamento sfrenato delle ricchezze naturali e delle capacità umane o lo sviluppo illimitato delle forze produttive. Forse che tutto ciò fa parte del bene e contribuisce alla realizzazione della giustizia?

Esiste un'abbondante letteratura sulla questione della moralità dell'economia. Le riflessioni sull'argomento appaiono non appena emerge una classe particolare di mercanti, dunque a partire dall'autonomizzazione relativa della circolazione monetaria. La maledizione del denaro, precedentemente richiamata, concentra i dubbi sul valore morale dell'attività economica che accompagna il capitalismo dalla sua origine nelle città mercantili italiane o fiamminghe fino agli sviluppi attuali. Un esame, anche superficiale, dei testi sull'argomento mostra immediatamente che le condanne degli aspetti più finanziari della speculazione mercantile hanno di gran lunga la meglio sui giudizi positivi. Per capire questo giudizio di immoralità pronunciato contro l'economia, bisogna tornare all'antica «maledizione» pronunziata contro di lei da Aristotele. È noto che, per quanto embrionale fosse ai suoi tempi l'attività economica, lo Stagirita condanna sotto il nome di «crematistica» ciò che ne costituisce l'essenza per noi, cioè la ricerca del profitto grazie e attraverso i rapporti mercantili. Il rapporto di scambio naturale M-D-M (merce-denaro-merce): vendere il proprio surplus per comprare ciò di cui si ha bisogno, si trasforma corrompendosi in rapporto mercantile D-M-D' (denaro-merce-denaro): acquistare al minor prezzo possibile per rivendere il più caro possibile e guadagnare denaro grazie all'intermediazione commerciale. Questo capovolgimento gli sembra estremamente condannabile, non solo perché contrario alla natura ma più ancora perché contrario al sentimento civico. Fare denaro con del denaro, direttamente mediante l'usura o indirettamente attraverso lo scambio, non è soltanto contrario alla fecondità delle specie, è un obiettivo inconciliabile con il perseguimento del bene comune. Ineluttabilmente, commerciando in beni per guadagnare denaro, si è distolti dalla ricerca del bene pubblico che dev'essere la principale preoccupazione del cittadino. Soprattutto, si è indotti a ingannare il fornitore e il cliente sulla qualità o sul valore dei beni, a profittare, se ne presenta l'occasione, delle loro debolezze e dei loro bisogni, dunque ad agire contro la philia, quell'amicizia politica che deve regnare tra membri di una stessa città e che ne costituisce il cemento. Un mondo diviso tra chi guadagna (e vince) e chi perde non è compatibile con la cittadinanza così come la intendevano gli antichi, e meno ancora con l' isonomia (l'eguaglianza) e, naturalmente, la giustizia.

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Pagina 36

3. Bernard de Mandeville, o la svolta della filosofia morale occidentale


Per capire questa posizione stupefacente, questo privilegio di extramoralità dell'economia (e nello stesso tempo il paradosso della sua «beatificazione») bisogna risalire al momento in cui si sono create le condizioni dell'istituzione del sapere economico come scienza. Il primo atto di questa storia è costituito dalla svolta di Mandeville, il secondo dal capovolgimento smithiano, il terzo dall'ottimizzazione neoclassica. La crisi scoppia, si può dire, nel XVII secolo nell'ambito del mondo mercantile puritano con Bernard de Mandeville e la sua celeberrima The Fable of the Bees. La prosperità e la virtù sono per questo autore rigorosamente incompatibili: o l'alveare è prospero ma vizioso o è virtuoso ma povero.

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Pagina 42

4. Il rovesciamento dei valori: dottor Adam e Mister Smith


Come riuscire a separare il business dalla morale? Questa la sfida mossa all'economia politica nascente e attraverso di essa al capitalismo trionfante. Adam Smith vi si dedicherà con successo grazie a due artifici: primo, separare arbitrariamente una sfera «privata», luogo della vita morale, e una sfera economica (è l'oggetto di The Theory of Moral Sentiments del 1759); secondo, liberare la sfera economica del sospetto di immoralità dimostrando che il perseguimento dell'interesse personale genera normalmente il bene comune attraverso la mano invisibile (è l'oggetto di The Wealth of Nations del 1776).

[...]

