Copertina
Autore Vincenzo Latronico
CoautoreArmin Linke
Titolo Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2013 , pag. 168, ill., cop.fle., dim. 16,7x22x1,5 cm , Isbn 978-88-7462-471-3
LettoreElisabetta Cavalli, 2013
Classe paesi: Etiopia , viaggi , storia: Africa , paesi: Italia: 1920
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Indice


Vincenzo Latronico
Un altro viaggio in Etiopia                       7

Armin Linhe
Da Gibuti ad Addis Abeba                         79

Dossier Etiopia                                 113

    Angelo Del Boca
    Incontri con Hailé Selassié                 115

    Hailé Selassié. Un album                    121

    Simone Bertuzzi /Palm Wine
    King of Kings, Lord of Lords,
    Conquering Lion of the Tribe of Judah       135

    Graziano Savà
    Dizionarietto delle parole italiane
    in lingua amarica                           143

Itinerario: informazioni pratiche               151

    Appunti locali                              153

    Mappe                                       160

Gli autori                                      166



 

 

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Pagina 9

Giravamo da tre ore il deserto arroventato quando abbiamo cominciato a dirci che forse avremmo dovuto prendere una guida. Avevamo lasciato Gibuti City dopo l'alba, diretti verso il confine con l'Etiopia; all'altezza di Dikil — un grappolo di baracche di lamiera stretto intorno allo sterrato — avevamo svoltato su una strada persino più sterrata, in cerca di un lago nel deserto, il Lac Abhe, a sessanta chilometri da lì. Erano le due e mezza del pomeriggio. E poi erano le cinque e mezza, e di chilometri ne avevamo percorsi quasi duecento, e scendevamo dalla Toyota per contemplare la situazione: di fronte a noi un rilievo roccioso che in lontananza diventava un massiccio collinare, alle spalle una nube di sabbia arrossata dal tramonto. Sarebbe stato buio nel giro di poco, il deserto ci si chiudeva intorno — e cominciavamo a dirci che forse avremmo dovuto prendere una guida.

A dire il vero avevamo un autista, che in un inglese rammendato di amarico aveva sostenuto di saper raggiungere il lago: e aveva continuato a sostenerlo a ogni dietrofront, a ogni dubbio, a ogni punto in cui la pista nella sabbia si sdoppiava fra i ciottoli e lui frenava, esitando per qualche istante prima di imboccare una delle due, tre, quattro alternative identiche. Lo aveva sostenuto anche l'unica volta che avevamo chiesto informazioni a un passante (il posto era stranamente popolato, per essere un deserto: ma ci avremmo fatto l'abitudine). Lo scambio, complicato dall'incongruenza delle combinazioni linguistiche — amarico e inglese contro arabo e francese — era cominciato con il nostro autista che indicava con una mano l'orizzonte, dicendo "Lac Abhe?". Il passante aveva scosso la testa, puntando la stessa direzione: "No Lac Abhe". "Lac Abhe?", col medesimo gesto aveva insistito l'autista. "No Lac Abhe", aveva spiegato lui indicando la strada che, pochi istanti dopo, abbiamo ripreso a seguire. Non c'era ragione di agitarsi. Avevamo tempo. Erano ancora le quattro.

E poi erano le cinque e mezza, e nella polvere che si posava alle nostre spalle si sono materializzate due bambine seguite da una decina di capre con le zampe incrostate di argilla. Si sono avvicinate in silenzio, guardandoci; quando abbiamo detto qualcosa hanno chiamato ad alta voce un uomo che le ha raggiunte poco dopo, indossando dei jeans tagliati corti sotto il tabarro verde degli Afar. A gesti ci ha fatto capire di sapere dov'era il Lac Abhe; gli abbiamo dato cento Birr ed è salito accanto all'autista, in silenzio. Le bambine si sono alzate gli scialli fino alla fronte quando la Toyota è ripartita sollevandosi dietro a sé una piccola tempesta di sabbia.

L'uomo ci ha guidati in silenzio. Dopo alcune svolte, e svariati chilometri passati chiedendoci come sarebbe tornato indietro, a piedi e senz'acqua, si è profilata una capanna in lontananza. Due uomini ne sono usciti quando ci siamo avvicinati e la nostra guida ha fatto cenno di fermarci. Ho abbassato il finestrino, pensando che volesse chiedere informazioni, ma lui anticipandomi ha aperto la portiera, è uscito e se n'è andato.

