Autore Paolo Leon
Titolo Il capitalismo e lo Stato
SottotitoloCrisi e trasformazione delle strutture economiche
EdizioneCastelvecchi, Roma, 2014, Le Navi , pag. 288, ill., cop.fle., dim. 15x22x2,2 cm , Isbn 978-88-68261-33-7
LettoreRiccardo Terzi, 2014
Classe economia , economia politica









 

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Indice


Prefazione                                                       11
Introduzione                                                     15

PARTE PRIMA. L'ultima crisi del capitalismo                      19

I.  CROLLO FINANZIARIO, CRISI ECONOMICA, «DOUBLE DIP»            21

1.  Il motore della crescita                                     22
2.  Crisi e scienza economica                                    23
    Grafici                                                      25

II. EQUILIBRIO/SQUILIBRIO, CICLO, CRISI                          31

1.  La debolezza dei concetti di equilibrio e squilibrio         32
2.  Scambio, distribuzione, accumulazione e il velo di Smith     33
3.  Equilibri e squilibri nel mercato della forza lavoro         36
4.  I modelli Dsge                                               38
5.  Modelli dinamici                                             39
6.  Il ciclo economico e le aspettative razionali                40
7.  Equilibri, squilibri, cambiamenti e trasformazioni           44

III. L'ASIMMETRIA DELLE CRISI                                    45

1.  La crisi di domanda                                          45
2.  La crisi di offerta e l'asimmetria delle crisi               47
3.  L'agente rappresentativo                                     48
4.  L'intervento dello Stato                                     49
5.  La crisi del debito (pubblico)                               50
    Grafico                                                      53


PARTE SECONDA. La cecità dei capitalisti                         55

IV. FONDAMENTI MACROECONOMICI DELLA MICROECONOMIA                57

1.  Il velo di Smith e lo Stato                                  57
2.  Il valore aggiunto                                           58
3.  Il moltiplicatore di Leontief                                61
4.  Il moltiplicatore degli investimenti
    (o della spesa autonoma)                                     62
5.  Il moltiplicatore dei depositi bancari                       67
6.  La moneta fiduciaria e il signoraggio                        70
7.  Il tempo                                                     71
8.  La legge di Engel                                            73
9.  Il progresso tecnico                                         75
10. La concorrenza                                               78
11. L'impresa                                                    81
12. La regola aurea                                              88
13. La piena occupazione                                         89
14. Le leggi macroeconomiche                                     92
15. Il conflitto tra i capitalisti e l'economia                  94
16. Economia e società                                           95


PARTE TERZA. Le trasformazioni del capitalismo                   97

V.  LE ISTITUZIONI DEL CAPITALISMO DALLA GRANDE DEPRESSIONE ALLA
    GRANDE INFLAZIONE: IL COMPROMESSO TRA STATO E CAPITALISTI    99

1.  La politica monetaria                                        99
2.  Il sistema bancario                                         101
3.  Il mercato finanziario                                      102
4.  Il mercato della forza lavoro                               103
5.  Il bilancio pubblico                                        107
6.  Il commercio internazionale                                 108
7.  Lo Stato                                                    110
8.  L'impresa                                                   111
9.  Il «fordismo»                                               113
10. Il rapporto tra lo Stato e i capitalisti                    114
11. La Grande Inflazione e la fine del capitalismo
    rooseveltiano                                               115
12. ll declino della politica per la piena occupazione:
    il cambio fisso                                             115
13. Il declino della politica per la piena occupazione:
    il cambio fluttuante                                        118
    Grafici                                                     121

VI. LE ISTITUZIONI DEL NUOVO CAPITALISMO:
    LA RINASCITA DEL CAPITALISMO FINANZIARIO                    123

1.  La reazione: riforme monetarie                              123
2.  La riforma bancaria                                         126
3.  La deregolamentazione dei mercati finanziari:
    una nuova moneta endogena                                   131
4.  Il tasso di interesse                                       136
5.  Il titolo e la cosa                                         138
6.  Guadagni finanziari e profitti                              140
7.  Oligopolio e mercato finanziario                            141
8.  La trasformazione dell'incertezza in rischio                142
    Grafici                                                     145

VII. LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DEL NUOVO CAPITALISMO            149

1.  La globalizzazione                                          149
2.  Moneta endogena e crescita economica                        151
3.  L'accumulazione                                             155
4.  Che cosa succede alle leggi macroeconomiche?                156
5.  Il mercato della forza lavoro                               157
6.  Il merito e il capitale umano                               161
7.  L'impresa del nuovo capitalismo                             164
8.  Il bilancio pubblico e il ruolo dello Stato                 166
9.  Le funzioni pubbliche                                       169
10. La Grande Moderazione                                       182
    Grafici                                                     183

VIII. IL DECLINO DEL NUOVO CAPITALISMO                          187

1.  Il crollo                                                   187
2.  Dopo il crollo                                              191
3.  Le politiche anti-crisi e la Volcker Rule                   193
4.  Il declino dell'economia del «leverage»                     194


PARTE QUARTA. Verso un capitalismo mercantilista                197

IX. I POSSIBILI ESITI DELLA CRISI                               199

1.  Lo Stato al servizio dei capitalisti: il banchiere centrale 201
2.  Lo Stato al servizio dei capitalisti: il progresso tecnico  204
3.  Lo Stato al servizio dei capitalisti:
    l'economia della rendita                                    207
4.  Lo Stato al servizio dei capitalisti:
    dal mercantilismo al nazionalismo economico                 208
5.  Il conflitto tra i capitalisti                              210
6.  I capitalisti al servizio dello Stato                       213
7.  I capitalisti e lo Stato autoritario                        218

X.  RIFLESSIONI NON CONCLUSIVE                                  221

1.  Lo Stato                                                    221
2.  La contraddizione dello Stato minimo                        222
3.  Il mercato finanziario e l'accumulazione                    223
4.  Il conflitto tra capitalisti e il compromesso con lo Stato  223


Note                                                            227
Bibliografia                                                    271
Indice analitico                                                279


 

 

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Pagina 11

PREFAZIONE



Non ci sarebbe bisogno di un nuovo lavoro sulla crisi, che anche in Italia ha suscitato molte analisi e riflessioni critiche, se non fosse evidente che né il pensiero economico dominante né i governi hanno abbandonato i princìpi, le teorie e le azioni che avevano caratterizzato, per quasi un trentennio, il periodo precedente la crisi. Se qualche cambiamento nelle politiche è stato introdotto, esso è più figlio del pragmatismo che di un pensiero compiuto. Non è la prima volta che la storia economica mostra analoghe assenze di memoria, ma non mi sembra che di ciò si sia data una spiegazione. Keynes riteneva folle il ritorno al tallone aureo (l'emissione di moneta limitata dalle riserve auree) dopo la crisi successiva al primo dopoguerra, ma nemmeno lui ha spiegato perché quell'idea senza senso aveva continuato a ispirare le politiche economiche per molti anni. Anche oggi, superata la caduta iniziata nel 2007, ma non sconfitta definitivamente la crisi, i tanti che ne hanno scritto non hanno spiegato perché sia così difficile abbandonare le idee del passato, pur nell'evidenza del loro fallimento.

In questo saggio mi avventuro su un terreno che è poco familiare per chi tratta di economia e offro troppo poche spiegazioni per chi non ha avuto una formazione in proposito, ma non uso un linguaggio formalizzato e spero di non aver commesso errori né omesso troppi passaggi logici. Il problema della comunicazione, però, nasce soprattutto perché propongo di spiegare la resistenza di un punto di vista ormai superato non attribuendola alla pigrizia del pensiero accademico, ma a una forma particolare di economia, consolidatasi in decenni, che riguarda i rapporti tra il capitalismo (meglio, i capitalisti) e lo Stato. Il capitalismo, infatti, è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra i capitalisti e lo Stato e tra gli stessi capitalisti: interpreti, capitalisti e governi ritengono, però, che il vecchio capitalismo sia permanente, e che le crisi non siano altro che un temporaneo disallineamento tra gli elementi che lo compongono.

Non sto dando una notazione di classe ai capitalisti che, in queste pagine, non sono definiti con precisione: sono sia i proprietari del capitale (e non semplicemente della ricchezza) sia gli imprenditori, e certamente le loro imprese, e ciò sia nelle attività di produzione di beni e servizi sia nelle attività bancarie e finanziarie; persino le famiglie possono comportarsi da capitalisti. Uno dei temi principali di questo saggio, infatti, non riguarda la classe, ma la «cecità» dei capitalisti, vale a dire l'impossibilità, connaturata alla loro essenza, che essi si rendano consapevoli degli effetti delle loro azioni sull'economia nel suo complesso. Qualcuno potrebbe osservare che è proprio questa cecità che crea le classi.

Per comprendere la trasformazione del capitalismo, come il miope ha bisogno degli occhiali, così i capitalisti hanno bisogno dello Stato. Esistono, infatti, leggi che operano a livello dell'economia nel suo complesso, e solo lo Stato può rendersi conto della loro presenza e dei loro effetti – ma non è detto che ciò avvenga, perché anche lo Stato può condividere la miopia dei suoi stessi capitalisti.

Non posso negare che, nello scrivere, oltre allo studio, ha pesato l'esperienza diretta del lungo oscuramento che, dopo le politiche Thatcher-Reagan, ha colto chiunque si sia occupato dell'economia nel suo complesso. Eravamo pochi e dispersi, in quel periodo, anche perché i maestri della nostra generazione – John Maynard Keynes , Federico Caffè , Joan Robinson , Piero Sraffa , Nicholas Kaldor , Paolo Sylos Labini – erano stati sconfitti e molti loro allievi, o per opportunismo o per realismo o per timidezza intellettuale, avevano abbandonato il campo della macroeconomia. Quella che una volta era chiamata la scuola «anglo-italiana» è continuata nelle persone di Luigi Pasinetti, Pierangelo Garegnani, Augusto Graziani, Alessandro Roncaglia, ma fu ignorata, quando non rimossa con fastidio, dalle teorie dominanti (Friedman, Lucas), e le politiche economiche l'hanno dimenticata. Dopo l'ultima crisi, sono sorti abbozzi di teorie critiche e numerosi eclettismi econometrici, offerti da banche centrali, governi, economisti e scienziati della politica, ma si è trattato quasi sempre di tentativi di ricondurre una realtà recalcitrante dell'economia ai suoi tradizionali modelli di equilibrio, anche corretti da squilibri introdotti ad hoc.

Metto a repentaglio l'attenzione del lettore, affaticandolo, perché inizio con un'analisi critica, molto semplificata, dei modelli di equilibrio e dei fondamenti delle politiche economiche che ne derivano: è quasi un espediente, che ritengo necessario per spiegare la/le crisi. Con tutti i rischi di proposizioni falsificabili, guardo allo squilibrio come all'altra faccia dell'equilibrio: i due termini si reggono vicendevolmente, perché non sarebbe possibile alcuna nozione di equilibrio, se non ci fosse la possibilità dello squilibrio. Ciò che viene trattato come squilibrio è in realtà il continuo cambiamento nell'economia, dovuto all'incessante dinamica sia nell'offerta sia nella domanda, e mi è sembrato più utile, approfittando dello squarcio di realtà offerto dalla crisi recente, trasportare lo studio di queste dinamiche dal livello dell'astrazione economica a quello (pur astratto) del capitalismo.

Dopo aver discusso le crisi di domanda e quelle di offerta che, pur provocate da comportamenti aggregabili dei capitalisti, mostrano bene l'inconsapevolezza dei soggetti economici, procedo con l'illustrazione di un certo numero di leggi permanenti che riguardano l'economia nel suo complesso e che non derivano dalla somma dei comportamenti dei singoli capitalisti, delle imprese, dei lavoratori, dei consumatori. Queste leggi sono uno strumento utile per analizzare le politiche adottate dopo la Grande Depressione del 1929 – e le istituzioni create in proposito – e confrontarle con le politiche e le istituzioni create dopo la Grande Inflazione degli anni Settanta: le modificazioni intervenute sono certamente dovute a un'infinità di cause, ma l'analisi di quelle economiche conferma che lo studio deve essere del capitalismo, più che di modelli economici di equilibrio/squilibrio. L'analisi non consente di capire la trasformazione del capitalismo dopo la crisi del 2007-08, anche se ho esposto alcune possibilità, più per scaramanzia che per lungimiranza.

