Copertina
Autore Andrea Lavazza
CoautoreR. Swinburne, J. Foster, W.D. Hart, U. Meixner, H. Robinson, C. Taliaferro, E.J. Lowe, D.J. Chalmers, W. Hasker, D.H. Lund
Titolo L'uomo a due dimensioni
SottotitoloIl dualismo mente-corpo oggi
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2008, Campus , pag. 324, cop.fle., dim. 14,5x21x2 cm , Isbn 978-88-424-2060-6
PrefazioneMichele Di Francesco
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe filosofia , mente-corpo , scienze cognitive
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Indice


 IX Prefazione
    di Michele Di Francesco

    Introduzione

  1 Come la mente resiste al fisicalismo
    di Andrea Lavazza


    PARTE PRIMA. DUALISMO CARTESIANO

 67 Che cosa mi rende me? Una difesa del dualismo delle sostanze
    di Richard Swinburne

 87 Una breve difesa della prospettiva cartesiana
    John Foster

105 Unità e dualismo
    Wilbur Dyre Hart

116 Fisicalismo, dualismo e onestà intellettuale
    Uwe Meixner

140 Dualismo
    Howard Robinson

162 L'importanza di essere coscienti
    Charles Taliaferro


    PARTE SECONDA. DUALISMO NON CARTESIANO

185 Dualismo delle sostanze non cartesiano
    E. Jonathan Lowe

208 Affrontare il problema della coscienza
    David J. Chalmers

240 Dualismo emergente: una prospettiva
    di mediazione sulla natura degli esseri umani
    William Hasker

256 Il dualismo e il sé cosciente
    David H. Lund


279 Gli autori
281 Fonti
283 Bibliografia
313 Indice dei nomi
317 Indice analitico


 

 

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Pagina IX

Prefazione

di Michele Di Francesco


Il dualismo mente-corpo è una posizione filosofica che considera i fenomeni mentali come ontologicamente indipendenti dal mondo fisico. Nel pensiero moderno esso nasce dalla difficoltà della filosofia cartesiana di conciliare la visione del mondo sviluppata dalla scienza galileiana con il carattere apparentemente sui generis di pensiero, razionalità, esperienza. Se il mondo e il corpo umano sono meccanismo, legge, determinismo, la mente appare a Cartesio (e a molti dopo di lui) libertà, creatività, soggettività. Da qui la tesi di una radicale alterità tra i due mondi.

Oggi pochi filosofi si definirebbero dualisti in questo senso così forte. E con solide ragioni. La principale, com'è noto, è la difficoltà di ipotizzare una qualche interrelazione tra sostanze ontologicamente differenti come la res cogitans e la res extensa, ma molte altre obiezioni militano contro il dualismo, insieme a quello che potremmo chiamare lo spirito dei tempi, orientato alla scoperta delle basi materiali del pensiero e della soggettività, e dominato dai grandi, affascinanti e sorprendenti progressi della scienza della mente.

Al di là degli argomenti filosofici anti-dualistici, in verità solidi e di non semplice confutazione, il fatto nuovo che caratterizza la filosofia della mente degli ultimi cinquant'anni è proprio lo sviluppo di una scienza della mente, i cui risultati non soltanto mettono in discussione radicate intuizioni della filosofia e del senso comune, ma mostrano anche una chiara tendenza a collocare in modo sempre più organico la mente nell'ordine naturale. Neuroscienze, psicologia cognitiva ed evoluzionistica, antropologia cognitiva si affiancano ad intelligenza artificiale, linguistica e filosofia per dipingere un ritratto dell'umano sempre più inserito in una visione dei fenomeni mentali che è agli antipodi del dualismo.


Tutto risolto, dunque? In verità, la questione appare più complessa. Malgrado le apparenze, la riflessione filosofica contemporanea sulla natura dei fenomeni mentali è attraversata dalla tensione tra due esigenze sostanzialmente opposte: una nella direzione della dipendenza del mentale dal fisico, l'altra in quella della sua autonomia.

L'idea di dipendenza ha molte forme, ma, come osservato, trova il suo humus nel sostanziale naturalismo che caratterizza oggi tanta parte della riflessione filosofica, quanto meno nel mondo anglosassone e analitico (ovvero negli ambiti in cui maggiore e più significativa è la riflessione sul mentale). Nella sua versione minimale, questo naturalismo può essere inteso come un vincolo alla ricerca filosofica: un filosofo è sovrano nella sua elaborazione teorica, ma a patto di non porsi in conflitto con risultati acquisiti e condivisi dalla comunità scientifica (se volesse farlo, allora dovrebbe, per così dire, alzarsi dalla poltrona e andare in laboratorio). A questa forma di naturalismo molto debole se ne affiancano altre più robuste, che tendono a identificare la struttura metafisica del mondo con ciò che ci viene proposto dalle scienze naturali forti (fisica, chimica, biologia).

Nonostante la diffusione (relativa, e proposta in molte sfumature) del sentire comune naturalistico, molte riflessioni sottolineano anche la dimensione dell'autonomia del mentale. Raramente questa autonomia è proposta in termini ontologici assoluti: pochi oggi sono i pensatori che ritengono che il mentale possa fluttuare libero dai processi fisici che ne sono alla base. Si tratta di un'autonomia disposta a pagare un certo prezzo alla dipendenza. Ma non fino al punto da ridurre il mentale al fisico.

Se caratterizziamo questa posizione come anti-riduzionismo, potremmo dire che essa ha rappresentato per molti versi l'ortodossia nella filosofia della mente nella seconda metà del Novecento. Da un lato perché si è proposta come ontologia di quella grande rivoluzione scientifica, ancora troppo sottovalutata, rappresentata dalla nascita della scienza cognitiva. Per il cognitivismo classico avere una mente è avere un dispositivo di elaborazione dell'informazione – e l'elaborazione dell'informazione non dipende dalla natura del mezzo in cui essa è implementata (o meglio ne dipende in modo contingente, ma non essenziale). Quando si costruisce una mente, scrive Dennett, «il materiale conta», ma il livello a cui individuiamo i fenomeni mentali non è quello del «materiale». Il secondo elemento in favore dell'autonomia del mentale è l'ostinata resistenza dei fenomeni soggettivi a lasciarsi spiegare in termini fisico-biologici. Esiste, è stato scritto, un «gap esplicativo» tra le nostre descrizioni di livello fisico-biologico e l'esperienza soggettiva. Anche se non necessariamente tale gap è stato inteso in senso ontologico, certamente esso segnala nuovamente la difficoltà di una riduzione del mentale al fisico. La soluzione che vorrebbe mettere tutti d'accordo viene allora individuata in quella mediazione tra dipendenza e autonomia che è il "fisicalismo non riduttivo". In una versione un po' frettolosa: tutti gli eventi sono eventi fisici, ma alcuni eventi fisici hanno anche proprietà non fisiche-mentali. (Il fisicalismo non riduttivo è attento a collegare l'esistenza di proprietà non-fisiche a vincoli fisici, attraverso relazioni di dipendenza, o presunte tali, come quelle di "sopravvenienza logica". Che riesca o meno nel suo intento, ciò segnala ancora una volta l'opposizione a una radicale cesura tra mentale e fisico.)


Attualmente, tuttavia, il fisicalismo non riduttivo gode di salute cagionevole. Lo sviluppo delle neuroscienze cognitive e l'affermarsi della cosiddetta "nuova scienza cognitiva" hanno prodotto un aumento delle teorie della mente che insistono sulla materialità del pensiero. La natura incorporata dei nostri processi mentali è ribadita da innumerevoli ricerche, e la stessa scienza cognitiva classica è posta sotto accusa per il suo eccessivo "dualismo". Comunque si valuti questo stato di cose, stiamo assistendo così a una radicalizzazione delle posizioni in campo. Da un lato il riduzionismo della teoria dell'identità tra mente e cervello trova nuovi sostenitori (insieme alla posizione spiritualmente affine dell'eliminativismo). Dall'altro tornano in auge teorie che sembravano sorpassate, come l'emergentismo, la tesi secondo cui, quando la natura raggiunge un adeguato livello di complessità, essa dà vita a fenomeni nuovi, imprevedibili e irriducibili a quelli del livello di base. Si noti che l'emergentismo non è (in generale) una forma di dualismo: esso considera i fenomeni mentali come il prodotto naturale del mondo fisico, anche se le leggi che ne spiegano la comparsa non sono descrivibili al livello fisico.