"What's happening?", abbiamo chiesto al nostro autista.

"Brothers", ha detto lui, indicando i tre che tornavano verso la capanna, dove presto i fratelli ora ricongiunti sono spariti. Ci siamo guardati intorno. Il panorama era molto suggestivo, in quella parte di deserto, tutto porpora e arancio di sole morente, a mezz'ora circa dal buio.

Questo poteva essere l'inizio del racconto di un viaggio che ho fatto in Etiopia con il fotografo e artista Armin Linke, nel febbraio del 2012. Il testo e le fotografie, e il viaggio nascevano sotto l'impulso di un progetto editoriale, Humboldt, che voleva saggiare la percorribilità del racconto di viaggio come genere letterario, a più di un secolo dal suo momento di gloria. Questo inizio, da un certo punto di vista, andava bene. Ciò che racconta è accaduto davvero, scontato di una scusabile misura di epica. Il momento descritto è in qualche modo sintomatico dell'esperienza di un viaggio solo parzialmente organizzato in un paese lontano. I luoghi sono abbastanza esotici da evitare il déjà-vu. Il tutto, nonostante la drammaticità un po' forzata, rispetta il carattere essenziale del racconto di viaggio, il suo essere portatore sano di panorami.

È facile immaginare, dopo la creazione della suspense, un salto all'indietro di un po' di tempo che spieghi la partenza, la pianificazione, la composizione del gruppo, per poi ricongiungersi con l'anticipazione iniziale e portare allo scioglimento della vicenda (alla fine lo abbiamo trovato, il lago): e così via, e così via.

Ma il contenuto fondamentale di questo inizio non era un evento, un luogo o un panorama: il contenuto fondamentale di questo inizio era il bisogno di creare una tensione emotiva nel lettore, bisogno nato dalla sensazione o dal timore che il racconto di viaggio, privo di questa tensione aggiunta, risultasse scialbo o piatto o noioso. Il contenuto fondamentale di questo inizio, quindi, era la paura, o il tentativo di alimentare un interesse surrettizio, che a propria volta non nascondeva che paura.

Quale paura? La paura di cadere nella trappola dell'esotismo, o nel suo contrario; la paura di assumere con troppa facilità lo sguardo del colono, forzando tutto ciò che si vede in una griglia interpretativa fatta di tre nozioncine di antropologia culturale e qualche lettura della domenica; la paura di mancare dell'esperienza — di viaggiatore, di Africa, di persona — per evitare cliché e luoghi comuni nel parlare di qualcosa di evanescente e già impantanato negli stereotipi come il viaggio; la paura di trovarsi paralizzati nel campo minato della teoria post-coloniale e rifiutarsi di azzardare anche solo un'ipotesi perché potrebbe rivelare tutte le zone cieche dello sguardo occidentale.

Ma questa, come è ovvio, è una paura fondata: il mio è uno sguardo occidentale: è da qui che sto guardando, e forse era negare questo aspetto, negare la parzialità del proprio punto di vista, che rendeva possibile il racconto ingenuo e autoritario del viaggiatore ottocentesco. La mia paura, quindi, era di scoprirmi a scrivere non tanto di Etiopia, quanto di me. Più che una paura, a dire il vero, questo è un senso di colpa: io sto scrivendo di me. Sono voluto andare in Etiopia perché mia madre ci è nata; e mio nonno ci ha esercitato la professione di avvocato; e il mio bisnonno ci è stato spedito da Mussolini come procuratore del re per l'Africa Orientale Italiana, distinguendosi in quanto autore della teoria secondo cui, piuttosto che affidare alla giustizia etiope le indagini giudiziarie, se i testimoni si rifiutavano di collaborare con l'amministrazione fascista conveniva punire in blocco l'intero villaggio in cui un reato aveva avuto luogo. Per questo volevo andare in Etiopia.

Il discorso della paura si è materializzato anche nel pomeriggio, dopo il ritorno, quando io e Armin ci siamo visti nel suo studio a Berlino per scorrere insieme le foto che aveva scattato. Mi sono seduto di fronte a centinaia di pagine di provini, con una birra e un foglio di bollini verdi, in una stanza foderata di schedari quadrati. "Metti un bollino su quelle che ti piacciono", mi ha detto.

