Copertina
Autore Alessio Lega
Titolo Canta che non ti passa
SottotitoloStorie e canzoni di autori in rivolta francesi, ispanici e slavi
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008, Eretica speciale , pag. 168, cd, cop.fle., dim. 15x21x1,2 cm , Isbn 978-88-6222-039-2
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe musica
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Indice


Prefazione di Enrico de Angelis                   3

Premessa                                         12

Le origini francesi                              15
Il rosso e il nero di Bruant                     21
Brassens il libertario                           25
Scandaloso Ferré                                 31
Vian il disertore                                34
Gainsbourg il guastatore                         38
Brel il furore                                   48
Ferrat il comunista                              53
La rabbia di Fanon                               57
Moustaki il gatto                                61
Perret la tenerezza                              65
Le rivolte di Tachan                             70
Anne Sylvestre l'amica                           75
Nino Ferrer, ridi pagliaccio                     79
Beaucarne il giardiniere                         85
Pagani, ottimista apocalittico                   89
Utgé-Royo, nostra leggenda                       93
Il romanzo di Renaud                            100
Gilbert Laffaille, la testa altrove             109
Desjardins il nuovo Québec                      113
Leprest, il cuore in gola                       118
Atahualpa dio umano                             123
Paco Ibànez, la voce della poesia               127
Lluís Llach il catalano                         131
Viva Zeca e il 25 aprile                        134
Adriano Correia de Oliveira, cristallo spezzato 137
José Màrio Branco il resistente                 141
Bulat Okudzava il cantapoeta                    144
Volodja esiste                                  148
I fuochi di Praga: Kryl e Nohavica              153

Ringraziamenti                                  160
Crediti del CD allegato                         161
Canzone per canzone                             163


 

 

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Pagina 2

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Pagina 31

Scandaloso Ferré


Per altri vi può essere ammirazione, gradimento, passione. Ma con Léo è diverso: lui è uno che travolge, tracima, straripa. Léo divide... Nessuno si sogna di mettere in discussione il suo talento, ma a molti danno fastidio le idee che ingombrano la sua arte e la sua arte che ingombra l'ideologia. Per lui non c'è mai stato l'unanime favore dei contemporanei e, anche dopo anni dalla sua morte, la sua opera resta scandalosa. Ma scandalosamente viva.

L'uomo ebbe una vita assai varia e inappagata, un'incoercibile vocazione poetica, una volontà costante di cambiamento, un sentimento straordinario del dolore, dell'esilio sulla terra, nel tempo e nella storia. Eppure c'è sempre stata in lui la volontà caparbia di essere "ora e qui", nel mondo in cui viviamo e di sostituire all'orrore le regole della libertà e del rispetto. Votato alla bellezza, all'armonia, alle profondità del pensiero e del mare. Diviso fra le costrizioni della famiglia e della società, la contemplazione delle orchestre immaginarie che portava nella mente fin da bambino e le trappole del collegio religioso in cui studiò, creò mondi e famiglie utopiche, fino a ritrovarsi a maledire e allo stesso tempo benedire la propria solitudine.

Io sono di un altro mondo, di un altro quartiere, di un'altra solitudine.
[...]
Io non sono dei vostri, io aspetto i mutanti.
Biologicamente me la cavo con l'idea che mi son fatto della biologia:
piscio, eiaculo, piango.


Nato nel 1916 in un ricco microstato, il principato di Monaco, Léo trascorre gli anni della propria formazione tra le pastoie del controllo paterno. Aveva studiato («Sono stato internato» diceva) presso un collegio religioso a Bordighera e aveva proseguito negli studi, sempre contrastando con la passione per la musica e la poesia l'idea del padre di fare di lui un professionista. Nel dopoguerra si ritrova a Parigi per intraprendere la tanto desiderata vita d'artista. Impiegò dieci anni a prendere il volo e, quando infine lo prese, volò in tutte le direzioni possibili sino a diventare un profeta della rivolta del Maggio '68.

