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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 7 La natura del problema PARTE PRIMA L'APPRENDIMENTO INDIVIDUALE: LIMITI E CONFINI 9 Dall'esplorazione alla conoscenza 11 Intelligenza e apprendimento 35 Apprendimento come comportamento 71 PARTE SECONDA LUOGHI DELLA CONOSCENZA TRA INDIVIDUO E GRUPPI 91 La conoscenza personale. Tra costruzione e narrazione 93 La conoscenza nelle organizzazioni 151 Un precario equilibrio tra individualità e pratica della condivisione 161 Riferimenti bibliografici 169 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Questa riflessione parte dalla domanda su quali siano i luoghi in cui una conoscenza superindividuale prende forma e si stabilizza, su come e dove avviene, in un contesto sociale evoluto, il passaggio dalla conoscenza individuale a quella di gruppo. Per definire meglio questa questione, la assoceremo ad un'altra, altrettanto importante: esiste una caratteristica, una qualità che possa definire in maniera univoca la conoscenza superindividuale? In altre parole, cos'è che fa scaturire questo tipo di conoscenza, che la determina a prescindere dalla semplice somma della conoscenza di più individui? Da tale presupposto intendiamo muoverci per analizzare le modalità con cui avviene la costruzione del sapere superindividuale; in particolare interessa qui trovare la relazione tra contesti di apprendimento e forme di produzione della conoscenza, tra i luoghi di costruzione del sapere e i modi, o meglio i riti e le simbologie, con cui questo sapere prende forma e da forma alla realtà dei nostri giorni. Ecco perché partiremo dal piano di esplorazione individuale del mondo, per passare, attraverso la costruzione dell'apprendimento come fatto istituzionale e sociale, al piano superindividuale. Vedremo come le forme di produzione della conoscenza superindividuale, siano esse definite a partire dall'azione di piccoli gruppi o risultato di società complesse, sono tutte in qualche modo negazioni del sogno cartesiano della razionalità, dell'illusione che la conoscenza sia qualcosa di diverso dalla esperienza soggettiva delle cose, dalla costruzione della realtà a partire da reti di senso e significato del tutto personali e incomunicabili, dal suo definirsi come lettura solitaria di mappe e traduzione, necessariamente imperfetta e incompleta, di codici per l'interpretazione di un mondo «fuori di noi». Il territorio del discorso che in qualche modo viene a essere marcato a partire da questi concetti è solo in parte definibile con il termine, forse troppo abusato in questi anni ma qui per certi versi calzante, di «postmoderno». C'è in realtà molto più di quanto questo termine riesca a definire, nella questione sulla produzione di conoscenza fra individui e gruppi. Le organizzazioni nate dalla dissoluzione del modello di produzione industriale, dalla crisi della modernità, superando la dialettica tra soggetti della produzione e oggetti prodotti, tra individui e cose, hanno abbattuto il limite apparentemente invalicabile della materialità dei prodotti del lavoro umano. Questo superamento è stato possibile solo attraverso lo stimolo e la capitalizzazione degli aspetti «intangibili» della produzione, quelli legati alla conoscenza dell'individuo e alla sua contestualizzazione e socializzazione, attraverso l'invenzione della conoscenza come fatto non più legato all'accoppiamento strutturale tra un individuo e il suo ambiente, ma come prodotto in sé, determinato dall'interazione di più individui, e stabilizzato in un complesso di regole, codici, criteri e simboli a valenza universale. | << | < | > | >> |Pagina 52IL PENSIERO E LE SUE DIMENSIONIChe cos'è dunque l'intelligenza, dove nasce il pensiero? Qual'è il ruolo di questa dote collocata tra i segnali provenienti dal mondo e il comportamento dell'organismo? Tradizionalmente, si considera il pensiero come un'attività funzionale ai rapporti dell'organismo con i propri stati futuri, al contrario della percezione, che permette la relazione con gli stati presenti, e della memoria che ha relazione con gli stati passati. Se pensiamo ad un batterio o un protozoo, possiamo renderci conto che le interazioni dell'organismo con l'ambiente circostante avvengono tramite regole che l'individuo già possiede e tramite le quali risponde con una relazione diretta tra gli stimoli e la risposta. Un paramecio, ad esempio, è un organismo unicellulare che nuota nell'acqua grazie al battito coordinato delle sue ciglia vibratili. Il suo comportamento è molto complesso e non si limita al semplice tropismo nei riguardi del cibo. Non solo se urta contro un ostacolo fa marcia indietro, per nuotare poi in un'altra direzione, ma è in