Dopo alcuni minuti in cui ho osservato le immagini senza contrassegnarne neppure una, mi sono reso conto che erano in gioco gli stessi filtri o sistemi di frenata automatica che dovevo affrontare scrivendo. "Non sono molto raffinato", mi sono schermito, quasi ridendo, per giustificare la mia indecisione e la mia predilezione per immagini banali. "Le foto che mi piacciono sono tutte di paesaggi drammatici, o donne che lavorano al mercato, insomma, cose così, un po' pittoresche".

Armin ci ha pensato su per qualche secondo. "Sai", mi ha detto, "forse non mi interessa evitare il pittoresco".

Ecco: il viaggio che abbiamo fatto, e il testo che ne è nato, sono il risultato, in controluce, di alcune paure e degli sforzi fatti per dissolverle, un po' come la passeggiata di uno sminatore è il risultato, in controluce, del reticolo di bombe nel terreno. Dalla conoscenza della posizione delle mine, ovviamente, non segue affatto la capacità di aggirarle.

Tutto questo potrà risultare un po' banale, ma mi sembrava importante specificarlo, prima di cominciare.


Per cominciare


L'Etiopia è una repubblica federale annidata nel corno d'Africa — la punta orientale del continente. È grande tre volte l'Italia e condivisa da un'ottantina di gruppi etnici, che parlano lingue diverse e che hanno ottenuto una crescente indipendenza dal governo centrale con la caduta del regime comunista del Derg, nel 1989. Il regime aveva avuto inizio nel 1974, con il colpo di stato militare che aveva spodestato l'imperatore Hailé Selassié, che regnava dal 1941, quando con l'aiuto dell'esercito inglese di stanza in Kenya aveva riconquistato il trono che pochi anni prima l'Italia gli aveva usurpato nel suo fallimentare e crudelissimo progetto coloniale. Un etiope anziano, quindi, ha vissuto la propria vita sotto cinque regimi di natura diversa.

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Pagina 55

Nomi di città: il nome


Ho sentito così spesso il nome di Addis Abeba, quando ero piccolo, senza mai vederla né ipotizzare che un giorno l'avrei vista, che in qualche modo l'avevo ricondotta inconsciamente al cassetto delle illusioni che si superano con l'età: con Babbo Natale, con il voto di condotta, con il punk.

Di Addis Abeba sapevo che le strade erano quasi tutte di sabbia, cosa che aveva causato un brutto incidente alla Citroèn DS dei miei; che l'imperatore aveva un serraglio di leoni nel recinto del vecchio ghebì, dove mio nonno portava a passeggio mio zio quando era piccolo, spaventandosi per le occhiate ghiotte che gli animali gli riservavano; che uno di quei leoni era stato donato ad Abebe Bikila per celebrare la sua vittoria alla maratona di Roma, nel 1960: l'atleta lo portava in giro, sotto la narcosi, incatenato nel cassone del suo pick-up, e i bambini insistevano perché l'auto della madre, mia nonna, vi si accodasse per vederlo meglio. Sapevo anche che mia madre era stata morsa da una scimmia e solo grazie a un ospedale militare americano aveva avuto l'antirabbica; sapevo della maestosa vetrata realizzata per l'Africa Hall dall'artista nazionale etiope, Afewerk Tekle; sapevo delle iene che la notte giravano per le vie della città; sapevo che la bambinaia etiope aveva insegnato a mia madre a scuotere le spine elettriche dopo averle staccate dal muro, così che l'ultima corrente ne sgocciolasse via; sapevo che a volte le bambine (mia madre, mia zia) erano invitate dalla principessa con cui avevano studiato a vedere un film nel cinema privato del palazzo imperiale; sapevo che Hailé Selassié era chiamato soprattutto grand papa, che significa nonno, e che il popolo sapeva che era lui che faceva piovere; e che per questo, durante la rivolta del 1969 che spinse la mia famiglia a scappare in Italia, le domestiche si chiedevano se e quando ci sarebbe stata la siccità, dopo.