Senonché lui era già oltre il '68 e, per giunta, altrove. Tragedie personali e lacerazioni professionali gli fecero abbandonare la Francia per trasferirsi, ignorato e negletto, in Italia. Questo zotico paese però non s'è mai accorto che, per una volta, un artista di tale levatura avesse intrapreso la strada contraria rispetto a quella usuale compiuta dai suoi figli di talento.

Ferré o il mare... Immensa senza dubbio, e fuor di metafora, la sua opera: più di trecentocinquanta le canzoni, e poi libri di poesia, poemetti politici, ideologici, esistenziali, sessuali, un vasto romanzo-confessione. Opere sinfoniche e cento melodie per cantare le poesie di Baudelaire, di Rimbaud e Verlaine, di Apollinaire, di Louis Aragon, l'unico contemporaneo affrontato con sistematicità.

Ma per spiegare la sua opera non basta evocarne l'imponenza: altri sommi artisti hanno realizzato una mole sovrumana di materiali, basti pensare alle circa ottocento canzoni di Theodorakis. Allora come affrontare la questione Ferré, come riuscire a trattare gli aspetti che lo fanno unico, come far entrare il lettore o l'ascoltatore occasionale nel progetto di Léo? Già, perché a rendere Ferré folgorante è il progetto della sua opera, così magmatica e carica di energia vitale. Stupore e meraviglia dominano chi s'avvicina a Léo e non ne viene respinto. Certo, lui è uno che non lascia indifferenti ma può lasciare disturbati. Chi l'avvicina, dapprima intravede, poi attraversa con emozione – senza mai riuscire a dominarla – l'anima del paesaggio che è l'opera di Ferré.

Di quel progetto esplosivo si può trovare qualche scheggia programmatica in certi suoi slogan: «La musique dans la rue» (La musica nella strada); «A l'école de la poesie on n'apprends pas, on se bat» (Alla scuola della poesia non si impara, ci si batte); «Le désordre c'est l'ordre moins le pouvoir» (Il disordine è l'ordine meno il potere). «La musica nella strada» è, appunto, uno dei principi che definiscono la ricerca di Ferré: un percorso da innamorato nella musica di Beethoven e Ravel (autori su cui si esercitò direttamente in un disco di direzione orchestrale), con l'intento di liberarla e volgerla in rivolta. Il progetto, durato una vita, di sottrarre la musica ai melomani che hanno rinchiuso un linguaggio rivoluzionario nei teatri borghesi e nei conservatori: la forma in rivolta sia restituita nella strada, a chi ha significati rivoluzionari da praticare.

L'arte di Ferré fu però anche quella di comporre canzonette la cui sostanza popolare potesse sollecitare anche suggestioni classiche. Allargando, poi, tali suggestioni verso una dialettica coinvolgente i codici originati dalla filastrocca popolare, dalle canzoni della "mala" o dal nonsense surrealista. Ciò con l'intento di pervenire a un libero poemetto in versi e musica e all'illuminazione oltre la forma... Oppure tutto il contrario? Forse Léo è uno che muove dalla canzonetta per allargarne i confini verso orizzonti sempre più ambiziosi: entrando, in tal modo, nel novero di quegli artisti che possiamo chiamare a buon diritto "precursori" di tutta la canzone d'autore.

Oppure ancora si tratta di partire da Léo l'anarchico, che parlando da libertario di sé, di noi e del mondo vuole tenere in equilibrio spirito e materia, saggezza e follia; di partire dai suoi dischi ove s'alternano attacchi espliciti, con nomi e cognomi in evidenza, ai potenti della terra e canzoni di ardua comprensibilità eppure bellissime per forza di sentimento come "La Mémoire et la mer"...

Ferré o il trionfo dei contrari, la coerenza della libertà, la rivoluzione fattasi poesia, musica e canto... Non se n'esce: occorre allora procurarsi quei suoi quaranta dischi, ascoltarli religiosamente arrivando alla fine per poi ricominciare... Non se n'esce: c'è da farsi sorprendere da un'unica canzone, magari cantata da uno dei tanti interpreti che si sono dedicati al repertorio di Ferré; c'è da leggere o sentire per caso una frase sola e illuminante; o da vederlo, in video, mentre arringa la folla in un teatro con frasi da poeta capaci di mettere il pubblico in comunicazione coll'anima del mondo... No, non se n'esce: non con un articolo, con un libro, col delirio d'un ubriaco che, come nella canzone "Richard", si sporge verso un vicino sul bancone d'un bar. Forse, se vi va bene, qualcuno di voi può entrare nel mondo di Léo Ferré. Poi, però, sono cazzi vostri: perché non se n'esce.