grado di sottrarsi a situazioni potenzialmente negative per la propria esistenza. Certo, forti di una tradizione di senso comune che non ha mai del tutto abbandonato la tensione al finalismo e alla teleologia, si è tentati di supporre che il paramecio si sia accorto che il suo cammino era bloccato e abbia deciso di cambiare strada. In realtà, esso non costruisce nessuna rappresentazione del mondo esterno e non pensa affatto. L'urto depolarizza la sua membrana cellulare, la cui superficie è densa di recettori chimici, e i cambiamenti chimici risultanti fanno sì che le ciglia invertano la direzione delle battute, con la conseguenza che il paramecio nuota in senso opposto. Si direbbe che il movimento sia guidato dal pensiero, ma in realtà il paramecio non costruisce rappresentazioni del mondo e non ha alcuna vita mentale. Nei suoi comportamenti di scelta, ricercare ciò che è utile e sfuggire a ciò che è dannoso, questo protozoo è guidato quindi da una serie di recettori, microstrutture di origine proteica, che sono in grado, per affinità chimica, di individuare stimoli positivi o negativi, e permettere all'organismo di sopravvivere e nutrirsi. Il paramecio sembra inoltre essere in grado di «ricordare» questi stimoli. Certo, passare, con qualche salto, dal paramecio, inteso qui come perfetto automa cellulare, all'uomo non è cosa agevole, e tuttavia i principi che guidano gli organismi monocellulari in direzione degli stimoli positivi o lontano da quelli negativi possono essere considerati come il punto di partenza di un meccanismo da cui hanno origine i meccanismi di rinforzo degli organismi superiori, associati al piacere o al dolore. Nell'uomo, il meccanismo di apprendimento provocato dallo stimolo e dalla risposta è reso infinitamente più complesso dall'attività del cervello, che costruisce significati a partire dagli input sensoriali e dalle informazioni, attività tutt'altro che diretta e immediata. Da una minima quantità di informazione il cervello è in grado di ricreare una realtà molto superiore a quella legata agli input e alle informazioni stesse; una di queste attività mentali, forse la più interessante per noi, è quella che permette agli organismi superiori, in testa l'uomo, di creare immagini mentali della realtà. Sulla base di rappresentazioni mentali vengono fatte inferenze sugli stati futuri del mondo, e quindi sono prese delle decisioni sulle azioni da compiere. Di cosa sono fatte e come sono caratterizzate le rappresentazioni mentali, i modelli cerebrali? Naturalmente, il loro veicolo ultimo sono i processi biologici dell'organismo, dunque sono basate su proteine, ma la loro caratterizzazione risiede invece nella loro funzione, che è appunto quella di costruire un modello presente, passato e futuro dei propri stati e degli stati del mondo, e ciò allo scopo di massimizzare le azioni funzionali al proprio adattamento. Maturana e Varela hanno sintetizzato e generalizzato questo aspetto della questione nella loro teorizzazione dell'accoppiamento strutturale fra individuo e ambiente, accoppiamento che sarebbe alla base del comportamento autopoietico, comune a tutte le organizzazioni viventi. | << | < | > | >> |Pagina 54CLASSIFICAZIONI DEL PENSIEROPossiamo considerare il pensiero l'abilità operante con la quale l'intelligenza agisce sull'esperienza. Esso è quindi una funzione, insieme, elaborativa e organizzativa e operativo/produttiva. In questo senso, considerare i processi cognitivi unicamente processi di elaborazione informazionale risulta estremamente riduttivo. Questi processi, infatti, hanno un ruolo determinante nella definizione dei campi esperienziali in cui il soggetto vive ed opera. Un approccio al pensiero unicamente fondato sul modello elaborativo determinerebbe inoltre, come già aveva notato Bruner, il disconoscimento dell'intenzionalità nella processualità cognitiva, che invece ne rappresenta una dimensione essenziale. Assumiamo quindi che il pensiero sia una funzione pluridimensionale dotata di intenzionalità. Ma già Dewey sottolineava come possa essere propriamente definito «pensiero» quel processo mentale che implica non solo una sequenzialità di idee e informazioni, ma una «consequenzialità», fondata sulla possibilità di individuare relazioni e significati. In questo senso, il pensiero è «pensiero riflessivo», inteso come processo che consiste «nel ripiegarsi mentalmente su un soggetto e nel rivolgere ad esso una seria e continuata considerazione». Nel modello deweyano, il pensiero si origina sempre da «uno stato di dubbio, esitazione, perplessità, difficoltà mentale» cui segue «un'operazione di ricerca, di indagine per trovare i materiali che risolveranno il dubbio e apporteranno la soluzione e la