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INTRODUZIONE



A parte gli economisti classici ( Smith , Ricardo , Marx ), non conosco un metodo capace di indagare sulla specifica natura di ogni trasformazione del capitalismo, nonostante gli innumerevoli modelli che cercano, dopo aver abbandonato i classici, di spiegare, mimandolo, il comportamento dell'economia e dei suoi soggetti. Perciò, sono costretto a descrivere le istituzioni economiche del capitalismo nelle due epoche che ho vissuto direttamente: la prima, successiva alle politiche del New Deal, e la seconda, che parte dalle riforme conservatrici del Primo Ministro Thatcher e del Presidente Reagan, tra il 1979 e il 1981, e finisce (?) con la crisi del 2007-08. È impressionante l'espansione planetaria della crescita economica nel capitalismo post-Reagan-Thatcher, quando la netta inferiorità dello Stato rispetto agli interessi dei capitalisti avrebbe dovuto impedirla, se la giudicassimo sulla base delle istituzioni rooseveltiane. Non si possono paragonare periodi storici diversi, ma il confronto fornisce indizi corposi sulle trasformazioni del capitalismo, stilizzandole fortemente e osservandone le evoluzioni. Nel farlo, ho dovuto anche riferirmi alle vicende economiche e ai principali cambiamenti istituzionali dei due periodi; mi auguro che questo saggio non sia giudicato sul metodo storico, ma sulla verosimiglianza dell'ipotesi generale: che ogni capitalismo genera dinamiche al proprio interno che lo trasformano in un capitalismo diverso dal precedente e che tale diversità si vede nel rapporto tra capitalisti e Stato e tra diversi capitalisti. Saranno anche evidenti le differenze tra il capitalismo americano e quello europeo.

Dal 1981 è accaduto qualcosa di paradossale e non previsto: il tentativo di controllare l'inflazione razionando l'offerta di moneta da parte delle banche centrali (moneta esogena) e tagliando il finanziamento monetario dei disavanzi pubblici, ha provocato una crescita gigantesca di moneta privata (endogena) che ha finanziato lo sviluppo dei Paesi emergenti, la crescita della cui produzione ha bloccato l'inflazione che sarebbe stata altrimenti provocata dall'aumento non controllato della stessa moneta privata. Questa moneta è debito che, infatti, può espandersi se cresce il valore del capitale che gli fa da garanzia («leverage»); ma questo valore cresce finché crescono gli indici dei mercati finanziari, e questi indici, a loro volta, crescono trascinati dalla domanda delle banche che ne hanno bisogno per estendere nuovi prestiti alla clientela, creando nuovo debito e nuovi debitori. L'economia fondata sul «leverage», ovvero sul rapporto tra debito e capitale, è una vera trasformazione del capitalismo, un evento che la Storia aveva già registrato, ma che nell'economia contemporanea aveva bisogno di alcune condizioni per prosperare. Da un lato, lo sfruttamento della forza lavoro nei Paesi emergenti, così da rendere conveniente l'investimento estero, che, però, avrebbe indebolito il potere contrattuale dei lavoratori nei Paesi ricchi e, di conseguenza, ridotto la domanda per consumi e il principale mercato di sbocco dei Paesi emergenti. D'altro lato, lo stesso «leverage» che, facendo crescere i valori della ricchezza delle famiglie americane ed europee (la casa, e non solo), consentiva loro, nonostante salari indeboliti, di aumentare i consumi trasformando in reddito la nuova ricchezza, ricostituendo così gli sbocchi per i Paesi emergenti.

Questa straordinaria costruzione nasce dall'intervento dello Stato che deregolamenta il sistema bancario: la tesi, qui, è che la finanziarizzazione dell'economia mondiale è un risultato della necessità determinata dalla sostituzione del sistema bancario pubblico con mercati bancari e finanziari affidati alla concorrenza (monopolistica, ovviamente). Da allora, quello bancario non è più un vero sistema, ed è fatto di banche i cui depositi (o le cui riserve, al passivo nello stato patrimoniale) determinano gli impieghi (all'attivo) e hanno sempre bisogno di nuovo capitale (ed ecco che si affaccia l'accumulazione) se devono aumentare o solo continuare l'attività di prestito; con le riforme del New Deal erano invece gli impieghi (attivo) che determinavano i depositi (e le riserve, al passivo), e creavano tendenzialmente il capitale sufficiente a finanziarli (moltiplicatore dei depositi).

Erano anche necessarie, perché il nuovo capitalismo funzionasse, la deregolamentazione del mercato della forza lavoro e la completa liberalizzazione dei flussi di capitale.

Né lo Stato né i capitalisti erano consapevoli degli effetti delle nuove politiche, e hanno attribuito la crescita economica mondiale al «laissez faire», al merito individuale, all'egoismo. Il processo, infatti, avviene, non è stato né programmato né previsto: al suo seguito sono cambiate molte strutture economiche e la stessa geografia dello sviluppo. Se qualche economista aveva previsto la crisi di questo processo, non lo aveva attribuito a cambiamenti strutturali dell'economia mondiale, ma all'ingigantirsi di una misteriosa, quanto sorprendente, «bolla speculativa». Fenomeno osservato, ma non realmente capito. In particolare, gli economisti trattano il capitale come una grandezza finanziaria, che sparisce, insieme alla ricchezza, quando costruiscono modelli di equilibrio (perché il passivo è sempre uguale all'attivo, nei bilanci, e la ricchezza netta è sempre uguale a zero). Perciò, le crisi non sono ricondotte allo stato patrimoniale dell'economia nel suo complesso (ma è bene ricordare le notevoli eccezioni di Minsky, Godley, Graziani e degli economisti cosiddetti «circuitisti»). Il risultato è di ragionare in termini di conto economico e di ignorare che il passivo (il debito) nelle opportune circostanze genera attivi (credito) e conti economici sostanzialmente infiniti, che il debitore è causa del creditore, che la spesa è causa del risparmio, che l'investimento è causa del profitto. Questo è l'ambito delle crisi: come vedremo, la crisi recente non è parte di un ciclo che si ripete ogni tanto, ma una rottura di continuità nelle strutture del capitalismol, e le politiche per affrontare la crisi e la conseguente trasformazione economica, sono diverse da quelle necessarie per stabilizzare il ciclo.

Mi rendo conto che, nel parlare di stato patrimoniale e di ricchezza, inevitabilmente si introduce il motivo dell'accumulazione; il termine è usato nel testo nel tentativo di far vedere la differenza tra motivo del profitto e motivo dell'accumulazione nelle imprese, nelle banche e nelle famiglie: le politiche Thatcher-Reagan hanno creato un nuovo tipo di soggetto finanziario, la cui sete di accumulazione è volta a speculare per accumulare, e non guarda al profitto, ma al valore crescente del proprio stato patrimoniale. Questa trasformazione crea conflitto tra capitalisti «reali» e finanziari, e può causare crescita e crolli, ma poiché non era nelle intenzioni delle nuove politiche economiche, si è aperto un vaso di Pandora. L'accumulazione d'impresa non è qui esplorata a sufficienza, è un fatto, però, che mentre l'economia postrooseveltiana è fondata sul profitto, quella postreaganiana è fondata sull'accumulazione: questa e il rapporto con lo Stato, sono le maggiori differenze tra i due capitalismi. Il crollo del 2007-08 apre scenari nuovi e certamente nuove trasformazioni del capitalismo (tra capitalisti, tra capitalisti e Stato).

Il ragionamento in queste pagine non scorre come mi piacerebbe, e non è detto che quanto descritto per il passato sia sufficientemente preciso o completo: ci si scontra anche con la saggezza convenzionale. La trasformazione del capitalismo ha creato, infatti, una cultura che sembra perpetuarsi dopo la crisi: che avesse i piedi d'argilla non era comprensibile per chi vi si era formato. Dopo il crollo del 2007-08, le politiche americane ed europee si divaricano, ma lentamente sembra che prendano piede quelle europee: tutte conservatrici, contrarie alla crescita attraverso l'intervento pubblico, senza riguardo per la disoccupazione, tutte a protezione dell'accumulazione, anche alterando il significato della globalizzazione. Gli esiti possibili sono qui rappresentati, ma l'esercizio non è una previsione e non è così robusto come il lettore vorrebbe.

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I. CROLLO FINANZIARIO, CRISI ECONOMICA, «DOUBLE DIP»



Il crollo del 2007-08 ha lasciato una situazione incerta per l'economia mondiale: si osservano casi di bassa crescita, di stagnazione e per molti Paesi un nuovo rallentamento o una doppia, e talvolta tripla, recessione (il famoso «double dip», Grafici 1a-1c). La crescita dei Paesi emergenti rallenta, mentre quella dei Paesi ricchi, in particolare dei membri dell'Eurozona, è modesta e non ha raggiunto il livello pre-crisi. Quelle economie che mostrano qualche sussulto di crescita, lo devono a circostanze particolari. È il caso della Germania, le cui esportazioni sfruttano la svalutazione implicita del marco nell'euro, che qualcuno valuta tra il 30 e il 40% (Grafico 2). Il governo tedesco attribuisce la sua migliore prestazione, rispetto agli altri Paesi membri dell'Unione Economica e Monetaria, alle virtù delle sue politiche per la flessibilità del lavoro (messe in atto dieci anni prima della crisi), che erano, per la prima volta dal dopoguerra, una svalutazione mascherata, ma ignora la contemporanea svalutazione del marco-ombra. Questa illusione ottica spinge il governo tedesco a sollecitare i Paesi dell'area euro ad applicare le sue stesse misure sul lavoro, ma non tiene in nessun conto le conseguenze negative di un marco-ombra artificialmente debole sulle altre monete-ombra, e preme perché si adottino misure di austerità su spesa ed entrate pubbliche, con l'idea che accrescano la competitività. Il risultato è, ovviamente, che la ripresa dei Paesi mediterranei — e non solo — si arresta dopo la crisi e la speculazione finanziaria si accanisce sui loro debiti pubblici e privati (delle banche). Si tratti di ignoranza o gioco di potere nazionalistico, si spiega così perché il Consiglio Europeo non abbia considerato utile una regolazione della speculazione finanziaria e si sia disinteressato della necessità di ricostruire un qualche motore di crescita europeo o internazionale: sono in gioco grandi interessi, ma occorre un'analisi approfondita, per non crogiolarsi nel rancore dell'ingiustizia.

Anche l'economia americana mostra segnali di crescita, dovuti alla maggior domanda complessiva provocata dalla spesa pubblica, finanziata con l'emissione di obbligazioni acquistate dalla Fed, e gli indici di borsa hanno riguadagnato i livelli pre-crollo. Mentre scrivo, il Giappone ha svalutato, l'euro non perde valore rispetto al dollaro, la crescita dei Paesi emergenti, pur sostenuta, è inferiore a quella del passato; ma è difficile sostenere che l'economia mondiale sia uscita dalle difficoltà, perché non è chiaro quale sia il motore della crescita più recente. Il Grafico 3 mostra il declino del surplus corrente della Cina.