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Pagina 67

In Italia non parliamo di colonialismo; non lo studiamo a scuola; non lo associamo a giornate del ricordo, a monumenti, a musei; non abbiamo neppure cominciato il percorso di autoanalisi della decolonizzazione. Ma questo perché, in fondo, non ci riteniamo dei veri colonizzatori: sarà la convinzione, consolatoria e falsa, che sia stato in fondo poca cosa rispetto a quello di altri paesi europei; sarà l'illusione, comoda e falsa, che la nostra inettitudine bellica ci abbia impedito di commettere atti poi così gravi; sarà la coda lunga dell'apparato fascista che ha impedito elaborazioni collettive delle colpe. Ad ogni modo, credo, una decolonizzazione italiana non c'è stata, almeno non per me – e la cosa è stata, a tratti, drammaticamente evidente e paradossale, e imbarazzante, per noi in Etiopia. Ma lo è anche altrove, innanzitutto in patria. Un paio di mesi prima della partenza, ad esempio, stavo raccontando alcuni dettagli della mia storia familiare a una traduttrice ghanese che avevo incontrato ad un convegno; le ho detto, fra le altre cose, che mio nonno è stato fatto prigioniero quando gli inglesi hanno liberato l'Etiopia dagli italiani.

"Non l'hanno liberata gli inglesi", mi ha risposto lei. "L'hanno liberata gli etiopi".

E così via, e così via.

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Pagina 60

Un ultimo elenco di cose viste ad Addis Abeba, come un
movimento di macchina che si sfoca acquistando velocità



1. Il "Juventus" ("Giùventuz"), circolo ricreativo nato come associazione di tifosi ma divenuto ben presto il ritrovo della classe dirigente italiana. È un palazzetto modernista ammantato di mosaici dalle linee vagamente futuriste, a tema sportivo; si trova sulle collinette dietro Mescal Square. Per arrivarci occorre attraversare una delle parti più malandate della città, fra rottami arrugginiti e torrenti di spurghi. Infine, dietro alla sorveglianza armata, si materializza il lusso degli anni '50, il circolo di bridge, la bacheca di sughero coi nomi degli ufficiali all'ingresso, ogni cosa impregnata di una storia che è quella, di un modo d'uso che è quello. Mia madre si ricordava del posto e del mosaico; prima che glielo facessi notare io, al mio ritorno, non aveva mai collegato il nome del locale a quello della squadra di calcio.


2. Così come si ricordava di "Enrico", famosa pasticceria nel quartiere delle istituzioni italiane, chiamato, come è ovvio, Piazza. Le consolle di vetro bombato profilate di ottone, gli specchi, il bancone con i bonbon nei barattoli trasparenti: è tutto come in una pasticceria storica di una cittadina italiana, tranne i pasticcini, che sono ottimi e tradizionali e presenti sull'unico vassoio in un negozio di trenta, quaranta metri quadri altrimenti perfettamente vuoto. Nella vetrina accanto, i locali che ospitavano la libreria italiana sono occupati, da una decina d'anni, da una pizzeria; il gestore ancora vende i vecchi avanzi di magazzino, libri storici e manuali intonsi con la data di pubblicazione in numeri romani seguita dalla sigla E.F. Li tiene in uno sgabuzzino al piano inferiore.


3. Gli enormi giardini delle costruzioni più antiche, di quando la città era ancora un'ipotesi, e lo spazio senza un vero costo. L'albergo "Ghion", ad esempio, il primo rivolto ai dignitari europei: una piccola costruzione di tre piani, con alcune villette indipendenti sparpagliate nel giardino che serve solo a far passeggiare gli ospiti fra palmizi e pini marittimi e fontane. Da quanto posso misurare sulla cartina è di circa duecentosettantamila metri quadri, ettaro più, ettaro meno. Ha un fossato, intorno.


4. Merkato, il più grande mercato del continente africano, esteso per un intero quartiere in continuità fra le strade le piazze gli enormi sterrati e le costruzioni più recenti, palazzi di appartamenti in cui ogni locale è di un grossista o funge da showroom di qualche cosa, per tre, quattro, cinque, sei piani di corridoi. Le auto si fanno strada nel fango a passo d'uomo, fra asini carichi di rulli di chat avvolti in foglie di banano per serbarne la freschezza, interi greggi di capre in vendita, gioielli, frutta, verdura, prodotti di elettronica. Ne siamo scappati.