In tutta questa rinascita di interesse per posizioni alternative a quelle tradizionali, non poteva mancare il tentativo di ripresa del "dualismo mente-corpo", sia pure declinato in numerose formulazioni. Il campo in cui questo è avvenuto con maggiore vigore è probabilmente quello dello studio dei fenomeni coscienti, dove domina il problema degli stati qualitativi (e dei cosiddetti qualia) e della loro irriducibilità presunta al mondo fisico. Non a caso David Chalmers, uno dei più noti e autorevoli filosofi della mente contemporanei (di cui è qui proposto un saggio), è giunto a chiamare la sua posizione "dualismo naturalistico".


La coraggiosa proposta di Andrea Lavazza di presentare in questa sede una serie di saggi che in un modo o nell'altro si rifanno a una prospettiva dualista va quindi salutata con favore. Troppo spesso, infatti, si dà per scontato che non vi sia nulla di interessante da dire sul dualismo, o che non valga neppure la pena di esaminare gli argomenti dei suoi sostenitori. Come il lettore avrà modo di notare, invece, esistono molte posizioni teoriche interessanti anche nel campo dualista (insieme ad altre, occorre dire, molto poco convincenti). Indipendentemente da cosa se ne pensi nel merito, aver raccolto riflessioni spesso acute e stimolanti che mettono in discussione l'ovvio e lo scontato e sfidano l'ortodossia di molti filosofi e scienziati della mente può aiutare sia il lettore curioso sia lo studente e lo studioso a farsi un'idea più completa dei problemi in gioco, tanto più in una situazione complessiva dove si è ben lontani dalla costruzione di un quadro unitario e coerente delle alternative teoriche.


Bertrand Russell ha scritto che ciò che chiamiamo senso comune altro non è che la metafisica delle nostre nonne. Sotto molti aspetti mi sento di concordare, e, visto che il dualismo appare in fondo molto congeniale al senso comune, vale la pena di chiederci fino a che punto la sappiamo più lunga delle nostre nonne. La mia personale posizione è che, in effetti, la sappiamo un po' più lunga. Ma c'è sempre da imparare.

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Introduzione

Come la mente resiste al fisicalismo

di Andrea Lavazza


1. Il dualismo "rifiutato"

La storia del "problema mente-corpo" ha almeno 2500 anni nella tradizione occidentale e poco meno nelle grandi famiglie filosofico-religiose asiatiche. Quello che è stato per millenni un binomio oggetto di analisi disparate, ma ancora intertraducibili, pare essersi ormai avviato a una doppia considerazione, a causa della netta frattura che separa le credenze di sfondo del senso comune da riflessione intellettuale e ricerca scientifica. Su un fronte si può infatti affermare che «il dualismo appare oggi inverosimile alla grande maggioranza degli studiosi principalmente perché mal si accorda con alcuni capisaldi dell'immagine scientifica del mondo» (Paternoster, 2002:6); che «ben difficilmente oggigiorno si potrà trovare qualcuno – filosofo, psicologo o neuroscienziato – che non sia disposto a sottoscrivere la tesi secondo cui i processi cognitivi umani sono riconducibili a processi neurocerebrali» (Marraffa, 2002a:18); che «mai come oggi nella storia dell'umanità è sembrato plausibile che come si può, dopo Darwin, fare a meno di Dio per spiegare la vita, così si può fare a meno dell'anima per spiegare l'intelligenza» ( Nannini, 2002:207); dunque, pare impossibile che il dualismo ontologico contenga «anche solo un grammo di verità» (Nannini, 2007:9). Sull'altro versante, invece, la gran parte degli americani crede che la mente sia «immateriale e [...] continui a esistere anche dopo la morte del corpo» (Pinker, 2002.14); nella saga romanzesca di Harry Potter creata da J.K. Rowling, di enorme successo in decine di Paesi, la distinzione tra spirito e materia non è per nulla mascherata, dato che la peggior fine che possa capitare è avere l'anima risucchiata fuori del corpo dal bacio di un essere chiamato "dissennatore".

Mentre Burge (1992:32) considera il naturalismo (materialismo, fisicalismo) «una delle poche ortodossie presenti nella filosofia americana», secondo la quale non vi sono stati mentali oltre le entità fisiche ordinarie identificabili dalla scienza, che il monismo resti confinato agli specialisti del settore emerge dall'ambiguità in cui si trova ancora la psichiatria: nell'introduzione al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, il repertorio più noto e diffuso a livello internazionale, si dice che «il termine disturbo mentale purtroppo implica una distinzione tra mentale e fisico, cioè l'anacronistico dualismo mente-corpo» (Apa, 1994:xxv). E una recente sintesi che ha l'ambizione di costruire una Scienza cognitiva unificata in grado di comprendere il funzionamento di cervello e mente sulla base dei dati empirici esistenti (Feldman, 2006) esclude dalla spiegazione un solo aspetto: l'esperienza soggettiva, definita "scientificamente inesplicabile".

Le visioni religiose sono le principali oppositrici della «forte prospettiva fisicalistica che ha caratterizzato il dibattito contemporaneo sul problema mente-corpo» (Kim, 2005:1). Nel Catechismo della Chiesa cattolica viene affermato come verità di fede che la persona umana «è un essere insieme corporeo e spirituale» (n. 362) e che l'anima «è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte» (n. 366). Ma va anche considerato che, come ha evidenziato lo psicologo evoluzionista Bloom 2004:cap.7), il dualismo cartesiano potrebbe essere una disposizione cognitiva innata con radici nella nostra storia evolutiva.

Il dualismo è la posizione (costituita da un gruppo di teorie) che, di fronte al problema della collocazione della mente nel mondo fisico, postula l'esistenza di due distinti domini (secondo alcuni, due distinte sostanze in senso classico), quello fisico e quello mentale. Sono pochi i filosofi della mente che ancora "osano" sostenere una posizione che, per alcuni versi, è ritenuta simile a un'eresia della scienza contemporanea, spesso considerata intellettualmente squalificante da sostenere, riprovevole quasi in senso morale. Un po' come in passato accadeva per l'ateismo. E non si tratta di una gratuita iperbole, se uno studioso eminente come il non dualista Searle (2004:44) ha potuto recentemente scrivere: «In un certo senso, il materialismo è la religione del nostro tempo, almeno per la maggioranza di coloro che si occupano professionalmente di filosofia, psicologia, scienza cognitiva e altre discipline che studiano la mente. Come le religioni più tradizionali, è accettata senza domande e fornisce il quadro di riferimento all'interno del quale altre domande possono essere poste, venire affrontate e avere risposta». Il dualismo – filosoficamente fondato da Platone ed espresso nella forma moderna da Cartesio –, pur andato raffinandosi nel confronto con lo sviluppo dell'ontologia, della logica, della fisica e delle neuroscienze, è divenuto certamente minoritario. In realtà, le persistenti aporie del riduzionismo fisicalistico riguardo la mente e i suoi aspetti fenomenologici ne giustificano tuttora la considerazione, sebbene esso non costituisca l'unica alternativa al naturalismo stretto, al quale ci si può sottrarre anche aderendo a prospettive cosiddette pluraliste. Tuttavia, le formulazioni più recenti del dualismo sono quasi sconosciute o difficilmente accessibili al pubblico italiano, se si eccettuano le opere di Popper e di Eccles. Lo scopo di quest'antologia è quindi presentare gli argomenti dei principali filosofi della mente che si oppongono al monismo fisicalistico e rivendicano la non riducibilità o l'autonomia del mentale.