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Pagina 79

Nino Ferrer, ridi pagliaccio


Fine anni '60 e inizio degli anni '70. La memoria collettiva richiama la silhouette allampanata e la faccia spigolosa d'un cantante franco-italiano, mezzo dongiovanni e mezzo donchisciotte, che rinverdendo un'antica macchietta del repertorio di Nino Taranto, "Agata", è riuscito a tenere assieme delicatezza e doppi sensi. Poco prima aveva lanciato una strana canzone che portava con levità il tema dell'antirazzismo su tutte le bocche: "Vorrei la pelle nera". Un successo rapido e travolgente, quanto effimero, ma che frutta al cantante, abile intrattenitore dotato d'una simpatia naturale, una trasmissione televisiva in prima serata. Passano quasi trent'anni e il 13 agosto 1998 il telegiornale annuncia che il cantante Nino Ferrer, una volta famoso, si è sparato un colpo di fucile in pieno petto nella campagna che circonda la sua casa nel sud della Francia.

Questi sono i pochi dati su cui si basa in Italia la conoscenza di questa figura inclassificabile. Provo allora a gettare uno sguardo sull'opera e sul dramma di un poeta e musicista che, seppure intrappolato nei panni di clown pop, ha operato una delle più interessanti sintesi fra jazz, rock, canzone ed esperimento sonoro.

Il vero nome di Nino Ferrer, nato a Genova il 15 agosto 1934, è Agostino Ferrari. Suo padre, rampollo della buona borghesia genovese, chimico di professione, era un viveur che, recatosi in Nuova Caledonia per allargare le sue relazioni professionali, aveva conosciuto e sposato una bella francese. Poiché, in Italia, anche per una famiglia benestante gli anni della guerra erano stati duri, la famiglia prese la decisione di trasferirsi in Francia. Intanto il piccolo Nino cominciava a rivelare il suo carattere fantasioso e ribelle. Verso la fine dell'adolescenza scopre il jazz e conosce i primi strazianti amorazzi, le prime sconfitte, il gusto della vita zingara.

Nino suona molto bene banjo e contrabbasso in compagnia di Richard Bennet, che diverrà un piccolo mito del jazz francese, sotto l'ala protettiva del grande vecchio Sidney Bechet, in quel tempo attivissimo in Francia. Per una decina d'anni s'esibirà nelle feste scolastiche o nei luoghi di villeggiatura. Intanto il jazz, che aveva innovato le sonorità della canzone francese per la generazione precedente (quella dei Boris Vian, Montand, Juliette Greco), nei primi anni '60 viene scalzato dalla moda del twist e dei cantanti yé-yé. Così anche i grandi cantanti delle generazioni precedenti (Brassens, Brel, la Greco) hanno un pubblico consolidato, ma coloro che ne seguono le orme – anche i più validi, come Maurice Fanon – non riescono a emergere. Nino, che dapprincipio sembrerebbe votato alla stessa sorte, ha un'abilità che sarà la sua fortuna e nello stesso tempo la sua croce: è perfettamente in grado di parodiare il genere yé-yé con graziosi testi nonsense. Sono canzoni tutte di successo, che gli nascono senza sforzo e in continuazione. Ferrer è uno straordinario improvvisatore: una sera sta suonando in un dancing di Saint-Tropez quando una signora che ha perso il cagnolino gli chiede di dare l'annuncio via microfono. Quest'annuncio, il cantante lo trasforma in una gag, in uno scioglilingua rockabilly: ed ecco che nasce "Mirza", tormentone estivo venduto in milioni di copie. Seguono ulteriori successi: "Les Cornichons", "Le Téléphon", "Oh! Hé! Hein! Bon!" Tutti dischi di platino.

