Copertina
Autore Florent Latrive
Titolo Sul buon uso della pirateria
SottotitoloProprietà intellettuale e libero accesso nell'ecosistema della conoscenza
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2005 , pag. 146, cop.fle., dim. 140x230x10 mm , Isbn 978-88-88738-75-8
OriginaleDu bon usage de la piraterie. Culture libre, sciences ouvertes
EdizioneExils, Paris, 2004
TraduttoreMichèle Ménard
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe diritto , politica , informatica: reti , informatica: politica , informatica: sociologia , copyright-copyleft
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Indice

Prefazione di Lawrence Lessig                    9

Sul buon uso della pirateria


Introduzione

Tutti pirati                                    13

Cos'è un pirata?                                23

Preconcetti                                     43

Saperi e culture liberi                         63

La conoscenza: un vincolo o un bene?            83

Politica dell'immateriale                      101

La rarità contro l'abbondanza                  115

Epilogo

Verso la gratuità                              137

 

 

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Pagina 13

Introduzione
Tutti pirati



C'è tutta Hollywood a questo processo: la Warner Bros, la Disney, la Mgm, la Paramount, la Tristar, la 20th Century Fox, la Universal... Nella gabbia degli imputati, dove ci si aspetta di vedere il capo di una rete di DVD contraffatti che riversa migliaia di pezzi sul mercato clandestino, si trova Claude, pensionato bretone di 61 anni. Il suo reato? Come milioni di internauti, ha utilizzato un programma peer-to-peer di scambio gratuito di file per scaricare film sul proprio hard-disk. La perquisizione condotta in casa sua ha dato più di un'arma agli studios, decisi a ottenere la sua condanna: nei CD riposti sugli scaffali, gli agenti hanno trovato decine di film masterizzati. Claude non ha mai tratto profitto da queste opere. «Erano solo per uso personale, molti li avevo registrati dalla televisione su videocassetta, ma masterizzarli su CD dopo averli scaricati da internet occupava meno spazio», si difende l'accusato, che trova «esagerata» questa messinscena. Gli studios non la pensano così. Il 29 aprile 2004, il pericoloso pirata bretone è stato condannato a tre mesi di prigione con la condizionale e 4000 euro di danni. «È un primo passo, ma è solo l'inizio», ha minacciato Christian Soulié, uno degli avvocati di parte civile, al termine dell'udienza.

Quando chiama in causa le dispute delle industrie culturali con i milioni di internauti che scaricano gratuitamente musica e film, l'ex patron dei produttori hollywoodiani Jack Valenti parla di una «nostra personale guerra al terrorismo». Il dirigente di un laboratorio farmaceutico paragona la copia di farmaci anti-Aids, realizzata da alcune imprese indiane, ad «atti di pirateria che saranno estirpati come lo è stata la pirateria [marittima] nel XVII secolo». Dalle canzoni alle molecole, passando per l'industria del lusso, mai i discorsi anti-pirateria sono stati tanto determinati; stando a essi, il mondo sarebbe colpito da un'epidemia di copie. Ciononostante, la pirateria non ha esistenza giuridica, l'uso di questo termine punta a colorire una parola molto meno immaginifica: la contraffazione, ossia la lesione dei diritti di proprietà intellettuale, diritti d'autore o brevetti, che si sostiene siano oggi minacciati da orde di ladri. È in nome dell'importanza di questa proprietà intellettuale per lo stato di salute dell'economia mondiale che si è dichiarata guerra ai pirati.

Condotta con il pretesto di un artificioso buon senso economico, la battaglia maschera un fenomeno ben più profondo, il travisamento dei principi della proprietà intellettuale. Se questo diritto è stato sempre concepito come un compromesso tra gli interessi degli ideatori e quelli del pubblico, tra il rispetto dovuto agli autori e agli inventori e una circolazione quanto più possibile ampia delle conoscenze, l'equilibrio è ormai rotto. Le imprese che traggono profitto dal sapere e dalla cultura esigono – e molto spesso ottengono – che le leggi in vigore siano rafforzate unicamente a loro vantaggio. Con la complicità dei governi, esse si abbandonano a una rapina legalizzata su tutte le forme di copia, di scambio e di circolazione dei saperi, minacciando la salute, la creazione, l'innovazione, l'accesso alla cultura e alla conoscenza.

[...]

Questa mercificazione della conoscenza mira a trasformare ogni briciola di sapere o di creazione della mente umana in un titolo di proprietà che può essere monetizzato e scambiato. Essa aspira ad allargare sempre di più un mercato mondiale dell'immateriale, a danno del patrimonio universale dei saperi. Questa logica è in aperto contrasto con le pratiche di scambio, di cooperazione e persino di creazione, poiché quest'ultima è in primo luogo un processo collettivo, fondato sull'imitazione e la riproduzione.

L'importanza crescente dell'immateriale, della cultura e dei saperi nelle economie moderne e le reali difficoltà incontrate da alcune imprese di fronte agli sconvolgimenti attuali non possono giustificare i danni collaterali sempre più evidenti di una tale fuga in avanti. È il diritto alla salute, o più semplicemente alla vita, che si oppone ai brevetti sui farmaci; è l'accesso alla cultura a essere imbrigliato dai sostenitori di un diritto d'autore «supertutelato» e della maggior durata possibile; è la più larga diffusione delle conoscenze a essere messa in discussione, dappertutto. I conflitti tra questi nuovi diritti di proprietà sull'immateriale e i diritti essenziali degli esseri umani si moltiplicano e la pirateria si estende contestualmente al fatto che le occasioni di diventare pirati si fanno più numerose.

Questa guerra permanente alla riproduzione, questo rafforzamento sempre più rigido dei «diritti di proprietà», sono per lo meno efficaci, portano a una costante crescita della creazione e dell'innovazione? Neanche questo, ricorda Joseph Stiglitz: «Le più importanti innovazioni non implicano alcun diritto di proprietà intellettuale; la maggior parte dei più grandi passi avanti si è verificata nelle università [dove] crediamo a una architettura aperta, parliamo a tutti. L'intero quadro del movimento per la proprietà intellettuale lo vedo in antitesi rispetto al modo in cui la scienza è sempre avanzata». La scienza accademica e, più recentemente, il boom dei software liberi – sviluppati dagli informatici in maniera cooperativa, decentralizzata e fondata sul libero accesso alle risorse comuni a tutti – o quello della pubblicazione gratuita di testi, musica e film sul web dimostrano dunque l'efficacia delle modalità di creazione aperte.

I discorsi apocalittici tenuti dai titolari di diritti e l'estensione sempre più marcata della proprietà intellettuale conducono insidiosamente a una perdita di valore generalizzata di ogni legge che cerchi di mediare i conflitti d'interesse nell'ambito dell'immateriale. Più la proprietà intellettuale si rafforza e si allarga, più i suoi fondamenti, benché giusti, vanno in mille pezzi. Le persone hanno questo difetto, stigmatizzato dai commercianti, di reagire in base alle loro convinzioni o al loro cuore piuttosto che obbedendo malvolentieri a qualsiasi ingiunzione, foss'anche legale. Per il mondo dell'economia, le società democratiche hanno inoltre un altro difetto, che una legge che non raccoglie un minimo di consenso sociale non serve poi a molto, se non a minare ancora di più l'idea di rispetto della regola comune. Dunque, decine di milioni di internauti scambiano musica a dispetto delle leggi esistenti. E non si tratta di una scelta da predatori, come si affrettano ad affermare le major. Semplicemente, sono spinti dalla convinzione – una convinzione a volte mal formulata, a volte molto strutturata – che sarebbe assurdo privarsi di un accesso così ampio e aperto alla cultura solo per piegarsi alle regole volute esclusivamente da chi detiene e gestisce il copyright. Allo stesso modo, i militanti e i medici che importano illegalmente copie di farmaci sotto brevetto per curare i malati non hanno nessun interesse a sapere se il loro gesto è legale o no: è vitale, è questo che conta. A forza di discorsi falsi e di leggi assurde, finirà per accadere quello che gli estremisti della proprietà intellettuale dicono di temere di più: la fine di ogni diritto reale al rispetto e ai profitti per ideatori, autori e inventori.