L'alternativa monismo-dualismo che qui si illustra è funzionale alla descrizione della prospettiva assunta da tutti i saggi del volume. Concentrarsi sulla contrapposizione mente-cervello è conseguenza del fatto che al declino del dualismo ha contribuito l'emergere di una scienza sperimentale unificata, la quale ha poi influenzato la riflessione filosofica e prodotto la moderna psicologia cognitiva. Al riduzionismo, tuttavia, si oppongono anche ontologie non monistiche che si concentrano sul concetto di persona in quanto capace di superare la dicotomia corpo-psiche senza ricadere nel fisicalismo. In particolare, paiono fecondi il rinnovato filone fenomenologico che si rifà, attualizzandola, alla Fundierung di Husserl e la Constitution Theory di Baker, fino ad arrivare alla neurofenomenologia. Di essi si darà un accenno per potere meglio apprezzare il quadro globale delle teorie in campo, ma non rientrano nell'interesse principale di quest'opera. Si può già anticipare che tali ontologie condividono con il dualismo contemporaneo l'enfasi sull'ineliminabile prospettiva di prima persona, che li rende alleati nel difendere fenomenologicamente la soggettività della res cogitans. Sembra invece allontanarli la moltiplicazioni degli elementi dell'arredo del mondo che, sebbene sembri risolvere in modo elegante gli innegabili problemi delle ontologie monistiche, si basa totalmente sul concetto ancora controverso e non univoco di emergenza.

Alcuni dei saggi selezionati sono già apparsi in lingua inglese e costituiscono punti di riferimento della discussione internazionale, altri sono stati scritti specificamente per il presente volume. Nel loro insieme - con impostazione, stile e complessità diversi - forniscono una panoramica ricca e aggiornata della materia. Questa introduzione vuole fornire un inquadramento generale del problema mente-corpo, di alcuni concetti della filosofia della mente, dell'attualità del dualismo e delle innegabili difficoltà interne che esso deve affrontare, soprattutto nel confronto con la moderna scienza cognitiva, integrandosi con i saggi del volume, cui è demandato il compito di approfondire e argomentare temi qui abbozzati o soltanto citati.

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2. Il mentale, il fisico e la loro relazione

Il problema mente-corpo riguarda il modo di spiegare come stati, eventi e processi mentali siano in relazione con stati, eventi e processi fisici del corpo (o, alternativamente, come trovare posto alla mente in una concezione naturalistica del mondo che la considera prodotto dell'evoluzione biologica grazie a un substrato fisico-chimico). Le difficoltà ruotano intorno ai due poli della causazione psicofisica e della coscienza (fenomenica). Questi ultimi sono ambiti che possono considerarsi indipendenti, ma vi è tra essi un legame esprimibile attraverso la seguente disgiunzione: se il mentale non è fisico, come possiamo spiegare la sua interazione causale con il fisico? Se il mentale è fisico, come possiamo spiegare i fenomeni della coscienza? Si tratta, in estrema sintesi, delle domande che definiscono il dibattito contemporaneo (Crane, 1999). Si può poi aggiungere una terza questione: come possono i pensieri, che si trovano presumibilmente nella testa, riferirsi a - o vertere su - oggetti o stati di cose lontani, come l'Everest o un dibattito al Congresso di Washington? Si tratta del problema dell'intenzionalità (Searle, 2004:cap.6).

Il rapporto mente-corpo si presta poi a venire ulteriormente distinto in un versante ontologico e in un versante epistemologico. Sul primo, vi sono argomenti che sostengono come gli stati mentali non possano essere (o non possano essere realizzati in/da) stati fisici - quindi sono vere alcune versioni del dualismo. Sul secondo, ci si confronta con il fatto che, se anche gli stati mentali sono (o sono realizzati in/da) stati fisici, rimangono da spiegare i loro aspetti distintivi nei termini delle proprietà fisiche.

Vi è anche chi non accetta la premessa che il mentale sia una realtà da spiegare, perché sostiene che costituisca il residuo di un modo di esprimersi pre-scientifico, un retaggio del senso comune che, grazie alla scienza, può essere eliminato dal nostro linguaggio, come è accaduto in passato per il flogisto (Churchland, 1981; 1985).

C'è sufficiente accordo sul fatto che per attività o stati mentali si intenda il sentire, il percepire, il pensare e l'essere coscienti. Per Cartesio il pensiero è tutto ciò di cui siamo consapevoli che accada dentro di noi (Descartes, 1644). L'aspetto saliente della nostra mente sarebbe dunque la coscienza: James (1910:151) considerava il procedere in noi di qualche tipo di coscienza il primo e più concreto fatto che ciascuno attribuirebbe alla propria vita interiore. Uno stato (o un evento, cioè un cambiamento di stato) è mentale se cosciente. Gli stati sono individuati dalle proprietà il cui possesso da parte dei soggetti costituisce il loro essere in tali stati (proprietà come determinazioni delle cose: qualità, attributi, tratti caratterizzanti, aspetti, momenti [cfr. Runggaldier, Kanzian, 1998:180]).

Gli stati mentali coscienti includono esperienze percettive, sensazioni somatiche, propriocezioni, dolori, tristezza, rabbia, fame e sete, pensieri occorrenti e desideri. Si può dire che un organismo ha stati mentali coscienti se «c'è qualcosa che fa l'effetto di essere quell'organismo, si prova qualcosa a essere quell'organismo» (Nagel, 1974). Niente di analogo, verosimilmente, per un capello, una sedia o una foglia. Fondamentale sembra il fatto che ne abbiamo conoscenza non inferenziale: quando siamo coscienti, lo sappiamo, e sappiamo in che modo lo siamo direttamente, senza bisogno di basarci su un'altra fonte di conoscenza, precedente o diversa.

In sintesi, il mentale – in opposizione al fisico – si caratterizza per l'unità (il flusso di coscienza e il focus dell'attenzione sono convergenti e indivisibili), l'immediatezza (conoscenza introspettiva diretta, non inferenziale, dei nostri stati interni), l'immunità dall'errore rispetto all'ascrizione degli stati (uno stato che ci sembra nostro non può che essere nostro, a differenza, ad esempio, del contenuto di un ricordo) e la fenomenologia (l'effetto che fa essere se stessi o esperire certe sensazioni). Gli stati mentali ci appaiono "in prima persona", con il carattere della "privatezza", come sottolineava Frege (1918:55): «Ciascuno è dato a se stesso in un modo particolare e originario nel quale non è dato a nessun altro». La prospettiva di prima persona è quella che differenzia la soggettività dall'oggettività scientifica in terza persona, per la quale non vi sono speciali punti di vista nella descrizione quantitativa, replicabile e riferibile della realtà.

Ma porre il sé unitario e continuo nel tempo insieme con l'elemento cosciente come distintivi del mentale (dei quali le spiegazioni neuroscientifiche difficilmente riescono a dare conto) non risulta immune da difficoltà. Al primo si oppongono la classica obiezione di Hume (siamo un fascio di percezioni; cfr. Swinburne, in questo volume) e le varie posizioni dello scetticismo contemporaneo (cfr. G. Strawson, 2005); il secondo è contestato a partire da Moore (1903) – quando ci concentriamo sulla coscienza, essa sembra svanire, ci pare che poco prima vi fosse un vuoto, è diafana – fino alle concettualizzazioni neurobiologiche del flusso di coscienza come costituito da frammenti, da istantanee che non possiamo discriminare, ricordare e dimenticare se con i vincoli imposti dal funzionamento cerebrale (Koch, 2004).

L'altra caratteristica fondamentale è data dall'intenzionalità, già implicitamente nota nell'antichità ma definita con la massima chiarezza da Brentano (1884), secondo il quale essa costituisce la vera peculiarità degli stati mentali. Si tratta della capacità della mente per cui gli stati mentali (tutti, secondo Brentano) hanno sempre un contenuto, ovvero si riferiscono, hanno come oggetto, vertono o pertengono a cose, o stati di cose del mondo, diversi da se stessi; hanno cioè un contenuto, un elemento mentale con proprietà rappresentazionali (non necessariamente esistente: si può pensare all'ippogrifo).