Dunque The Wealth of Nations è stato considerato non a torto come il libro fondatore dell'economia politica, se non della scienza economica, e questo nonostante gli sforzi del suo stesso autore per ancorare la vita morale al di fuori degli interessi economici, nella simpatia. La tradizione economica anglosassone ha dimostrato un sicuro istinto richiamandosi a Mister Smith, l'economista, e dimenticando le elucubrazioni del moralista dottor Adam... In effetti, se l'analisi propriamente economica è incerta (teoria dei prezzi molto vaga, teoria del commercio internazionale sommaria, distinzione confusa tra lavoro produttivo e improduttivo ecc.), la metafisica propria della visione economicistica del mondo non è mai esposta con tanta sicurezza e come la si ritrova oggi presso i sostenitori dell'ultraliberalismo economico quali Milton Friedman o Friedrich Hayek da una parte e nelle filosofie che sottendono l'esaltazione della mondializzazione dei mercati (da Reagan e Thatcher in poi) e cioè: l'affermazione di un ordine spontaneo, la credenza nella mano invisibile - la invisible hand diventata la hidden hand dei manuali americani - e le sue conseguenze libertarian, libero scambio totale, concorrenza assoluta, flessibilità illimitata dei salari, Stato minimo.

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Pagina 85

Certo, sono evidenti i valori che bisognerebbe promuovere: l'altruismo dovrebbe prevalere sull'egoismo, la cooperazione sulla concorrenza sfrenata, il piacere del tempo libero sull'ossessione del lavoro, l'importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto della bella opera sulla efficienza produttivistica, il ragionevole sul razionale ecc. Il problema è che i valori attuali sono sistemici, cioè sono suscitati e stimolati dal sistema che, in cambio, contribuiscono a rafforzare. Certo, la scelta di una etica personale diversa può modificare la tendenza, e non va trascurata. Anzi dev'essere incoraggiata nella misura in cui contribuisce a minare le basi immaginarie del sistema; ma senza una rimessa in discussione radicale di quest'ultimo, i cambiamenti di comportamento rischiano di essere limitati.

La verità è che, con il trionfo della società di mercato e l'apoteosi della guerra economica, non c'è veramente dialogo né confronto pacifico possibile tra l'etica dei vincitori (se si può ancora parlare di etica in proposito...) e quella richiesta dall'economia a tre piedi. La reazione degli industriali dell'informatica di fronte alla messa a disposizione gratuita del programma Linux da parte dei suoi inventori è eloquente. Secondo Steve Ballmer, presidente di Microsoft, «Linux è un cancro» e per Bill Gates, ex presidente, «un ostacolo alla libertà di commercio». Anche la redistribuzione, non necessariamente altruistica e conforme agli interessi bene intesi a lungo termine delle ditte transnazionali, risulta svalutata, derisa e marginalizzata. I governi socialisti, difensori naturali dei servizi pubblici, partecipano allegramente al loro sezionamento e diventano i complici di un pensiero unico che disprezza i sistemi di pensione basati sulla ripartizione, conforme sia al buon senso sia alla giustizia, per sostituirli con fondi pensione all'americana. Allora non ci si deve stupire che il mondo associativo conosca delle tensioni, cosa ineluttabile in quanto esso è condannato a scegliere tra l'adattamento e la dissidenza. In altri termini o prendere il mondo così com'è e accettare la strumentalizzazione da parte dello Stato e del mercato, rinunciando ai propri valori e al proprio onore, oppure rifiutare per scelta o per necessità (penso agli esclusi) lo stato di cose attuale e inventare un altro mondo. Questa seconda via, più promettente, scelta in particolare da certe associazioni militanti che sperimentano la dissidenza, tenta di reintrodurre la giustizia e l'etica nello scambio.

Così, i tentativi vecchi e nuovi di moralizzare l'economia senza farne veramente il processo sono nel complesso falliti o sembrano destinati al fallimento, nonostante certi successi parziali o locali. Questi ultimi costituiscono degli esperimenti preziosi per concepire alternative alla società di mercato e alla sua ingiustizia. Il ricorso indispensabile alla solidarietà, altro nome dell'altruismo, resta largamente mistificatore finché non sia risolto il problema della giustizia. Le vittime dell'ordine mondiale non sanno che farsene della carità, hanno sete di giustizia.