Non siamo a questo punto. La logica della mercificazione della conoscenza intrapresa in maniera imponente a livello planetario si scontra con intenti più aperti, fondati sulla cooperazione e sullo scambio, molto più che sulla concorrenza e sull'esclusività. Dappertutto, nel cuore del sistema, dei cittadini – bibliotecari, informatici, artisti, giuristi, economisti, scienziati – si chinano al capezzale del dominio pubblico per valorizzarlo, proteggerlo farlo fruttare e contrastare le mire castratrici di chi vuole riformare la proprietà intellettuale soltanto a proprio vantaggio. Parimenti, piste economiche ed etiche per costruire un regime equilibrato dell'immateriale sono apparse e non cessano di essere approfondite. Bisogna trasformarle in un progetto politico. Siamo dunque tutti «pirati»? È giunto il momento, per noi, di perorare la causa di un buon uso della pirateria.

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Pagina 63

Saperi e culture liberi



«Senza proprietà intellettuale, non ci sono né creazione, né progresso, né investimenti nella ricerca», profetizzava François d'Aubert, allora in carica presso il Comitato nazionale anticontraffazione, prima di ricoprire il ruolo di ministro della Ricerca nel governo di Jean-Pierre Raffarin. Questa assurda dialettica, che non sa far altro che contrapporre al brevetto il caos, fa parte di una strategia politica di rafforzamento dei diritti della proprietà intellettuale, e non solo in Francia. L'articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea indica molto semplicemente che «La proprietà intellettuale è protetta». Senza precisare con quali intenti, né per quali fini. Si resta nel registro dell'enunciazione di assiomi, dove «proprietà» sta per «innovazione», senza preoccuparsi delle restrizioni che una scelta di questo tipo implica per l'accesso alla conoscenza o alla cultura.

Non ce ne voglia François d'Aubert, ma esistono degli ambiti in cui la conoscenza e le opere non sono protette da brevetti, da diritti d'autore o da altri titoli, degli spazi dove la copia è riconosciuta dalla legge e incentivata. E questi settori contribuiscono in maniera decisiva all'innovazione e alla produzione di conoscenze. La ricerca scientifica ne è l'esempio più significativo; una netta maggioranza di ricercatori pubblica i risultati del proprio lavoro, ed è grazie alla disponibilità, alla circolazione e alla libera appropriazione che la scienza aperta progredisce. Internet e l'informatica, facilitando la cooperazione e la diffusione, hanno esteso questa logica: i software liberi costituiscono un ostacolo per le strategie monopolistiche e il web è ricco di siti costruiti da volontari, semplici appassionati o professionisti. E in questo caso non si può certo parlare di pirateria, dal momento che la copia e il libero accesso sono i principi primi di questi spazi creativi. Le «forze di proprietà» fanno naturalmente da traino nei processi di innovazione e di creazione, e in questa sede non si intende certo perorare la causa dell'abolizione delle regole della proprietà intellettuale. Tuttavia, le «forze di diffusione» hanno dimostrato già da tempo la propria efficienza. Inseparabili dalle nozioni di apertura, di cooperazione e di libero accesso, esse si rifanno ad argomentazioni ben diverse da quelle privilegiate dalla proprietà intellettuale.

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Pagina 76

Dalla «legge Topolino» ai Creative Commons

Mentre il software libero parassita la proprietà intellettuale informatica, il diritto d'autore tradizionale – quello della letteratura, della musica, del cinema... – ripiega di fronte al crescente potere del digitale. Le major moltiplicano le azioni giuridiche contro il peer-to-peer, i politici si pronunciano a favore di un inasprimento del regime di copyright e gli esperti sostengono la necessità di richiamare all'ordine internet, considerato troppo ribelle. Per molti, invece, è giunto il momento di affiancare il fermento creativo del web. Centinaia di migliaia di internauti pubblicano testi, si esprimono, mettono on-line pezzi propri. In questo settore bisogna realizzare quello che Stallman ha fatto per il software: teorizzare e dare strumenti giuridici alle creazioni multiformi sulle quali gli autori rivendicano il libero accesso a sostituzione della banale proprietà; il professore di diritto Lawrence Lessig, americano, si è dedicato a questa missione.

Stallman e Lessig. Una fotografia tanto più bella in quanto i due uomini sono diversi in tutto. Richard Stallman ha tutto l'aspetto di un hippie, capelli lunghi e parlantina incerta, da oratore no global. Testardo e visionario, Stallman non passa certo inosservato. Tutto il contrario di Lawrence Lessig, professore di diritto ad Harvard, poi Stanford, di famiglia repubblicana, con un aria da primo della classe, occhialetti e capelli sempre in ordine.

Lawrence Lessig conosce bene gli ambienti politici e giuridici, cosa che non gli impedisce di essere un contestatore tanto deciso quanto il suo alter ego dell'high-tech. A suo parere, anzi, Stallman è «l'uomo politico contemporaneo più importante degli Stati Uniti». Il software libero e gli inconvenienti della proprietà intellettuale applicata all'informatica, Lessig li conosce bene. Nel 1998, era l'esperto ingaggiato dal governo americano nel processo anti-trust contro la Microsoft. La multinazionale riuscirà tuttavia a farlo revocare per le sue prese di posizione a favore del software libero. Qualche tempo dopo, lo si ritrova davanti alla Corte Suprema, nel tentativo di invalidare il Sonny Bono Copyright Extension Act, un testo firmato da Bill Clinton nell'ottobre del 1998 e ribattezzato «legge Topolino», che prorogava di vent'anni il copyright per accontentare la Disney, preoccupata di vedere il celebre topo diventare di dominio pubblico. L'offensiva giudiziaria, tesa a limitare la sempre maggiore privatizzazione della cultura, si chiude con una sconfitta all'inizio del 2003. Ma, nel frattempo, Lessig ha cambiato tattica: proprio come Stallman, che non ha mai cercato lo scontro frontale con gli editori di software proprietari, propone una licenza adattata ai testi, alla musica e ai video, fondata sul libero accesso: la Creative Commons: «Troppo spesso, il dibattito sul controllo della creazione oppone due estremi. Da una parte, si ha una visione di controllo totale – un mondo nel quale la regolamentazione dell'uso, anche minimo, di un lavoro, e la formula "Tutti i diritti riservati" sono la norma. Dall'altra, una visione di anarchia – un mondo nel quale i creativi godono di un ampio margine di libertà, ma sono suscettibili di sfruttamento del proprio lavoro. L'equilibrio, il compromesso e la moderazione – che furono le forze motrici di un sistema di copyright che valorizzava al tempo stesso l'innovazione e la protezione – sono ormai specie in via d'estinzione».