È importante sottolineare che quella mentale è l'intenzionalità intrinseca o primaria, mentre quella che viene "trasferita" nei simboli prodotti o interpretati (la scrittura o un programma di computer, che pure hanno un significato e un riferimento) costituisce un'intenzionalità derivata, perché dipende dall'interprete (Searle, 2004:26-7). Il famoso esperimento mentale della stanza cinese (Searle, 1980) è legato proprio a ciò. Immaginiamo che all'interno di un locale chiuso sia posto un soggetto di madrelingua inglese che ignora il cinese ma al quale sia fornito un manuale in inglese – di fatto un programma informatico – in base al quale può rispondere con simboli corrispondenti a parole cinesi (collocati in apposite scatole) ad altre stringhe di simboli che, a sua insaputa, sono domande rivoltegli in tale idioma. All'osservatore esterno i messaggi in uscita appariranno perfettamente sensati, per cui dirà che la persona nella stanza capisce il cinese; in realtà, il soggetto sta solo manipolando simboli secondo regole sintattiche, ma non ne comprende il significato. L'argomento, diretto contro l'"Intelligenza artificiale forte", mira a dimostrare che il computer resta limitato alla sintassi e non accede mai al contenuto semantico, capacità esclusiva della mente umana. Tuttavia, dice Searle, anche la computazione e la sintassi sono relative unicamente all'osservatore: non esitono in natura computazioni intrinseche od originarie.

In definitiva, una cosa è pensante se ha stati mentali e gli stati mentali devono essere almeno o coscienti o intenzionali: vi sono infatti credenze disposizionali (ciò che sappiamo ma a cui non stiamo pensando: le nozioni contenute nella memoria) e stati come l'ansia, che sono coscienti ma non strettamente intenzionali.

Che cosa sia il fisico può apparire più semplice, benché non sia così. In contrapposizione al mentale, si fa riferimento al corpo, e al cervello in particolare. Ma è difficile sostenere una discontinuità tra il corpo e la realtà esterna (siamo fatti di atomi come gli oggetti, seppure organizzati diversamente). È lecito, si dice generalmente, assumere il tipo generale esemplificato dalla scienza fisica attuale, una classe di proprietà abbastanza grande da contenere ciò cui si fa appello per spiegare la dinamica degli oggetti materiali, essendo in ciò implicito che la fisica (come di fatto è avvenuto nella storia recente) cambia (e può cambiare significativamente). Si può tuttavia obiettare che non è così chiaro cosa si intenda in definitiva per fisico. Il dilemma di Hempel (1980) dice esattamente che il fisico non può essere definito nei termini della fisica attuale, perché essa è destinata a mutare (estendersi e rivedersi). Ma è pure fuori discussione ricorrere a una fisica ideale, dato che non possiamo sapere oggi come si configurerà quest'ultima. Se la mente o la coscienza siano fisiche potrebbe dunque essere una domanda mal posta o senza senso (Chomsky, 2000:cap. 4; Crane, Mellor, 1990). Oggi si può parlare di proprietà strutturali e dinamiche per la fisica ideale, e nel fisico sembrano comunque rientrare gli elementi di base (particelle, campi di forza, energia costante) e le qualità primarie (dimensione, forma, movimento, numero, tessitura), nonché la costruzione logica di tali qualità (cfr. Melnyk, 2003; Poland, 1994; Papineau, 2001).

Fare appello alla scienza fisica implica accettare il riduzionismo (Heil, 2004: 676-80), in quanto la spiegazione scientifica è intrinsecamente riduzionistica: la complessità viene ridotta alla semplicità; gli interi scomposti in parti; fenomeni apparentemente irrelati riportati ai loro collegamenti non manifesti. Le verità scientifiche vengono fondate in ultima analisi sulle verità della fisica e sono quindi riducibili a essa (Oppenheim, Putnam, 1958). Se la fisica dà conto dei costituenti ultimi della realtà, tutto risulta una semplice composizione di tali componenti. E le leggi che li governano governano ogni cosa.

È possibile sostenere che il naturalismo scientifico non sia identico al fisicalismo (De Caro, Macarthur, 2004:XXVII): «Alla luce di una concezione pluralistica della scienza, un naturalista scientifico potrebbe ritenere che ci siano entità – gli acidi, i predatori o i fonemi – verso cui la chimica, la biologia o la psicologia sperimentale ci portano a impegnarci, ma che tuttavia non sono (riducibili a) entità fisiche». Tuttavia, il processo di naturalizzazione della mente procede proprio in base al principio di Sellars (1956:59), secondo cui «la scienza è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono».

Non tutti, comunque, concordano con la prospettiva suesposta: vi sono barriere al riduzionismo per le scienze speciali che non sono soltanto pratiche: la biologia, ad esempio, dovrebbe tenere conto della storia e sfuggirebbe al determinismo nomologico (Mayr, 2004). I sistemi complessi, poi, si comportano in modi non spiegabili dal punto di vista della fisica di base; anzi, i sistemi stessi sarebbero invisibili da tale prospettiva (Dupré, 1993; Cartwright, 1999; Kauffman, 1995; 2000). Ma qui non si può che fornire questo breve accenno, utile almeno per avere presente il tema, certo non irrilevante nell'economia della presente trattazione.

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3. Cartesio e la distinzione mente-corpo

C'è consenso sul fatto che le origini del concetto contemporaneo di mente possano farsi risalire a Cartesio (Nannini, 2002; Lycan, 2003) e che egli continui a costituire l'esponente paradigmatico del dualismo (Foster, in questo volume; Kim, 2001). Si argomenta però che la svolta impressa alla riflessione sui rapporti tra mente e corpo da René Descartes (latinizzato in Cartesius, 1596-1650) sia stata il «prodotto collaterale di un disegno teso a sostituire la fisica aristotelica con il meccanicismo e a dare un fondamento metafisico ed epistemologico alla nuova scienza della natura. Se non si colloca Descartes nel contesto delle rivoluzione scientifica inaugurata da Galileo Galilei, non si può comprendere nulla di nessuna delle sue teorie, comprese quelle relative all'anima» (Nannini, 2002:19). Con il prevalere di un'impostazione deterministica e meccanicistica legata a leggi matematiche, l'anima non può più essere vita o fonte di vita e diviene pensiero, ragione e autocoscienza (ovvero mente). L'avanzamento della fisica e l'affacciarsi del sistema eliocentrico con Copernico e Keplero richiedono di riedificare l'edificio del sapere sulla base di nuove fondamenta inconcusse, al riparo dal dubbio e dall'incertezza (Salucci, 1997:53-4).

Nell'argomentazione a favore del dualismo, la premessa epistemica e data nell'argomento del Cogito formulato nel Discorso sul metodo:

Così, per il fatto che i nostri sensi talvolta ci ingannano, io volli supporre che non esistesse alcuna cosa tal quale essi ce la fanno immaginare; e perché vi sono degli uomini che nel ragionare si sbagliano, anche sui più semplici argomenti di geometria, e vi fanno dei paralogismi, io, giudicando di essere soggetto a sbagliarmi non meno di qualunque altro, respinsi come false tutte le ragioni che prima avevo prese per dimostrazioni: e infine, considerando che anche tutti i pensieri che abbiamo nella veglia possono venirci ugualmente quando dormiamo, senza che alcuno sia per sé vero, mi decisi di fingere che tutte le cose che m'erano potute entrare nella mente non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo osservai che, volendo così giudicare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io fossi qualche cosa; e notando che questa verità: io penso, dunque io sono, era tanto ferma e sicura che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non erano capaci di scuoterla, io giudicai di poterla accogliere senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo (Descartes, 1637:67-8).

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8. L'interazionismo riformulato

La versione contemporanea del dualismo interazionistico classico è dovuta al filosofo K. Popper e al neurofisiologo J. Eccles (Popper, Eccles, 1977; Eccles, 1979; Eccles, 1989; Popper, 1994; Eccles, 1994). La proposta si muove nell'ambito dell'ontologia popperiana, che prevede una tripartizione di regni interagenti anche causalmente: il Mondo 1 è composto dagli stati fisici, il Mondo 2 dalle disposizioni al comportamento (la nostra mente), il Mondo 3 dalle teorie e dai problemi oggettivi (cfr. ropper, 19)4). Stante questa premessa (assai impegnativa dal punto di vista metafisico), si giunge, attraverso una prospettiva evoluzionistica (dal Mondo 1 emerge la vita cosciente, che dà vita al mondo della conoscenza, dell'arte e della scienza), all'interazionismo mente-corpo.