1. Il motore della crescita

Prima della crisi, il principale motore della domanda internazionale era la speciale relazione tra Usa (e altri Paesi ricchi) e Cina (e altri Paesi emergenti), perché il consumatore americano poteva vedersi finanziati crescenti livelli di spesa (immobiliare, mobiliare e di consumo) a causa della liquidità assicurata dai mercati finanziari, il cui creditore di ultima istanza era la Cina, che vendeva i propri prodotti negli Usa, investendo il surplus corrente della bilancia dei pagamenti in titoli nordamericani. Analogamente, anche l'impresa dei Paesi ricchi, e specialmente quella americana, vedeva finanziata la propria spesa corrente e i propri investimenti, a loro volta dipendenti dalla domanda dei consumatori, a causa della liquidità assicurata dai mercati finanziari. Esauritosi lo stimolo dei consumatori dei Paesi ricchi, indebitati e a rischio di perdita di capitale (essenzialmente, la proprietà dell'abitazione) e di benessere, e spenta la crescita della loro domanda di beni e servizi, non si è formato un altro motore di crescita. Nessuna efficace regolazione internazionale dei flussi finanziari ha avuto luogo nel frattempo, e la liquidità esistente si spende in forti speculazioni sulle materie prime e sui debiti sovrani. Poiché, nonostante ciò, il mercato finanziario, pur con grande volatilità, è tornato ai livelli precedenti la crisi (Grafico 4), si è spinti a confermare il giudizio popolare che distingue la finanza (cattiva e ricca) dall'economia reale (buona e povera). Questo giudizio, come vedremo, ha un fondamento, ma la ripresa del mercato finanziario non è spontanea, ed è certamente legata alla liquidità messa a disposizione da molte banche centrali a favore dei settori bancari che, nella crisi, rischiavano il fallimento e un crollo ancora più drammatico delle economie, rispetto a ciò che è avvenuto. Tanta liquidità (Grafico 5) avrebbe anche dovuto stimolare la crescita mondiale, almeno quanto ha stimolato i mercati dei capitali, ma ciò non è avvenuto nell'Eurozona e solo parzialmente negli Usa (e, più che per l'aumento di liquidità offerta al sistema, per il finanziamento del deficit pubblico) e ne vedremo le ragioni. La prova che qualcosa ha girato a vuoto in tutto ciò, è rivelata dalla fluttuazione abnorme del prezzo dell'oro (Grafico 6) che non ha più alcuna funzione monetaria: un classico segnale di squilibrio che il sistema economico mondiale lancia a chi dovrebbe regolarlo.

Non possiamo provarlo, ma poiché la distribuzione internazionale della crescita è molto disuguale (alta nei nuovi emergenti, bassa nelle «tigri asiatiche», negativa in Europa, lenta negli Usa), se un motore della crescita è stato ricostruito, non sembra generale e la globalizzazione si è alterata. Non era questa la geografia della crescita negli anni precedenti il crollo del 2007-08, che sono stati definiti come quelli della «Grande Moderazione». Stiamo assistendo a un gioco a somma zero o molto piccola, con forti dosi di mercantilismo: dove la crescita di alcuni avviene ai danni della crescita degli altri.


2. Crisi e scienza economica

Gli eventi appena ricordati sono oggetto di numerosi studi da parte di singoli economisti e di organizzazioni nazionali e internazionali. Non molti riconoscono, in ciò che è accaduto, qualcosa che colpisce profondamente le capacità analitiche della scienza economica. Il parallelo con la crisi del 1929 è però venuto in mente a tanti, e pur nelle grandissime differenze strutturali tra l'economia mondiale dell'epoca e quella attuale, il «double dip» 1929-1937 (Grafico 7) ossessiona i responsabili economici. Anche allora, nonostante Roosevelt avesse messo in atto una prima politica d'intervento pubblico, la ripresa fu timida e, come sappiamo, breve. Allora, come oggi (con la notevole ma parziale eccezione degli Usa), gli interpreti ne derivarono la conclusione che l'intervento pubblico non era efficace ed era invece necessario ridurre il debito accumulatosi dal precedente intervento pubblico – ed è soltanto dopo il 1936, quando Keynes pubblica la Teoria Generale , che si riconosce universalmente la necessità che lo Stato contribuisca a generare domanda effettiva in forme strutturate e permanenti.

Userò molto spesso questo concetto. Keynes definisce la domanda dell'economia nel suo complesso (o macroeconomia) come funzione dell'occupazione, a sua volta derivante dalla domanda di forza lavoro delle imprese. Quanto maggiore è l'occupazione tanto maggiore sarà la domanda di beni e servizi di imprese e famiglie. La domanda effettiva non è altro che la domanda che deriva dalla forza lavoro effettivamente occupata. Gli imprenditori si attendono di ricevere un profitto dall'ammontare di forza lavoro che decidono di assumere, ma non c'è una ragione generale per la quale gli imprenditori, massimizzando il profitto, riescono a generare la piena occupazione e perciò la domanda effettiva può essere (e forse è sempre) insufficiente e determinare crisi e squilibri. Più semplicemente, la produzione di beni e servizi è funzione della loro domanda: è questa che determina l'offerta. Noi parleremo indifferentemente di domanda effettiva e complessiva, anche se nel linguaggio economico si usa il termine «aggregata», intendendo la domanda attribuibile all'economia nel suo complesso.

La crisi di allora e quella di ieri non possono essere spiegate con il ricorso alle scuole di pensiero prevalenti in economia, che hanno volutamente accantonato proprio il principio della domanda effettiva.

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II. EQUILIBRIO/SQUILIBRIO, CICLO, CRISI



L'analisi economica «standard» utilizza il modello di equilibrio economico generale, le cui ipotesi di base (tra le altre, libera concorrenza, mercati completi presenti e futuri – e perciò conoscenza del futuro: «Perfect foresight» – assenza dello Stato, moneta velo, razionalità utilitaristica, agenti omogenei e rappresentativi, preferenze omotetiche) ammettono squilibri solo frizionali e cicli solo casuali, sempre temporanei e subito corretti automaticamente, ma mai una crisi vera e propria. La crescente divaricazione tra il modello e la realtà ha spinto molti economisti a formulare nuove ipotesi da innestare nello stesso modello e, in particolare, elementi strutturali di squilibrio; così, s'introducono, tra le tante variazioni, salari e prezzi rigidi, agenti eterogenei, preferenze diversificate tra gli operatori, forme monopolistiche di mercato. La motivazione, tuttavia, non è quasi mai orientata a rendere operativi i modelli economici, ma a giustificare l'esistenza di una forza autoregolatrice del libero mercato, una vera fissazione della scuola neoclassica; ne è però risultato un ritorno all'alchimia, dove ciascuno mescola ingredienti dei quali non conosce la natura. Ricordo, a questo proposito, il pensiero di Keynes nel rispondere a Tinbergen, in tema di econometria: «L'economia è una scienza dove si pensa in termini di modelli insieme all'arte di scegliere quelli che sono rilevanti per il mondo contemporaneo. È obbligata a ciò, perché, a differenza della tipica scienza naturale, il materiale sul quale si applica è, per molti aspetti, non omogeneo nel tempo». In queste pagine, la forte critica ai modelli di equilibrio non implica che non sia necessario costruire modelli per capire la realtà e, pur nella rozzezza del linguaggio, anche qui si cerca ovviamente di ricostruire una rappresentazione della realtà nel suo mutamento.

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3. Equilibri e squilibri nel mercato della forza lavoro

Preferisco usare questa formulazione, anziché quella usuale di «mercato del lavoro», perché non bisogna dimenticare che il lavoratore si separa dalla sua prestazione per evitare che una merce, come la forza lavoro, trasformi in merce la persona del lavoratore.

A cosa si debba attribuire la mancata ottimizzazione su questo mercato (e, cioè, la disoccupazione e la sottoccupazione, che nei modelli di equilibrio generale sono impossibili), ha dato luogo a una varietà d'ipotesi diverse dalla libera concorrenza (queste forme irrompono, non spiegate, dalla finestra della realtà economica). Alcune elaborazioni fatte nel periodo pre-crollo hanno considerato che il mercato della forza lavoro è monopolizzato dal sindacato (un elemento estraneo al modello di equilibrio) e non presenta perciò salari ottimali; ciò crea disoccupazione e crisi, ma si tratterebbe di uno squilibrio eliminabile eliminando il sindacato – una di quelle riforme di struttura, tipiche da «economia dell'offerta», quando si accetta la legge di Say (l'offerta crea sempre la propria domanda, e cioè il contrario del principio della domanda effettiva, vedi più avanti). Ne seguirebbe però la necessità di eliminare anche le imprese le cui forme di mercato sono imperfette o monopolistiche, e i cui prezzi non sono ottimali, ma, singolare contraddizione, queste forme sono proprio ciò che caratterizza la correzione che questi stessi economisti apportano al modello puro di equilibrio generale. In ogni caso, l'intero edificio non sta in piedi perché è fondato sulla microeconomia, e gli effetti degli squilibri tra singoli agenti si trasferiscono a livello economico complessivo con un'aggregazione non spiegata – giacché se gli agenti non sono tutti uguali, anche quando ciascuno ottimizzasse la propria soddisfazione, non ne seguirebbe necessariamente un ottimo generale.

Ho già ricordato altri economisti, cosiddetti neokeynesiani, che accettano le ipotesi di comportamento economico del modello di equilibrio, ma introducono ciò che ritengono essere elementi keynesiani, in particolare la rigidità dei salari e dei prezzi verso il basso, che non riguarda le crisi (semmai il contrario), ma squilibri come l'inflazione e la stagflazione, la causa delle quali starebbe appunto in quelle rigidità. Queste sono presenti nell'opera di Keynes, ma non sono un fondamento del suo pensiero. Per Keynes, se i salari fossero veramente flessibili, i prezzi varierebbero con i salari, e ciò farebbe mancare alla moneta la stabilità necessaria alle sue funzioni. Poiché però la stabilità della moneta è un rimedio all'incertezza, e poiché l'incertezza è sempre presente, la stabilità della moneta non può mai essere assoluta e perciò i salari possono ben essere flessibili. È forse Keynes il primo che osserva come i sindacati contrattino in termini nominali, mentre i prezzi li fanno le imprese, ma come poi i sindacati resistano a riduzioni di salari monetari, rivelandosi economisti migliori di quelli pseudokeynesiani, perché è in gioco la domanda effettiva. Questi economisti dimenticano di quale rigidità parlasse Keynes: «Ogni riduzione del salario monetario sarà accompagnata da un aumento dell'occupazione solo se la domanda effettiva non cambia», ma con salari e consumi che si riducono, la domanda effettiva diminuisce e calano le vendite delle imprese. Keynes ha fatto anche notare che nelle crisi, i salari monetari si riducono e contemporaneamente la disoccupazione aumenta, una dimostrazione del fatto che una riduzione dei salari non ha effetti positivi sull'occupazione.

Gli economisti che si fanno scudo di questa pretesa rigidità ritengono che, eliminandola (e dunque la rigidità non sarebbe naturale, ma solo istituzionale), si torna all'equilibrio, dove tutti i partecipanti stanno meglio. C'è, però, una ragione più sottile. Il critico più stringente delle rigidità citate è Pigou, un economista neoclassico, per il quale esisterebbe un effetto («real balance effect», d'ora in poi, effetto Pigou) che fa ritornare all'equilibrio un'economia in crisi deflativa, attraverso l'aumento dei redditi e della ricchezza in termini reali dovuto proprio alla riduzione dei prezzi – così da eliminare insieme la disoccupazione keynesiana e la rigidità dei salari. Già Keynes e Kalecki avevano spiegato dov'era l'errore: la deflazione è l'opposto dell'inflazione; come il debito e gli interessi in termini reali si riducono se i prezzi salgono, così aumentano se i prezzi diminuiscono. Se anche il reddito reale delle famiglie dovesse crescere e queste non fossero indebitate, poiché le imprese sono invece normalmente indebitate, la crescita in termini reali del debito e degli oneri per interessi ridurrebbe i profitti, la domanda rivolta ai fornitori di beni e servizi, la domanda di forza lavoro e, alla fine, il reddito delle famiglie, riproducendo le cause della crisi. Del resto, nella realtà, né l'effetto Pigou si è mai manifestato né i salari e i prezzi sono rigidi verso il basso – come mostra la crisi attuale.

Così, eliminato Pigou, si può ricominciare con la denuncia delle rigidità e giocare con le politiche economiche avverse al sindacato e allo Stato, entrambi considerati ostacolo alla libera espressione (ottimizzante) del mercato.


4. I modelli Dsge

Una conferma interessante sulle involuzioni pseudokeynesiane è rappresentata dai modelli Dsge (Dynamic Stochastic Generai. Equilibrium) costruiti da singoli studiosi e dalle maggiori istituzioni internazionali (dal Fondo Monetario Internazionale, Fmi, alla Banca Centrale Europea, Bce). Questi modelli non sono semplici esercizi econometrici ma vere guide per le politiche economiche, e prospettano un miglioramento dei precedenti grandi modelli econometrici di previsione di origine keynesiana che servivano a impostare le politiche economiche dei governi e delle banche centrali.

