Copertina
Autore David Leavitt
Titolo L'uomo che sapeva troppo
SottotitoloAlan Turing e l'inventore del computer
EdizioneCodice, Torino, 2007, Le grandi scoperte , pag. 248, cop.fle., dim. 141x215x15 mm , Isbn 978-88-7578-069-2
OriginaleThe Man Who Knew Too Much. Alan Turing and the Invention of the Computer [2006]
TraduttoreCarolina Sargian
LettorePiergiorgio Siena, 2008
Classe biografie , informatica: fondamenti , matematica
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Indice


    Capitolo 1
  3 Lo scandalo del vestito bianco

    Capitolo 2
  9 Guardar crescere le margherite

    Capitolo 5
 43 La macchina universale

    Capitolo 4
 87 Dio è furbo

    Capitolo 5
121 La buccia tenera

    Capitolo 6
163 L'atleta elettronico

    Capitolo 7
197 Il gioco dell'imitazione

    Capitolo 8
223 Il gavitello di Pryce

239 Bibliografia

243 Indice analitico


 

 

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Pagina 24

        Turing crede che le macchine pensino
        Turing giace con gli uomini
        Quindi le macchine non sanno pensare
Quando, nel 1952, Alan Turing inserì questo mordace sillogismo in una lettera all'amico Norman Routledge, non alludeva soltanto alla spaventosa possibilità che il suo comportamento portasse alla repressione delle sue idee; intendeva richiamare - soprattutto attraverso l'uso della locuzione biblica "giacere con" - il famoso "paradosso del mentitore". Questo paradosso risale al IV secolo a.C., quando il filosofo cretese Epimenide dichiarò: «Tutti i cretesi sono mentitori, come mi ha detto un poeta cretese». Più avanti Eubulide ridusse (il che in matematica significa spesso "generalizzare") il paradosso alla frase «Io sto mentendo», e ancora più avanti, nel XIV secolo d.C., il filosofo francese Jean Buridan lo perfezionò ulteriormente scrivendo «Tutte le affermazioni di questa pagina sono false» su una pagina altrimenti vuota.

In sostanza, il paradosso del mentitore funziona così. Prendiamo la frase "Tutte le affermazioni di questa pagina sono false". Se è vera, allora l'unica frase scritta sulla pagina - "Tutte le affermazioni di questa pagina sono false" - è falsa. Ma se è falsa, allora dev'essere vera, ed è sulla pagina sulla quale tutte le affermazioni sono false... E avanti di questo passo. Per anni gli universitari sballati hanno fissato il soffitto meditando sulle implicazioni del paradosso che io scoprii alla fine degli anni Sessanta da un episodio di Star Trek intitolato Io, Mudd. Alla fine dell'episodio, il cattivo del titolo, Harry Mudd, mette in crisi un superandroide di nome Norman obbligandolo a elaborare una versione del paradosso del mentitore. Non appena Norman sputa fuori la raffica di contraddizioni («Tutto ciò che dico è una bugia, quindi io sto mentendo, quindi tutto ciò che dico è la verità»), le sue parole diventano più veloci e la sua voce si fa più acuta come in una registrazione riprodotta a velocità accelerata. Alla fine, esplode quasi e poi si zittisce - e questo è il punto. Le frasi assurde e contraddittorie mettono in crisi. Se pensate troppo al paradosso del mentitore vi scoppierà il cervello, come a Norman.

Naturalmente un certo tipo di lettore sagace che creda nel "mondo reale" (di fatto, un tipo abbastanza simile a Wittgenstein ) solleverà una o due obiezioni, sottolineando che quando metto in pratica il paradosso nella sua forma più esatta - quando dico "Io sto mentendo" - non dico né la verità nel senso in cui dico la verità quando dico "Sto scrivendo un libro su Alan Turing", né una bugia nel senso in cui mento quando dico all'editor che con il libro sono più avanti di quanto sia realmente. Invece sto esprimendo un'affermazione evasiva in un campo in cui le frasi sono simboli e i significati contano meno dei rapporti che intercorrono fra loro. Č il campo in cui si è generalmente combattuta la battaglia per gettare basi solide per il pensiero matematico - una lotta nel corso della quale sono caduti molti luminari. Sono ancora di più i matematici che si sono rifiutati di avventurarsi in quei pressi. Quando chiesi a un matematico portoghese di mia conoscenza se avesse qualche spunto da offrirmi sull'argomento, mi rispose: «Le basi della matematica sono piene di buchi e non mi sono mai sentito a mio agio nel trattare quel genere di cose».


Piene di buchi.

Le prime generazioni di matematici presumevano che la stabilità del terreno su cui erano costruite le strutture matematiche fossero garantite da Dio o dalla natura. Avanzavano a grandi passi come pionieri o sopravvissuti, con il compito di tracciare i fondamenti e rendere sicuro in questo modo il territorio che le generazioni future avrebbero colonizzato. Ma poi cominciarono ad aprirsi dei buchi - fra cui il paradosso del mentitore è soltanto uno - e i matematici iniziarono a caderci dentro. Non importava. Si poteva tappare ogni buco. Ma presto se ne apriva un altro e un altro e un altro ancora...