L'idea essenziale di queste teorie è che la mente e il cervello sono entità indipendenti, il cervello appartenendo al Mondo 1 e la mente al Mondo 2, e che esse interagiscono in qualche modo. Vi è dunque un confine e attraverso tale confine ha luogo un'interazione in entrambi i sensi, la quale può essere concepita come un flusso di informazione, non di energia. Abbiamo così la straordinaria dottrina secondo cui il mondo della materia-energia (Mondo 1) non è assolutamente sigillato, come vuole un dogma fondamentale della fisica, ma esistono piccole crepe in quella che altrimenti sarebbe la completa chiusura del Mondo 1 (Eccles, 1979:249).

La mente autocosciente è un'entità autosussistente che, in base alla propria attenzione e al proprio interesse, legge l'attività dei meccanismi neuronali per poi integrare la selezione al fine di costruire, momento per momento, l'unità dell'esperienza cosciente, ritenuta altrimenti inspiegabile. Inoltre, essa retroagisce in modo selettivo sui meccanismi neuronali. Oltre a fondarsi su ricerche neurologiche degli anni settanta (gli esperimenti su azione e consapevolezza di Kornhuber e Libet; prove su pazienti cui erano stati "separati" i lobi cerebrali), Eccles e Popper ipotizzano che nei centri del linguaggio dell'emisfero sinistro vi siano moduli "aperti", gruppi di neuroni detti anche dendroni, sui quali possono agire le "unità" del mentale, gli psiconi, capaci in tal modo di orientare anche i moduli chiusi e di guidare il Mondo 1 (cervello) grazie al Mondo 2 (gli stati mentali), il quale è a sua volta in collegamento con il Mondo 3 (costituito dai pensieri), di cui la mente in parte crea e in parte scopre gli elementi oggettivi (preesistenti). Ciò sarebbe permesso sia dall'indeterminismo quantistico (secondo il filosofo austriaco l'intero universo è aperto [Popper, 1982:vol.2]) sia dal fatto che la violazione del primo principio della termodinamica è limitata a livelli trascurabili. La concezione di Eccles si ispira in parte alla teoria del fisico Margenau (1984), che assimila la mente a un campo di probabilità, la cui dinamica e i cui effetti prescinderebbero dal trasferimento di energia.

Secondo l'ipotesi interazionistica unitaria il luogo d'azione dello psicone si situerebbe a livello di ognuno dei numerosissimi reticoli presinaptici presenti sui dendriti di ogni dendrone, con il quale esso è universalmente e univocamente associato. Lì lo psicone manifesterebbe il suo effetto selezionando per l'esocitosi una determinata frazione delle vescicole attualmente disponibili. La selezione si realizzerebbe attraverso un influsso della mente sul campo quantistico di probabilità che governa, a livello locale delle sinapsi, i meccanismi fisici ultrastrutturali soggiacenti all'esocitosi [...].

L'ipotesi di Eccles asserisce che l'intenzione mentale agisce attraverso un aumento momentaneo della probabilità di esocitosi in determinate aree cerebrali, quali l'area motoria supplementare (Bui, Leoni, 2006:139-40, 144).

I campi di probabilità quantistica sono dunque i vettori di connessione tra mondo materiale e mondo immateriale, tra cervello e mente. Beck (1996) ha continuato la ricerca di Eccles sulla componente quantistica nell'esocitosi, ma senza più entrare nell'ambito dell'interpretazione filosofica in chiave dualistica. Ad aver indebolito tale posizione è soprattutto l'ontologia popperiana di fondo (che non ha continuatori) e le nuove acquisizioni sul funzionamento cerebrale, le quali non hanno dato sufficienti conferme empiriche alle ipotesi di Eccles (cfr. Antonietti, 1986).

I dualisti (delle sostanze, in particolare) non possono però rinunciare all'idea che mente e corpo si influenzino causalmente l'una con l'altro. Asserire che la causazione non segue soltanto il modello meccanicistico delle "palle da biliardo" non basta a superare l'obiezione legata alla legge di conservazione dell'energia complessiva di un sistema chiuso. Si è perciò sostenuto che la mente può alterare la distribuzione dell'energia senza modificarne la quantità totale (Averill, Keating, 1981) e che il corpo umano non è un sistema causalmente isolato (Larmer, 1986). O che la causazione mentale risulta reale ma "invisibile" (Lowe, 2003).

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9. Il futuro del dualismo

Se le aporie del fisicalismo monistico di fronte al mentale sono rilevanti, e il dualismo non può essere scacciato quale mosca molesta agitando una mano, come ama ripetere Dennett, la posizione dualistica deve comunque fronteggiare una serie di difficoltà, oltre al citato problema della causazione mente-corpo.

Lo sviluppo delle neuroscienze e della scienza cognitiva come disciplina di confine e di intersezione tra vari campi d'indagine pone nuove sfide anche alla filosofia della mente, la quale si muove su un altro piano ma non può prescindere dalle acquisizioni sperimentali. E, soprattutto, non è in condizione di ignorare la progressiva naturalizzazione della riflessione filosofica, a partire da Quine fino alla "neurofilosofia" (P. S. Churchland, 1986) e all'epistemologia "neuronale" (Edelman, 2007). Vi è innanzi tutto la questione della "dipendenza" della mente dal cervello e dai suoi stati. La mente ha bisogno del cervello per l'informazione sul mondo fisico nonché come canale per agire sul corpo e, quindi, sulla realtà esterna. La ricerca neuroscientifica mette in evidenza con sempre maggiore precisione la correlazione empirica tra stati cerebrali e funzioni mentali. Droghe e farmaci, il sonno, patologie e lesioni, manipolazioni di vario tipo (dall'ipnosi alla stimolazione magnetica trancranica) alterano sia la fenomenologia del soggetto sia le sue manifestazioni esteriori. Se da una parte rimane netto lo iato esplicativo di cui si è detto, dall'altra non si può rigettare senza valide argomentazioni l'ipotesi (Wilkes, 1988) che siano i disordini cui è soggetta la persona reale a dare le prove più forti della natura della mente, legata strettamente al cervello, con una cogenza maggiore degli esperimenti di pensiero tradizionalmente utilizzati. E una serie di evidenze cliniche (cfr. Feinberg, Keenan, 2005) indica in modo sempre più dettagliato le perdite parziali o gli apparenti mutamenti di identità personale che discendono da malfunzionamenti di specifiche aree cerebrali.

Vi sono tuttavia neuroscienziati che vanno nella direzione opposta, cercando di dimostrare, proprio sulla base di osservazioni sperimentali, che la mente è distinta dal cervello e che i tentativi di ridurla ai processi neuronali non riescono a dare conto di certi tipi di esperienze soggettive — come quelle della preghiera contemplativa — di cui sono monitorati i correlati fisici attraverso la visualizzazione strumentale (Beauregard, O'Leary, 2007). Il dualista, comunque, è sempre chiamato a indicare come i dati empirici possano trovare spiegazione coerente nella sua visione, che dà autonomia o relativa indipendenza al mentale rispetto alla "base" neuronale.

Risulta ormai quasi superfluo sottolineare che il cervello è necessario ma non sufficiente affinché, nella prospettiva dualistica, si dia un soggetto con le proprietà descritte fin qui, dalla coscienza fenomenica all'intenzionalità. Ma la sfida del naturalismo è proprio quella di eliminare la differenza tra il piano empirico e quello filosofico, grazie alla sua pretesa di poter inglobare quest'ultimo all'interno del suo resoconto totalizzante. Perciò non basta più opporre la metafora del mulino leibniziano allo scopo di respingere il materialismo, almeno di fronte ai più decisi sostenitori delle posizioni monistiche.

