Copertina
Autore Ursula K. Le Guin
Titolo Il linguaggio della notte
SottotitoloSaggi di fantasy e fantascienza
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 1986, Universale letteratura 176 , pag. 224, dim. 124x195x14 mm , Isbn 978-88-359-2975-8
OriginaleThe Language of the Night. Essays on Gantasy and Science Fiction [1979]
CuratoreSusan Wood
PrefazioneSusan Wood
TraduttoreAnna Scacchi
LettoreRenato di Stefano, 1987
Classe critica letteraria , fantascienza , fantasy , libri
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Indice


  7 Introduzione di Susan Wood

    I.  Le Guin presenta Le Guin

 17     Introduzione
 21     Un'abitante di Mondath

    II. Fantasy e fantascienza

 29     Introduzione
 33     Perché gli americani hanno paura dei
        draghi?
 40     I sogni devono spiegarsi da soli
 50     Discorso di accettazione del National
        Book Award
 52     Il fanciullo e l'ombra
 64     Mito e archetipo nella fantascienza
 73     Da Elflandia a Poughkeepsie
 87     La fantascienza americana e l'Altro
 91     La fantascienza e la signora Brown
110     Cosmologia fatta in casa

    III.Il libro è la realtà

117     Introduzione
121     Introduzione a «Il mondo di Rocannon»
126     Introduzione a «Il pianeta dell'esilio»
131     Introduzione a «Città delle illusioni»
135     Introduzione a «Il mondo della foresta»
140     Introduzione a «La mano sinistra delle
        tenebre»
145     La necessità del genere
154     L'occhio scrutatore
158     Un uomo modesto
162     Introduzione a «Racconti di un vecchio
        primate»

    IV. Dire la verità

171     Introduzione
175     Introduzione a «The Altered I»
        (estratto)
178     Parlando della scrittura
184     Vie di scampo

    V.  Forzare i confini

193     Introduzione
195     Stalin dentro l'anima
206     L'ascia di pietra e i buoi muschiati

221 Bibliografia delle traduzioni italiane

 

 

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Pagina 21

Un'abitante di Mondath


Una sera, avevo circa dodici anni, stavo esaminando gli scaffali della libreria del salotto, in cerca di qualcosa da leggere. Tirai fuori un volumetto della Modern Library, nella vecchia legatura di cuoio floscio; aveva un titolo bizzarro, A Dreamer's Tales. Lo aprii, in piedi vicino alla consunta poltrona verde presso la lampada; quel momento è perfettamente vivo in me adesso. Lessi: «Toldees, Mondath, Arizim, queste sono le Terre Interiori, le terre le cui sentinelle ai confini non scorgono il mare. Al di là di esse a oriente si stende un deserto, che mai uomo turbò: tutto giallo esso è, e punteggiato dalle ombre dei sassi, e la Morte vi sta, come un leopardo che giace al sole. A meridione le delimita la malia, a occidente una montagna».

Non comprendo completamente perché Dunsany mi raggiunse come una rivelazione, perché quel momento fu cosí decisivo. Leggevo molto, e gran parte della mia lettura era mito, leggenda, fiaba; anche versioni di prim'ordine, come quelle di Padraic Colum, di Asbjornsson, ecc. Avevo inoltre ascoltato mio padre raccontare ad alta voce le leggende indiane, tali e quali le aveva sentite, solamente tradotte in un inglese piuttosto lento, solenne; ed erano storie solenni e misteriose. Quello di cui non mi ero resa conto era, immagino, che gli uomini continuavano a inventare miti. Uno naturalmente inventava storie per conto suo; ma questa volta era un adulto a farlo, per altri adulti, senza offrire neppure una scusa al buon senso, senza una spiegazione, semplicemente facendoci cadere dritti dentro le Terre Interiori. Quale che fosse la ragione, il momento fu decisivo. Avevo scoperto il mio paese natio.

Il libro apparteneva a mio padre, uno scienziato, ed era tra i suoi preferiti; per la verità, egli aveva una grande passione per le storie fantastiche. Mi sono chiesta se non esista un qualche rapporto concreto tra un certo tipo di mentalità scientifica (il tipo che esplora e sintetizza) e la mentalità fantastica. Forse «fantascienza» non è proprio un nome tanto brutto per il nostro genere, in fondo. Coloro che non apprezzano i racconti fantastici molto spesso sono ugualmente annoiati o nauseati dalla scienza. Non amano né gli hobbit né i quasar; non ci si sentono a loro agio; non vogliono cose complesse, remote. Se un tale rapporto esiste, sono sicura che è fondamentalmente estetico.