Applicata all'economia, la morale è, al limite, più una facciata ipocrita che una realtà. Non è altro che l'omaggio del vizio alla virtù. In realtà, il mondo degli affari esalta la volontà di potenza, l'egoismo, il disprezzo per i deboli e i perdenti. Quando è spinto agli estremi, scivola volentieri verso il darwinismo sociale. Guai ai vinti! Proponendo la «lotta per la vita» e l' enrichissez-vous come finalità ultime, la mondializzazione attuale ha avuto almeno il merito di una cinica franchezza.

Nelle sue memorie Al Capone espone le regole di condotta che l'hanno portato al successo: agire come un buon businessman; comprare i giurati, i giudici, i giornalisti e anche i vescovi, i crimini e le coscienze a seconda dei bisogni della sua impresa e pagarli al loro prezzo. Di conseguenza, a una tariffa «giusta» secondo la legge economica. È esattamente l'etica degli affari!

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Pagina 105

Parte seconda
L'ingiustizia del mondo
[...]

«I fatti sono testardi» dice il proverbio. Normalmente tutta l'apologetica economica - il discorso classico sulla mano invisibile e l'armonia naturale degli interessi, il discorso neoclassico sull'equilibrio generale e l' optimum, il discorso paternalistico dell'economia morale o quello più sofisticato sullo sviluppo - non avrebbe dovuto reggere di fronte alla evidenza dell'ingiustizia del mondo, di cui i rapporti annuali del PNUD, per esempio, ci danno la misura. Le ineguaglianze aumentano in seno ai paesi ricchi così come aumentano tra i paesi ricchi e i paesi poveri. Tutte le analisi, dalle più fruste alle più raffinate tendenti a smontare questi discorsi, demitificarli e demistificarli dovrebbero essere inutili o gratuite; esse avrebbero interesse solo per la soddisfazione degli intellettuali; le masse convinte in anticipo dalla loro triste situazione della giustezza di queste analisi, non ne avrebbero alcun bisogno per sapere di quale processo sono vittime. Ferite dalle ingiustizie subite troverebbero da sole gli slogan per accompagnare la propria rivolta, come i canuts lionesi del 1831, quando calavano sulla città borghese al grido «Lavoro o piombo!» Eppure né i proletari dell'Occidente né i «dannati della terra» del Terzo mondo si sono rivoltati in massa e durevolmente contro l'ingiustizia dell'ordine economico mondiale. Contrariamente alle previsioni di Marx, di Lenin, di Mao Tsetung e nonostante le loro analisi, la rivoluzione mondiale non c'è stata. Se la colonizzazione, come impresa di dominazione mediante la forza bruta è fallita, la colonizzazione delle menti a Nord come a Sud è stata un successo straordinario. Il sistema economico è riuscito a realizzare una fantastica dominazione immaginaria grazie alla violenza simbolica. Con l'impero dei media, con la propaganda insidiosa del consumo stesso, la manipolazione della psiche è quasi totale. Le masse, affascinate dalla macchina di cui sono vittime, ne diventano addirittura i complici passivi, se non attivi. Pertanto il lavoro di decolonizzazione dell'immaginario passa non solo per la denuncia dei paradossi etici dell'economia ma anche per l'analisi della ingiustizia economica del mondo. Se questa ingiustizia, che è alla base dell'ordine/disordine mondiale, merita di essere messa in evidenza nel funzionamento stesso dei meccanismi economici, essa è illustrata clamorosamente della farsa tragica del libero scambio che costituisce il fondo dogmatico del pensiero unico e che è strettamente legato all'impostura etica dello sviluppo già denunciata.

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Pagina 128

3. L'immoralità economica


Se in tutti i tempi non si sono fatte frittate senza rompere le uova, nelle società premoderne le «macchine sociali» (esercito, Stato, Chiesa, corporazione ecc.) non invadono la totalità della vita. Era possibile identificare i responsabili di tali «macchine». Nessuno era inquisitore o boia a propria insaputa... Le guerre non erano pulite, ma il massacro, il saccheggio o lo stupro delle popolazioni civili non facevano normalmente parte degli obblighi professionali del soldato. Alcuni militari si rifiutavano di praticarli, anzi cercavano di impedirli o di punirli. Si invocava l'onore per difendersi da queste impurità. Al limite, gli uomini retti e onesti facevano come hanno fatto alcune rare eccezioni tra gli ufficiali francesi durante la guerra di Algeria: davano le dimissioni.