Un ulteriore punto controverso riguarda l'evoluzione. Se si accetta che l'uomo, in quanto essere vivente, proviene da un unico progenitore unicellulare, dal quale si e differenziato grazie al processo biologico darwiniano di mutazione e adattamento, si pone l'interrogativo sul momento e il modo in cui l'elemento mentale ha fatto la sua comparsa nella storia evolutiva della specie homo sapiens sapiens. Solo l'emergenza delle proprietà è immediatamente compatibile con la storia naturale, mentre il dualismo cartesiano deve fare i conti con il problema della differente origine delle diverse sostanze. Una soluzione (non certo definitiva) è quella proposta da Meixner (2004:398): i sé sono anime e le anime, per la loro stessa definizione, non sono soltanto sé, ma anche anime di qualcosa di fisico: di un organismo, di un essere vivente, di un corpo vivente. Un'anima, in quanto anima, è un sé (sostanziale, non fisico) che appartiene a un organismo. Ma l'organismo cui appartiene si è evoluto e, nel suo evolversi, l'anima si è evoluta insieme con esso (cfr. Eccles, 1989).

In definitiva, pare lecito affermare che il dualismo si dimostra una posizione filosoficamente ancora viva, malgrado i ripetuti necrologi accademici degli ultimi decenni. Non è un programma di ricerca regressivo, anche se ha necessità di un rigoroso confronto con il paradigma fisicalistico e con le neuroscienze — non escludendo un'alleanza (tattica) o una convergenza con il rinascente panpsichismo e con le forme di pluralismo alternative al naturalismo riduzionistico — per arrivare a costruire una versione aggiornata, completa e coerente della dottrina classica, la quale possa quindi proporsi legittimamente come migliore soluzione del problema mente-corpo.

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Affrontare il problema della coscienza

di David J. Chalmers


1. Introduzione

La coscienza pone i problemi più frustranti alla scienza della mente. Non vi è nulla che conosciamo più intimamente dell'esperienza cosciente, ma nulla risulta più difficile da spiegare. In anni recenti, fenomeni mentali di ogni tipo hanno ceduto alla ricerca scientifica, la coscienza invece sta resistendo ostinatamente. Molti hanno cercato di darne una spiegazione, ma le spiegazioni sembrano sempre mancare il bersaglio. Qualcuno è arrivato a supporre che il problema sia intrattabile e che non possa esserne fornita alcuna soluzione adeguata.

Per progredire nella soluzione del problema della coscienza, dobbiamo affrontarlo direttamente. In questo saggio, per prima cosa isolo la parte veramente difficile del problema, separandola dalle parti più trattabili e dando conto del motivo per cui la coscienza è così difficile da spiegare. Critico poi alcuni recenti studi che usano metodi riduzionistici nei confronti della coscienza, e sostengo che tali metodi inevitabilmente risultano inadeguati a prendere seriamente in considerazione la parte più difficile del problema. Una volta che sia riconosciuto tale fallimento, si apre la porta a un vero progresso.

Nella seconda parte del saggio, sosterrò che se ci muoviamo verso un nuovo tipo di spiegazione non riduzionistica, può essere fornita una spiegazione naturalistica della coscienza

Proporrò il mio candidato per tale spiegazione: una teoria non riduzionistica, basata su principi di coerenza strutturale e invarianza organizzativa, e una prospettiva di doppio aspetto dell'informazione.


2. I problemi semplici e il problema complesso

Non vi è soltanto un problema della coscienza. "Coscienza" è un termine ambiguo, che si riferisce a molti fenomeni differenti. Ciascuno di essi deve essere spiegato, ma alcuni sono più semplici da spiegare di altri. All'inizio, è utile dividere i problemi associati alla coscienza in problemi "complessi" (hard) e "semplici" (easy). I problemi semplici sono quelli che sembrano affrontabili direttamente con i metodi classici delle scienze cognitive, grazie ai quali un fenomeno è spiegato nei termini di meccanismi computazionali o neuronali. Problemi complessi sono quelli che sembrano resistere a tali metodi.

I problemi semplici della coscienza sono relativi alla spiegazione dei seguenti fenomeni:

– la capacità di discriminare, categorizzare e reagire a stimoli ambientali;
– l'integrazione di informazione da parte di un sistema cognitivo;
– la riportabilità degli stati mentali;
– la capacità di un sistema di accedere ai propri stati interni;
– il focus dell'attenzione;
– il controllo volontario del comportamento;
– la differenza tra veglia e sonno.

Tutti questi fenomeni sono associati all'idea di coscienza. A volte si dice che uno stato mentale è cosciente se è riferibile verbalmente, o se è internamente accessibile. A volte si dice che un sistema è cosciente di qualche informazione se ha capacità di reagire sulla base di quell'informazione o, più precisamente, se pone attenzione a quell'informazione oppure se puo integrare quell'informazione e sfruttarla per il controllo di livello superiore del comportamento. A volte si dice che un'azione è cosciente se è volontaria. Spesso diciamo che un organismo è cosciente come altro modo di dire che e in stato di veglia.

Non è neppure in discussione che questi fenomeni siano spiegabili scientificamente. Sono tutti suscettibili di spiegazione nei termini di meccanismi computazionali o neuronali. Ad esempio, per spiegare l'accesso e la riportabilità, abbiamo bisogno soltanto di specificare il meccanismo con cui l'informazione sugli stati interni viene recuperata e resa disponibile al resoconto verbale. Per spie gare l'integrazione di informazione, dobbiamo soltanto mostrare i meccanismi con cui l'informazione è raccolta e utilizzata dai processi successivi. Per dare conto del sonno e della veglia, sarà sufficiente una spiegazione neurofisiologica appropriata dei processi responsabili dei diversi comportamenti degli organismi in quegli stati. In ogni caso, un modello cognitivo o neurofisiologico appropriato può evidentemente fungere da spiegazione.

Se questi fenomeni esaurissero tutto ciò che riguarda la coscienza, essa non sarebbe allora un grande problema. Benché non siamo neppure vicini a una spiegazione completa di questi fenomeni, abbiamo una chiara idea di come procedere per spiegarli. Questo è il motivo per cui li definisco semplici. Naturalmente, "semplice" è un termine relativo. Arrivare a una corretta descrizione nei dettagli richiederà probabilmente uno o due secoli di complicata ricerca empirica. Vi sono però tutte le ragioni per credere che i metodi delle scienze cognitive e delle neuroscienze avranno successo.

Il problema davvero complesso della coscienza è il problema dell' esperienza. Quando pensiamo e percepiamo, vi è un ronzio dell'elaborazione di informazione, ma anche un aspetto soggettivo. Come dice Nagel (1974): fa un certo effetto essere un organismo cosciente, si prova qualcosa. Questo aspetto soggettivo è l'esperienza. Ad esempio, quando vediamo, facciamo esperienza di sensazioni visive: la qualità percepita del rosso, l'esperienza di buio e luce, la qualità della profondità di un campo visivo. Altre esperienze accompagnano la percezione in differenti modalità: il suono di un clarinetto, l'odore di una pallina di naftalina. Vi sono poi le sensazioni corporee, dal dolore all'orgasmo; immagini mentali che sono rievocate internamente; la qualità percepita dell'emozione e l'esperienza di un flusso di pensiero cosciente. Ciò che unisce tutti questi stati è che fa un certo effetto trovarsi in essi. Sono tutti stati di esperienza.

È innegabile che alcuni organismi siano soggetti d'esperienza. Ma rimane fonte di imbarazzo determinare il modo in cui questi sistemi siano soggetti d'esperienza. Perché, quando i nostri sistemi cognitivi sono impegnati nell'elaborazione dell'informazione visiva e uditiva, abbiamo esperienze visive o uditive, come la qualità del blu intenso e la sensazione del do medio? Come possiamo spiegare il motivo per cui fa un certo effetto avere un'immagine mentale o fare esperienza di un'emozione? È ampiamente accettato che l'esperienza sorga da una base fisica, ma non abbiamo una buona spiegazione del perché e di come nasca proprio in quel modo. Perché l'elaborazione fisica dovrebbe dare luogo a una ricca vita interiore? Sembra oggettivamente irragionevole che debba essere così, e tuttavia accade.