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IV. FONDAMENTI MACROECONOMICI
DELLA MICROECONOMIA



A differenza della teoria dell'equilibrio economico generale, degli equilibri/squilibri pseudokeynesiani, delle aspettative razionali, dell'analisi del ciclo, che trattano nello stesso modo la microeconomia e l'economia nel suo complesso, ritengo che le crisi siano immanenti al sistema capitalistico, che non siano sempre il risultato della semplice somma di comportamenti individuali, che il singolo non possa conoscere gli effetti delle proprie azioni sull'economia nel suo complesso. Il tema va sotto il titolo di «fondamenti macroeconomici della microeconomia», un modo un po' astruso per contrastare l'ideologia individualista per la quale esistono solo i «fondamenti microeconomici della macroeconomia». Scusandomi per i bisticci, più semplicemente descriverò leggi, comportamenti e concetti macroeconomici che non dipendono da leggi, concetti o comportamenti dei singoli individui o delle singole imprese. Si tratta di osservazioni note ma che, nelle teorie dell'equilibrio, dello squilibrio e del ciclo, come nelle politiche economiche, sono spesso dimenticate o volutamente omesse.


1. Il velo di Smith e lo Stato

Il capitalismo è fatto di individui o imprese non consapevoli degli effetti macroeconomici delle loro scelte; anche quando le loro scelte sono aggregabili e i loro effetti positivi, come nel caso delle crisi di offerta, questi effetti o sono controintuitivi o non colgono un interesse da parte del singolo individuo o della singola impresa. Invece, lo Stato può, se il sistema politico glielo permette, conoscere gli effetti macroeconomici delle proprie scelte e di quelle dei capitalisti; può sbagliare, ma possiede gli strumenti per correggersi. Così, lo Stato è sempre istituzione macroeconomica anche quando, influenzato da capitalisti anarchici, nega la sua stessa natura, e ritiene di essere un soggetto come tanti altri nella società: è l'istinto di sopravvivenza che gli impedisce di sparire, quando le circostanze presentassero questo pericolo. La subalternità dello Stato ai capitalisti, come un rapporto di mutua dipendenza, è possibile perché non dobbiamo dimenticare che lo Stato ha bisogno dei capitalisti, che concretamente producono benessere, reddito, utilità, attraverso le proprie imprese, mentre i capitalisti hanno bisogno almeno dello Stato minimo, per difendere la proprietà privata. Lo Stato non potrebbe sopravvivere se i capitalisti non provvedessero le basi della crescita del reddito (del benessere, dell'utilità, dello sviluppo della persona), attraverso l'aumento del prodotto per addetto – che è inevitabile fin dalla prima selce scheggiata, destinata a far risparmiare tempo e fatica: forse siamo in presenza degli «spiriti animali» di Keynes e Robinson, e il termine ha un'illustre ascendenza letteraria, ma è più un postulato che una spiegazione. D'altra parte, i capitalisti non potrebbero sopravvivere se l'aumento del prodotto per addetto non fosse accompagnato da un aumento della domanda di quel prodotto; in sua assenza, si creerebbe disoccupazione, crisi e fallimento degli stessi capitalisti. È lo Stato, separato dai capitalisti, l'istituzione che può evitare questo esito.


2. Il valore aggiunto

Ricordo che nessuno degli operatori vorrà mai massimizzare la nozione di valore aggiunto, che è la somma di profitti e salari ed è una rappresentazione del reddito nazionale; ne segue che il valore aggiunto non fa parte dei processi decisionali delle imprese, ma lo statistico può sempre calcolare il valore aggiunto di un'impresa che, sommato a quello di tutte le altre, dà luogo al valore aggiunto aggregato e al reddito nazionale. Il valore aggiunto potrebbe essere un indicatore suggestivo per i mercati dei capitali, ma anche i soggetti di questi mercati non conoscono tutte le implicazioni di un cambiamento nel reddito nazionale, anche perché la variazione della composizione del reddito tra i diversi redditi nei quali si distribuisce non è nota ex ante, né sono prevedibili le conseguenze di un suo mutamento, salvo scommettere su diversi possibili esiti. Certo, poiché la statistica fornisce i dati del valore aggiunto per l'intera economia e per ciascun settore, gli operatori possono legare le aspettative che riguardano i loro interessi a quei dati. Il ricorso alla statistica e all'econometria fornisce una verosimiglianza del legame, ma esse non lo spiegano e non danno una certezza sul risultato delle loro decisioni: sfugge agli operatori come si trasforma la singola azione nel tutto. È ovvio che se il legame tra le aspettative e i dati macroeconomici fosse certo, o tutti la pensassero nello stesso modo a proposito di quel legame, non ci sarebbe bisogno di decidere, né di avere degli operatori; basterebbe un grande calcolatore per gestire l'economia e la nuova economia classica diverrebbe inutile.

Forse è utile un esempio «a contrario»: per i mercati, un aumento della quota dei profitti nel reddito nazionale fa crescere gli indici di borsa, perché profitti maggiori fanno aumentare la domanda dei titoli che li promettono; ma ciò implica una riduzione della quota dei salari e, perciò, della quota dei consumi e, di seguito, una riduzione del prodotto (reddito) interno; ma anche un aumento della quota dei salari ai danni dei profitti, che fa aumentare i consumi, fa crescere gli indici, perché i fatturati delle imprese cresceranno.

Poiché gli operatori non massimizzano il valore aggiunto, e poiché il reddito e il prodotto nazionale sono riconducibili al valore aggiunto, gli operatori non massimizzano il prodotto nazionale e la cosiddetta «centralità» dell'impresa, come fattore dell'economia nel suo complesso, deve essere ridimensionata.

Nello scambio tra produttori e consumatori, come tra datori di lavoro e lavoratori, si massimizzano le utilità di ciascuno, ma ho già illustrato come, in tema di scambio e distribuzione, non c'è alcuna ragione che ciò porti a massimizzare automaticamente il prodotto e il reddito nazionale. In definitiva, l'economia nel suo complesso, misurata dal valore aggiunto, non è il risultato delle decisioni ottimizzanti degli operatori, e perciò non è la somma dei loro fatturati. È vero che se tutti gli operatori massimizzassero i loro fatturati, potrebbero massimizzare anche il valore aggiunto. Il problema è che gli operatori massimizzano il profitto, non il fatturato. Più precisamente, le imprese cercano di massimizzare i profitti (una qualche differenza tra ricavi e costi) e i lavoratori i salari (una qualche differenza tra il salario e il prezzo dei beni acquistati dalle famiglie, o tra il salario e la fatica): solo che massimizzare i profitti implica anche minimizzare i salari e massimizzare questi implica minimizzare quelli, e nessuno dei due soggetti somma i profitti e i salari. Abbiamo già visto che nell'equilibrio economico generale la minimizzazione dei costi (salario) a prodotto dato è uguale alla massimizzazione del prodotto a costo (salario) dato, ma ciò è soltanto il frutto dell'ipotesi di piena occupazione permanente, che nei modelli è un vincolo, non un risultato.

[...]

Va però ricordato che lo Stato riconosce la nozione statistica di valore aggiunto da epoche recenti (il pensiero di Keynes è all'origine dei moderni conti nazionali), e ciò è avvenuto proprio perché si trattava di un obiettivo di politica economica; sostenere che la politica economica è inutile e dannosa farebbe assimilare ogni intervento dello Stato a formulazioni premoderne, come quando lo Stato si esprimeva in forma mercantilista – e il valore massimizzato era l'avanzo di bilancia commerciale, che è solo una parte del concetto di valore aggiunto – o in forma liberista, ottimizzando le proprie riserve auree – irrilevanti per il concetto di valore aggiunto, che è un flusso, a differenza delle riserve, che sono uno stock. L'applicazione della contabilità nazionale alla politica economica è figlia dei cambiamenti iniziati da Roosevelt, dopo la Grande Depressione, e ha segnalato una nuova cultura economica del capitalismo, successivamente negata.

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12. La regola aurea

Abbiamo già incontrato, e troveremo ancora spesso, la cosiddetta «golden rule». Qui è definita come una regola macroeconomica che non interessa gli operatori e gli individui, i quali, in ogni caso, non possono rendersi conto della sua importanza ai fini della stabilità dell'economia capitalistica. Nei modelli di equilibrio questa regola è onnipresente. Se, infatti, l'aumento della produttività della forza lavoro (del prodotto per occupato) nell'economia nel suo complesso non si distribuisse equamente, come vorrebbe la regola aurea, tra i salari e tutti gli altri redditi (rendite, interessi, premi assicurativi, marchi e brevetti), l'equilibrio del modello sarebbe in pericolo. Se, ad esempio, il salario reale crescesse più dell'aumento della produttività in termini reali, allora i costi di produzione aumenterebbero, e se le imprese volessero mantenere il margine di profitto, dovrebbero aumentare i prezzi, creando inflazione. Se, invece, i salari aumentassero meno dell'incremento della produttività, la distribuzione del reddito peggiorerebbe, il consumo delle famiglie lavoratrici crescerebbe meno del prodotto nazionale, e la crescita sarebbe compromessa. Nell'economia capitalistica, la tendenza delle imprese, a seconda del grado di monopolio nel proprio settore, è sempre quella di aumentare i prezzi, indipendentemente dall'aumento dei salari; ma certamente i prezzi cresceranno se i salari crescono. Se invece i salari non crescono, le imprese non sanno che ciò condurrà a una crisi di domanda, e favoriranno, nei modi loro possibili, il peggioramento della distribuzione del reddito. In un astratto regime di pura e perfetta libera concorrenza, non è detto che le imprese possano aumentare i prezzi al crescere del salario; ma in questo caso, il profitto si annullerebbe e verrebbe meno il motivo delle imprese a esistere.

Lo Stato, se vuole, conosce i risultati della regola aurea, e può intervenire per correggere la sua mancata o parziale applicazione. Che lo voglia fare, è questione che vedremo diffusamente.


13. La piena occupazione

A prima vista, la piena occupazione sembra un obiettivo della politica economica, non un elemento causale della macroeconomia: è un concetto che non appartiene alle singole imprese o ai singoli lavoratori, entrambi interessati al proprio benessere e non in possesso di strumenti per far proprio il significato della piena occupazione. I capitalisti, se possiedono una qualsiasi cultura economica, non la desiderano nemmeno, perché causerebbe un aumento del potere contrattuale dei lavoratori e, perciò, un aggravio di costo. Si potrebbe affermare che i lavoratori hanno come obiettivo anche la piena occupazione, ma non uti singuli, bensì in quanto organizzati nel sindacato, altrimenti sarebbero in concorrenza gli uni con gli altri. Come vedremo, il sindacato non è necessariamente un soggetto macroeconomico, e poiché la piena occupazione non deriva dalle preferenze di soggetti microeconomici, in quel caso i lavoratori subirebbero il maggior potere di capitalisti anarchici. Lo Stato può essere l'agente della piena occupazione, perché la condizione gli è nota, ma non è detto che intenda esserlo.