[...]

Sebbene fosse condannato al fallimento, il "grande programma" di Leibniz quanto meno diede origine alla disciplina della logica simbolica, che fu successivamente sviluppata da George Boole (1815-1864) e Gottlob Frege (1848-1925). Boole insegnava in una scuola privata prima di diventare professore di matematica al Queen's College di Cork, ed è forse per questo che i suoi scritti - soprattutto The Mathematical Analysis of Logic, pubblicato nel 1847 - hanno poco dell'ostentazione di Leibniz; al contrario, nelle sue opere sono piacevolmente evidenti la modestia e il distacco dall'ambizione mondana (come si riscontra anche in Turing). Essenzialmente, l'obiettivo di Boole era fondare un sistema per trasformare in equazioni le proposizioni logiche. Così, proprio mentre impiegava esempi del mondo reale (cose bianche, cose con le corna, pecore, pecore bianche con le corna), l'accento cadeva di fatto sulla dissociazione dei simboli che usava dalle situazioni che descriveva; nelle sue mani, i passaggi che richiedevano un ragionamento deduttivo o un atto decisionale si riducevano alle procedure di base in cui i termini operativi erano "e" e "non", mentre la pecora bianca e la pecora cornuta erano b e c. In questo sistema, scrisse Boole, «ogni processo rappresenterà una deduzione, ogni nesso matematico esprimerà una conclusione logica. Il principio generale del metodo ci permetterà anche di esprimere operazioni arbitrarie dell'intelletto e quindi ci condurrà alla dimostrazione di teoremi generali di matematica ordinaria».

Frege spinse oltre le idee di Boole, non solo complicandole ma usandole per gettare le fondamenta del "logicismo", la cui tesi principale era che «l'aritmetica è una branca della logica e non deve prendere in prestito alcun campo di prova né dall'esperienza, né dall'intuizione». La sua opera Begriffsschrift, pubblicata nel 1879, cercava di fondare «un linguaggio formale, modellato su quello dell'aritmetica, per il pensiero puro». Con un tale linguaggio si sarebbero potute trasfondere le storie sulla «roba» del mondo - teiere, automobili, cani, regine malvagie, mele, per non parlare delle pecore bianche e delle pecore cornute di Boole - in stringhe di simboli il cui senso fosse assolutamente non pertinente. Frege diede anche una rigida definizione di "prova matematica" che non è stata messa in discussione e in Die Grundlagen der Arithmetik, del 1884, affrontò la questione di cosa siano veramente i numeri cardinali, definendo ogni numero n come classe o insieme di tutte le collezioni con n membri; per esempio, 7 si definirebbe come l'insieme di tutte le collezioni con sette membri, qualunque cosa dai sette nani di Biancaneve ai sette colli di Roma, alle sette lettere della parola "lettere".

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Pagina 45

Fu in Grundzuge der theoretischen Logik, scritto con Wilhelm Ackermann e pubblicato nel 1928, che Hilbert enunciò la sua versione dell' Entscheidungsproblem. In quest'opera, un capitolo intitolato Il problema di decisione inizia così: «Dalle considerazioni della sezione precedente emerge quanto sia di importanza fondamentale determinare se una data formulazione del calcolo del predicato sia universalmente valida o no». Prendiamo la congettura di Goldbach: c'era un algoritmo che potesse stabilire se discendesse da un insieme stabilito di assiomi scritti nel linguaggio della logica del primo ordine? «Naturalmente non esiste un teorema del genere - scrisse Hardy, sempre scettico - e questa è una grande fortuna, poiché se esistesse avremmo un insieme di regole meccaniche per la soluzione di tutti i problemi matematici e la nostra attività di matematici avrebbe fine».

Certo, un risultato positivo avrebbe fatto molto per mitigare l'effetto scoraggiante (per alcuni) del saggio di Gödel, dato che in linea di principio avrebbe costituito il compimento della nozione idealistica di Leibniz del calculus ratiocinator. Per di più, non si considerava impensabile un risultato del genere. Scrivendo nel 1931, il matematico Jacques Herbrand (1908-1931) osservava che «sebbene al momento sembri improbabile che si possa risolvere il problema di decisione, non è ancora stato dimostrato che sia impossibile». Questo risultato potrebbe anche consentire ai matematici di mettere da parte le conclusioni di Gödel come una specie di aberrazione logica sulla falsariga del paradosso del mentitore. Si percepisce una divisione che è quasi politica, con un gruppo che vede come un risultato positivo ciò che l'altro temeva che causasse il collasso del lavoro matematico in sé.