La CC (equivalente della GPL sui software liberi) mira dunque a liberarsi di un duplice ostacolo. In primo luogo, essa risolve un problema già discusso in queste pagine: di base, in quasi tutti i paesi, mettere on-line un disegno, un pezzo satirico, un commento rientra nel regime del diritto d'autore. Bisogna perciò richiedere l'autorizzazione ogni volta che si vuole copiare, riutilizzare o trarre ispirazione dal più insignificante «contenuto» trovato sul web, anche se l'autore è ben disposto a far circolare le proprie opere. In secondo luogo, essa evita il puro e semplice saccheggio degli autori, dando loro un quadro giuridico che definisce i diritti accordati all'utente. La CC, come la GPL, utilizza «il diritto privato per creare beni pubblici». Ma, a differenza della GPL, la si può adattare alle proprie esigenze. È una forma di diritto d'autore su misura, con un solo tratto comune: in tutti i casi, un contenuto protetto dalla CC può essere riprodotto e diffuso gratuitamente, cosa che la rende una licenza di libero accesso. L'autore definisce poi le condizioni (tre, per l'esattezza) alle quali accetta il principio di libera circolazione.

Citazione: l'autore può esigere o meno di essere citato quando una sua opera è riprodotta.

Uso commerciale: l'autore può rifiutare o meno che i suoi lavori siano riutilizzati per fini commerciali.

Opere derivate: l'autore può accettare o meno che il proprio lavoro possa essere modificato da terzi. Un compositore può accettare o rifiutare che si remixi la sua musica. Uno scrittore può accettare o rifiutare l'adattamento del suo romanzo; quest'ultima condizione prevede un'opzione supplementare: l'autore può accettare le opere derivate a condizione che il lavoro derivato sia (o meno) protetto della stessa licenza. In questo, si ritrova la caratteristica virale della GPL. In questo modo, la Creative Commons propone di fatto dodici possibili licenze, dalla più aperta alla più restrittiva. Il tutto accessibile senza bisogno di ricorrere a un giurista, dal momento che il sito web di Creative Commons propone a ciascuno di costruirsi la propria licenza con pochi click, rispondendo alle condizioni riportate sopra.

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Pagina 81

Usus, fructus e abusus

La proprietà è caratterizzata da tre attributi, ricordano i giuristi: l' usus (il diritto di utilizzare un bene), il fructus (il diritto di beneficiare dei suoi frutti) e l' abusus (il diritto di disporne). La proprietà intellettuale, sebbene limitata nel tempo e piena di eccezioni, è dunque, in primo luogo, un diritto di vietare, un diritto di abusare e di controllare tutti gli usi della propria creazione. Uno scrittore può rifiutare la diffusione delle sue opere in edizione tascabile, come ha fatto per tutta la vita Julien Gracq, restando fedele ai bellissimi libri della casa editrice José Corti, le cui pagine devono essere tagliate prima della lettura. Un compositore può impedire a chi vuole di eseguire la sua musica — anche nel caso in cui l'interprete avrebbe potuto esaltarla.

A forza di parlare di proprietà intellettuale, si potrebbe quasi finire per perdere di vista l'esistenza di tutta una serie di creazioni sulle quali non si esercita un tale controllo, uno spazio della conoscenza dove si ignora l' abusus, dove la libera circolazione è la regola e non l'eccezione. È, nello specifico, il caso della scienza aperta, senza brevetti, dove gli eredi di Einstein non oserebbero vietare a chicchessia l'apporto dei lavori dei predecessori per esplorare l'universo; proprio qui, inoltre, hanno preso il via le esperienze volontarie di collaborazione e condivisione dei saperi.

Chiameremo dominio pubblico questo vasto continente della conoscenza e della cultura di libero accesso. Il dominio pubblico «storico» non è altro che il patrimonio comune dell'umanità, il serbatoio dei saperi e delle opere del passato, alimentato dagli scienziati, dagli sviluppatori di software liberi e dagli artisti. Una definizione moderna del dominio pubblico deve integrare al tempo stesso non solo le creazioni non più protette, ma anche quelle a cui gli autori hanno voluto dare libero accesso. Perché è proprio il libero accesso che caratterizza questa definizione estesa di dominio pubblico, non certo l'assenza di regole o il rifiuto della remunerazione e del riconoscimento. Solo l' abusus scompare. L' usus, no. Nessun autore di software libero vorrebbe vedersi negato il diritto di godere della sua creazione, e nemmeno un ricercatore o uno scrittore. Quanto al fructus, esso non si misura in termini puramente pecuniari: la retribuzione è al tempo stesso sia sociale che finanziaria.

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Pagina 83

La conoscenza: un vincolo o un bene?



Come assicurare agli ideatori protezione e usufrutto? Il diritto d'autore e il brevetto hanno dato una risposta parziale a questo interrogativo attraverso l'attribuzione di un titolo di proprietà. Il sistema si ammanta di tutte le virtù: proprietario del suo lavoro intellettuale, il creatore riceve una sanzione ufficiale per il suo contributo al progresso, è esortato a mettere le proprie opere e il proprio sapere a disposizione del pubblico, previa retribuzione e senza temere di essere derubato. La proprietà intellettuale ha dato uno status agli inventori e agli autori, e questo è senz'altro il suo maggior pregio. Ma la nozione di proprietà considerata come strumento di indipendenza portava con sé quella di mercato. Il bene immateriale entrava a far parte dell'ambito delle merci.

Progressivamente, la dimensione commerciale della proprietà intellettuale si è allargata fino a prevalere sulla protezione e sul riconoscimento dei creatori. Il diritto d'autore creato per i Lamartine oggi tocca alla Universal Music e a Operazione Trionfo. Il brevetto di Pasteur è lo stesso della L'Oréal o dell'Ibm. La conoscenza e la cultura, vincoli indispensabili per la collettività, si sono trasformati in beni di consumo. «Se il libro non è un prodotto come gli altri, resta pur sempre un prodotto», scriveva l'editore Jéróme Lindon.

Una prospettiva di questo tipo sembra ormai sorpassata, poiché essa ignora le reali pratiche di scambio, di prestito, di condivisione ritenute sacrileghe se manca il consenso dell'autore. Essa rifiuta il campionamento, il remix e altre forme di appropriazione creativa il cui straordinario sviluppo è stato favorito dal digitale e da internet. Stessa diffidenza verso la creazione derivata da creazioni precedenti. Gli psicorigidi della proprietà intellettuale non ne vogliono sapere, negando in questo modo la dimensione collettiva dell'innovazione e della cultura, e attribuendo un diritto di proprietà a un individuo quando in realtà la conoscenza si fonda su «tutto il lavoro umano già realizzato», secondo la formula di Léon Blum.

Questa concezione si rifà a una figura mitica, quella del genio romantico, le cui orme sono state seguite dai principi essenziali della proprietà intellettuale e hanno lasciato il segno sugli sviluppi di quest'ultima fin dal XVIII secolo, in particolare in Francia. Questo artista o innovatore idealizzato ha ormai deformato la visione degli autori da parte della società. Questo mito, la cui forza ha fatto sì che i creatori potessero conquistare la propria autonomia rispetto ai poteri dello Stato e dei mecenati, oggi si è trasformato in un racconto-alibi assimilato dal mondo del commercio che se ne serve per la propria attività predatoria. Ma l'impostura non può continuare all'infinito: fa la sua comparsa un nuovo protagonista, l'hacker, programmatore dedito allo scambio e alla condivisione. Un personaggio per il quale l'appropriazione da parte del pubblico è la fonte stessa della creatività sociale. Nel campo della creazione, la figura dell'hacker ha cominciato fin da subito a soppiantare quella del genio romantico.


La guerra al pubblico

Brianna è un'adolescente problematica. Accusata dall'industria del disco di aver utilizzato i circuiti peer-to-peer di scambio gratuito di musica, la dodicenne americana è stata il bersaglio di una causa giudiziaria nel dicembre 2003. La Riaa (Recording Industry Association of America), che rappresenta le major negli Stati Uniti, ha deciso di perseguire a titolo d'esempio decine di questi copiatori che si servono di internet, ciascuno dei quali rischia multe di migliaia di dollari per violazione del copyright. Per la madre di Brianna, Sylvia Torres, è un duro colpo. La storia di sua figlia è in prima pagina e i giornalisti si accalcano davanti casa sua, a New York. Dopo qualche ora di febbrile attesa, finisce per cedere e accetta l'accordo proposto dalle case discografiche: pagare duemila dollari in cambio del ritiro della denuncia.