Mi chiedo che cosa sarebbe successo se fossi nata nel 1939 invece che nel 1929, e avessi letto Tolkien per la prima volta quando ero adolescente, invece che dopo i vent'anni. L'impresa avrebbe potuto sopraffarmi. Sono contenta di aver avuto un certo senso della direzione in cui mi muovevo, prima di leggere Tolkien. L'influsso di Dunsany è stato interamente benigno, e non ho mai cercato molto di imitarlo, nel mio scribacchiare prolifico e derivato di adolescente. Per me non è stato un modello, ma un liberatore, una guida.

In ogni modo, ero indirizzata verso le Terre Interiori prima ancora di averne sentito parlare. Possiedo ancora il mio primo racconto compiuto, scritto all'età di nove anni. Narra di un uomo perseguitato da elfi malvagi. La gente pensa che sia matto, ma alla fine gli elfi malvagi si infilano nel buco della serratura e lo prendono. A dieci o undici anni ho scritto la mia prima storia fantascientifica. Comprendeva viaggi temporali e l'origine della vita sulla terra, e aveva uno stile molto vivace. La inviai a Amazing Stories. Ho un altro ricordo molto vivido, mio fratello Karl per le scale, che guarda in alto, verso di me sul pianerottolo, e dice riluttante: «Ho paura che abbiano rimandato indietro il tuo racconto». Non ricordo di essere stata molto avvilita, ero anzi lusingata di ricevere una vera lettera di rifiuto. Non sottoposi piú niente a nessuno fino a ventuno anni, ma ritengo che fu piú per saggezza che per mancanza di coraggio.

Da bambini leggevamo fantascienza, all'inizio degli anni quaranta: Thrilling Wonder e Astounding, in quel formato gigante che ebbe per qualche tempo, e cosí via. A tutti preferivo Lewis Padgett, e cercavo i suoi racconti, ma la maggior parte delle volte andavamo in cerca delle riviste con piú pattume, perché il pattume ci piaceva. Ricordo una storia che cominciava: «In principio era l'Uccello». Quell'uccello ci piaceva veramente da morire. E la frase finale di un'altra (o della stessa?): «Di nuovo nel sauro limo di donde spuntò!». Karl lo trasformò in un canto notevole: «Il sauro limo da cui spuntò / senza pianti, né onori, né canti». Mi chiedo quanti degli imbrattacarte che pensano di scrivere per «bambinetti innocenti e adolescenti» si rendano conto del genere di piacere che danno a volte ai loro lettori. Se lo capissero, affonderebbero di nuovo nel sauro limo di donde spuntarono.

Non ho mai letto solo fantascienza, come fanno alcuni bambini. Leggevo qualunque cosa su cui riuscivo a mettere le mani, senza limiti; c'era una casa piena di libri, e una buona biblioteca pubblica. La smisi con la fantascienza verso la fine degli anni quaranta. Sembrava non parlare d'altro che di hardware e militari. Tra l'altro, avevo da fare con Tolstoj e roba del genere. Non lessi assolutamente niente di fantascienza per circa quindici anni, proprio quel periodo che adesso viene chiamato Età d'oro della fantascienza. Mi sono persa quasi completamente Heinlein, e via dicendo. Se davo un'occhiata a una rivista, sembrava sempre che non ci fosse altro che comandanti di astronavi vestiti di nero, dalle facce scarne e rudi, e un sacco di artiglieria fantastica. Probabilmente non avrei mai ricominciato a leggere fantascienza, e quindi a scriverla, se non fosse stato per un nostro amico a Portland, nel 1960 e 1961, che ne possedeva una piccola raccolta e mi prestava qualsiasi cosa su cui i miei occhi si posassero. Una delle cose che mi prestò fu una copia di Fantasy and Science Fiction, che conteneva un racconto intitolato Alpha Ralpha Boulevard, di Cordwainer Smith.

Non ricordo veramente cosa pensai quando lo lessi; ma quello che adesso penso che avrei dovuto pensare quando l'ho letto, è: «Dio mio! Si può fare!».

Dopo di ciò lessi parecchia fantascienza, alla ricerca di «quel genere» di scrittura; e ne trovavo, qua e là. Poi mi dissi: dal momento che ce n'era cosí poca, perché non scriverne io stessa?

No, non è vero. La cosa è molto piú complicata, e noiosa.

In poche parole, continuavo a scrivere da una vita, e stava diventando questione di pubblicare o morire. Non si può andare avanti a riempire la soffitta di manoscritti. L'arte, come il sesso, non si può mandare avanti all'infinito come un assolo; dopo tutto, hanno lo stesso nemico reciproco, la sterilità. Mi avevano pubblicato varie poesie e un racconto breve su piccole riviste; ma non era sufficiente, considerando che negli ultimi dieci anni avevo scritto cinque romanzi. O prendevo il volo, o la smettevo.

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