La piena occupazione è invece un fondamento macroeconomico della microeconomia, perché in questa condizione si producono benefici economici che non sono conoscibili da parte di singole imprese o individui. Un esempio importante è dato dalle economie di scala: quanto più un'economia è lontana dalla piena occupazione, tanto meno efficaci sono le economie di dimensione e tanto più lento è il ritmo della crescita, ma le imprese non lo sanno e reagiscono nei modi indicati – licenziando, chiudendo impianti, fuggendo con la cassa. Proseguendo, la non piena occupazione determina disavanzi nei sistemi pensionistici basati sul metodo della ripartizione – ma anche se sono basati sul metodo della contribuzione, in assenza di piena occupazione, la contribuzione risulterà insufficiente a fornire una previdenza adeguata ai disoccupati. La non piena occupazione, poi, distingue la società tra occupati e disoccupati: la concorrenza nel mercato della forza lavoro diventa più forte, il potere contrattuale dei lavoratori nei confronti dell'impresa diminuisce, la distribuzione del reddito peggiora e la domanda effettiva si riduce. Il prodotto potenziale dell'economia è più basso se l'occupazione non è piena, e si riduce quanto più alta è la disoccupazione. Il gettito tributario segue il prodotto potenziale, e quanto più l'economia è lontana dalla piena occupazione, tanto minore è il livello del gettito tributario e, di conseguenza, maggiore l'indebitamento pubblico potenziale. Inoltre, quando l'occupazione non è piena, quella che c'è sarà distribuita sul territorio in relazione alla concentrazione dell'attività economica, che è inevitabilmente diversificata. In termini dinamici, il tasso di disoccupazione crescerà di più nelle aree più ricche; in termini strutturali, il tasso di disoccupazione sarà più elevato nelle aree più povere; ne seguirà emigrazione, e maggiore concorrenzialità nel mercato generale della forza lavoro.

All'impresa non interessa, ma quanto più l'economia è lontana dalla piena occupazione, tanto più spreca la forza lavoro, la sua risorsa originaria più preziosa, e aggrava i costi sociali sui cittadini che subiscono la disoccupazione e sui contribuenti che ne finanziano gli inevitabili sussidi. Che la forza lavoro sia una risorsa, le imprese non lo concepiscono – salvo forse per particolari specializzazioni professionali – perché si presenta ai loro occhi come un costo.

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14. Le leggi macroeconomiche

Di fondamenti macroeconomici ne esistono certamente altri, ma mi limito a quelli ora descritti, alcuni dei quali considero come vere e proprie leggi macroeconomiche (i moltiplicatori, la regola aurea, la legge di Engel, il progresso tecnico, il tempo, l'impresa, la piena occupazione).

Ciascuna legge o non è alla portata dei singoli operatori, o questi se ne disinteressano perché esse non li riguardano; i comportamenti degli operatori, anche se aggregabili, determinano effetti macroeconomici indipendenti dalla loro volontà, portatori di crisi come di ripresa. Non ho trattato l'accumulazione come una legge macroeconomica, anche se i capitalisti proprietari non ne conoscono gli esiti per l'economia nel suo complesso, perché sono obbligato a trattare il tema più avanti, quando l'accumulazione diventerà motivo d'impresa, non individuale. Nonostante il rinvio, l'accumulazione interferisce con le altre leggi macroeconomiche.

Per ragioni di simmetria, dobbiamo tornare a un ragionamento già fatto: le decisioni di famiglie e imprese possono certamente influenzare l'economia nel suo complesso, come abbiamo visto parlando di crisi di domanda e di offerta, ma gli effetti di tale influenza sono spesso controintuitivi, e non vanno nella direzione desiderata dalle famiglie o dalle imprese. Inoltre, perché questa influenza si manifesti, occorre che i comportamenti dei soggetti economici siano coerenti tra loro. In altri termini, le decisioni che sono prese nel proprio interesse, non devono determinare interessi in contrasto, altrimenti le decisioni si elidono, e se si compensassero sarebbe solo per caso. Poiché invece le decisioni non sono sempre coerenti e contrasti nascono continuamente, pur essendo vero che i comportamenti micro possono influenzare il macro, i singoli soggetti non potranno conoscere gli effetti delle loro decisioni (ricordo qui il caso dell'accumulazione): ed è anche per questo che le crisi sono sempre possibili.

Per quanto possa sembrare inconcepibile, nessuna di queste leggi ha un ruolo nei modelli di equilibrio perché tutti santificano le virtù ottimizzanti delle scelte individuali e sono costruiti per far sì che il tutto risulti dalla somma delle parti.

Le leggi macroeconomiche hanno importanti rapporti tra loro. Gli impieghi determinano i depositi, ma è il debito (la domanda) che determina il credito (l'offerta); il moltiplicatore dei depositi è ridotto dall'accumulazione, ma questa aumenta il «leverage» e il merito di credito; gli investimenti determinano il risparmio, ma si traducono in accumulazione; la spesa pubblica determina le entrate, ma poiché la ricchezza è meno tassata del reddito, se la spesa fa lievitare l'accumulazione, le entrate non copriranno la spesa. Perciò, il cambiamento di ciascuno di questi elementi ha effetti diversi sulla domanda effettiva e sul reddito. Ad esempio, i moltiplicatori che determinano il livello del reddito sono limitati nella loro efficacia da specifiche variabili che ne diminuiscono la dimensione: il più noto è la propensione all'importazione, che riduce il moltiplicatore degli investimenti, della spesa pubblica, degli impieghi bancari, e anche il moltiplicatore di Leontief.

Si vede bene come lo studio di questi moltiplicatori sia compito dello Stato, non certo di ciascun capitalista. Esiste, infatti, un meccanismo più fondamentale che, se non funziona, limita l'efficacia di tutti i moltiplicatori, ed è la regola aurea. Se una spesa pubblica aumenta il livello del reddito, ma questo si distribuisce non rispettando la regola aurea, allora (semplificando) i profitti crescono più dei salari, e poiché la propensione al risparmio dai profitti è maggiore di quella dai salari, il moltiplicatore si riduce (e peggio accade se i maggiori profitti emigrano verso i paradisi fiscali). Teniamo conto che con il moltiplicatore di Kahn-Keynes la spesa pubblica iniziale è sempre finanziata dal gettito tributario successivo all'aumento del livello del reddito, ma poiché il sistema fiscale progressivo colpisce più i redditi da lavoro che quelli da capitale – poiché i primi, pro capite, sono inferiori ai secondi (e questi evadono più di quelli) — il gettito tributario non finanzierà più automaticamente la spesa iniziale, e si darà luogo a un deficit pubblico. Lo stesso accade per il moltiplicatore dei depositi: se tutto il risparmio ha la forma di deposito e tutti gli impieghi vanno agli investimenti, poiché questi mettono in moto il moltiplicatore keynesiano, si formano risparmi sempre uguali ai depositi; ma se prevale il mancato rispetto della regola aurea, e i consumi (salari) aumentano meno dei risparmi (profitti), anche il moltiplicatore bancario si riduce, perché la domanda di impieghi crescerà meno che in proporzione ai depositi (una bella inversione del senso comune). Inoltre, se gli impieghi sono destinati a finanziare l'acquisto di titoli di credito già esistenti, il livello del reddito non cresce e i depositi non crescono come gli impieghi. Qui può sovvenire l'accumulazione, nella forma di moneta endogena che riproduce se stessa, ma il legame con la domanda effettiva, se esiste, può facilmente spezzarsi.

È forse inutile ricordare che non vi è nulla che produca la giusta distribuzione del reddito, nemmeno nei modelli di equilibrio, quando si mettono in moto i diversi moltiplicatori.


15. Il conflitto tra i capitalisti e l'economia

Storicamente, le cause delle crisi del capitalismo sono molto diversificate; ma qui interessa mostrare il continuo conflitto, nel mondo capitalistico, tra il comportamento dei singoli e i suoi effetti sull'economia nel suo complesso. Anzi, proprio questo conflitto definisce il capitalismo: è la sua caratteristica individualistica, l'obiettivo individuale del profitto che lo stimola continuamente, ma lo mette in crisi, e ogni crisi deve essere risolta mantenendo il conflitto. Allo stesso tempo, il capitalismo è diversificato al proprio interno tra motivo del profitto e motivo dell'accumulazione, e pur nella stessa visione microeconomica e individualistica, i due motivi sono in conflitto. Così, il «modello» del capitalismo è più complesso di quello dell'equilibrio economico generale, perché la sua longevità rivela che ogni crisi lo trasforma, ma non lo distrugge, e tutto ciò non avviene automaticamente, come dovrebbe risultare dai modelli di equilibrio; e non avviene nemmeno nei modelli di squilibrio, che ammettono la correzione da parte dello Stato, che tuttavia deve comportarsi così da ricostruire un modello di equilibrio. Il problema sta nel fatto che il capitalismo non è, forse, un sistema: noi lo osserviamo come se lo fosse, ma è solo somma di imprenditori, di proprietari dei capitali, di lavoratori, di individui, di corpi intermedi, nessuno dei quali è in grado di rappresentarsi l'operare della somma, né di sapere gli effetti della propria azione sulla società e sull'economia nel suo complesso. Durkheim sostiene che l'agire sociale non è la somma dell'agire individuale, e l'esperienza collettiva non è la somma delle esperienze individuali: questa distinzione separa l'individuo dalla società cui appartiene, e la coesione è una condizione perché si formi una società. Come Durkheim, sto discutendo proprio la natura individualistica del capitalismo, e se non nego che l'agire capitalistico possa talvolta essere la somma dell'agire dei capitalisti (come nei casi delle crisi o dell'accumulazione, prima descritti), ciò non implica che da tale somma nasca una consapevolezza collettiva, e certo non mi basta il concetto di coesione. Questo è un obiettivo sociale che non è compatibile con l'anarchia degli individui: per i capitalisti, l'unica coesione accettabile è quella compassionevole, che mantiene le distanze tra ricchi e poveri, tra capitalisti e lavoratori, tra profitto e accumulazione, tra Paesi industrializzati e Paesi sottosviluppati.


16. Economia e società

Ho cercato di individuare cosa sia l'economia nel suo complesso, al di là della sua connotazione statistica, e seguo una lunga tradizione se la riferisco alla società. Non penso sia un'eresia sostenere che qualsiasi società è definita almeno dal suo criterio di sopravvivenza, e ciò implica che il suo agente – lo Stato – dovrebbe operare in modo da evitare che membri della società siano esclusi, emarginati o eliminati. In altre parole, la società non può escludere i suoi membri senza negare la propria stessa esistenza. Invece, il capitalismo, per definizione, mentre crea sviluppo, reddito e ricchezza, esclude, genera disuguaglianza, distribuisce arbitrariamente ricchezza e reddito, e i capitalisti non sono consapevoli dell'economia nel suo complesso, e perciò della società. Se dunque lo Stato è l'agente della società, ma il capitalismo è in continuo conflitto con essa, sarà anche in conflitto con lo Stato. Poiché le trasformazioni del capitalismo hanno avuto bisogno dell'intervento pubblico e il conflitto si è mutato in collaborazione, non ne segue né che, collaborando, il capitalismo e lo Stato rispettino obbligatoriamente l'esigenza di sopravvivenza della società, né che la collaborazione sia tale. Nelle crisi, i rapporti tra Stato e capitalisti cambiano ogni volta, e il compromesso si dovrebbe risolvere in forme di egemonia (talvolta forte, talvolta debole: anche questi termini generici) dell'uno o degli altri.

Occorrerebbe prima definire una tale egemonia, e non ne sono capace; ma è necessario almeno illustrare come siano ammissibili tali egemonie e, non potendo utilizzare modelli di equilibrio o di squilibrio, né volendo ricorrere all'ennesimo «deus ex machina», sono costretto a ricorrere a un metodo diacronico, paragonando le istituzioni del capitalismo come si sono trasformate dopo la Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso, con le istituzioni create dopo la Grande Inflazione della seconda metà degli anni Settanta. Anche questa seconda trasformazione finisce nel crollo degli anni 2007-08, ed è probabilmente in corso una nuova trasformazione. Il paragone può essere facilmente criticato, sia perché non ho preso in considerazione le cause della Grande Depressione, sia e soprattutto perché il lungo periodo successivo alla Grande Depressione ha visto una varietà di sviluppi che hanno cambiato le riforme del New Deal, pur mantenendo fermo il ruolo dell'intervento pubblico. Analogamente, il lungo periodo successivo alla Grande Inflazione della seconda metà degli anni Settanta ha visto un graduale cambiamento dell'economia capitalistica, verso la globalizzazione delle attività economiche, un'espansione gigantesca della sfera finanziaria rispetto a quella «reale», una diversa divisione internazionale del lavoro, il declino del ruolo pubblico. Queste trasformazioni mi confortano nel respingere la tentazione di operare sui concetti di equilibrio e di squilibrio: si conferma che non c'è un modello unico di capitalismo.