Se esiste il problema della coscienza, si tratta proprio di ciò. In questo senso primario di "coscienza", un organismo è cosciente se fa un certo effetto essere quell'organismo, e uno stato mentale è cosciente se fa un certo effetto trovarsi in quello stato. A volte vengono utilizzati altri termini, quali "coscienza fenomenica" e "qualia", ma trovo più naturale parlare di "esperienza cosciente" o, semplicemente, di esperienza. Un altro modo utile di evitare confusioni (usato per esempio da Newell [1990] e Chalmers [1996]) è riservare il termine "coscienza" ai fenomeni d'esperienza e usare il termine meno fuorviante di "consapevolezza" per i fenomeni più semplici descritti in precedenza. Se fosse generalmente adottata tale convenzione, la comunicazione sarebbe molto più semplice; per come stanno le cose, chi parla di "coscienza" sovrappone frequentemente i due concetti.

L'ambiguità del termine "coscienza" è sfruttata spesso sia dai filosofi sia dagli scienziati che si occupano di questo argomento. È comune vedere un articolo sulla coscienza cominciare con l'evocazione del suo mistero, sottolineare quanto inafferrabile e ineffabile sia la soggettività e preoccuparsi del fatto che non abbiamo ancora una teoria del fenomeno in questione. In questo caso, il tema è chiaramente il problema complesso: il problema dell'esperienza. Nella seconda parte dell'articolo, il tono diventa più ottimistico e viene delineata la teoria della coscienza proposta dall'autore. Una volta esaminata, si rivela però la teoria di uno dei fenomeni più semplici: riportabilità, accesso introspettivo o qualcos'altro. L'autore dichiara quindi che la coscienza si è rivelata trattabile, ma il lettore rimane con la sensazione di essere stato lusingato e poi tradito. Il problema complesso non viene neppure toccato.

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6. Spiegazione non riduzionistica

A questo punto alcuni sono tentati di rinunciare, sostenendo che non avremo mai una teoria dell'esperienza cosciente. McGinn (1989), ad esempio, ritiene che il problema sia troppo complesso per le nostre menti limitate; noi siamo "cognitivamente chiusi" rispetto a questo fenomeno. Altri hanno affermato che l'esperienza cosciente sta completamente al di fuori del dominio delle teorie scientifiche.

Io ritengo che questo pessimismo sia prematuro. Non è il momento di rinunciare; siamo invece nella fase in cui le cose si fanno interessanti. Quando i metodi semplici di spiegazione sono esclusi, dobbiamo trovare alternative. Dato che la spiegazione riduzionistica fallisce, la scelta più ovvia cade sulla spiegazione non riduzionistica.

Benché numerosi fenomeni si siano rivelati interamente spiegabili nei termini di entità più semplici di se stesse, non si tratta di un fatto universale. In fisica, occasionalmente accade che un entità debba essere considerata fondamentale. Le unita fondamentali non sono spiegate nei termini di nulla di più semplice. Le si considera basilari e si dà una teoria di come esse siano in relazione con tutte le altre cose del mondo. Nel XIX secolo si scoprì, ad esempio, che i processi elettromagnetici non potevano venire spiegati nei termini di processi puramente meccanici ai quali si appellavano le teorie fisiche precedenti. Maxwell e altri introdussero così la carica elettromagnetica e le forze elettromagnetiche quali nuove componenti fondamentali di una teoria fisica. Per spiegare l'elettromagnetismo, l'ontologia della fisica andava allargata. Per dare una spiegazione soddisfacente dei fenomeni, erano necessarie nuove proprietà e nuove leggi fondamentali.

Tra gli altri elementi che la teoria fisica considera fondamentali, vi sono la massa e lo spazio-tempo. Non viene fatto alcun tentativo di spiegarli nei termini di qualcosa di più semplice. Ma ciò non esclude la possibilità di una teoria della massa o dello spazio-tempo. Vi è una complessa teoria su come questi elementi siano interrelati e sulle leggi fondamentali delle quali entrano a fare parte. Tali principi fondamentali vengono utilizzati per spiegare a un livello superiore molti fenomeni familiari concernenti la massa, lo spazio e il tempo.

Io suggerisco che una teoria della coscienza debba considerare l'esperienza come fondamentale. Noi sappiamo che una teoria della coscienza richiede l'aggiunta di qualcosa di fondamentale alla nostra ontologia, dato che qualunque cosa nella teoria fisica è compatibile con l'assenza di coscienza. Potremmo aggiungere qualche elemento non fisico completamente nuovo, dal quale l'esperienza possa essere derivata, ma è difficile intuire come potrebbe presentarsi un elemento di quel tipo. Più verosimilmente, dovremo considerare l'esperienza stessa come elemento fondamentale del mondo, insieme con la massa, la carica e lo spazio-tempo. Se riteniamo fondamentale l'esperienza, possiamo poi procedere nel compito di costruire una teoria di essa.

Dove esiste una proprietà fondamentale, vi sono anche leggi fondamentali. Una teoria non riduzionistica dell'esperienza aggiungerà nuovi principi alla dotazione delle leggi di base della natura. Tali principi di base porteranno in definitiva il peso esplicativo della teoria della coscienza. Proprio come spieghiamo fenomeni familiari di alto livello che implicano la massa nei termini di principi basilari che implicano la massa e altre entità, potremmo spiegare fenomeni familiari che implicano l'esperienza nei termini di principi basilari che implicano l'esperienza e altre entità.

In particolare, una teoria non riduzionistica dell'esperienza specificherà i principi di base che ci dicono il modo in cui l'esperienza dipende da elementi fisici del mondo. Questi principi psico-fisici non interferiranno con le leggi fisiche; sembra infatti che le leggi fisiche formino già un sistema chiuso. Piuttosto, saranno un elemento aggiuntivo a una teoria fisica. Una teoria fisica fornisce una teoria dei processi fisici, e una teoria psico-fisica ci dice il modo in cui questi processi danno origine all'esperienza. Sappiamo che l'esperienza dipende da processi fisici, ma sappiamo anche che tale dipendenza non può essere derivata soltanto da leggi fisiche. I nuovi principi di base postulati da una teoria non riduzionistica ci danno l'ingrediente supplementare di cui abbiamo bisogno per costruire un ponte esplicativo. Ovviamente, considerando l'esperienza come fondamentale, vi è un senso in cui tale approccio non ci dice perché primariamente esiste un'esperienza. Ma lo stesso accade per qualunque teoria fondamentale. Niente in fisica ci dice perché primariamente esiste la materia, ma non lo consideriamo un fatto che ostacoli teorie della materia. Alcuni elementi del mondo devono considerarsi fondamentali in qualunque teoria scientifica. Una teoria della materia può spiegare tutti i fatti della materia mostrando come essi siano conseguenze delle leggi di base. Lo stesso vale per una teoria dell'esperienza.

Questa posizione si qualifica come una varietà di dualismo, dato che postula proprietà basilari al di là delle proprietà invocate dalla fisica. Ma è una versione innocente di dualismo, totalmente compatibile con una visione scientifica del mondo. Nulla in questo approccio contraddice alcunché della teoria fisica; dobbiamo semplicemente aggiungere ulteriori principi ponte per spiegare il modo in cui l'esperienza sorge dai processi fisici. Non vi è nulla di particolarmente spirituale o mistico in questa teoria; la sua forma complessiva è simile a quella di una teoria fisica, con alcune entità fondamentali collegate da leggi fondamentali. A dire il vero, espande lievemente l'ontologia, ma Maxwell fece la stessa cosa. La struttura complessiva di questa posizione è in realtà del tutto naturalistica, in quanto permette che l'universo sia visto in definitiva come una rete di entità di base che obbediscono a leggi semplici e consente che vi sia una teoria della coscienza formulata in termini di tali leggi. Se la posizione deve avere un nome, una buona scelta potrebbe essere dualismo naturalistico.