Con la megamacchina attuale non è più la stessa cosa. La strumentalizzazione è anonima e la carneficina funzionale. Ben prima di Hannah Arendt, Georges Bernanos aveva colto la specificità contemporanea del male nella sua banalizzazione.

Quel che mi fa precisamente disperare del futuro - scriveva nell'immediato dopoguerra - è che il massacro di varie migliaia di innocenti sia un compito che un gentleman può assolvere senza sporcarsi le mani e nemmeno l'immaginazione. Anche se nella sua vita avesse sventrato una sola donna incinta, e questa donna fosse una indiana, il compagno di Pizarro senza dubbio la vedeva a volte riapparire sgradevolmente nei suoi sogni. Il gentleman invece non ha visto, né sentito, né toccato alcunché, è la macchina che ha fatto tutto; la coscienza del gentleman è corretta, la sua memoria si è soltanto arricchita di qualche ricordo sportivo di cui farà omaggio alla «donna della sua vita» o a quella con la quale tradisce «la donna della sua vita».

Ci sono ancora ai nostri giorni padroni umani, politici onesti, funzionari corretti e anche mafiosi simpatici, solo che ciò non ha più grande influenza sul risultato. Ora, poiché la performance è diventata il solo criterio di giudizio, e poiché essa impone di mettere tra parentesi ogni problema di coscienza (tranne forse la coscienza professionale...) e consiglia ai fini della carriera di essere relativamente indifferenti alle sofferenze generate dal funzionamento delle abitudini (i «danni collaterali»), la cosa migliore è di non creare problemi. Ne consegue un'assuefazione al «male» i cui effetti sugli individui rischiano di essere tragici.

I nazisti allenavano le giovani SS a torturare degli animali, per abituarsi alla sofferenza (altrui) e alla vista del sangue, prima di passare alle esercitazioni pratiche dal vero. Le business schools (ma tutto il nostro sistema di formazione condivide sempre più lo stesso spirito) assolvono subdolamente la stessa funzione. Le tecniche di gestione come il downsizing (la riduzione del personale), il costkilling (la compressione dei costi) ecc. finiscono con il produrre drammi umani - famiglie senza risorse con conseguente malnutrizione dei bambini, disperazione dei genitori che può giungere fino al suicidio - ma risparmiandoci la vista del sangue e delle lacrime, almeno in diretta. Presentati come spettacolo alla televisione questi orrori, soprattutto se si verificano sotto i Tropici, possono dare un piacevole brivido, pur suscitando vocazioni e interventi «umanitari» che non sono necessariamente innocenti.

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Pagina 138

Le grandi società possono vantarsi e proclamare chiaramente e serenamente la loro convinzione che ethics pays, o anche che ethics is good business. L'etica e gli affari vanno decisamente di pari passo al punto che per derisione si è potuto parlare di una «cosm'etica»...

Nell'aprile 1998 la multinazionale Nike è messa sotto processo con l'accusa di aver tenuto segreti i risultati di un rapporto di una società di consulenza sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche che lavorano per lei in subappalto. «In certi reparti della fabbrica Tae Kwang Vina - si poteva leggere tra l'altro nel rapporto - i lavoratori erano esposti a sostanze cancerogene con un tasso di concentrazione 177 volte più alto di quelli ammessi dalle leggi e il 77 per cento degli addetti soffrivano di problemi respiratori». Bisogna inoltre tener presente che in Indonesia dove si trova la maggior parte dei subappaltatori di Nike, gli operai lavorano in media 270 ore al mese per un salario di circa 40 dollari, pari a 15 centesimi l'ora, il che permette di coprire appena il 30 per cento dei bisogni vitali di una famiglia di quattro persone. La cosa più scandalosa è che il costo del lavoro delle fabbriche di scarpe rappresenta solo lo 0,2 per cento del prezzo del prodotto finito, mentre nello stesso tempo la ditta paga un assegno annuale di 20 milioni di dollari (somma che permetterebbe di raddoppiare tutti i salari degli occupati indonesiani...) alla star Michael Jordan affinché presti la sua immagine negli spot pubblicitari.