Probabilmente Turing non stava in nessuno dei due gruppi. Il suo isolamento (per non parlare dell'omosessualità) gli impediva di identificarsi troppo con collettivi più ampi. In particolare, durante gli anni politicamente turbolenti che passò a Cambridge, evitò di acquisire un'affiliazione politica, nonostante la fervente (e pragmatica) opposizione alla guerra. Sulla stessa falsariga, considerava l' Entscheidungsproblem soltanto una questione che richiedeva una soluzione. Forse perché non aveva messo mano al problema sperando in un risultato positivo o negativo, fu in grado di attaccarlo in un modo completamente nuovo.

Si avvicinò per la prima volta all' Entscheidungsproblem nel 1934, quando seguiva il corso del professor M.H.A. "Max" Newman sui fondamenti della matematica. Newman (1897-1984) era una divinità della branca della matematica detta "topologia", che ha a che fare con la formalizzazione di concetti come la coerenza, la convergenza e la continuità e con le proprietà delle figure geometriche che si possono forzare senza romperle. Alla base della topologia c'è la teoria degli insiemi, che a sua volta lo portò a Hilbert e poi alle questioni che quest'ultimo aveva sollevato durante la conferenza di Bologna del 1928. Sebbene il saggio di Gödel del 1931 avesse stabilito che il sistema assiomatico insito nei Principia Mathematica fosse indecidibile e incoerente, l' Entscheidungsproblem, che Newman aveva ridotto alla questione di trovare un "processo meccanico" per verificare la validità di un'asserzione, rimaneva irrisolto. In una monografia scritta dopo la morte di Turing, Newman ricapitolò la situazione nel momento in cui Turing scelse di affrontare la sfida finale di Hilbert:

Il programma di decisione di Hilbert degli anni Venti e Trenta aveva come obiettivo la scoperta di un processo generale, applicabile a qualunque teorema matematico espresso completamente in forma simbolica, per decidere la verità o la falsità del teorema. Il primo colpo alla prospettiva di trovare la nuova pietra filosofale fu assestato per mezzo del teorema dell'incompletezza di Gödel, che aveva chiarito che in nessuna logica basata sul finitismo, scelta una volta per tutte, la verità o la falsità di A si poteva uguagliare alla dimostrabilità di A o di non-A; ma in linea di principio rimaneva la possibilità di trovare un processo meccanico per decidere se A, o non-A, o nessuno dei due, fosse formalmente dimostrabile in un dato sistema. Molti erano convinti che non fosse possibile alcun processo del genere, ma Turing s'impegnò a dimostrarne rigorosamente l'impossibilità.

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Pagina 70

Turing ha così introdotto e spiegato l'idea di una macchina automatica e ha proposto un sistema per codificarne le tavole d'istruzioni. Ha anche stabilito che deve esistere, per definizione, una macchina automatica per ogni procedimento algoritmico. Così come si può generare la sequenza 001001011011101111... per mezzo della tavola che abbiamo fornito, «è possibile descrivere qualunque sequenza computabile secondo una tavola di questo tipo». Č ancora più rilevante che «a ogni sequenza computabile corrisponde almeno un numero di descizione, mentre a nessun numero di descrizione corrisponde più di una sequenza computabile». Così come le sequenze computabili definiscono le macchine che le generano, ogni macchina di Turing definisce una sequenza computabile. L'unicità del numero di descrizione ci consentirebbe di elencarli alfabeticamente, come prima, partendo da zero e proseguendo all'infinito. In quell'elenco, la macchina per la quale abbiamo appena calcolato il numero di descrizione sarebbe al: 3133253117113353111731113322531111731111335317simo posto.

Ogni macchina genera comunque una sequenza computabile valida? La risposta è negativa. Certe macchine, come dice Roger Penrose, sono una «fregatura». Un esempio di macchina inutile proposto da Martin Davis potrebbe essere quello per cui la tavola d'istruzioni recita più o meno come segue:

_______________________________________________
Configu-                            Nuova
razione                             configu-
del                                 razione
momento Simbolo Azione              del momento
_______________________________________________
  A        0    Muovere verso           B
                destra 1 casella;
                stampare 1

  B        1    Muovere verso           C
                sinistra 1 casella;
                cancellare 0;
                stampare 1

  C        1    Muovere verso           B
                destra 1 casella;
                cancellare 1;
                stampare 0
_______________________________________________

Questa macchina farebbe la spola avanti e indietro fra 0 e 1 all'infinito; non stamperebbe alcuna sequenza coerente né giungerebbe a una fermata. Turing definisce circolare questo tipo di macchina. Al contrario, una macchina non circolare è in grado di generare una sequenza computabile. Anticipando, a quanto pare, i lambiccamenti sulla differenza fra un numero computabile e una sequenza computabile, Turing aggiunge: «Eviteremo confusioni parlando più spesso di sequenze computabili che di numeri computabili».