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5. Il titolo e la cosa

All'epoca delle istituzioni del New Deal, il valore di un titolo non poteva allontanarsi per un lungo periodo dal valore del sottostante, cosiddetto «reale», se non provocando una bolla speculativa, d'altro canto improbabile per le limitazioni poste al mercato finanziario. La situazione muta radicalmente nel nuovo capitalismo. Il sottostante, infatti, non esiste se non in quanto rappresentato da un titolo, perché la cosa in sé, per avere significato economico, non deve essere solo comprata e venduta, ma ci si aspetta che sia comprata e venduta, e in questi casi si compra sempre un titolo sulla cosa. In fondo, il titolo non è altro che il certificato della proprietà attuale e futura, ed è in virtù di ciò che ogni proprietà può essere mobile. Ciò vale anche per il titolo rappresentativo di un'aspettativa (opzione) sull'andamento degli altri titoli, anche perché queste transazioni sono quelle sulle quali intervengono i fondi hedge. Perfino il pane è un titolo? Sì, perché può essere rivenduto, trasformato, consumato, o scambiato con titoli. È vero che il pane va consumato fresco, ciò che ne determina il tempo di vita (però il grano nel silos è pane futuro), ma ogni titolo e ogni cosa hanno sempre una propria durata (con l'eccezione dello Stato).

I titoli hanno, però, una particolarità, diversa da quella delle cose. I titoli sono ricchezza e si accumulano; se hanno una durata, si trasformano in altri titoli con altra durata. Le cose, invece, si possono certamente accumulare, ma non per se stesse: lo stock di merci è una scommessa sul tempo, e se ha una durata superiore a quella della merce immagazzinata per scopi produttivi, diventa un titolo. In altre parole, il magazzino è certamente capitale, ma nel nuovo capitalismo non tanto perché merce, bensì in quanto «riserva di tempo», e in questo caso è un titolo e non una cosa.

In generale, il tempo individuale ha un rapporto stretto con la proprietà privata, attraverso i titoli: come per la moneta esogena, questi trasportano la proprietà dal presente al futuro (o altrove), guadagnano il rendimento della proprietà, periscono al perire della cosa; ma anche una cosa morta è stata in precedenza trasformata in titoli che ne prevedevano proprio la fine, sulla data della quale speculare. Ecco l'aspetto strutturale della finanza: il bene sul mercato è l'ombra di se stesso; tutto è mobile, e se non lo fosse, si perderebbe l'opzione a realizzare, a vendere e a comprare, oggi, domani e fra trent'anni.

Questa universalità del titolo non elimina le bolle speculative, ma avvicina il nuovo capitalismo ad alcune caratteristiche del modello di equilibrio economico generale: ciò che in precedenza era un'ipotesi particolarmente irrealistica — l'esistenza di un solo bene prodotto (o di una sola struttura di beni) — sembra diventare una riproduzione effettiva del mercato, perché tutti i titoli sono fungibili, a differenza delle cose, e se i prezzi sul mercato sono quelli dei titoli e non delle merci, allora esiste un mercato, presente e futuro, per tutte le cose. Inoltre, se i titoli riflettessero, attraverso il cambiamento nella struttura dei loro prezzi, gli elementi dinamici dell'economia — per esempio, la legge di Engel e il progresso tecnico — allora sarebbe possibile costruire un sistema in equilibrio dinamico.

Ovviamente, non è così. Intanto, occorrerebbe introdurre nei modelli la ricchezza. La ricchezza netta è sempre uguale a zero, perché il passivo deve essere sempre uguale all'attivo, ma il netto deriva da volumi effettivi lordi crescenti o decrescenti di ricchezza (accumulazione), e perciò di titoli: il modello deve comprendere nuove equazioni e nuove incognite, ma non c'è ragione che sia in equilibrio. Con la nuova moneta endogena, infatti, le condizioni economiche cambiano e, come vedremo, cambia la struttura dell'economia.

In secondo luogo, i titoli sono fungibili, le cose no. Il conto economico non sparisce quando si valorizza lo stato patrimoniale – e si fanno profitti sulle cose, non solo sui titoli – e proprio perché le cose non sono fungibili con i titoli. Infatti, si consumano cose, non titoli, e s'investe in impianti, fabbricati, brevetti e non solo in titoli: esiste l' idea delle cose, ma è proprio per questo che le cose esistono e hanno una capacità di rappresentarsi, indipendentemente dalla loro valutazione in termini di titoli. Senza voler fare sofismi, anche i titoli esistono nella forma di idee, e l'idea del titolo è diversa da quella della cosa.

Vedremo presto, però, che la nuova moneta endogena ha avuto effetti macroeconomici «reali» (sulle «cose») molto rilevanti, nonostante la debolezza del moltiplicatore di Kahn-Keynes. Il mercato dei titoli ha avuto qualche virtù nel creare la piena occupazione nei Paesi ricchi e uno straordinario sviluppo in grandi Paesi poveri (eventi «reali»), e il nuovo capitalismo difende la propria legittimità attribuendo al mercato finanziario la propria fortuna, ritenendolo, se non eterno, certo duraturo. Gli effetti reali della finanziarizzazione hanno consentito agli economisti standard di dimenticare la rilevanza dei moltiplicatori: ma proprio il dimenticato moltiplicatore della spesa sarà la causa profonda del crollo del nuovo capitalismo.

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6. Il merito e il capitale umano

Nei capitalismi di cui discutiamo, attribuire ai lavoratori il loro impoverimento relativo si accompagna a una cultura sul successo personale e sul merito individuale, che si sposa bene con il nuovo individualismo delle classi medie: l'idea è che la produzione, ovunque avvenga, dipenda dal merito di chi lavora. Ipocritamente, si sottintende che chi è al comando ha il suo premio nel mercato dei capitali (bonus, opzioni, ecc.) e perciò non è lì che si annida il problema della bassa produttività. E se chi comanda merita un premio, vuol dire che non è sua la responsabilità della cattiva distribuzione dei redditi.

Il merito, da sempre considerato l'elemento principale della promozione sociale, è diventato invece una vera e propria ideologia; non sarebbe l'organizzazione della produzione la responsabile dei risultati, ma ogni singolo elemento dell'organizzazione, quasi questa non esistesse e ciascuno fosse libero di aggiustare la propria forza lavoro intorno alla propria personale preferenza (in genere sempre connotata negativamente: pigrizia, inerzia, indisciplina, infedeltà). In questo modo, i capitalisti possono ignorare le condizioni organizzative della produzione: accecandosi ancor più profondamente.

È possibile che l'espandersi dell'ideologia del merito provenga dal modo di organizzare la produzione nelle società finanziarie, dove giovani impiegati sono posti nella condizione di operare sui mercati istantanei, e per i quali i premi si misurano in percentuale del volume della speculazione: chi riesce a guadagnare di più è premiato in misura incomparabile con quella di quasi qualsiasi altro lavoro subordinato, e la sua retribuzione assomiglia molto a una partecipazione ai guadagni dell'impresa; chi non riesce, è licenziato. Si può certo affermare che esiste un merito in tali guadagni, ma il loro volume è funzione dell'economia del leverage, più che della bravura dell'operatore.

L'ideologia del merito sottintende anche la gerarchia. Chi giudica il merito dovrebbe essere altrettanto o più meritevole del candidato, ma non c'è alcuna assicurazione che ciò avvenga, perché per definizione la gerarchia precede il giudizio e la procedura sul merito, altrimenti i meritevoli esisterebbero già, e non sarebbe necessaria alcuna procedura formale di selezione, che invece implica un basso merito dei giudici. Nella costruzione di indicatori oggettivi di merito si finisce quasi inevitabilmente per premiare il conformismo, dato che ogni novità (che sarebbe il fine del merito) trascende gli indicatori oggettivi.

Senza entrare in troppi sofismi, la cultura del merito non guarda più alla promozione sociale, ma è figlia della concezione del «capitale umano», sviluppatasi dopo la restaurazione Thatcher-Reagan. Il concetto di capitale umano nasce originariamente dalla necessità di valutare i progetti educativi. La novità introdotta con questo concetto consiste nel misurare i differenziali retributivi derivanti dal differenziale educativo: tanto maggiore è il livello di istruzione raggiunto, tanto maggiore è la retribuzione e, una volta attualizzata, tanto maggiore è il valore del capitale umano. Poiché la statistica mostra, in tutti i Paesi, che in media il laureato guadagna (salario, stipendio, partecipazione ai ricavi) più del non laureato, e il diplomato della scuola secondaria superiore più di chi ha la licenza media, se ne deduce che il capitale umano del laureato e del diplomato è maggiore di quello degli altri. Ma, allora, se si potessero laureare/diplomare tutti, tutti avrebbero lo stesso capitale umano e perciò la stessa retribuzione: l'assurdo fa subito capire l'errore. Nelle teorie del capitale umano vi è un malcelato fastidio per l'istruzione pubblica, universale e gratuita: perché il capitale, in questo caso, proviene dalla collettività, non dal singolo individuo. Nella concezione del capitale umano, invece, è il risparmio del singolo che deve finanziare la sua scelta di studio: la cicala avrà un capitale umano (!) inferiore a quello della formica, come chi preferisce lavorare e guadagnare subito anziché studiare, e il merito è precisamente misurato dalla differenza nel reddito procurato da quel sacrificio – il merito, come la grazia, si misura dal successo economico, e cioè, nel nuovo capitalismo, dalla capacità di accumulare o di far accumulare. La scelta individuale tra studio e lavoro sembra razionale, ma è proprio ciò che lo Stato vuole evitare, sia con l'imposta progressiva (che, nelle teorie del capitale umano, disincentiva la ricerca del merito, o del successo), sia con l'istruzione obbligatoria: che è un bene di merito, perché il singolo individuo non conosce gli effetti dell'istruzione sulle proprie decisioni nel futuro. Si capisce, allora, che l'invenzione del capitale umano è la premessa per privatizzare l'istruzione e frenare l'estensione dell'obbligo scolastico. Il paradosso è che il capitale umano dei loro lavoratori non fa parte dello stato patrimoniale dei datori di lavoro: perciò è un nome, non un patrimonio effettivo. Del resto, se il lavoratore fosse considerato parte del capitale dell'impresa, e fosse perciò esso stesso capitale, non sarebbe cresciuta tanto la precarietà.

Tra l'altro, è proprio il nome che è ingannevole: il termine implica che il suo valore può essere speso sul mercato in quanto capitale, nella forma di azioni, di garanzia per il prestito, di potenziale di agglomerazione, fusione o separazione. Il capitale può essere comprato e venduto, diviso in multipli, di maggioranza e di minoranza e, soprattutto, accumulato: nessuna di queste caratteristiche attiene al capitale umano. È vero che il capitale è anche il valore attuale dei suoi rendimenti futuri, come per l'istruzione, ma mentre capitale e rendimenti sono separabili – il primo sul mercato dei capitali, il secondo su quello del credito – non è, ovviamente, così per il capitale umano.

È certo che la maggiore competenza o professionalità ottiene in genere una retribuzione maggiore, ma ciò dipende dalla domanda di lavoro, non dall'offerta: se il mercato richiede più saldatori non laureati di contabili laureati, la retribuzione dovrebbe premiare i primi più dei secondi. Se non avviene, e talvolta avviene, è per ragioni di gerarchia, di costume, di «classe», non di capitale umano.

Infine, proviamo a separare il capitale umano dalla persona nella quale è immerso. Se si valutano gli individui sulla base del capitale umano, allora esistono necessariamente individui senza capitale umano: seguendo la logica di questo filone di pensiero andrebbero forse eliminati? È avvenuto, come sappiamo. Senza andare agli estremi, se anche la persona è capitale, allora sparisce qualsiasi differenza tra capitale e lavoro. Siamo nella pura ideologia, o, piuttosto, nella cultura economica del nuovo capitalismo, dove il giudizio di valore è in termini di accumulazione.