Nino Ferrer è diventato popolarissimo, ma è a questo punto che la sua inquietudine diventa parossistica. Il fatto è che lui, serio musicista e poeta, non si riconosce nel modo superficiale con cui è visto dal pubblico. E per ogni "lato A" con l'inevitabile canzone allegra impostagli dall'etichetta discografica, c'è un "lato B" recante una tormentosa canzone d'amore: "Un an d'amour (c'est irréparable)"; "Ma vie pour rien", eccetera. Il successo della versione italiana della sua canzone "La pelle nera", che lui considerava una discreta via di mezzo tra serio e faceto, gli fa erroneamente supporre che il nostro paese possa essere un buon terreno per costruirsi un'immagine a propria misura. Così passa in Italia gli anni fra il '70 e il '73, facendo molta televisione, collezionando macchinoni americani o filarini con diverse star, e tornando di tanto in tanto in Francia per dei concerti.

Intanto si fa strada in lui la convinzione che la musica sia altra cosa da quanto ha fatto troppo a lungo. Con questa nuova idea, in rivolta contro la società, sposa le tematiche dell'antimilitarismo, dell'ecologia, del sesso libero e delle droghe: d'ora in poi, saranno questi i suoi riferimenti. Dopo avere attraversato il '68 quasi con un senso d'insofferenza, Nino s'avvede che le tematiche della rivolta gli sono entrate dentro cambiandolo radicalmente. L'episodio che sembra scuotere i nervi di Nino lo provoca la RAI, che gli censura una canzone contenente la parola letto, intesa come participio passato di leggere, ma ahimè, anche sinonimo dell'innominabile talamo. Segue il ritorno in Francia dove registra Metronomie, che in seguito definirà il suo «primo disco». Considerato un monumento del rock francese, Metronomie s'apre con sette minuti di caos sonoro e improvvisazione, derivata tanto da John Coltrane quanto dai primi Pink Floyd, che preludia una canzone di protesta contro le assurdità della vita e della guerra:

Ci si risveglia nel giorno della gloria fra le cose, fra la gente.
E seppure sia una corte dei miracoli, è imparando che s'impara.
Lei, c'è lei sola, c'è semplicemente lei, il mondo è tenero e differente.
Il mare è calmo, si parte all'avventura: tanto meglio o tanto peggio...
Ecco la primavera arrivare e ce ne vogliono venti per ammazzarla.
Luna, dollari, manganelli e sogni, e il manganello torna sempre.
Si fa la croce su chi resta... croce di guerra ovviamente!
Insieme, certo, vinceremo tutto il meglio o tutto il peggio.
E poi, ecco, cade la sera, dopo due ore, dopo cent'anni.
Ma è una cosa senza importanza, non è che questione di tempo.
«Allons enfants de la patrie...», forza, allegri verso il destino.
Sopravvivere un po'
imparare un po'
sorridere un po'
amare un po'
soffrire un po'
morire un po'...
per niente.


Il disco non ha però alcun successo, con l'eccezione di "La Maison près de la fontaine", che vende molto bene come singolo.

La casa accanto alla fontana
coperta di vigne vergini e tele di ragno
odorava di marmellata, di disordine e d'oscurità,
d'autunno,
d'infanzia,
d'eternità.
[...]
La casa accanto al dormitorio
ha fatto posto ai capannoni e al supermercato.
Gli alberi son spariti ma c'è l'odore dell'idrogeno solforico,
di benzina,
di guerra,
di società.
Non va poi male... è normale.
È il progresso.


Nino, cui manca completamente la capacità di contentarsi, diviene sempre più intrattabile. Litiga con tutti: case discografiche, televisioni, radio, manager, colleghi. Ogni richiesta di ripetere la formula d'un suo qualunque prodotto, ogni concessione ai formati e ai tempi del music business, è per lui un inaccettabile attentato all'integrità artistica. Tutti ricordano il suo talento e il suo innato senso dello spettacolo, ma molto di più i suoi improvvisi scoppi d'ira. Ed è così che Nino comincia a farsi la fama di rompicoglioni.