Qualora la prospettiva sia corretta, per alcuni aspetti una teoria della coscienza avrà allora più cose in comune con una teoria fisica che con una teoria biologica. Le teorie biologiche non implicano principi ugualmente fondamentali, una teoria biologica possiede una certa complessità e un certo disordine; ma le teorie fisiche, per quanto abbiano a che fare con processi fondamentali, aspirano alla semplicità e all'eleganza. Le leggi fondamentali della natura sono parte dell'arredo fondamentale del mondo, e le teorie fisiche ci dicono che esso è assai semplice. Se anche una teoria della coscienza implica principi fondamentali, dovremmo allora aspettarci la stessa cosa. I principi di semplicità, eleganza e anche bellezza che guidano i fisici nella ricerca di una teoria fondamentale si applicheranno ugualmente a una teoria della coscienza.

Una nota tecnica: alcuni filosofi sostengono che, se anche esiste uno iato concettuale tra processi fisici ed esperienza, non è necessario che vi sia uno iato metafisico: quell'esperienza potrebbe dunque essere in un certo senso ancora fisica (ad esempio, Hill [1991], Levine [1983], Loar [1990]). Tale linea argomentativa di solito è sostenuta con un appello alla nozione di necessità a posteriori (Kripke, 1980). Ritengo tuttavia che questa posizione si basi su un'errata comprensione, oppure che richieda un tipo del tutto nuovo di necessità, nel quale non abbiamo alcuna ragione di credere; per i dettagli si veda Chalmers (1996) (e anche Jackson [1994] e Lewis [1994]). In ogni caso, questa posizione ammette ancora uno iato esplicativo tra processi fisici ed esperienza. I principi che uniscono l'elemento fisico e quello esperienziale non saranno derivabili dalle leggi della fisica, tali principi vanno quindi considerati esplicativamente fondamentali. Anche in questa prospettiva, la struttura esplicativa di una teoria della coscienza sarà molto più simile a quella che ho descritto.


7. Abbozzo di una teoria della coscienza

Non è troppo presto per cominciare a lavorare su una siffatta teoria. Siamo già in posizione di comprendere certi fatti centrali della relazione tra processi fisici ed esperienza e delle regolarità che li connettono. Una volta messa da parte la spiegazione riduzionistica, possiamo riconsiderare quei fatti in modo da farne gli elementi iniziali di una teoria non riduzionistica della coscienza e i vincoli alle leggi fondamentali che costituiscono una teoria ultima.

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Una teoria non riduzionistica della coscienza sarà costituita da alcuni principi psicofisici, principi che connettono le proprietà dei processi fisici alle proprietà dell'esperienza. Possiamo pensare a questi principi come capaci di ricomprendere il modo in cui l'esperienza sorge dal fisico. Essi dovrebbero dirci in definitiva che tipo di sistemi fisici hanno esperienze associate e, dei sistemi che le posseggono, che tipo di proprietà fisiche sono rilevanti per l'emergere dell'esperienza, infine quale tipo di esperienza dovremmo aspettarci che produca ciascun dato sistema fisico. Si tratta di un programma ambizioso, ma non c'è motivo per cui non dovremmo cominciare.

Nel prosieguo presento i miei candidati quali principi psico-fisici che potrebbero entrare in una teoria della coscienza. I primi due sono principi non fondamentali, connessioni sistematiche tra processi ed esperienza a un livello relativamente alto. Tali principi possono svolgere un ruolo significativo nello sviluppare e nel vincolare una teoria della coscienza, ma non sono espressi a un livello sufficientemente fondamentale per qualificarsi come leggi davvero basilari. Il principio finale è il mio candidato come principio di base che possa costituire la pietra angolare di una teoria fondamentale della coscienza. Esso è particolarmente speculativo, ma si tratta del genere di speculazione richiesta per avere una teoria soddisfacente della coscienza. Posso qui presentare questi principi solo in breve; argomento in loro favore molto più ampiamente in Chalmers (1996).


1. Il principio di coerenza strutturale. Si tratta di un principio di coerenza tra la struttura della coscienza e la struttura della consapevolezza. Ricordo che il termine "consapevolezza è stato usato in precedenza per riferirci ai vari fenomeni funzionali che sono associati alla coscienza. Ora lo utilizzo per riferirci a un processo in qualche modo più specifico della base cognitiva dell'esperienza. In particolare, i contenuti della consapevolezza vanno intesi come quei contenuti di informazione che sono accessibili ai sistemi centrali e focalizzati soprattutto nel controllo del comportamento. Detto in breve, possiamo pensare alla consapevolezza come alla disponibilità diretta per il controllo globale. In prima approssimazione, i contenuti della consapevolezza sono i contenuti direttamente accessibili e potenzialmente riferibili, almeno in un sistema che usi il linguaggio.

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2. Il principio di invarianza organizzativa. Tale principio afferma che due sistemi qualsiasi, con la stessa organizzazione funzionale a grana fine, avranno esperienze qualitativamente identiche. Se i modelli causali di organizzazione neuronale fossero riprodotti in silicio, ad esempio con un chip per ciascun neurone e gli stessi modelli di interazione, si originerebbero allora le stesse esperienze. Secondo questo principio, ciò che è rilevante per l'emergere dell'esperienza non è una specifica disposizione fisica di un sistema, ma il modello astratto di interazioni causali tra le sue componenti. Il principio ovviamente è controverso. Alcuni (ad esempio, Searle [1980]) ritengono che la coscienza sia legata a una specifica biologia, cosicché un isomorfo umano in silicio non sarebbe necessariamente cosciente. Io credo tuttavia che questo principio possa ottenere un significativo sostegno dall'analisi condotta attraverso esperimenti di pensiero.

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3. La teoria dell'informazione a doppio aspetto. I due principi precedenti sono principi non basilari. Essi implicano nozioni di alto livello quali "consapevolezza" e "organizzazione", stanno quindi al livello sbagliato per costituire le leggi fondamentali di una teoria della coscienza. Essi agiscono tuttavia come forti vincoli. Ciò che ancora manca sono principi basilari che si adattino a questi vincoli e che in definitiva possano spiegarli.

I principi basilari che propongo implicano in modo rilevante la nozione di informazione. Intendo informazione più o meno nel senso di Shannon (1948). Dove vi è informazione, vi sono stati informativi radicati in un spazio informativo. Uno spazio informativo ha una struttura basilare di relazioni di differenza tra i suoi elementi, che caratterizza i modi in cui i distinti elementi di uno spazio sono simili o differenti, in ogni caso in modi complessi. Uno spazio informativo è un oggetto astratto ma, seguendo Shannon, possiamo considerare l'informazione come incorporata fisicamente quando vi è uno spazio di distinti stati fisici, le differenze tra i quali possono essere trasmesse verso il basso lungo percorsi causali. Gli stati che sono trasmessi possono considerarsi a loro volta costituenti uno spazio informativo. Prendendo a prestito una frase di Bateson (1972), l'informazione fisica è una differenza che fa una differenza.

Il principio del doppio aspetto nasce dall'osservazione che vi è un isomorfismo diretto tra certi spazi informativi fisicamente incorporati e certi spazi informativi fenomenici (o esperienziali). Da osservazioni dello stesso tipo, che vanno in direzione del principio della coerenza strutturale, possiamo notare che le differenze tra stati fenomenici hanno strutture che corrispondono direttamente alle differenze radicate nei processi fisici; in particolare a quelle differenze che fanno una differenza discendente lungo certi percorsi causali implicati nella disponibilità e nel controllo globale. Possiamo cioè trovare lo stesso spazio informativo astratto radicato nell'elaborazione fisica e nell'esperienza cosciente.

Ciò conduce a un'ipotesi naturale: che l'informazione (o almeno qualche informazione) abbia due aspetti fondamentali, uno fisico e uno fenomenico. Si tratta di un principio fondamentale che potrebbe sottostare all'emergere dell'esperienza dal fisico, e spiegarla. L'esperienza sorge in virtù del fatto di essere un aspetto dell'informazione, mentre l'altro aspetto si trova incorporato nell'elaborazione fisica.

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