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8. Il bilancio pubblico e il ruolo dello Stato

Nel nuovo capitalismo, lo spazio per una spesa autonoma da parte dello Stato è, ovviamente, ridotto. Tutte le funzioni pubbliche sono giustificate se danno luogo o a una redditività sul mercato o a una redditività implicita nel senso che le imposte sono in realtà tasse, che rappresentano il prezzo di un servizio, perché (quasi) tutte queste funzioni pubbliche sono sostituibili da funzioni private. Servizi pubblici e imprese pubbliche, come abbiamo visto, devono trasformarsi in società di capitali, così da esporli al mercato finanziario.

Una serie di studi sull'economia delle leggi fa risalire all'interesse personale dei giudici, poliziotti, funzionari, controllori il funzionamento di quello che è chiamato il mercato (o lo scambio) politico e che determina, alla fine dei processi di scambio, un aumento patologico dei bilanci controllati da ciascuna di queste figure: non c'è posto, di nuovo, per l'organizzazione e la sua deontologia, per beni non commerciabili, per beni di merito. Compito delle strutture politiche sarebbe quello di costruire e mantenere lo Stato minimo, anche più piccolo di quello che si fondava su giustizia, sicurezza e difesa, e proprio perché tutte (o quasi) le sue funzioni sono privatizzabili (i trasporti, le carceri, gli ospedali, le scuole, le discariche, i beni culturali, ecc.). Questa auto-esautorazione fa sostituire il mercato all'assemblea di Rousseau e al Leviatano di Hobbes, fornisce nuovo materiale per il mercato dei capitali – perché le attività privatizzate operano ora anche sullo stato patrimoniale – favorisce le rendite da concessioni pubbliche, delegittima l'intervento dei funzionari dello Stato, assimilandoli a un'associazione a delinquere, e indebolisce la democrazia.

Per verità, i comportamenti effettivi dei governi sono meno estremisti rispetto a quanto richiederebbe il nuovo capitalismo. Già Reagan utilizzò la spesa pubblica come volano per la crescita. I governi dell'Europa continentale, pur aderendo ai princìpi del liberismo con il Trattato Europeo, conservano ampie riserve di imprese pubbliche, nazionali o locali che, anche se trasformate in società di capitali, non sono effettivamente esposte al mercato finanziario (ma, ovviamente, ciò dipende dall'indirizzo politico prevalente). Nei Paesi emergenti, la presenza dello Stato nelle imprese è spesso decisiva. Ciò che tuttavia rende simili le politiche di tutti i Paesi ricchi nel nuovo capitalismo è la convinzione – simile a quella del periodo precedente la Grande Depressione e ispirata, ora, dalle teorie sulla nocività/inutilità della politica economica – che ogni nuova spesa pubblica comporti inevitabilmente, prima o poi, un maggior debito pubblico o una maggiore pressione fiscale; anche se la spesa potrebbe avere effetti anticiclici, deve sempre essere preceduta dall'accumulazione di riserve fiscali, necessarie per coprire quella spesa.

Lo Stato nel nuovo capitalismo non dovrebbe presentare un deficit di bilancio né l'accumulazione di debito, perché se può essere sostituito dall'impresa in tante funzioni e se la sua spesa «minima» è finanziata con le imposte pagate dai cittadini e con le tasse per servizi resi, non dovrebbe prodursi un disavanzo tra entrate e spese correnti. Questa è la tesi di tanti economisti e sociologi liberisti, che la giustificano anche perché l'economia privata, in ipotesi più efficiente di quella pubblica, eviterebbe corruzioni e concussioni (!). Capitalisti e governi, come i loro economisti, sono ciechi, altrimenti saprebbero che la spesa pubblica può – e spesso deve – essere finanziata in disavanzo. È impressionante quanto seguito abbia questo pregiudizio anche dopo il crollo del 2007-08 (tea party, austerity, liberalizzazioni). Siamo di fronte a una brutale semplificazione del ruolo dello Stato e a un'esaltazione dell'equilibrio automatico del mercato: semplice ideologia o, meglio, semplice ignoranza sulla nuova prevalenza dello stato patrimoniale rispetto al conto economico.

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9. Le funzioni pubbliche

Il vortice ora descritto e la natura del nuovo capitalismo spingono i governi dei Paesi ricchi a privatizzare tutto ciò che è possibile: come quando la sicurezza interna è affidata a vigilantes, l'esercito a mercenari, gli aiuti allo sviluppo al volontariato. In questi casi, apparentemente di dettaglio, si rivela la diffidenza perfino nei confronti dello Stato minimo, perché è possibile che i capitalisti non riescano a distinguere con chiarezza questo Stato da quello interventista.

Ho già definito il rapporto tra il nuovo capitalismo e lo Stato come «lo Stato dei capitalisti», per indicare verso quale delle due parti si è spostata l'egemonia. In quel che segue, mi rivolgo ai Paesi di vecchia industrializzazione, perché non ho la stessa conoscenza rispetto ai Paesi emergenti, dove le funzioni pubbliche sono presenti e forti: ma sospetto che, poiché il loro sviluppo è dipeso dall'investimento estero privato e le forme dell'industrializzazione sono simili, difficilmente potranno sfuggire alle stesse tendenze dei Paesi ricchi.

i) La giustizia e la democrazia. Anche se hanno bisogno della giurisdizione per difendere la proprietà privata, i capitalisti tendono a ridurre il potere autonomo della magistratura. Questa ha a cuore l'applicazione delle norme, ed è perciò un ostacolo oggettivo alla loro eliminazione e, ciò che interessa maggiormente i capitalisti, si oppone alla sostituzione della sanzione penale con un prezzo (una multa, un rimborso), o com'è stato detto, si oppone alla sostituzione del principio di legalità con quello del risultato. Inoltre, come per tutte le professioni, anche nello Stato dei capitalisti esiste la deontologia che, nel caso della giustizia, fa prevalere un criterio giuridico rispetto a uno mercantile, e che, dunque, va posta sotto controllo. Il paradosso è evidente: per ridurre il ruolo dello Stato, occorre aumentarne i poteri nei confronti di chi, come i giudici, è autonomo rispetto al mercato; alla fine, lo scopo è di ridurre la divisione dei poteri e di far prevalere criteri mercantili. La riduzione dell'autonomia della magistratura aumenta lo spazio dell'esecutivo; la teoria dello scambio politico, come abbiamo già accennato, fa risalire la necessaria riduzione dell'autonomia dei giudici alla loro altrimenti inevitabile corruzione, protetta proprio dalla divisione dei poteri. Questa è una tendenza piuttosto generale nello Stato dei capitalisti, che tiene assai di più alla stabilità dei governi che all'equilibrio di forze altrimenti contrapposte: non per la malvagità del nuovo capitalismo, ma per la necessità di limitare i poteri che si esercitano fuori del mercato, i quali, a differenza dei capitalisti, non massimizzano né i profitti né l'accumulazione. Lo Stato dei capitalisti ha dunque, necessariamente, una qualità implicitamente autoritaria, che trova un riscontro nella trasformazione delle leggi elettorali, tendenzialmente maggioritarie.

[...]


ii) La disoccupazione. Nello Stato dei capitalisti, le agenzie pubbliche per l'impiego sono sostituite, in tutto o in parte, da aziende private e la tutela «passiva» del disoccupato, attraverso i sussidi, è sostituita (ma anche qui, solo in parte, per ragioni di consenso) dalla formazione professionale, nell'idea che la disoccupazione derivi dalla pigrizia del disoccupato sia nella ricerca di un posto di lavoro sia nell'aggiornamento della sua professionalità. Nel migliore dei casi, la disoccupazione è attribuita a imperfezioni nell'incontro tra domanda e offerta («mismatch»), ed è curioso che ciò si applichi anche quando la crisi è di domanda. Abbiamo già visto la divergenza nelle politiche del lavoro tra le due sponde dell'Atlantico. La divergenza aumenta, però, con il nuovo capitalismo, perché in Europa la disoccupazione è attribuita alla volontà del disoccupato, e il calcolo della perdita di reddito potenziale derivante dalla disoccupazione non fa parte dei parametri con i quali si giudica l'efficacia delle politiche economiche. Nel periodo della Grande Inflazione si calcolava l'indice di «disagio», ovvero la combinazione fra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione, ma con la fine dell'inflazione, il disagio della disoccupazione è stato dimenticato, a conferma che quell'indice aveva solo un significato propagandistico.


iii) Lo stato sociale. Lo Stato dei capitalisti perde la visione dello stato sociale universale come condizione della stessa libertà dell'individuo, pur santificata dai capitalisti, e procede a smantellarlo, sostituendo l'iniziativa privata all'intervento pubblico. Tutto il campo dei diritti sociali è messo in pericolo, dall'istruzione alla sanità, dalla previdenza al sussidio di disoccupazione: le attività e i servizi pubblici non sono espressi in uno stato patrimoniale, e devono perciò essere sostituiti da imprese, che dunque emettono titoli e partecipano all'accumulazione. Il processo, come sempre, è graduale. Nella scuola e nell'università, i Paesi europei imitano gli Stati Uniti dove, dopo la Presidenza Carter, l'espansione dello stato sociale, pur modesta, si è arrestata.

Nel campo dell'istruzione, la parte obbligatoria si ferma presto alla scuola secondaria e non investe l'università. Le difficoltà finanziarie degli Stati nel nuovo capitalismo favoriscono lo sviluppo di istituzioni private, religiose, internazionali a pagamento, contribuendo così a costruire un doppio regime: quello privato, che dovrebbe raggiungere qualità più elevate di quello pubblico, e questo, sussidiato e per i poveri, ma con risorse insufficienti a garantire una qualità competitiva con il settore privato. Il nuovo obiettivo del merito seleziona la classe dirigente futura, premia la qualità dell'istruzione privata e favorisce così i ceti più abbienti; in questo modo rallentando l'antipatica promozione sociale dei meno abbienti.

È analogo il processo nella sanità, dove si scoraggia il servizio universale imponendo tariffe ed esentando solo i poveri, mentre si raziona la domanda con le code (che scoraggiano i più abbienti, il cui tempo è retribuito più di quello dei poveri, e che perciò si rivolgono alla sanità privata). I governi tendono a procedere con cautela nel settore, perché possono mettere a rischio il consenso (nemmeno la Thatcher privatizzò la sanità nel Regno Unito), ma hanno ormai creato un doppio regime, e la sanità pubblica è essenzialmente riservata ai ceti meno abbienti. Si forma così un sostituto dello stato sociale, giustificato dalla necessità di aiutare, compassionevolmente, i più poveri: una geniale ipocrisia, che fa dei governi tante Maria Antonietta.

È simile il caso della previdenza, originariamente commisurata al salario di uscita dal mercato della forza lavoro (per evitare una caduta nello standard di vita dei pensionati e nella loro domanda per consumi) e finanziata con imposte sui lavoratori attivi, e più tardi trasformata in una forma che la lega al contributo dello stesso lavoratore. Il risultato è che i periodi di disoccupazione ricadono sulla futura pensione. Così, i redditi più elevati possono aggiungere una pensione privata a quella pubblica, insufficiente, allargando la divisione sociale anche ai pensionati. Quanto più severa è la difficoltà finanziaria dei governi, nel nuovo capitalismo, tanto più si restringono i futuri benefici della previdenza pubblica. Più importante, nel nuovo capitalismo, è trasformare la previdenza in assicurazione privata, così da arricchire la domanda e l'offerta di titoli sul mercato finanziario. È il motivo dell'accumulazione che spinge verso i sistemi contributivi.

[...]


ív) L'equità. Il nuovo capitalismo cerca di non incorrere in reazioni sociali al peggioramento della distribuzione del reddito, e lo Stato fornisce provvidenze alla popolazione più povera attraverso ciò che è chiamato «equità» o «fairness», manifestazioni già presenti prima, e ancora più evidenti dopo, il 1979. L'idea dell'equità presenta vari vantaggi per la stabilità del compromesso tra Stato e capitalisti:

• I capitalisti ritengono che il risparmio causi la crescita e la piena occupazione, contrariamente a ciò che avviene nella realtà, perciò ostacolano una distribuzione del reddito influenzata dallo stato sociale universale e gratuito, e lo Stato inventa il concetto di equità;

• Lo Stato è legittimato, agli occhi dei capitalisti, proprio per la sua funzione di equità; in questa veste, assomiglia allo Stato di Hobbes, perché evita la violenza dei poveri;

• La spesa per l'equità può essere flessibile e parametrata sul deficit e sul debito pubblico accettabili alla speculazione; se necessario, è sufficiente ridefinire ogni volta il livello di bisogno che si vuole soddisfare;

• La divisione sociale oscura la perdita di reddito della classe media, che non misura il proprio benessere in termini assoluti, ma relativamente a quello della popolazione assistita;

• La classe media vede crescere la propria ricchezza e l'accumulazione oscura la percezione dello status di ciascun individuo;

• Il consenso politico ai governi, nel nuovo capitalismo, poggia proprio su questa divisione sociale.