Intanto ha appena incontrato il chitarrista hard rock Mike Finn che gli dischiude nuove possibilità, spingendolo a diventare un rocker dai suoni sempre più aspri e dai testi sempre più intensi. Ora, liberatosi d'ogni contratto, Ferrer intraprende l'autoproduzione di dischi tanto belli quanto lontani dalla sua immagine d'un tempo. Sono dischi duri, sprezzanti: imperiose cavalcate psichedeliche con testi eseguiti sovente in inglese. E arriva quello che sarà il suo ultimo successo: "Le Sud", ancora una volta una canzone dove la filosofia morale si sposa con la descrizione lirica. Il disco vende milioni di copie, ma Nino, che non ama la versione più conosciuta e commerciale, per anni s'ingegna di cantarla alcune volte in francese, altre in inglese, altre ancora in italiano, in un'ossessiva quanto utopica ricerca della perfezione.

Quello che era stato l'elegante dandy dalle mille storie è ora divenuto un signorotto freak. I proventi di "Le Sud" gli permettono di comprare una tenuta nel sud della Francia, dove trasferisce la madre che, dopo la morte del padre, è diventata il suo alter ego, il suo legame con la vita insieme alla moglie Kinou, ai figli, agli amici musicisti. Al cancello della sua tenuta, dove organizza lo studio di registrazione, alleva numerosi animali e coltiva la marijuana di cui è consumatore smodato, affiggerà la scritta: «Qui sono a casa mia e ospito neri, puttane, ebrei, drogati, e caco in faccia a tutti gli altri».

La lotta di Nino col mondo dell'industria musicale si fa sempre più feroce, ricambiata con la più totale indifferenza. E, prima del suicidio, gli capiterà di finire sui giornali per un motivo estraneo alla musica: accade che un battaglione di parà sia catapultato nella tenuta del cantante, erroneamente scambiata per un campo d'addestramento. Nino, che ha per i militari la simpatia che possiamo immaginare, va a scacciarli fucile alla mano. La tensione sale e la tragedia viene evitata d'un soffio.

Continua in quegli anni a registrare dischi e talora tiene qualche concerto incontrando un piccolo pubblico giovane che ha imparato ad apprezzarlo per quello che è, tuttavia sia i discografici, sia gli organizzatori di concerti non credono più in lui e, quando non si mostrano indifferenti, non mancano di boicottarlo. Sconcertato e furioso, Nino rompe definitivamente i rapporti con l'ambiente dell'industria musicale.

Bisogna che tutte le musiche, bisogna che tutte le opinioni
possano farsi ascoltare anche se l'indice di gradimento
resta al grado zero.
Bisogna fare in modo che si sia noi a scegliere,
se no non saremo mai liberi,
se no è tutta imposizione, tutta industria, tutto marketing.
Non amano la musica, non ne capiscono niente.
Tutto ciò che amano è ciò che riconoscono.
Allora si dividono le pere e il formaggio.
E sono vent'anni che si sente sempre la stessa roba,
Bouvard e Pécuchet, Tartufo e compagnia.
Noi vogliamo ascoltare ciò che fa vibrare,
vogliamo parlare di ciò che c'interessa
anche se si chiama sesso, droga o disperazione.
Vogliamo radio libere,
televisioni libere.


Ritiratosi nella sua campagna, Nino assiste, prima, alla lunga, straziante agonia della madre, poi alla propria stessa agonia mentale di cui pochi s'accorgono. Sprofondato in un cupo silenzio, mentre scrive lettere d'amore alla famiglia e d'accusa ai giornalisti, prepara minuziosamente la sua uscita di scena.

«Quand'ero piccolo non ero grande e c'era guerra ovunque. Le circostanze della vita hanno fatto di me un ragazzo solitario in un campo deserto e infine un uomo allucinato in un mondo di marziani.»

Nemmeno un mese dopo la morte della madre, Nino parte da solo col suo fucile verso l'ignoto.

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Pagina 89

Pagani, ottimista apocalittico


Immagina, amore mio, tutta un'infanzia senza carezze,
una guerra di vent'anni tutta schiaffi e avvocati.
Nella mia isola si battevano tre naufraghi della tenerezza,
tre relitti dell'amore. Questa fu la mia famiglia.