decisione della perplessità». Anche per Piaget la funzione cognitiva si gioca nel problematico rapporto che il soggetto intrattiene con il mondo, adattandosi ad esso e, insieme, tentando di piegarlo alle proprie strutture e ai propri schemi cognitivi. Funzione dinamica di strutture in evoluzione, essa evolve tra stabilità e instabilità, equilibrio e rottura, assimilazione e accomodamento. | << | < | > | >> |Pagina 71Proviamo adesso a ragionare in termini nuovi. Il piano dell'esperienza conoscitiva è sempre, per forza di cose, transcontestuale, perché trasporta l'individuo fuori da un contesto consueto, ponendogli delle domande, mettendolo in una situazione di incertezza e inadeguatezza delle proprie strategie cognitive. Questo tipo di situazione sta sempre alla base di un apprendimento innovativo, evolutivo. Ne consegue che gli umani apprendono solo se messi fuori contesto da un'esperienza esistenzialmente significativa, cioè se l'azione esplorativa del mondo li conduce irrimediabilmente ad un bivio: il problema dell'apprendimento si sposta dalla mera capacità di accumulare dati provenienti dall'esperienza, di schematizzare e classificare la realtà in classi di relazioni, verso la capacità maggiore o minore di tollerare adattivamente l'incertezza rispetto ai contesti di esistenza, puntando alla maggiore flessibilità e alla capacità euristica della propria matrice cognitiva. Di qui l'importanza, evidenziata da numerosi filosofi del linguaggio, epistemologi e psicologi, che nella vita dell'uomo rivestono, soprattutto in ambito allargato e «sociale», le situazioni paradossali, i nonsense, le situazioni ambigue, le occasioni di perdita del riferimento e del senso. Sono eventi fondativi della conoscenza individuale e superindividuale. Questi dunque i termini della questione: da una parte il rafforzamento della matrice cognitiva individuale, la conservazione di atteggiamenti e comportamenti, cioè metafore e descrizioni usuali, dall'altro la trasformazione radicale (alterazione strutturale) della matrice stessa o la variazione incrementale (modificazione additiva) ma comunque la messa in gioco di tutto uno schema di realtà. | << | < | > | >> |Pagina 93A questo punto della nostra analisi dobbiamo porre l'attenzione sugli aspetti individuali e processuali dell'apprendimento, sull'apprendimento come una struttura dinamica e sulla conoscenza come risultato dell'utilizzo, anche inconsapevole, di una matrice cognitiva. La questione è intimamente legata all'affermazione della fondamentale importanza di quella dimensione esplorativa del proprio ambiente (inteso in senso ampio) che tutti gli individui manifestano, spesso in maniera inconsapevole, in ogni atto della propria esistenza. Questa dimensione esplorativa rivela la propria tensione essenziale attraverso la costante costruzione di reti di sensi e significati, di strutture di riferimento e di contesti. Queste strutture e contesti rappresentano, in primo luogo, modalità con cui si afferma e si legittima uno schema di relazione biologica con il mondo, una ricerca di strumenti per la giustificazione dell'esistenza, ma anche una validazione di schemi relazionali legati ad aspetti più vicini al gruppo, o se preferite alla specie, quindi a valenza superindividuale e, in ultima istanza, sociale. Conoscere e apprendere potrebbero quindi significare da un lato la pratica quotidiana dell'attribuire significato al flusso individuale dell'esperienza, dall'altro la tensione a costruire una rete in cui lasciar cadere le mille sfumature possibili di questa esperienza individuale, per superarne la limitatezza, ricercando un sistema di significati condivisi e, per questa ragione, comunicabili simbolicamente e, perché no, anche linguisticamente. Proprio in questo rilevare e attribuire significati e contesti per le relazioni fra significati, risiede l'essenza dell'apprendimento. Conoscere è marcare con la propria unicità intellettuale il sapere che si produce esplorando il mondo. Questo marchio, che si appone al sapere soggettivamente elaborato, è quel senso che continuamente si cerca nelle esperienze vissute, che si astrae dalla riflessione sul vissuto stesso e che si propone come valido anche al di fuori del soggetto che lo esperisce. Per un certo verso esso fornisce all'individuo una legittimazione per l'esistenza entro un dato schema di realtà (o immagine del mondo, Weltanschauung). All'individuo però non basta soltanto la costruzione di una regola a posteriori per la classificazione delle proprie sensazioni e percezioni, per potersi dire all'interno di un sistema di relazioni di conoscenza. Se mai, questa regola favorisce la riflessione intorno alla conoscenza fornendole, per così dire, materiale su cui