Nel 1770, è un padre a dover fronteggiare le pulsioni musicali del figlio. Il giovane Wolfgang Amadeus Mozart, allora quattordicenne, ha appena assistito a un'esecuzione del Miserere di Allegri nella Cappella Sistina, a Roma. Una fortuna e un onore, dal momento che questo è l'unico posto dove si possono ascoltare le note di quest'opera magistrale, i cui diritti di esecuzione e di diffusione sono strettamente riservati al luogo sacro. Ma Wolfgang non ha saputo resistere, come testimonia una lettera del padre Leopold alla moglie: «Hai forse già sentito parlare del celebre Miserere di Roma, talmente apprezzato che i musicisti della cappella hanno il divieto, pena la scomunica, di mostrare una parte anche minima di questo brano, di copiarla o di comunicarla a chicchessia? Ebbene, noi l'abbiamo già. L'ha scritta Wolfgang, a memoria. [...] Trattandosi di uno dei segreti di Roma, non vogliamo consegnarlo a mani estranee per non incorrere, direttamente o indirettamente, nella censura della Chiesa».

Quasi due secoli dopo, Brianna e Wolfgang hanno commesso lo stesso sacrilegio, hanno contravvenuto alle regole della proprietà intellettuale, una usando i moderni mezzi della riproduzione digitale, l'altro servendosi della sua prodigiosa capacità di imprimere nella propria memoria le note. Wolfgang e Brianna, due ladruncoli di melodie incapaci di fermarsi pur sapendo che il loro era un gesto illegale.

I benpensanti risponderanno che è del tutto inopportuno paragonare Mozart a questa ragazzina. Ma il diritto d'autore si fa gioco di tale distinzione, poiché si applica indifferentemente a Lorie e al Requiem, e si impone al tempo stesso a un internauta qualunque e al compositore Pierre Boulez. Il diritto d'autore non si interessa della qualità, né dell'opera protetta, né del pubblico. Non si fanno eccezioni per i geni, Brianna e Mozart per la legge sono entrambi membri dello stesso pubblico, nulla di più. Il paragone tra i nostri due fan non si ferma qui poiché, una volta commesso il fatto, né l'uno né l'altra si sono limitati a tenere per sé la copia proibita. Mozart ha copiato a memoria la partizione del Miserere per analizzarla e suonarla, cosa di cui si rallegra il padre nella lettera. Brianna probabilmente ha masterizzato alcuni file MP3 scaricati da internet per farli conoscere alle amiche.


La cultura come socialità

Il parallelo tra Wolfgang e Brianna dimostra che, nello specifico, internet non ha portato niente di nuovo. Che gli aventi diritto non se l'abbiano a male: il desiderio della copia e della condivisione è parte del piacere che si ricava dalla musica. Di fatto, questa è la tesi del musicologo Peter Szendy: «Da sempre, l'ascolto è un "furto tollerato", come scriveva uno dei figli di Bach. [...] È una forma di appropriazione da parte del pubblico. Ogni ascolto provoca un desiderio di condivisione, di scambio. È ipocrita considerarlo come un faccia a faccia tra un autore e un ascoltatore. L'ascolto è pensato per tre elementi: l'opera, un ascoltatore e un secondo ascoltatore. Il primo, infatti, ha di certo voglia di trasmettere, quindi di rubare. Questa appropriazione e questo scambio sono alla base sia degli ascolti più selvaggi, sia di quelli più raffinati». Il desiderio di condivisione diventa perciò il principio stesso del consumo musicale e, più generalmente, di ogni forma di consumo artistico. Le pratiche culturali solitarie sono rare: si può ascoltare un disco con le cuffie, ma la cultura è, per prima cosa, socialità. In uno stesso luogo, certo, ai concerti, nelle sale cinematografiche, alle serate, alle letture pubbliche. Ma anche – e soprattutto – in luoghi e tempi diversi, dove il commento, la critica e lo scambio dei punti di vista formano il vincolo indispensabile per l'appropriazione collettiva di un'opera. La copia che si regala, il prestito, non sono che i supporti di questo vincolo che esiste tra i membri di una comunità riunita intorno a un prodotto culturale. Le abitudini culturali creano una rete di interazioni tra le persone, lontano dagli autori, dagli editori e dai produttori. Il passaparola, tanto apprezzato da chi commercia in cultura, è prima di tutto un corpo a corpo, prende vita dalla riproduzione e dalla circolazione delle opere stesse.

Le nuove tecnologie hanno enormemente accresciuto le possibilità di condivisione. Tutti i giorni, dappertutto, si scambiano DVD masterizzati, si spediscono file musicali via e-mail, circolano fotocopie. A volte, si acquista un libro o un disco, per sé o per fare un regalo. Ma è un effetto secondario; la vera e propria base delle pratiche di scambio resta la relazione non commerciale.

Di fronte a questo stato di cose, ci sono sempre stati due tipi di reazione. La prima consiste nel respingere il comportamento selvaggio di quei consumatori che si danno con gioia al saccheggio moltiplicando i meccanismi di sorveglianza sulla copia e istituendo tutti i pedaggi possibili. La seconda, più lucida, accetta o incoraggia la circolazione non commerciale delle opere, assumendosi la responsabilità di trovare mezzi indiretti per assicurare un guadagno agli autori.


La battaglia delle biblioteche

Il dibattito sul prestito nelle biblioteche francesi del marzo 2000 è l'archetipo dello scontro tra le due concezioni. Un gruppo di editori e di autori, guidati da Jéròme Lindon, proprietario delle Éditions de Minuit, esige il ritiro dei propri libri dalle biblioteche se non si istituisce il prestito a pagamento. Circolano delle stime, si parla di 0,75 euro per ogni prestito. I firmatari della petizione brandiscono, a sostegno della propria denuncia, cifre impressionanti: «A fronte di una vendita annuale complessiva di 300 milioni di copie, le sole biblioteche municipali francesi effettuano 154 milioni di prestiti», fatto che deve essere considerato, scrivono, «contraffazione». Il mondo letterario è in fermento. Sostenuti dai bibliotecari, altri autori favorevoli, dal canto loro, al prestito gratuito difendono la lettura pubblica negli spazi in cui ci si ritrova per leggere e parlare di libri, e dove gli studenti fanno esperienza dei testi senza ostacoli di natura economica. Senza le biblioteche, «molti di noi non avrebbero letto, né trovato la loro strada nei mestieri del libro», affermano, aggiungendo che «la gratuità è un servizio che la collettività rende a se stessa». Da una parte e dall'altra, insulti e aspre critiche si incrociano su diversi giornali. Finché la tensione si smorza grazie a un compromesso: escluso il prestito a pagamento, è lo Stato a farsi carico di una remunerazione compensatoria da versare agli aventi diritto. Di fatto, nessuna delle due parti è davvero soddisfatta. Chi prende un libro in prestito avrà di certo l'impressione della gratuità che fa tanto orrore ad altri, ma le risorse destinate dallo Stato alle biblioteche saranno decurtate dalla retribuzione riconosciuta ai titolari dei diritti. L'opposizione tra le due fazioni, comunque, non si limita alle biblioteche: i sostenitori del prestito a pagamento condannano anche internet, mentre i loro avversari aprono siti che mettono a disposizione dei testi, prendono parte o animano forum telematici sulla letteratura.