5. La strada che si inerpica sull'altura verdeggiante che domina la città, verso il mausoleo di Menelik II. L'edificio è una sorta di battistero circolare, al termine di una via che più si allontana dal centro più rapidamente diventa una mulattiera di montagna. I tornanti serpeggiano fra le scarpate mentre i pini si infittiscono e l'andatura, l'abbigliamento dei passanti rivela a prima vista la quota. Nel giardino intorno al mausoleo un centinaio di persone siede in silenzio di fronte a un uomo che parla. "È una messa?", chiediamo. "No", ci rispondono, "è la scuola di teologia".


6. La chiacchierata con Butaëff, russo-armeno nato ad Addis Abeba in un altro millennio, prima dell'arrivo del Derg, prima dell'arrivo dei fascisti, prima di tutto. È stato Fasil Ghiorghis a metterci in contatto con lui; sua figlia ci ha accolti nella loro casetta a un piano, circondata da un giardino minuscolo e barocco, irto di ninnoli e statuette e fontane. Butaëff parla in un italiano solenne e appena belante, intrecciato di francese e di inglese come solo la lingua dei nati fuori patria - come la lingua di mia nonna, che Butaëff aveva conosciuto negli anni Cinquanta. Dice di ricordarsi alcune cose di com'era la vita prima degli italiani - aveva undici anni all'epoca della conquista - e sotto altri quattro regimi, a seguire. Suo padre, come il mio bisnonno, aveva lasciato la Russia per scappare dal comunismo, ed è stato un bene, ci dice, che non sia vissuto abbastanza per vedere il suo arrivo in Etiopia. "All'inizio non sembrava il comunismo. Sembravano ragazzi che lanciavano sassi".


7. Le piramidi di cenere che ogni mattina punteggiano il ciglio delle strade più ampie, quel che resta dei fuochi accesi per scacciare il freddo notturno dell'altopiano. Cominciavano ad accenderli anche quando, alle dieci dell'ultima sera, abbiamo preso l'aereo e siamo tornati.

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Pagina 115

ANGELO DEL BOCA


INCONTRI CON HAILÉ SELASSIÉ



Angelo Del Boca , classe 1925, è il pioniere degli studi sull'Italia coloniale. Arriva ad occuparsi di questo argomento dopo un percorso militante: partigiano di Giustizia e Libertà, promettente narratore nel dopoguerra, entra alla «Gazzetta del Popolo», quotidiano torinese, nel 1950. Qui inizia la sua carriera di inviato internazionale. Nel 1968 diventa caporedattore centrale del «Giorno», che lascia nel 1981 per approdare all'Università di Torino, dove ha insegnato Storia dell'Africa. Ha appena finito di scrivere un libro sui grandi uomini del Novecento che ha incontrato (da Mussolini a Gheddafi). Noi gli abbiamo chiesto dí raccontarci i suoi incontri con Hailé Selassié.


Primi incontri con Hailé Selassié


Ho incontrato Hailé Selassié sette o otto volte: mi è difficile stabilirlo con esattezza. Durante il convegno fra i 32 capi di stato africani del 1963 gli feci un paio di interviste volanti. Di interviste vere e proprie, con la richiesta ufficiale e le domande scritte, gliene ho fatte cinque. Il primo incontro è stato nel 1960. Fu un'intervista molto interessante. Erano ancora in vigore procedure piuttosto ridicole. Si arrivava al suo cospetto, si facevano tre passi, poi un inchino, poi altri tre passi... Insomma era tutto un po' noioso e avvilente. C'era un maestro delle cerimonie che ci istruiva. L'incontro avvenne nel vecchio palazzo, la residenza di Menelik. Ricordo che la volta successiva, nel 1960, quell'odioso cerimoniale era stato abolito, anche a seguito del tentativo di colpo di stato.

Ero diventato molto amico del nipote di Hailé Selassié, che era il suo capo ufficio stampa. Mi preparava gli incontri in modo che arrivassi dall'imperatore come amico del nipote e poi non solo come giornalista di passaggio, ma come autore di libri sull'Africa. Si alzava dal trono e mi veniva incontro per stringermi la mano; un rapporto quasi familiare. Parlava un ottimo francese (allora la lingua franca era il francese).