Tutte le macchine che abbiamo preso in considerazione, ad eccezione dell'ultima, sono non circolari. La prima di queste - quella progettata per sommare due numeri fra loro - riceve un input e si ferma quando arriva alla risposta; le due macchine di cui Turing fornisce un esempio generano sequenze computabili. Tuttavia, non sarebbe difficile progettare una variante della macchina che genera la sequenza 001011011101111... Tenete a mente che essa da soltanto le risposte successive (e infinite) all'equazione y = 2x + 1, man mano che vi si immettono i numeri naturali da 1 in avanti. Si potrebbe progettare la variante in modo che inserisca nell'equazione un numero naturale per volta, per arrestarsi ogni volta che da una risposta. Quindi, se nella macchina s'inserisse x = 3, questa porterebbe avanti un processo che si concluderebbe con la produzione della risposta desiderata - cioè 7 - e la fermata. Si potrebbe progettare una macchina di Turing che analizzasse tutte le altre macchine per stabilire se sono circolari o non circolari? La domanda - nota come "problema della fermata" - sta al centro del saggio di Turing e conduce direttamente all'analisi dell' Entscheidungsproblem.

La considerazione del problema della fermata conduce Turing a quello che è inequivocabilmente il passo avanti più originale e sorprendente. Come proposta di un metodo per investigare come si potrebbe determinare se una certa macchina di Turing sia circolare o no, egli avanza l'idea di una «macchina universale»; una macchina di Turing capace di imitare il comportamento di qualunque altra, indipendentemente dall'algoritmo che è stata progettata per eseguire. E quest'ipotetica macchina universale che costituisce il prototipo del computer moderno. pag 106

On Computable Numbers fu pubblicato nei "Proceedings of the London Mathematical Society", nel gennaio del 1937. Con grande delusione di Turing, la reazione fu decisamente disarmante. Scrisse a sua madre di aver ricevuto «due lettere che ne chiedevano gli estratti», una dal suo vecchio amico di Cambridge R.B. Braithwaite e una da un professore in Germania. [...] Sembrano molto interessati al saggio. Credo che stia suscitando una certa impressione. Sono rimasto deluso dall'accoglienza avuta qui. Mi aspettavo che Weyl, che qualche anno fa aveva fatto un lavoro connesso al mio in modo abbastanza stretto, avrebbe almeno fatto qualche commento.

Ma Weyl , la cui monografia Das Kontinuum del 1918 era stata una pietra miliare dell'analisi classica, non disse nulla. E neppure John von Neumann , esuberante cosmopolita, che come Weyl era stato un discepolo del programma di Hilbert. Von Neumann assistette al discorso del 1930 a Konigsberg, nel quale Gödel aveva annunciato il teorema dell'incompletezza e dopo lo aveva avvicinato per chiedergli i particolari; stando a Solomon Feferman, fu «uno dei primi a comprendere il significato dei risultati di Gödel sull'incompletezza. Infatti si racconta che, una volta che ebbe appreso del primo teorema dell'incompletezza di Gödel, [...] ne ricavò il secondo indipendentemente da lui».

Von Neumann era noto non solo per la stupefacente attitudine matematica, ma anche per l'eclettismo dei suoi interessi - in una disciplina a notevole compartimentazione, lui era una specie di tuttofare - e, quando furono pubblicate le scoperte di Gödel, abbandonò del tutto la logica per altri campi, e una volta giunse al punto di dichiarare che non aveva più letto altri saggi sull'argomento dopo il 1931. La maggior parte dei suoi colleghi ne dubitava; in ogni caso, l'apparente insofferenza per la logica potrebbe essere stata la causa della sua mancata reazione, sia positiva che negativa, a On Computable Numbers.

[...]

Per parte sua, Church fu più che generoso con il suo allievo putativo. Recensendo On Computable Numbers sul "Journal of Symbolic Logic", scrisse: "In realtà qui è implicata l'equivalenza di tre nozioni diverse: la computabilità da parte di una macchina di Turing, la ricorsività generale nel senso di Herbrand-Gödel-Kleene e la (lamda)definibilità nel senso di Kleene e di chi recensisce. Di queste, la prima presenta il vantaggio di compiere l'identificazione con efficacia nel senso ordinario (non definito esplicitamente) immediatamente evidente - cioè senza il bisogno di dimostrare preliminarmente dei teoremi. La seconda e la terza presentano il vantaggio di poter convenientemente essere incorporate in un sistema di logica simbolica".

Va notato che la recensione di Church segnò per la prima volta l'uso dell'espressione "macchina di Turing" - una prova già così presto di come la macchina, al di là e al di sopra dello scopo per cui era stata inventata, stesse iniziando una sua vita autonoma. Era piacevole immaginare una macchina del genere, che mandava avanti e indietro il nastro fra le sue ganasce senza fatica. Per metterla in termini teatrali, la macchina stava cominciando a rubare la scena a tutti gli altri personaggi, da Hilbert a Church, perfino al suo inventore.