L'ingegnere della AZF getta allegramente i rifiuti tossici nella Garonna entro i limiti molto elastici delle tolleranze legali, quando esistono, ed eventualmente al di là di tali limiti, a detrimento dell'ambiente. Il capo del personale licenzia coscienziosamente per ridurre i costi, il contabile ricicla non meno coscienziosamente il denaro delle varie mafie, l'esperto certifica solennemente bilanci manipolati per non spaventare i «mercati», mentre il direttore commerciale abbatte i prezzi dei fornitori come gli è stato insegnato nelle business schools con il rischio di portarli al fallimento, alla frode o addirittura all'utilizzazione di metodi criminali (schiavitù dei bambini ecc.). Quindi, tutti fanno, come Eichmann, il loro lavoro nel modo migliore. L'etica reale o simulata è la foglia di fico dell'ingiustizia del mondo.

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Pagina 149

2. Piccola storia di una grande ingiustizia, o l'imperialismo occidentale dalle guerre dell'oppio all'OMC

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Se ci sono ragioni di diffidare dell'OMC, non è soltanto, come si riconosce abbastanza diffusamente e a ragione, a causa della sua struttura non democratica e dell'opacità del suo funzionamento, è anche perché si tratta della maschera delle ditte transnazionali e, soprattutto, a causa della natura intrinsecamente perversa dello spirito che l'anima. Questo non è altro che il libero scambio e il liberalismo senza sfumature, e il risultato è la mercificazione totale del mondo, cioè la trasformazione di tutto in merce senza la minima preoccupazione di giustizia sociale o ecologica. L'Indonesia si è vista condannare da una commissione del GATT per aver protetto le sue foreste e aumentata la quantità di legname trasformato sul posto. La Danimarca si è vista condannare per aver voluto imporre il vuoto a rendere alle bevande importate. La Thailandia si è vista condannare per aver proibito delle pubblicità americane sul tabacco.

Per una ironia della storia, quel che Friedrich List, allora consigliere del presidente Andrew Jackson e teorico del protezionismo americano scriveva dell'Inghilterra nel 1825 va ripreso parola per parola oggi a proposito degli Stati Uniti.

È una comune regola di saggezza che, quando si è raggiunta la vetta della grandezza, è meglio buttar via la scala con la quale ci si è arrivati, perché così si tolgono agli altri i mezzi per seguirci. Questo è il segreto della dottrina cosmopolitica di Adam Smith e della tendenza cosmopolitica del suo grande contemporaneo William Pitt, nonché di tutti i suoi seguaci nell'amministrazione britannica. Una nazione che, tramite restrizioni alla navigazione e misure protettive, ha sviluppato la sua industria e la sua navigazione fino a un punto in cui nessun'altra può sostenere la sua libera concorrenza, non può fare cosa più saggia di quella di buttar via la scala della sua grandezza, di predicare cioè alle altre nazioni i vantaggi della libertà del commercio, accusandosi di aver seguito finora la strada errata e di essersene accorta solo ora.

Gli Stati Uniti che d'altra parte continuano a proteggersi in mille modi oggi non fanno altro all'OMC e in tutte le trattative commerciali - il defunto Accordo multilaterale di investimento, l'Accordo di libero scambio nordamericano, il trattato delle Americhe, l'Accordo Europa-America ecc. - che reclamare in tutti i modi il disarmo doganale delle altre economie e di imporlo con pressioni di ogni sorta. Le potenze di secondo rango fanno lo stesso nei confronti di chi è più debole. La vera legge del commercio internazionale è quella di disarmare gli altri e proteggere se stessi. Il libero scambio nasconde la guerra economica ricorrendo al dumping così necessario, e la concorrenza è un mito che solleva una cortina di fumo su pratiche essenzialmente monopolistiche.

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Lo smantellamento di tutte le «preferenze» nazionali non è altro che la distruzione delle identità culturali. Si può pensare che ciò non sia molto grave, quando si è ben nutriti, o addirittura che ciò costituisca una emancipazione dai vincoli comunitari. Il guaio, per i popoli del Sud, è che questa identità è spesso in tutti i sensi del termine, la loro sola ragione di vivere. Questo «capitale simbolico» è tutto quel che resta loro per farcela.