Il pubblico contro il consumatore

Per mezzo delle nuove tecnologie, si contrappongono in realta due diverse visioni dei comportamenti culturali. La prima considera il lettore o l'ascoltatore come un consumatore, un individuo isolato e senza alcun diritto. Essa, è vero, gli concede la facoltà di parlare dell'opera, ma nello stesso modo in cui si discute delle virtù di vari detersivi a confronto. La vendita e il marketing che l'affianca sono la norma: qualsiasi scambio è sospetto, il prestito è una sopravvivenza di un'altra epoca. Nell'ambito del digitale constata che si tratta ormai di manovre di ripiego, poiché è impossibile prestare una canzone comprata su un sito dove scaricare legalmente file musicali, dal momento che questi sono blindati e illeggibili da terze persone.

A questo modello si oppone una concezione più aperta, che preconizza la nascita di un pubblico a partire dalla moltitudine dei consumatori di cultura. Essa afferma, con Marcel Duchamp, che sono «gli osservatori a fare il quadro» e incoraggia l'autonomia di questo pubblico, accettando le pratiche di appropriazione che sottendono alla sua esistenza, tra le quali sono essenziali lo scambio e la copia.

Le due visioni sono incompatibili: una è individualista, verticale e commerciale; l'altra collettivista, orizzontale e fondamentalmente non commerciale. La prima fa della cultura un bene di consumo, la seconda la considera un vincolo sociale. L'evoluzione recente della proprietà intellettuale ne è la traduzione fedele: essa irrigidisce sempre di più la relazione giuridica tra proprietario e destinatario. E se c'è un pubblico che essa è disposta a tollerare, è quello che se ne sta mansueto in fila davanti alla cassa. Di fatto, questa visione integralista della proprietà intellettuale respinge i concetti di pubblico «esterno alla sala» e di autonomia della circolazione delle opere. Ne è la prova la guerra bandita alla copia privata, un diritto fino a quel momento concesso alla sfera famigliare, senza scopo di lucro. Ma a dispetto di questi attacchi cavillosi, nulla è ancora stato scritto poiché, come dice Peter Szendy a proposito della musica: «Noi non siamo una comunità di ascoltatori di un medesimo oggetto che ci riunisce, come il popolo di orecchie mute che sembrava vagheggiare Wagner. Siamo una somma di singolarità ciascuna delle quali vuol farsi sentire». Non si riuscirà a richiamare il pubblico all'ordine.

[...]

La creazione a partire da altre creazioni è l'essenza stessa dell'immateriale. La Fontaine ha attinto le sue Favole da Esopo. Richard Trevithick non avrebbe potuto inventare la locomotiva senza i lavori di Watt e Papin sulla macchina a vapore. La Disney non avrebbe costruito il suo impero senza Victor Hugo, Andersen e i fratelli Grimm. Windows della Microsoft, con le sue finestre e i suoi menu a tendina, non esisterebbe senza Dan Ingals, né il rock senza il jazz o quest'ultimo senza la musica nera popolare.

«Noi siamo come nani posti sulle spalle di giganti; possiamo vedere di più e più lontano di questi, non per acume della nostra vista o per altezza della nostra persona, ma perché siamo sollevati e portati da una gigantesca statura», scriveva Bernardo di Chartres nel XII secolo. Newton aveva ripreso questa celebre frase in una lettera a Robert Hooke, per rendere omaggio a Galileo e a Cartesio. Si deve forse pensare che il fisico inglese fosse meno geniale dei due predecessori perché si è rifatto alle loro idee? No, ovviamente. Ogni produzione è, per prima cosa, una ri-produzione, una copia modificata. L'imitazione è matrice di ogni innovazione. Gli studenti di matematica si esercitano a ridimostrare i teoremi di Cauchy o di Fermat, i grandi compositori a eseguire le opere altrui. La creazione è collettiva per natura. Collettiva nello spazio, poiché spesso necessita degli sforzi congiunti di piu persone. E collettiva nel tempo, perché lega le aspirazioni del presente all'ispirazione dal passato.

Sfortunatamente, la proprietà intellettuale, per come si sta sviluppando e irrigidendo in questi ultimi tempi, accetta malvolentieri la cooperazione, il ritocco e la creazione collettiva. Il film di Terry Gilliam Twelve Monkeys (L'esercito delle dodici scimmie) fu temporaneamente tolto dalle sale, 28 giorni dopo l'uscita negli Stati Uniti, su richiesta di un designer che sosteneva che una poltrona che compariva sullo schermo somigliava a una delle sue creazioni. Nel febbraio del 2004, il dj Danger Mouse ha ricevuto dalla Emi l'ingiunzione di ritirare dal commercio The Grey Album, nel quale aveva mixato The White Album dei Beatles con The Black Album di Jay-Z: la Emi non chiedeva un risarcimento, ma il ritiro puro e semplice del disco dai negozi. E poco importa se riconoscere i Beatles nella musica di Danger Mouse era un'impresa. «La creatività e l'innovazione si fondano sempre sul passato. Il passato cerca sempre di controllare la creatività che si richiama a esso. Le società che si vogliono libere dovrebbero rendere possibile il futuro limitando il potere del passato. La nostra società è sempre meno libera», è la valutazione di Lawrence Lessig. I freni al potere di censura del passato sul presente (limitazione temporale dei diritti, licenze obbligatorie ecc.) sono rimessi in discussione senza sosta e denunciati dai massimalisti della proprietà intellettuale come altrettante espropriazioni e costrizioni ingiuste.

[...]

Epilogo: la pirateria sulla linea del fronte

Ciascuna delle due visioni della cultura e della conoscenza che si contrappongono oggi si costituisce intorno a una figura mitica che determina lo sguardo indirizzato dalla società sul creatore. Queste due modalità influenzano le evoluzioni del diritto che ne strutturano e ne organizzano le regole. Il modello del genio romantico, fatto proprio dall'industria del sapere, invita sempre di più a un rafforzamento continuo della proprietà intellettuale: caccia a chi copia, allargamento del campo del privatizzabile, guerra al pubblico. Di fronte all'espansione promossa dai governi negli ultimi vent'anni, il mondo degli hacker ha creato uno spazio d'apertura, dimostrando in questo modo la forza del proprio modello, e permettendo di rivalutarne altri, come quello della scienza aperta.

Ma i due modelli non sono compartimenti stagni, e sarebbe sciocco immaginare una pacifica convivenza. I difensori del genio romantico, assediati, si difendono strenuamente. Il loro ricorso ossessivo alla parola «pirateria» ne è il segno più evidente. A lungo limitata all'ambito della copia illecita a scopo di lucro, questa parola serve ormai ad attaccare il pubblico, impegnato in attività di scambio non commerciali. Il prestito in biblioteca è stato definito «contraffazione»; scaricare musica sui servizi peer-to-peer è denunciato in blocco come «furto» quando invece vi circolano anche opere in libero accesso. Questo spostamento di senso è politico: il termine «pirata» mette insieme le organizzazioni mafiose e il pubblico, gettando onta sui creativi che praticano la condivisione. È sul terreno economico e politico, dunque, che gli hacker devono rivolgere ora la loro attenzione.