esercitarsi. Esso ha bisogno di alcuni condizioni, che possiamo definire abilitanti del proprio status esistenziale di essere «immerso nella conoscenza», di organismo in apprendimento. Queste condizioni, per contro, non sono esclusive dell'individuo e non risiedono pertanto necessariamente in una sfera di esperienza individuale, pur appartenendo all'individuo in una maniera così profonda e intima da rendere insufficiente la distinzione fra natura e cultura. Lo snodo fondamentale diventa quindi la questione dell'atto conoscitivo, della condizione esistenziale dell'apprendimento. | << | < | > | >> |Pagina 161A questo punto appare evidente come la riflessione sull'apprendimento organizzativo, al di là dei possibili entusiasmi per talune teorie «illuminate ed illuminanti» riproponga la questione della circolarità e ricorsività del processo di costruzione dei significati e della conoscenza, anche al livello superindividuale. Rimette quindi in campo il concetto di complessità, con caratteristiche ben più marcate di quelle emerse sul piano individuale. Il carattere tacito e incomunicabile della conoscenza non consente di postulare una direzione privilegiata verso cui essa si dispiega, né una tendenza prevalente, ma un sistema di probabili interazioni fra varie conoscenze, una per ogni individuo, tutte in relazione e tutte ancorate ad un sistema in perenne ricerca di equilibrio. [...] Le organizzazioni, in quanto contesti culturali, agiscono connettendo le individualità in esse emergenti secondo un processo che è del tutto simile a quello che abbiamo visto intervenire nella costruzione del sé individuale. Esiste quindi un Sé organizzativo che agisce in maniera da assegnare ai singoli ruoli precisi, ma non secondo trame, disegni e copioni ben definiti, ma piuttosto secondo una trama a maglie larghe di comportamenti adattivi. È questa trama che possiamo chiamare matrice dell'apprendimento organizzativo. L'organizzazione in questo senso è in grado di produrre una propria storia cognitiva. Dal momento che questa storia è costruita sulla base delle narrazioni dei singoli individui, i quali possono agire seguendo le proprie motivazioni, in maniera anche irrazionale, essa è il frutto di un processo di mediazione, di una continua transazione. Questo ci porta a mettere in discussione 1'assunto, francamente riduzionista ma tuttora diffuso nella sociologia delle organizzazioni e nelle teorie del management, che gli individui, in qualche modo difficilmente spiegabile, sono assimilabili all'organizzazione, nel momento in cui ne sposano valori metafore e simboli, e che quindi si possa affermare tranquillamente che le organizzazioni pensano, abbattendo in questo contesto la differenza tra Sé individuale e Sé organizzativo. Il valore di questo tipo di affermazioni, date le nostre premesse, è al massimo metaforico, favorisce la determinazione di un discorso attorno alle organizzazioni, ma non ne spiega i presupposti. Ma allora come avviene che un gruppo di persone acquisisce conoscenza, la socializza, la arricchisce, la modifica, la conserva, l'utilizza per l'azione? Nei fatti, una volta che si sia accettato l'approccio delle teorie della complessità anche nello studio delle organizzazioni, ci si trova di fronte all'impossibilità di ogni spiegazione riduzionista, al fatto cioè che, nel definire le modalità di costruzione della conoscenza superindividuale, non si possa contare sull'escamotage dello scomporre, del rendere atomico, o al più molecolare, ciò che invece è irrimediabilmente sistemico, e così ridurre le turbolenze determinate dai sottosistemi delle conoscenze individuali, che non si sommano e non si annullano all'interno del sistema organizzativo, a semplici variazioni interne di uno stato che tende comunque e in ogni caso all'equilibrio. La matrice cognitiva dell'apprendimento organizzativo non è una entità superiore né realmente sovraordinata alle matrici individuali, perché non è in grado si assorbirne del tutto le caratteristiche, mancando all'organizzazione, per quanti sforzi faccia, la capacità di esplicitare completamente la conoscenza tacita degli individui.
Ecco allora che la costruzione di una conoscenza organizzativa che, come
abbiamo detto, avviene attraverso la narrazione, la determinazione di un Sé
superindividuale, si rivela poco più di una ben composta genealogia, una storia
che si tende a mantenere viva nella memoria dei componenti dell'organizzazione,
costruendo complessi rituali che passano anche per la definizione di luoghi
«mitici», di saghe dei fondatori, di un'epica al servizio della conservazione di
ciò che altrimenti sarebbe semplicemente una sovrastruttura cognitiva.
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