Il libero scambio culturale, come il libero scambio economico è una ingiustizia commessa ai danni del resto del mondo dalle potenze economiche dominanti. Come conseguenza delle logiche liberoscambiste, a parte i guasti ecologici segnalati, i modi di vita sono distrutti, i patrimoni sociali costituiti dall'accumulazione dei saperi ancestrali sono dilapidati. La dittatura del catechismo del pensiero unico e del suo clero è tale che sembra vergognoso, se non reazionario trarne le conseguenze e cercare una protezione ragionevole. Oggi, come all'epoca di List, «tutti gli impiegati statali, i redattori di giornali e periodici, e tutti quelli che si occupavano di materie politico-economiche, educati com'erano ai princìpi della scuola cosmopolitica, giudicavano ogni protezione doganale come un'assurdità teorica». Tradotto nel linguaggio contemporaneo, bisogna aggiungere tutti i membri del FMI, la maggior parte degli esperti della Banca mondiale, tutti i responsabili della OMC, il Tesoro americano al gran completo, tutti i presidenti delle banche centrali, l'immensa maggioranza dei ministri dell'Economia, delle Finanze, del Commercio e dell'Industria.

«Sì all'economia di mercato, no alla società di mercato». Questa sarebbe la formula miracolosa del socialismo liberale sostenuto dai leaders dell'Internazionale socialista. Walras non avrebbe rinnegato la formula, mentre per gli economisti liberali l'opposizione tra economia e società non ha senso. Se il mercato è buono, non ci sono ragioni di limitarne l'impero. Ma se, al contrario, si pretende seriamente di rifiutare la società di mercato, allora è urgente proteggere la società dagli effetti distruttivi del dominio assoluto del mercato. Il protezionismo, un protezionismo ragionevole, riconosciuto, discusso e legittimo, se non altruista e non vergognoso come quello che impongono le lobbies resta, oggi come al tempo di List, uno dei migliori mezzi per proteggere la società, cioè per limitare le ingiustizie generate dal funzionamento del mercato. Certo, il livello attuale delle protezioni, come non mancano mai di far notare i sostenitori del libero scambio, resta molto alto e senza dubbio eccessivo in numerosi casi, ma si tratta soprattutto del protezionismo dei ricchi, il che aggiunge l'ipocrisia a una ingiustizia accentuata.

Il protezionismo non è il solo strumento della necessaria regolazione del mercato, né uno strumento sufficiente per avanzare verso un mondo più giusto, ma senza dubbio è insostituibile. Esso permette di svincolare gli effetti positivi della concorrenza interna (l'economia di mercato) dagli effetti negativi esterni (l'imperialismo delle potenze egemoni e la predazione delle ditte transnazionali). Un protezionismo dichiarato e, se possibile, equo che non sarebbe rivolto contro i paesi sottosviluppati, certo, mirerebbe a fare uscire gli uni e gli altri dal gioco di massacro della mondializzazione. Poiché l'attuale clima di concorrenza sregolata è suicida per tutti e disastroso per gli ecosistemi, sembra sano e opportuno innalzare barriere a livello europeo per la protezione sociale e quella dell'ambiente. In altri termini, è necessario riabilitare un protezionismo selettivo di fronte all'impero indecente del libero scambio sfrenato, che nasconde del resto un protezionismo inconfessato e perverso. Una popolazione non può vivere nella dignità se non produce, almeno in parte e in modo imperfetto, i prodotti di cui ha un bisogno essenziale. Ridurre alla miseria e alla disperazione regioni intere, con tutto il seguito di drammi familiari e individuali che ciò implica nel nome di un mitico one best way, cioè di un calcolo economico ristretto che non tiene conto né dei patrimoni organizzativi e culturali acquisiti, né dell'impatto sull'ambiente, è irragionevole e spesso criminale. La cosa più straordinaria è che il regno dell' integralismo liberale costringe a enunciare cose così evidenti... Proteggere la società dal mercato, in effetti, può significare soltanto costruire l'indipendenza economica e la sovranità alimentare, preservare l'identità culturale, salvare l'ambiente, difendere un modello sociale, conservare una vita locale con le sue occupazioni e il suo territorio, reintrodurre la politica nell'economia con un senso rinnovato della giustizia nello scambio sociale. La necessaria decolonizzazione del nostro immaginario, cioè un rafforzamento della nostra resistenza al lavaggio del cervello al quale siamo sottoposti in permanenza a opera dei media, e più profondamente, dal funzionamento stesso della società moderna, dovrebbe permetterci di sfuggire al prisma deformante che ci fa vedere il mondo come esclusivamente economico e di riprendere in mano il nostro destino. In attesa, se le «evoluzioni» ci condannano ad aprirci sul mondo, che ciò sia per scambiare le nostre differenze e non per intensificare una circolazione di prodotti standardizzati in un mondo mercantile omogeneo.

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