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La crisi della rarità

Privatizzazione del vivente, estensione e rafforzamento del diritto d'autore, attribuzione di proprietà intellettuale in settori storicamente a libero accesso: l'allargamento del controllo sulla cultura e la conoscenza ha intrapreso una svolta negativa negli ultimi anni, a danno delle risorse comuni e accessibili a tutti. Come si è giunti a questo punto? La logica in atto è simile a quella che ha spinto molti governi, dagli anni Ottanta in poi, a preconizzare il mercato totale. La vulgata neoliberista ha promosso l'iniziativa privata come prima condizione dell'efficienza economica. È un ritornello conosciuto: la gestione pubblica porta allo spreco e allo sperpero, il comunismo si è dimostrato inadeguato in Unione Sovietica e solo la proprietà privata può responsabilizzare la gente e incoraggiarla a fare buon uso delle risorse. Questo ragionamento è stato ovviamente applicato all'immateriale, come se il dominio pubblico e il patrimonio comune dei saperi e della cultura fossero un escrescenza collettivista all'interno di un mondo dominato dal mercato.

Una favola economica classica esemplifica l'apparente buon senso che presiede alla suddivisione del mondo in porzioni di proprietà. Si tratta della «tragedia dei beni comuni» (Tragedy of the Commons), un articolo pubblicato nel 1968 dal biologo Garrett Hardin al quale, ancora oggi, si rifanno i denigratori degli spazi pubblici. Hardin immagina un campo comune, dove ognuno ha diritto di far pascolare il proprio gregge. Gli allevatori si chiedono in continuazione se sia o meno il caso di aggiungere un animale in più al loro bestiame. L'interesse di questa idea è evidente: un animale in più significa più carne, più cuoio, più latte e più guadagni. L'inconveniente è che esso brucherà erba dal campo comune e, quindi, le risorse per gli altri diminuiranno. Da buon homo economicus contraddistinto dalla razionalità, l'allevatore fa i suoi calcoli: il suo vantaggio è immediato ed egli sarà il solo a goderne, mentre gli svantaggi saranno sopportati da tutti. E così, il contadino aggiunge un capo al suo gregge, poi un altro, e un altro ancora... E dal momento che tutti i contadini sono giunti alla stessa conclusione, tutti aumentano il numero dei propri animali allo stesso modo. «Ogni uomo è concentrato su una logica che lo spinge ad ampliare il proprio bestiame senza limite – in un mondo che è limitato. La rovina è la destinazione verso la quale si precipitano tutti questi uomini, che inseguono ciascuno il proprio interesse all'interno di una società che crede nella libertà dei beni comuni. La libertà dei beni comuni porta tutti alla rovina», conclude Hardin.

La soluzione? La proprietà privata, propone Hardin. Ma di fatto, la «tragedia dei beni comuni» è in primo luogo la giustificazione teorica di un fenomeno storico, noto come movimento delle enclosures, la trasformazione dei beni comuni in proprietà private che ha modificato profondamente le campagne inglesi tra il XV e il XIX secolo. Questa mutazione economica ha gettato sul lastrico i piccoli allevatori, costretti a vendere il solo bene che restava loro, la propria forza-lavoro, e si è dovuta imporre con la violenza, fisica e di Stato, per ottenere il rispetto delle nuove regole. Essa ha spinto famiglie intere all'esilio o al brigantaggio. Ma a lungo termine, sostengono i difensori della proprietà privata, le enclosures hanno dato prova di una temibile efficacia: controllati dai proprietari, che hanno a cuore i loro beni, gli ex terreni comuni sono passati dallo spreco e dallo sfruttamento a una gestione responsabile. Si sono realizzati importanti investimenti nell'irrigazione e nella rete viaria. L'agricoltura ha potuto fare il suo ingresso nella modernità, la produzione cerealicola si e enormemente sviluppata, così come l'allevamento. E, in fin dei conti, tutti ne hanno tratto vantaggio.


Dalla tragedia dei beni comuni a quella dei beni non comuni

Questa versione ufficiale e idilliaca della storia del capitalismo è stata più volte contestata da molti studiosi, tra cui Robert Allen e Michael Turner, ma senza grandi conseguenze. L'unica questione di cui ci si deve occupare è capire se questo ragionamento possa essere applicato alla proprietà intellettuale. Oggi, siamo nel vivo di un secondo movimento delle enclosures. Questa volta, non si tratta di terre, di prati o di pascoli, ma «dell' enclosure dei beni comuni immateriali dell'ingegno», secondo l'espressione del giurista americano James Boyle. Si mettono dei pedaggi per l'accesso alla conoscenza e delle barriere intorno alla cultura, affidandone le chiavi ai proprietari. L'obiettivo è quello di servirsi del controllo concesso sui beni dell'ingegno oggi non più a libero accesso per farli fruttare e porre fine allo spreco, secondo il principio per cui «entrare a far parte del dominio pubblico significa molto spesso cadere nel dimenticatoio», come dice un dirigente della Universal Music, Sophie Bramly.

Questo argomento è uno specchietto per le allodole. Ancora una volta, l'analogia tra proprietà fisica o fondiaria e proprietà intellettuale si rivela una pericolosa trappola: se un pascolo può, al limite, essere minacciato dallo sfruttamento, il rischio che corrono i beni pubblici immateriali è esattamente l'opposto. Troppe mucche in un campo consumano tutta l'erba. Ma più il numero di persone e di imprese che si rifanno a un sapere è elevato, più tale sapere acquista valore. Bisogna preoccuparsi del logorio del teorema di Pitagora perché lo si usa in continuazione in geometria? Calpestato dagli zoccoli e brucato dalle vacche, un campo diviene sterile. La conoscenza, invece, si nutre di conoscenza, si autoalimenta, si fertilizza. E la moltiplicazione dei diritti di proprietà su porzioni di sapere rende la produzione di nuovi saperi più difficile, limitandone l'accesso e ostacolando le nuove creazioni. Non è la tragedia dei beni comuni a incombere sull'immateriale, ma, al contrario, quella dei beni non comuni, secondo l'espressione impiegata dagli economisti per designare la «situazione in cui i protagonisti, ciascuno detentore di una parte delle risorse, hanno la possibilità di escludersi reciprocamente, il che significa, in fin dei conti, che nessuno ottiene il privilegio dell'utilizzo delle risorse», secondo Fabienne Orsi.

La rarita artificiale imposta dall'attribuzione di un diritto di proprietà intellettuale porta perciò al sottoutilizzo di un sapere. Certo, il titolare di un brevetto o di un copyright può concedere una licenza a un terzo che intenda creare qualcosa di nuovo. Ma niente e nessuno può costringerlo. Se un ristoratore serve un piatto immangiabile, il cliente va altrove. Ma che fare se il ristoratore possiede un brevetto su quella pietanza e non vuole che si migliori la sua ricetta? La storia dei brevetti trabocca di esempi di ricerche frenate dal caratteraccio del proprietario. Fu così nel caso di Watt: quando nel 1775 il Parlamento inglese prolungò di 25 anni il suo brevetto sulla macchina a vapore, egli aveva smesso di fare innovazione e limitò drasticamente le licenze accordate. Ostacolò le ricerche di Murdoch sulle locomotive e rifiutò l'utilizzo del vapore ad alta pressione. «Intralciò l'avvio dell'industria meccanica per più di una generazione. Se il suo monopolio fosse terminato nel 1783, l'Inghilterra avrebbe potuto ottenere molto prima le proprie ferrovie», scrive lo storico François Caron. Ancora più emblematico il caso del vaccino contro la malaria. Una delle organizzazioni caritatevoli che lavora su questo aspetto, la Mvi (Malaria Vaccine Initiative), ha individuato una proteina antigenica che potrebbe rivelarsi cruciale per lo sviluppo di un vaccino. Purtroppo, essa ha dovuto prendere atto che la proteina era coperta da nientedimeno che trentanove diversi brevetti. L'organizzazione è stata dunque costretta a negoziare per trentanove volte, vedendosi richiedere molto spesso royalties imponenti, un'esigenza fatale per un vaccino senza valore commerciale, poiché destinato principalmente ai paesi poveri. Il costo umano, sociale ed economico di questa dispersione è considerevole.