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Pagina 142

Nel XIX secolo, Thornas Jefferson inventò un "cilindro cifrante", un congegno che consisteva di dischi al cui esterno erano state impresse le lettere dell'alfabeto secondo diverse sequenze; i dischi erano poi montati su un asse. Una "ruota cifrante" venne usata dai Confederati durante la Guerra civile americana. Questi dispositivi, comunque, si limitavano a meccanizzare il lavoro d'inseririmento di una lettera secondo il cifrario Vigenère; il testo crittato che ne risultava non era meno attaccabile perché era stato generato da una macchina. Quel che occorreva era un dispositivo che non solo accelerasse il processo di cifratura e di decodifica, ma ne aumentasse anche la sicurezza sottoponendo le lettere in esso contenute a un ulteriore rimescolamento. Questa conquista avvenne negli anni Venti, insieme all'invenzione più o meno simultanea in Olanda, Svezia, Stati Uniti, Inghilterra e Germania di un tipo di macchina la cui versione tedesca - l'Enigma - sarebbe stata l'esemplare di maggior successo. Il padre dell'Enigma fu l'ingegnere tedesco Arthur Scherbius, che presentò per la prima volta la sua creatura al congresso dell'Unione postale internazionale a Berna, in Svizzera, con l'idea di venderla a uomini d'affari preoccupati che i loro telegrammi venissero intercettati dai concorrenti. Ma l'Enigma non centrò l'obiettivo previsto: era troppo costosa e, con i suoi 12 chili, troppo pesante per i pragmatici imprenditori tedeschi. Diversi anni dopo, però, la macchina attirò l'attenzione di un cliente che avrebbe fatto la fortuna di Scherbius: il governo tedesco, che acquistò l'Enigma a profusione e l'adattò all'uso militare. Come nel caso del personal computer - di cui era sotto molti aspetti un'antesignana -, l'apparente semplicità d'utilizzo dell'Enigma celava un meccanismo interno estremamente complesso. L'aspetto ricordava quello di una macchina da scrivere ed era altrettanto agevole da usare. Rispetto alla sua cugina inglese, la Typex, l'Enigma non poteva però stampare e non aveva uno spazio per la carta. Invece, montata sulla tastiera, dove le lettere erano posizionate esattamente come su una qualsiasi tastiera tedesca, c'era una serie di 26 lampadine etichettate con una lettera dell'alfabeto e disposte seguendo l'ordine della serie di tasti. Sopra le lampadine c'era un coperchio con delle cerniere che presentava tre piccole fessure. Se si alzava il coperchio, si potevano vedere tre rotori, gli elementi chiave della struttura dell'Enigma, ciascuno fornito di un anello mobile, anch'esso contrassegnato dalle 26 lettere dell'alfabeto. I tre rotori potevano essere rimossi e riposizionati secondo uno qualsiasi dei sei ordini possibili.

Per utilizzare l'Enigma non c'era bisogno di una particolare competenza sul suo funzionamento interno. L'unica cosa che mittente e destinatario dovevano concordare in anticipo era il codice chiave, cioè l'ordine dei rotori e la regolazione degli anelli su una certa posizione di partenza. L'idea era che le regolazioni giornaliere venissero stampate in prontuari o su fogli raccolti in blocchi, le cui copie sarebbero state distribuite a tutti coloro che lavoravano nella rete di trasmissione e ricezione; ogni mattina mittenti e destinatari avrebbero "programmato" la propria Enigma secondo la regolazione prevista prima di procedere alla cifratura.

Ipotizziamo che vi fosse toccato mandare un messaggio. Prima di tutto avreste cercato la posizione degli anelli, l'ordine dei rotori e la chiave di tre lettere stabiliti per quel dato giorno; quindi, dopo aver regolato le posizioni, avreste spostato anche i rotori in modo che la chiave - ad esempio "atm" - fosse leggibile attraverso le tre fessure sul coperchio. Infine avreste preso il vostro messaggio e lo avreste digitato sui tasti dell'Enigma, una lettera per volta. Se la prima lettera del messaggio fosse stata la "e", avreste digitato "e", la macchina avrebbe emesso un ronzio e poi un clic, e una delle lampadine - ad esempio quella contrassegnata dalla "u" - si sarebbe accesa. Procedendo in questo modo, avreste cifrato l'intero messaggio, annotandovi le lettere segnalate dalle lampadine, e quindi l'avreste trasmesso via telegrafo o via radio tramite il codice Morse. Il destinatario avrebbe quindi regolato la sua macchina Enigma secondo le identiche disposizioni, vi avrebbe digitato il messaggio cifrato e il testo in chiaro avrebbe fatto la sua comparsa. Era questa la genialità della macchina Enigma. Il suo sistema operativo non solo garantiva una sicurezza senza paragoni, ma permetteva di crittare e decifrare messaggi usando le stesse regolazioni iniziali. In altre parole, se digitare una "e" con una Enigma regolata in certo modo dava una "u", allora digitare una "u" in una Enigma programmata allo stesso modo produceva una "e". Sotto il profilo del funzionamento, la macchina non era molto diversa dalla maggior parte delle sue antenate, che si basavano anch'esse su un sistema di dischi rotanti; quello che la rendeva unica era la sua capacità di sottoporre le lettere usate a una sequela di permutazioni ulteriori e di farlo a una velocità straordinaria.