La cosa che mi ha subito colpito in Hailé Selassié è stata la fragilità del personaggio. L'ho quasi sempre visto vestito da militare, da capo dell'esercito: con una divisa di tela molto elegante che lo «incorniciava» bene, gli dava come un po' di sostanza. Le sue mani erano talmente delicate che quando gliele ho strette mi è sembrato di fargli male. Credo che non pesasse più di 45, 50 chili, ed era alto meno di un metro e sessanta. A parte la prima intervista, in cui parlammo in francese, si dialogava in italiano o francese, senza traduttori. Il negus era molto curioso, attento a chi aveva davanti. Rispondeva a tutte le domande e ne faceva a sua volta, ti poteva chiedere per esempio notizie e opinioni sulla politica internazionale.

Di lui colpivano anche gli occhi, vivissimi. Circolava una leggenda che non fosse figlio di suo padre, ma di Mohammed Alì, un grande commerciante indiano che aveva riempito l'Etiopia con i suoi magazzini. Ritengo sia una leggenda, ma è vero che assomigliava più a un indiano che a un etiope.

Nel nostro primo incontro - stavo preparando un libro sulla guerra d'Abissinia - ci siamo soffermati sull'uso dei gas da parte degli italiani, sui massacri: cose che confermò in maniera netta, ma senza rancore, senza spirito di vendetta.

In effetti, quando è rientrato nel '41 nel suo Paese, varcando il fiume che separa il Sudan dall'Etiopia, come prima cosa ha fermato la Gideon Force e ha detto: «Adesso mandiamo messaggeri in tutto il paese per dire di non toccare gli italiani perché non dobbiamo rispondere con misfatti a misfatti». Si appellava alla religione: «Poiché siamo cristiani dobbiamo comportarci da cristiani, ed essere pietosi verso di loro». Infatti gli italiani non furono colpiti. Ne rimasero circa un migliaio. Gli inglesi volevano che se ne andassero tutti, ma Hailé Selassié, che era tutt'altro che sciocco, pensava che ci fosse bisogno di qualcuno che facesse funzionare la centrale elettrica o quella dell'acqua. Si rendeva conto che gli italiani non erano stati in ozio durante la sua assenza. Quelli che gli erano utili li nascose nel sotterraneo del suo palazzo. Li nascondeva perché erano sgraditi agli inglesi. In realtà erano più di mille.


Rapporti internazionali


Hailé Selassié venne in Italia per la prima volta nel '24; si fermò una settimana, durante un viaggio in Europa. Lo avevano portato a vedere le acciaierie, le navi, e da allora gli fu chiaro che l'Italia era una grande potenza. Incontrò Mussolini, che gli fece lo sgarbo di arrivare in ritardo al pranzo in suo onore, e incontrò anche il re, che gli conferì il collare dell'Annunziata, rendendolo in questo modo parente dei Savoia.

Dopo la guerra Hailé Selassié seppe ricucire i rapporti con l'Italia, così come riuscì a non restare sotto la protezione inglese. Quando nel dopoguerra il mondo si divise in due blocchi, strinse ottimi rapporti con Tito e Nehru che erano i leader dei paesi non allineati, pur non facendo egli parte del gruppo.

Nel 1963 ero presente alla riunione dei capi di governo ad Addis Abeba. In quell'occasione fu abilissimo a far dialogare 32 capi di Stato. All'epoca c'erano contrasti tra la Somalia e altri paesi. Selassié presiedeva tutte le riunioni, e inviava bigliettini per smussare le tensioni con grandissima abilità. Ogni tanto, nelle pause, mi avvicinavo per chiedergli qualche chiarimento, ed era sempre molto disponibile. Ammiravo la sua abilità di diplomatico.



Davanti alla Società delle Nazioni


A parte il combattimento del primo marzo 1936 (quando, a un passo dal cedere le armi, era tuttavia in prima linea e sparava agli aerei italiani che lanciavano bombe all'iprite), il momento più alto e nobile della sua vita è stato il discorso alla Società delle Nazioni a Ginevra. «Sono qui per difendere il mio paese e per ricordarvi che oggi è il mio turno, ma domani potrebbe toccare a voi», disse. Si giocava tutto. Non ebbe riconoscimenti. Aveva chiesto i mezzi per continuare la resistenza, ma il suo discorso rimase un monito di quel che di lì a poco sarebbe successo in Europa.

Il testo del discorso non è però del tutto suo. Fu aiutato nel comporlo dal comandante del fronte Sud che sarebbe morto di lì a poco in conseguenza dei gas asfissianti, il degiac Nasibù Zamanuel.