La disinvoltura sempre maggiore con la quale gli uffici brevetti accordano i titoli favorisce la tragedia dei beni non comuni. Di fronte al boom di brevetti discutibili o di scarso valore, un numero crescente di imprese si mostra molto critico nei confronti delle derive del sistema. È il caso di Andy Grove, presidente della Intel, fabbricante di microprocessori. Stigmatizzando la facilità con cui vengono distribuiti i brevetti, denuncia i costi esorbitanti dei contenziosi giuridici: negli Stati Uniti, si è passati dai cinque milioni di dollari del 1982 ai quattro miliardi del 1998. In alcuni settori, ogni lavoro d'innovazione costringe i giuristi a spulciare centinaia di documenti al fine di evitare un processo per contraffazione. Gli innovatori «si trovano nella condizione di un soldato che percorre un campo minato dove si nascondono ordigni — i brevetti — non ancora rinvenuti e perciò pronti a esplodere; basta un passo falso e l'impresa salta in aria», secondo la testimonianza dell'ex presidente della commissione americana per la concorrenza, Michael Scherer. Per difendersi, alcune aziende moltiplicano i depositi in tutte le direzioni, al solo scopo di costituire un portafoglio il più ampio possibile e poter così rispondere a un'eventuale offensiva da parte degli avversari. Specialista in questo campo, la società informatica Ibm è arrivata a depositare alcuni brevetti sul modo migliore per ottimizzare la fila d'attesa davanti ai bagni degli aerei. Nel settembre 2003, l'azienda leader dei prodotti per la rasatura, la Gillette, ha denunciato per contraffazione la concorrente Schick, accusata di aver copiato le tecnologie applicate al proprio rasoio trilama per fabbricare il Quattro, a quattro lame. Nel febbraio 2004, la Schick lancia la controffensiva: questa volta, sarebbe la Gillette ad aver contraffatto uno dei suoi brevetti. È evidente che le piccole e medie imprese non possono partecipare a questo gioco al rialzo.

Nell'ambito della cultura, la situazione è altrettanto inquietante. Prima di uscire nelle sale, il film Batman Forever è stato minacciato di interdizione perché sullo schermo la Batmobile attraversava un cortile progettato da un architetto, il quale pretendeva di essere pagato. Nel 1998, l'uscita de L'avvocato del diavolo è stata posticipata di due giorni da un giudice perché uno scultore protestava per la presenza di una sua opera in una scena. I registi che vogliono girare una ripresa di Parigi di notte devono chiedere l'autorizzazione per filmare la Tour Eiffel: l'illuminazione notturna, infatti, è protetta. Il cinema, che integra musica e immagini e ambienta le proprie trame nel mondo reale, è senza dubbio il più esposto. «A un artista di diciotto anni, direi che è libero di fare ciò che vuole, ma... a questo punto, gli darei la lunga lista di tutte quelle cose che non può mettere nel suo film [senza convincere i titolari dei diritti, o pagarli]. Gli direi che è completamente libero di realizzare un film in una stanza vuota con un paio d'amici», racconta il regista americano David Guggenheim.

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La guerra alle esternalità positive

L'altro effetto devastante della guerra all'abbondanza è la distruzione degli effetti economici positivi creati indirettamente dalla copia. L'esempio più calzante è quello dei paesi in via di sviluppo. Con gli accordi Trips/Adpic, essi sono ormai costretti a rispettare livelli di protezione della proprietà intellettuale simili a quelli dei paesi ricchi. Con quali conseguenze? «A lungo termine, una protezione rafforzata del copyright può aiutare a stimolare un'industria culturale locale, purché siano presenti altri fattori che contribuiscono al successo di imprese di questo tipo. Ma a breve e medio termine, questo ridurrà la capacita dei paesi in via di sviluppo e di quelli poveri di colmare le lacune procurandosi i libri, le informazioni scientifiche e i programmi di cui hanno bisogno a un costo sostenibile», indica un rapporto per il governo britannico. In altre parole, impedendo ai paesi più poveri di copiare i libri e i software del Nord, si frena il loro accesso al sapere e si rende più difficile il loro decollo economico. Stesso ragionamento per i farmaci: l'Aids, che è prima di tutto una catastrofe sanitaria, è anche una catastrofe economica, poiché decima la popolazione attiva dei paesi colpiti dall'epidemia e scompagina la loro produzione. Gli accordi Trips/Adpic vietano tuttavia la copia a prezzi ridotti dei trattamenti antiretrovirali, che attualmente sono il solo modo di limitare questo flagello. Senza il clone dei farmaci, la speranza di uno slancio economico svanisce proprio mentre le popolazioni sono devastate dalla malattia.

La stessa logica si applica ai paesi industrializzati, in tutti i settori. Impedire la copia di libri negli istituti scolastici ostacola l'educazione degli alunni e degli studenti, privandoli di quelle risorse che gli avrebbero permesso di formarsi al meglio, e di essere con ogni probabilità in grado di contribuire al benessere economico generale. La guerra alla pirateria dei software esclude dall'apprendimento degli strumenti informatici tutti coloro che non si sarebbero potuti permettere i programmi – o che saranno ormai costretti ad acquistarne uno, invece di copiarne dieci.

Ma di tutto questo i sostenitori della rarità si fanno beffe, chiaramente, poiché gli effetti positivi dell'abbondanza non li riguardano più di tanto. L'interesse immediato dei titolari di diritti è stroncare la copia per guadagnarsi un mercato anche minimo e limitato, ma capace di pagare il prezzo richiesto. E tanto peggio se questa manovra blocca ulteriori benefici economici a livello globale. Esiste un divario considerevole tra l'interesse microeconomico di una ditta titolare di diritti di proprietà intellettuale e l'effetto macroeconomico per l'intera società. Un editore si preoccupa del proprio volume d'affari, non del Pil di un paese sul lungo periodo. Non può fare diversamente: vendere dei prodotti su un mercato è la sua ragion d'essere e la condizione della sua sopravvivenza. La copia e gli effetti benefici della circolazione dei saperi, per definizione, avvengono al di fuori del mercato.

Lo scarto tra l'interesse individuale degli aventi diritto e l'interesse generale delle società mostra l'incapacità di un mercato dei diritti di proprieta intellettuale di fare propri tutti gli effetti della circolazione della conoscenza e della cultura. Per definire le conseguenze di un'attività economica sulla società delle quali i prezzi e il mercato non possono rispondere, gli economisti parlano di esternalità. Di esse, si conosce soprattutto la versione «negativa», un classico nei discorsi sull'ambiente. Prendiamo, ad esempio, un'impresa che produce microprocessori. Per fabbricare i chip, utilizza centinaia di prodotti chimici e consuma molta acqua per il raffreddamento. Quindi, essa riversa il tutto in un lago artificiale sul suo stesso terreno. L'acqua inquinata si infiltra nelle falde freatiche e contamina l'intera zona. Per la collettività, il costo è enorme: gli abitanti della zona si ammalano, l'acqua non è più potabile, lo Stato deve disinquinare... Ma il fabbricante non ha alcun interesse a limitare l'inquinamento perché questo lo porterebbe a vendere i suoi chip a prezzi più alti, rischiando di perdere quote di mercato.