Gli elementi essenziali della sua struttura erano i tre rotori, sistemati uno accanto all'altro. Sul lato sinistro e sul lato destro di ogni rotore amovibile c'erano 26 punti di contatto che corrispondevano alle 26 lettere dell'alfabeto: gli anelli che circondavano i rotori avevano impresse le lettere, in ordine alfabetico, e potevano scorrere lungo il lato del rotore, così da alterare giornalmente la corrispondenza tra lettera e punto di contatto.

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Pagina 154

Poco dopo l'inizio del suo soggiorno a Bletchley, Turing capì che l'unico modo di forzare un cifrario creato da una macchina era controbattere con un'altra macchina. Quest'intuizione fu una variante di quella che l'aveva portato a scrivere On Computable Numbers. Questa volta, però, la macchina in questione non poteva restare su un piano meramente ipotetico. Turing doveva costruirla.

Il risultato fu una "bomba di seconda generazione", più veloce e più complessa dal punto di vista tecnico della sua progenitrice polacca. E anche più grande: alta quasi due metri e larga poco di più, pesava una tonnellata. In sostanza, questo pachiderma meccanico simulava l'attività di 30 macchine Enigma tutte insieme. I rotori - ben 90 - erano montati sul lato frontale dell'immenso armadio, mentre il lato posteriore nascondeva più di 10 chilometri di cavi collegati ai punti di contatto dei rotori. A volte la bomba faceva le bizze e dava la scossa agli operatori o pizzicava le dita. Perdeva olio e s'inceppava regolarmente. Ma funzionava e alla fine fu commissionata un'intera batteria di bombe, ciascuna con il suo nome (tra cui Victory, Otto, Eureka e Agnus Dei).

Progettare la bomba diede finalmente a Turing l'opportunità di realizzare un sogno a lungo accarezzato. Da bambino aveva abbozzato un progetto per una macchina per scrivere. Dopo aver scritto On Computable Numbers, aveva compiuto dei progressi significativi verso la costruzione sia del moltiplicatore elettronico che della macchina per calcolare gli zeri della funzione zeta di Riemann. Ma non aveva mai davvero completato nessuna delle due macchine. Ora, a Bletchley, gli stavano offrendo la chance non solo di applicare principi di logica matematica alla costruzione effettiva di una macchina, ma anche di supervisionarne l'installazione e la messa in funzione. Il miracolo della bomba fu che questo sgraziato conglomerato di cavi multifili, spazzole metalliche e interruttori operava totalmente secondo i metodi che Turing aveva appreso grazie alla sua immersione nelle profondità del mondo di Frege e Russell; e davvero, ogni giorno, quando la bomba ticchettando elaborava migliaia di eliminazioni e controlli, sembrava quasi di sentir battere il cuore della logica stessa.

Ma l'invenzione di Turing andò oltre la mera costruzione delle bombe: insieme al suo collega Gordon Welchman, ideò nuovi e ingegnosi modi di usare la macchina. Ad esempio, una delle principali sfide che si trovarono ad affrontare i crittoanalisti di Bletchley all'inizio della guerra fu il dilemma di come trattare i milioni e milioni di nuove combinazioni di lettere dovute all'aumento da sei a dieci degli accoppiamenti di lettere tramite stecker. Dapprima il problema parve insormontabile; ma Turing se ne venne fuori piuttosto rapidamente con un modello geometrico per le catene di combinazioni di lettere interne all'Enigma che neutralizzò completamente l'efficacia del pannello stecker. In effetti, Turing adottò un approccio geometrico al problema.

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Pagina 183

L'antenato della maggior parte dei computer che utilizziamo oggi è infatti l'EDVAC e non l'ACE, che alla fine non fu nemmeno mai costruito. Anche se le «idee minimaliste» di Turing erano, nelle parole di Martin Davis, «destinate ad avere poca o nessuna influenza sullo sviluppo dei computer», il loro contributo si può ancora sentire nella microprogrammazione, «che rende le operazioni informatiche di base direttamente disponibili per il programmatore» nell'avvento del microprocessore di silicio, che è in effetti una macchina universale in un chip, e nella «cosiddetta architettura Risc (Reduced Instruction Set Computing), [...] [che] utilizza un'istruzione minima sul chip, con la funzionalità necessaria fornita dalla programmazione»: tutti questi aspetti devono molto all'ACE.

La parte più triste della vicenda, almeno secondo Davis, è come Turing sia stato escluso per anni dalla storia della disciplina che è stato proprio lui a inventare. Anche se l'ACE pilota è sopravvissuto, quando fu costruito Turing aveva già da tempo lasciato Teddington e a quel punto la macchina aveva già subito così tanti rimaneggiamenti che aveva ormai poco in comune con quella che lui sognava. Ed è ancora più crudele che, in una relazione del 1949, si affermi che «le attuali dimensioni dell'ACE, che sono quelle contemplate in origine, sono il frutto di lunghe considerazioni da parte di Mr. Womersley e del professor von Neumann durante la visita di Mr. Womersley negli Stati Uniti». Secondo i principi evolutivi esposti dal nonno di Sir Charles Darwin, era forse inevitabile che il timido Turing sarebbe stato travolto dal disinvolto Johnny von Neumann. Addirittura, Davis riferisce che ancora nel 1987, quando pubblicò un articolo in cui sosteneva che von Neumann aveva ricavato molte delle sue idee da Turing, si sentì «molto solo» sotto quel punto di vista. Davis dovette perciò sentirsi gratificato quando, 12 anni dopo, il "Time" non solo incluse Turing nella lista dei 20 scienziati più importanti del XX secolo, ma nella voce dedicata a von Neumann (anche lui in lista) scrisse:

Praticamente tutti i computer di oggi, dai supercomputer da 10 milioni di dollari ai minuscoli chip dei cellulari e dei Furby, hanno una cosa in comune: sono "macchine di von Neumann", variazioni dell'architettura informatica di base che John von Neumann, partendo dal lavoro di Alan Turing, sviluppò negli anni Quaranta.

Per Turing, gli anni Quaranta furono un'epoca più di partenze che di traguardi. Gli venivano nuove idee, ci si buttava a capofitto e poi, prima di riuscire a realizzarle, le abbandonava, perché costretto dalle circostanze o perché attratto da qualcos'altro. Così, quando Don Bayley nel 1945 presentò la versione operativa del Dalila al Cipher Policy Board, Turing aveva già abbandonato il progetto e si era spostato a Teddington per dedicarsi all'ACE e, allo stesso modo, aveva lasciato Teddington non appena l'ACE pilota era stato collaudato. A Bletchley, quando i colleghi parlavano dei loro programmi una volta finita la guerra, Turing aveva sempre affermato di voler riprendere la sua fellowship al King's, e fu quello che in effetti fece il 30 settembre 1947. Ufficialmente si stava prendendo un anno sabbatico - l'idea era che a Cambridge si sarebbe dedicato al lavoro teorico che avrebbe potuto applicare più tardi alla costruzione dell'ACE -, ma tanto lui quanto Darwin probabilmente sapevano che non sarebbe mai più tornato all'NPL.

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Quello che restò della vita di Alan Turing dopo l'arresto fu una lenta e triste caduta nel dolore e nella follia. Processato per reati contro la morale, fu condannato - anziché alla prigione - a subire un ciclo di trattamenti agli estrogeni allo scopo di "curarlo" dall'omosessualità. Le iniezioni producevano l'effetto della castrazione chimica. E, quel che è peggio, avevano degli effetti collaterali umilianti. Il podista smilzo diventò grasso. Gli crebbe il seno. Durante tutto questo continuò a lavorare, tenendo duro con l'elasticità che aveva dovuto imparare a Bletchley. Per esempio, in febbraio, quando Norman Roudedge gli scrisse per informarsi sulle mansioni nei servizi segreti, Turing gli rispose: «Credo di non sapere granché delle mansioni, a parte quell'unica che ho svolto durante la guerra e che di sicuro non richiedeva di viaggiare. Credo che prendano i soldati di leva. [...] Comunque, al momento non sono in condizioni tali da potermi concentrare al meglio, per le ragioni che spiego nel prossimo capoverso».

Quale riserbo, scrivere una risposta così disinvolta alla richiesta di Routledge prima di spiattellare le brutte notizie!

Ora mi sono cacciato in quel genere di guaio che ho sempre considerato altamente probabile per me, anche se l'ho sempre [illeggibile] circa 10 contro uno. In poche parole, mi devo dichiarare colpevole dell'accusa di reato sessuale con un giovanotto. La storia di com'è saltato fuori è lunga e affascinante e un giorno ne ricaverò un racconto breve, ma adesso non ho tempo di raccontartela. Senza dubbio, ne verrò fuori completamente cambiato, ma in che modo non l'ho ancora scoperto.

La lettera si chiude così:

Sono contento che ti sia piaciuta la trasmissione. Però J. ne è di certo rimasto alquanto deluso. Ho proprio paura che qualcuno in futuro possa usare il seguente sillogismo:

    Turing crede che le macchine pensino
    Turing giace con gli uomini
    Quindi le macchine non sanno pensare

La lettera è firmata «sempre tuo nell'angoscia, Alan».

Era fuori discussione che Turing potesse ancora lavorare sui progetti governativi di criptoanalisi, anche se di recente Hugh Alexander l'aveva contattato a questo scopo. Costituiva un pericolo troppo grosso per la sicurezza dello stato. Dalla defezione di Guy Burgess, nel 1951, il mito del traditore omosessuale aveva acquistato slancio tanto nella stampa popolare quanto nelle stanze del governo. E Forster non aveva certo facilitato le cose scrivendo, nel saggio What I Believe, che, se fosse stato obbligato a scegliere se tradire il suo paese o un amico, sperava che avrebbe avuto il coraggio di tradire la sua nazione. Se la polizia ora processava Turing e cercava di impedirgli di lasciare l'Inghilterra, non era solo per tormentarlo; era anche per paura che potesse decidere di tradire il suo paese, consegnando le informazioni riservate di cui era al corrente a un agente nemico che si facesse passare per un amico. Non contava che Turing fosse sinceramente apolitico: lui esisteva appena e, dopo averlo castrato chimicamente, ora volevano castrarlo moralmente, derubandolo non solo della libertà di muoversi ma anche di quella di sentire. Anzi, forse fu perché si sentiva così castrato che, in una seconda lettera a Norman Routledge - un anno più tardi -, scelse di usare un tono timidamente effeminato, per lo più assente dalle sue lettere precedenti: [...]