Il piccolo Herbert ha due o tre anni e deve già scavare nella ferita d'una separazione: «deportato di collegio in albergo», usato come arma di ricatto e ritorsione fra due genitori separatisi un anno e mezzo dopo la sua nascita. Già nel suo DNA il bambino possiede la mappa delle differenze, delle controversie, degli esili, delle fughe, delle persecuzioni.

Figlio di due ebrei libanesi italianizzati, Herbert Pagani nasce nel 1944. Il padre, un uomo d'affari, vero ebreo errante, lo porta spesso con sé. La madre, tenuta all'oscuro d'ogni viaggio, inizia un incessante inseguimento solo per potere riabbracciare il figlio qualche minuto o stare con lui poche ore.

Herbert completa i suoi studi in un pensionato francese dove, prima che «a forza d'amore perdesse il suo accento», s'inventa, al di là d'ogni barriera linguistica, l'universale linguaggio della propria arte grafica e pittorica. La scoperta delle arti visive, primo amore del ragazzo, sarà anche l'ultimo amore dell'uomo, che negli anni estremi s'occuperà solo di pittura.

Nel frattempo, l'esigenza di comunicare e suscitare emozioni, il bisogno di non essere solo (l'amicizia, oltre che il titolo d'un suo disco e d'una famosa canzone, sarà la parola-chiave della sua vita), lo spingono verso la musica e la poesia. Nasce così il cantautore. Bazzicando l'ambiente, per puro caso si ritrova a fare lo speaker a Radio Montecarlo. Lo stile della sua conduzione, le sue trovate, la simpatia, il modo frizzante, umano e sensibile al contempo (sua fu l'ultima intervista con Luigi Tenco), inaugurano uno stile radiofonico nuovo. L'Italia è però immatura per quest'artista che tenta la diffusione d'un linguaggio popolare e poetico assieme.

Un altro divorzio, stavolta da una patria, Herbert lo vive quando la censura colpisce il suo "Albergo a ore". Siamo quasi nel '70 e, secondo i censori della televisione di Stato, l'italico spettatore medio non può «sopportare» un esplicito riferimento al suicidio (e pensare che "Albergo a ore" è una canzone che la Piaf, nell'originale versione francese "Les Amants d'un jour", cantava senza problemi negli anni '40). Allora Pagani s'orienta verso i suoi idoli di sempre, segnatamente Brel e Ferré. La cosa funziona e lui incide per il mercato francese cinque dischi in cinque anni, fra cui il monumentale Megalopolis. Fa, inoltre, dirette televisive, spettacoli di successo e un gran numero di concerti per ogni dove. Periodicamente torna in Italia e, nel '76, incide il disco Palcoscenico.

Profittando della notorietà raggiunta, ormai maturo e mai pacificato, dà inizio alle sue battaglie di "sionista di sinistra" sollevando un vespaio di polemiche con l' Arringa per la mia terra (pronunciata in diretta l'11 novembre del 1975), che si conclude con le parole: «Oggi la famosa frase di Cartesio "Penso dunque sono" non ha nessun valore. Noi ebrei sono cinquemila anni che pensiamo e ci negano ancora il diritto di esistere. Oggi, anche se mi fa orrore, sono costretto a dire: mi difendo, dunque sono» (non sono per niente d'accordo con lui e mi sarebbe piaciuto poterci litigare!). In seguito, per quasi dieci anni, s'impone un silenzio che ogni tanto interrompe con qualche mostra, un intervento polemico, un progetto d'arte visiva o di scrittura. Grazie al suo operoso ritiro non affoga nella palude degli anni '80, ma la sua voce non ritrova la strada per esprimersi dal momento che una vigliacca, fulminante leucemia ci separa dal nostro compagno Herbert Avraham Haggiag Pagani all'età di appena quarantasei anni.