Nel caso della conoscenza, invece, si manifestano esternalità positive. La circolazione più ampia possibile dei saperi e della cultura innesca effetti economici indiretti molto importanti, tanto più potenti in quanto la produzione di beni immateriali sfugge ai rendimenti decrescenti, piaga dell'economia materiale: ci vuole sempre più fertilizzante per produrre poco grano in più; ci vogliono fabbriche sempre più grandi e costose per fabbricare processori poco più piccoli e poco più potenti di quelli della generazione precedente. La conoscenza, al contrario, è cumulativa, produce sempre più conoscenza in tempi sempre più veloci. L'abbondanza si autoalimenta. Di questo, i mercati e i sistemi dei prezzi, fondati sulla rarità, non sanno render conto. Le industrie della cultura e del sapere ragionano solo in termini di incassi e di vendite e non vedono gli imponenti vantaggi indiretti che si vengono a creare. «Il dogma commerciale di oggi è potenzialmente controproducente poiché porta i suoi agenti a non dare alcun valore al tempo trascorso al di fuori del mercato [...] quando invece è proprio in questa dimensione che potrebbe trovarsi il vero giacimento della crescita», spiega l'economista Bruno Ventelou.

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Epilogo
Verso la gratuità



Per la ditta americana Nike, produrre un paio di scarpe Air Pegasus costa 16 dollari; è il prezzo della materia prima, della fabbrica e della manodopera, il tutto subappaltato in Asia sud-orientale, con salari orari molto bassi. Lo stesso paio sarà venduto a 32 dollari ai distributori incaricati di riversarlo sul mercato, una volta aggiunti la pubblicità, gli investimenti di ricerca e sviluppo, gli studi di marketing, le spese di gestione ecc. «Le Nike hanno un costo di produzione come oggetto materiale pari a quello come oggetto fisico» sintetizza l'economista Daniel Cohen. Il valore dei prodotti si situa sempre più nell'innovazione, nel marketing, nel simbolico e nella creatività, e sempre meno nella fabbricazione. Dappertutto, i prezzi delle merci sono sempre più determinati dall'immateriale e non più dal materiale. Un CD? Duplicarlo equivale a qualche decina di centesimi di euro, contro i 15 o 20 euro del prezzo esposto nei negozi. Un farmaco? Decine, se non centinaia, di milioni sono assorbiti da ricerca e sviluppo prima di poter produrre la prima scatola.

Il capitalismo moderno si è precipitato verso una nuova frontiera: la conquista dell'intangibile, l'appropriazione dell'impalpabile. Da meccanismo destinato alla protezione di autori e inventori, la proprietà intellettuale è diventata uno strumento per ricavare un sempre maggiore plusvalore incorporeo. La mercificazione non va cercata altrove. I brevetti sul vivente trasformano la vita in un oggetto di scambio commerciale, il prolungamento dei diritti d'autore consegna alle imprese una parte sempre più ampia del patrimonio culturale e l'attribuzione di titoli di proprietà sui risultati della ricerca scientifica sostituisce il libero accesso con dei pedaggi. Le barriere a pagamento non fanno che aumentare: i bersagli sono lo scambio, la cooperazione e la gratuità, quegli spazi non redditizi e non quantificabili che sono ormai sistematicamente sfruttati.

Ci sarebbe da preoccuparsi se questo imponente fenomeno non portasse, per converso, a un allargamento sempre maggiore della gratuità e della cooperazione, facilitato dai progressi tecnologici. Alla mercificazione della musica – cataloghi ultraconcentrati in mano a quattro major multinazionali e marketing onnipresente – risponde il peer-to-peer e la condivisione dei propri dischi da parte degli internauti. Alla chiusura dei software made in Microsoft risponde il successo dei software liberi. Alla costituzione di database enormi – coperti dalla proprietà intellettuale – si contrappone la libera disponibilità del web. Al battage pubblicitario per imporre le griffe, le false borse Vuitton e la contraffazione generalizzata...

La sovrapposizione della gratuità subita e della gratuità ricercata – quella imposta loro malgrado ad alcuni creatori (ossia, la pirateria) e quella rivendicata da altri – è del tutto intenzionale. Entrambe rappresentano una risposta della società alla privatizzazione della cultura e della conoscenza e sono ugualmente disprezzate dalle imprese: l'industria discografica combatte il peer-to-peer così come la Microsoft combatte Linux, per odio verso il non commerciale. Il tutto sotto il vessillo della «concorrenza sleale», come se questo termine si potesse applicare alla gratuità: la concorrenza è ambito esclusivo delle merci e queste ultime, inevitabilmente, provocano la moltiplicazione degli sforzi, al marketing più spudorato, alla guerriglia commerciale. La sfera del gratuito, invece, ruota intorno alla cooperazione, alla libera circolazione e allo scambio. Non c'è «concorrenza», ma due universi ibridi con regole diverse: commerciale/non commerciale, a pagamento/gratuito, concorrenza/cooperazione.

Il feticismo del profitto ha ormai fatto perdere senso alla parola «gratuito». Non si sta parlando della falsa gratuità, quella dei giornali riempiti di pubblicità o della televisione commerciale: la gratuità non è che un'illusione per il lettore e per lo spettatore poiché è l'attenzione del pubblico a essere trasformata dai media in una merce, come ha ricordato Patrick Le Lay, il direttore generale del canale TF1: «Quello che noi vendiamo alla Coca-cola è del tempo disponibile in un cervello umano». La vera gratuità è quella del dono, della solidarietà e dell'aiuto reciproco, del libero scambio intellettuale e di idee. È la vittoria del valore d'uso sul valore di scambio: «Quando un bene è gratuito, si ritorna a se stessi, alla propria capacità di goderne», afferma il filosofo Jean-Louis Sagot-Duvauroux. La gratuità si costruisce talvolta socialmente, con un finanziamento pubblico. La Sicurezza sociale o la scuola «gratuita, laica e obbligatoria» sono il frutto di una sostituzione concertata del mercato con l'accesso collettivo. La gratuità dei saperi scientifici non implica l'impoverimento dei ricercatori, così come la copia privata è associata a un meccanismo di remunerazione degli autori.

Le rappresentazioni ideologiche dominanti hanno finito per farci perdere di vista una verità evidente: le società moderne sono assuefatte alla gratuità, la cui estensione è un segno di civiltà. «Il progresso, il sapere, la cultura, le invenzioni, l'arte, la civiltà sono la parte gratuita dell'umanità. Essa progredisce perché reagisce con la gratuità alle distruzioni commerciali. Perché inventa la profilassi dopo la peste del 1720 a Marsiglia, perché pulisce le spiagge inquinate dopo il naufragio dell'Erika», scrive l'economista e cronista Bernard Maris. Senza la gratuità, non può esserci la società e neanche il capitalismo; non può esserci il commercio, né la dedizione, né il dono senza le infrastrutture pubbliche, senza luce in quantità. Non può nemmeno esserci creazione senza la gratuità: nessuna invenzione, nessuna opera potrebbe nascere senza il terreno fertile del patrimonio culturale dell'umanità.

Per questo motivo, l'estensione senza limiti dell'appropriazione dell'immateriale da parte dei privati è votata al fallimento: questa offensiva si risolverà con la dissoluzione completa dei vincoli sociali e con un'improduttività economica generalizzata, o con dei conflitti sempre più accesi tra chi si autoproclama proprietario intellettuale e la gratuità anarchica. L'assurda ostinazione dell'industria musicale di fronte allo sviluppo della copia digitale annuncia molte battaglie future: criminalizzazione degli usi individuali, lotte sterili tra il pubblico e gli aventi diritto, incertezza giuridica e sociale per tutti. Bisogna dunque concentrarsi su una politica di ampliamento della gratuità, sulla riaffermazione del primato dello scambio sociale sul commercio e su una coerente organizzazione del non commerciale. L'obiettivo tradizionale della proprietà intellettuale è proprio quello di tracciare una linea di demarcazione, sempre mutevole, tra la merce e il gratuito. È questo il senso che bisogna recuperare oggi.

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