La mattina dell'8 giugno 1954, la signora Clayton, la domestica, trovò nel letto il cadavere di Alan Turing. Vicino c'era una mela da cui erano stati morsi diversi bocconi. [...]

Per la signora Clayton, la possibilità che Turing si fosse suicidato sembrava tanto inconcepibile da autorizzarla a offrire la sua testimonianza a sostegno del contrario (ma non tanto inconcepibile da non sentirsi in dovere di discuterne). Ciononostante, il risultato dell'inchiesta, che si tenne il 10 giugno, fu che Turing si era ucciso. Sembrava che la mela fosse stata intinta in una soluzione di cianuro.

Negli anni successivi alla sua morte, molti amici di Turing iniziarono una specie di cospirazione insieme alla madre per diffondere il mito che la sua morte non fosse la conseguenza di un suicidio, ma di un esperimento scientifico andato storto. Nel confezionare questa teoria, misero l'accento sulla quantità di sostanze chimiche (fra cui il cianuro di potassio) che teneva in casa, così come sulla varietà di apparecchiature scientifiche. Per esempio, il dottor Greenbaum, lo psicanalista, scrisse alla signora Turing:

Non ho il minimo dubbio che Alan sia morto a causa di un incidente. Lei descrive tanto vividamente il modo in cui Alan faceva gli esperimenti che riesco a immaginarmelo mentre traffica. Era come un bambino che sperimentava e non sempre analizzava [illeggibile] osservato, ma lo assaggiava anche con le dita. [...] Quando è morto, era più lontano che mai dal suicidio. [...]

Altri matematici della grandezza di Turing avevano concluso la vita nella follia: Cantor e anche Gödel. Forse anche Turing, verso la fine, stava diventando maniacale e immaginava di girare nello spazio in un «iperboloide di luce mirabile» conosciuto come "gavitello di Pryce". O magari, come pensava Gandy, tutto questo faceva parte di «una nuova meccanica quantistica [...] da non prendersi troppo sul serio (quasi del genere "solo per uso non professionale"), benché senza dubbio sperasse che ne sarebbe uscito qualcosa da prendersi sul serio». O forse la nuova meccanica quantistica riguardava le mele, i coni di luce e le navi spaziali. In Apologia di un matematico, Hardy aveva scritto: «Nessun matematico può permettersi di dimenticare che la matematica, più di qualsiasi altra arte o di qualsiasi altra scienza, è un'attività per giovani». Eppure, secondo Hardy, Turing non aveva perso le sue facoltà; anzi, nei mesi precedenti la sua morte, aveva trovato un limite superiore per il numero di Skewes che era più basso di quello che Skewes stesso aveva stabilito. Sarebbe stata una scoperta significativa se avesse deciso di pubblicarla. Ma non lo fece. Disse che non voleva mettere in imbarazzo Skewes.

L'idea del suicidio, se è stato tale, dev'essergli venuta in mente all'improvviso. D'altra parte sembra che quel metodo fosse nei suoi pensieri da anni. Per esempio, il suo amico James Atkins disse ad Andrew Hodges che una volta Turing aveva scritto da Princeton una lettera in cui proponeva un mezzo per suicidarsi che «implicava l'uso di una mela e di certi fili elettrici». Aveva detto spesso ai suoi amici che ogni sera prima di andare a letto mangiava una mela. E, naturalmente, a Cambridge, per settimane dopo la prima cinematografica di Biancaneve e i sette nani s'era aggirato per i corridoi del King's cantando «Metti il frutto nel veleno fino a quando ne sia pieno».

Ancora oggi la mela ha il suo fascino. Le sue implicazioni metaforiche dicono molto (la mela della morte, la mela della conoscenza... Troppa conoscenza?). Su internet circola una voce secondo la quale la mela del logo della Apple sarebbe un riferimento a Turing. La compagnia nega qualsiasi collegamento; la sua mela, sostiene, allude a Newton. Ma allora perché ne manca un morso?

Forse quello che ci fa raggelare è che, togliendosi la vita, Turing in realtà abbia scelto di gigioneggiare un po', di rivestire la sua dipartita da un mondo che lo aveva trattato miseramente con un po' dello splendore gotico, misterioso e colorato di un film Disney. Eppure, in tutte le pagine che ho letto su Turing - e ce ne sono centinaia -, nessuno ha mai fatto cenno a quello che a me sembra il messaggio più evidente. Nella fiaba, la mela che Biancaneve addenta non la uccide; la fa dormire finché il Principe non la sveglia con un bacio.

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