Chi s'accosta oggi alle sue opere musicali s'imbatte in un patchwork dove la canzone piu classica, spesso scritta con intenzione espressamente populista, convive con arrangiamenti lussureggianti pieni d'interventi extra-musicali: voci, versi, rumori della strada; con la musica che, al contempo, è accompagnamento, controcanto e colonna sonora. Collante di questi ingredienti sono l'irresistibile convinzione dell'interprete e la sua candida passionalità. Riferendosi al candore di Pagani non s'allude a una sua qualche forma d'incoscienza, ma alla dominante impressione lasciata dai suoi dischi e dalle testimonianze filmate: l'impressione d'un uomo appassionato, d'un cesellatore di suoni che umilmente s'arrovella sui propri manufatti, animato da una continua ispirazione.

Poiché i suoi vinili in italiano risultano introvabili, i curiosi che vorranno farsi un'idea completa di questo poeta dovranno ricorrere ai suoi dischi in francese, oggi ristampati in CD. Caso più unico che raro, Pagani ha scritto sia in francese sia in italiano, abitando le due lingue ugualmente bene e in modo sottilmente diverso. La sua voce, espressiva e calda, è nel fondo come incrinata da una ferita. Che canti per i cani abbandonati e rinchiusi in lager maleodoranti ("Berger d'artiste"), invochi l'attenzione su Venezia che affoga, irrida alle convenzioni del suo stesso mestiere (in "Palcoscenico"), se la prenda con la decadenza tecnocratica di quelli che lui chiama «Stati Uniti d'Europa» o esponga le proprie ferite (in "Des gens heureux" o "Il est toujours trop tòt ou trop tard"), Pagani resta quell'affascinante nodo di gentili contraddizioni che lo faceva essere al contempo un apocalittico e un ottimista, un animo tormentato e un cuore generoso; insomma uno che «in difetto di radici, s'è costruito delle ali»:

Quando lascio Parigi, capital-spazzatura,
quando fuggo dalle pubblicità che m'assalgono a colori,
quando lascio il suo grigio nel retrovisore
per cantare da qualche parte fra Loira e Mosella,
riscopro il tuo volto fra le rondini
e ritorno pittore e mi scordo il cantante.
Hai dei cieli che danno lezioni di pittura,
hai i cieli dei quadri della rivoluzione.
Le tue nubi sputate da enormi cannoni
si disputano l'alto, e passando in macchina
mi sembrano navi assetate d'azzurri.
E fioccano così basse che mi sfiorano la fronte.
Le tue capanne hanno tutta l'aria di venir fuori da una bibbia
curata da un qualche Mosè normanno
e i tuoi prati sono di un verde così commestibile
che si vorrebbe essere cavallo per brucarli un po'.
Hai i cieli di Vlaminck, ma di un blu che si muove,
hai i campi di Van Gogh, ma con in più gli odori,
hai Monet per le acque, i riflessi, i vapori.
E queste giungle fiorite nelle stazioni dei paesi
sono talmente Rousseau che quasi è un peccato
che manchi un leone che sorride tra i fiori.
Che mi guidino dal cielo o li abbia alle calcagna,
che sian d'oro o di bronzo, di bruma o di sangue.
Il tuo sole mi rivela, a questa o quell'ora,
primavere giapponesi, autunni spumosi,
estati violette come da manuale,
novembri di pioggia, inverni di diamante.
[... ]
Però io che prendo le tue lezioni di pittura,
io che canto la tua terra proprio ai tuoi figli,
io che a forza d'amore ho perduto l'accento
e ti cucio in francese quartine su misura,
come molti amanti ho anch'io una ferita
che conservo segreta, ma continua a sanguinare.
Ma mi hai visto? Ho il ricciolo berbero.
Ma mi hai ascoltato? Ho la voce di un muratore.
È nell'olio d'oliva che cuocio le canzoni
e parlo gesticolando e adoro la mamma
e ho tanti pogrom nel mio cuore millenario
che talvolta esito davanti al prosciutto.
Cominci a capire perché mi addolora
vedere il disprezzo che hanno a volte i tuoi figli
per i neri, gli arabi, gli ebrei, gli zingari
che non hanno il talento di passare per poeti...
È in nome del tuo cielo dalle strazianti pitture,
è in nome del concerto che dirigono i tuoi venti,
è in nome della mia fortuna e di tutto il tormento
che ti pongo ora la mia domanda, la mia ferita:
è vero che ti disturba la nostra natura,
a meno che non sia espressa su un palco in canzone?

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