La politica interna


A partire dagli anni Sessanta Hailé Selassié venne accusato di non aver fatto riforme, specie di aver trascurato quella agraria. E poi lo si accusava di aver mantenuto la schiavitù. Si parlava di un milione di schiavi. Insomma l'Etiopia era considerata un paese barbaro governato da un imperatore barbaro. In realtà il negus era tutt'altro che barbaro. Mi disse, a proposito dell'Etiopia, che non poteva svegliare una «fanciulla» - usò questo termine - di colpo, ma bisognava farlo con dolcezza. Per lui l'Etiopia era un paese addormentato da millenni che andava svegliato gradualmente: questo era il modo in cui rispondeva alle accuse.

In effetti aveva già abolito la schiavitù nel '42; ma va precisato che le riforme, anche piccole, erano difficilissime. Fino al colpo di stato del 1960, molti dei suoi ministri erano proprietari terrieri, o meglio grandi feudatari egoisti e spietati. Dovette ricostruire il paese eliminando gli arbitrii più grandi e aprire un parlamento che tutto sommato funzionava: mi è capitato di assistere a parecchie sedute. Hailé Selassié non è riuscito a trasformare l'Etiopia secondo le sue intenzioni, ma io credo alla sua buona fede. Dovette fare i conti con molti ostacoli, in particolare gli erano nemici la nobiltà e il clero, un clero formato da due milioni di persone che vivevano sulle spalle della società.

Il suo strumento di comando fu l'esercito, che rese l'Etiopia il paese più avanzato dell'Africa ai tempi della decolonizzazione. In quegli anni Hailé Selassié era venerato in molte parti del mondo. Fu lui ad avviare all'estero diversi studenti, che poi tornarono in Etiopia a dare un contributo alla modernizzazione del paese.


Gli ultimi incontri, il colpo di stato del Derg, l'assassinio


Hailé Selassié venne in Italia nel 1971. L'ho incontrato a Milano, e qui gli ho consegnato la biografia che avevo scritto su di lui - l'avevo fatta rilegare in pelle per donarla all'imperatore. Lo incontrai per l'ultima volta nel 1972. Il mondo stava cambiando e l'opinione pubblica internazionale che lo aveva a lungo sostenuto si stava allontanando da lui. Quando ci fu il colpo di stato nel '73, Menghistu agì in maniera morbida, rinchiudendolo nella residenza di Menelik insieme a una parte della sua corte. Sembrava che l'imperatore comandasse ancora. Fu poi Menghistu a farlo sotterrare sotto il suo ufficio per essere sicuro che non scappasse. Ho raccolto varie interviste e a me pare certo che fu Menghistu in persona ad ucciderlo: dopo averlo narcotizzato, lo soffocò. C'è naturalmente un forte valore simbolico in questo assassinio: Menghistu voleva fare piazza pulita di tutto il passato, e spegnere Hailé Selassié significava spegnere il vecchio mondo. Quel che è successo dopo, la guerra fratricida tra Etiopia ed Eritrea, gli uni appoggiati da Mosca gli altri da Pechino, lo ha fatto rimpiangere.


Un giudizio


Il libro di Kapucinski su Hailé Selassié non mi piace. Kapucinski non ha mai incontrato l'imperatore e si è valso soprattutto dei racconti di un maggiordomo che propalava false notizie – anche io ho incontrato questo individuo, ma non ne ho mai avuto nessuna fiducia. Ci sono alcune immagini dell'imperatore – ad esempio quando sfila con i chihuahua davanti all'esercito schierato – che denunciano debolezze senili, ma nel complesso ho un'enorme ammirazione per Hailé Selassié. È fondamentale l'educazione che ricevette dal vescovo di Harar, il quale gli instillò dentro le idee di progresso. Quello è il punto di partenza per comprenderlo. Poi penso alla fine della sua esistenza con Menghistu che lo uccide col cuscino intriso di narcotico. Questa è la parabola. Il punto più alto? La resistenza all'esercito italiano durata sette mesi... Ho incontrato e ammirato Nehru, Indira Gandhi, Madre Teresa di Calcutta, Albert Schweitzer, ma ho una predilezione per Hailé Selassié. Quando penso a lui, lo ricordo alla tribuna della Società delle Nazioni di Ginevra, piccolo, vestito di nero, che pronuncia il suo discorso contro il fascismo. È la prima volta che l'Africa parla davanti al mondo.

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