I guai con l'equità, però, sono rilevanti. Il successo di quella che è spesso una semplice mistificazione, dipende tutto dall'accettabilità dello status di minorità degli assistiti e dalla mancata consapevolezza del proprio malessere da parte dei ceti medi non assistiti, che subiscono un peggioramento solamente relativo di reddito rispetto a ceti più abbienti e un miglioramento assoluto in termini di ricchezza. Una reazione sociale è perciò solo immanente e potrebbe emergere quando i poveri non fossero in grado di ottenere almeno il livello di sussistenza. Soprattutto, l'equità per i capitalisti non deve migliorare la distribuzione del reddito, perché, nella loro cecità, i capitalisti ritengono che la beneficenza riduca, non accresca, il reddito nazionale. Allo stesso tempo, l'equità nel reddito è sostituita da una sorta di equità nell'accumulazione (l'abitazione), che apparentemente soddisfa il bisogno di sicurezza delle famiglie.

Gli economisti dei capitalisti, generalmente favorevoli allo Stato minimo e ispiratori dell'anarchia dei loro protettori, sostengono che la distribuzione ottima del reddito è quella che deriva da un miglioramento, cosiddetto paretiano, definito come l'incremento di utilità (benessere, reddito) di un individuo, mentre tutti gli altri mantengono la posizione precedente. Si tratta, tuttavia, di un peggioramento distributivo, perché la distanza tra il benessere del primo e il benessere degli altri è aumentata. Può accadere lo stesso peggioramento anche con l'applicazione del principio di Rawls (molto amato dai socialdemocratici nel periodo del nuovo capitalismo), per il quale è equa la distribuzione che aumenta il benessere della fascia più povera, disinteressandosi di ciò che accade alla fascia più ricca – un esempio illuminante di come l'equità sostituisce la giustizia sociale, e fornisce un buon sostegno allo Stato dei capitalisti. In realtà, tutte le politiche economiche determinano cambiamenti redistributivi, e una politica ottima dal punto di vista distributivo non esiste.

[...]


Da notare che, in tutta la discussione sull'equità nella distribuzione, non si approfondisce mai cosa succede alla ricchezza: nel nuovo capitalismo, è l'accumulazione che conta almeno quanto o più del reddito, ma non possediamo alcuna conoscenza né alcuna teoria che ci dica qualcosa sulla distribuzione della ricchezza. Forse, ciò dipende dal fatto che le famiglie non esibiscono uno stato patrimoniale, a differenza delle imprese; però, è vero che il capitale delle famiglie (la casa, ad esempio) è trasformabile in titoli e partecipa alla moltiplicazione finanziaria, e perciò le famiglie sono intestatarie di uno stato patrimoniale-ombra. D'altra parte, l'imposta immobiliare, pur proporzionale al valore dell'abitazione e perciò con qualche caratteristica di progressività (perché la casa del ricco vale più di quella del povero), pesa sul reddito delle famiglie; l'imposta sui patrimoni finanziari o è assente o è proporzionale solo sui guadagni in conto capitale, non sul capitale in quanto tale.


v) Beni pubblici e di merito. Nel nuovo capitalismo si assiste a una lenta e graduale eliminazione del concetto di bene pubblico, che ricordo è bene non escludibile. Per i capitalisti, ciò che non è escludibile non ha valore, ed è vero, dal punto di vista del mercato, dato che il costo marginale di un bene pubblico puro è uguale a zero (ogni nuovo utente non fa crescere i costi per soddisfarne la domanda) e, dunque, anche il prezzo deve essere uguale a zero – ed è questo che giustifica l'intervento dello Stato anche nella letteratura liberista. Nello Stato dei capitalisti, il bene pubblico deve invece diventare escludibile, e perciò reso scarso attraverso un prezzo: la radio con la pubblicità, la televisione con la pubblicità e il decoder, internet con il canone telefonico o satellitare e la pubblicità. Lo dimostra anche la riduzione dello spazio dei beni cosiddetti liberi (o comuni), come per la parte inevitabilmente inquinata di aria, acqua e suolo, consentita dalle regole (che non ricostruiscono mai lo stato di natura).

Allo stesso tempo, sono riconosciuti come beni di merito quelli che giustificano una riduzione dell'imposta progressiva e un aumento di quella in cifra fissa (droga, tabacco, gioco, ecc.), mentre si degradano a beni privati quei beni di merito che fanno aumentare la spesa pubblica (l'istruzione, la sanità, lo stesso sussidio di disoccupazione). I beni di merito non sono presenti come tali nel diritto, perché si afferma spesso che la loro esistenza giustificherebbe una funzione paternalistica dello Stato; il loro riconoscimento giuridico, infatti, anche se detta norme per preservarne alcuni rispetto alla mancata telescopia dei singoli, toglierebbe sovranità a questi e perciò «al popolo». Nelle Costituzioni è spesso presente un «interesse generale», ma è raramente specificato se tale interesse trascenda i giudizi dei singoli cittadini. Nello Stato dei capitalisti un tale interesse generale è impossibile.


vi) L'ambiente.


vii) La cultura.


viii) La regolamentazione antitrust.


ix) Ricerca e sviluppo.

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10. La Grande Moderazione

È evidente l'assenza dello Stato nel processo di accumulazione: l'antitrust è inefficace, la banca centrale non vigila sulle imprese finanziarie, l'imposizione fiscale sul patrimonio è frenata dalla concorrenza sui capitali tra diverse economie, non c'è bisogno di politiche economiche per la domanda effettiva perché l'esplosione finanziaria ha effetti economici «reali», la nuova moneta endogena sostituisce la moneta esogena e riduce la sovranità degli Stati. L'enfasi sullo Stato minimo è soltanto l'orpello ideologico del nuovo capitalismo.

Il periodo successivo alla crisi del 1981, conseguente la nuova politica economica e monetaria, ma più chiaramente a partire dall'abbandono del cambio fluttuante nel 1987 e fino al crollo del 2007, è stato definito come la già ricordata «Grande Moderazione»: la crescita del prodotto nazionale nei Paesi industrializzati presenta oscillazioni meno marcate rispetto al periodo della Grande Inflazione, anche se negli anni dal secondo dopoguerra fino a metà degli anni Settanta le oscillazioni erano altrettanto poco marcate. La ridotta volatilità del prodotto nazionale è stata spiegata dal ridotto tasso di inflazione nel periodo, e dal ritiro dello Stato dalla politica economica, nonché dal miglioramento introdotto dalla rivoluzione informatica, che ha stabilizzato le politiche aziendali sul magazzino (operare in tempo reale ha ridotto notevolmente sia i volumi degli stock sia il loro ciclo). Ma, allora, le nuove politiche monetarie, che si fondano sull'intuizione di Friedman, per il quale la stabilità monetaria è funzione delle aspettative inflazionistiche degli operatori, sarebbero non solo efficaci per ridurre l'inflazione, ma anche efficienti perché tenderebbero a minimizzare il ciclo: ne deriverebbe che battere l'inflazione equivale a creare le condizioni per una crescita regolare del prodotto — un sogno sul quale si fonda lo statuto della Banca Centrale Europea. Peccato che in una lunga parte del periodo, la moneta pubblica, alla quale si riferisce il pensiero di Friedman, sia stata sostituita da una gigantesca emissione di moneta privata, e questa avrebbe ben potuto produrre inflazione, se non si fossero manifestate le straordinarie crescite dei Paesi emergenti, come già indicato: né la crescita della moneta endogena né lo sviluppo dei Paesi emergenti sono chiamati in causa per spiegare la Grande Moderazione. È, invece, il nuovo capitalismo che, spontaneamente, attraverso l'economia del «leverage» e l'accumulazione, produce una crescita stabile del prodotto mondiale, essenzialmente dominata dai Paesi emergenti. Questa interpretazione attende una conferma statistica; ma la fine della Grande Moderazione, non spiegabile né con le politiche delle banche centrali né con l'informatica, smentisce le interpretazioni tradizionali.

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Lo Stato, agente della società, può assistere ignaro a ciò che accade: ma il processo di esclusione, prima dei lavoratori, poi dei cittadini, e infine degli stessi capitalisti, mette in pericolo la società della quale lo Stato è agente. Supponendo che lo Stato, pur non essendo un Leviatano, agisca per la propria sopravvivenza – come ogni istituzione – allora potrà presentarsi come portatore di interventi per migliorare la situazione di ciascun elemento della società e, in questo modo, assicurare la propria continuità.

Comincio da un esempio su cosa potrebbe fare lo Stato che avesse una qualche autonomia rispetto ai propri capitalisti nel fissare obiettivi collettivi.

La cultura keynesiana è stata soppressa, ma i governi sanno che nuove norme renderanno obsoleti impianti, beni intermedi e di consumo: se le nuove norme corrispondessero a qualche obiettivo pubblico coinvolgente (l'ambiente, ad esempio), simile a ciò che avviene in tempo di guerra, allora le imprese e i consumatori sarebbero costretti a cambiare la propria domanda e, se le politiche di rinnovo fossero sufficientemente generali, ciò potrebbe provocare la ripresa. È avvenuto, parzialmente, con la conversione ecologica dell'economia (green economy), ma il freno a questa possibilità nasce sia dalle politiche di austerità, dato che è sempre richiesto un sussidio pubblico per lanciare l'industria «bambina», sia dall'ostilità degli inquinatori che producono energia, chimica, acciaio, che nella crisi già soffrono una riduzione della domanda e un calo di utilizzo nella capacità produttiva, sia dalla concorrenza di altri mercantilismi. L'amministrazione pubblica è consapevole degli effetti positivi della regolazione ambientale sulla domanda effettiva, ma poiché questa politica aggrava i costi delle imprese, non sarà accettabile per i capitalisti non finanziari, salvo nel caso in cui una maggiore generosità nel credito bancario e nei criteri per l'emissione di nuove azioni consentisse loro di compensare l'aumento dei costi. Questa generosità, tuttavia, non avrebbe ragione di manifestarsi, perché gli effetti possibili dei nuovi investimenti non sono di breve periodo e spesso sono solo indiretti, e perciò non si trasformano in debiti cartolarizzabili e non rispondono alla valutazione del rischio dei capitalisti finanziari.

Comunque, a differenza del caso dello Stato a servizio dei capitalisti, qui lo Stato sa che deve costruire un compromesso, partendo dalla necessità di ridurre o eliminare il conflitto tra capitalisti. Un intervento pubblico diretto sulla domanda, infatti, incontrerebbe l'ostilità dei capitalisti finanziari, che temono l'iniziativa pubblica perché porterebbe con sé la regolazione dei loro affari, mentre i capitalisti non finanziari, ognuno per il proprio interesse, gradirebbero vendere i propri prodotti allo Stato, ma non vorrebbero che l'acquisto pubblico fosse finanziato aumentando la pressione fiscale – perché altrimenti penserebbero che lo Stato stia sfruttando ciò che essi ritengono frutto del proprio merito. Su questa base, non si formerebbe un compromesso, perché appunto l'anarchia dei capitalisti non li rende consapevoli dei benefici macroeconomici della spesa pubblica. Per evitare l'incomprensione dei capitalisti e non aumentare la pressione fiscale, si formano disavanzi nel bilancio pubblico e nuovo debito. In economia chiusa, o per l'intero universo capitalistico, il moltiplicatore ricostruisce sempre un avanzo identico al disavanzo iniziale e lo Stato non dovrà preoccuparsi per il debito pubblico, perché il moltiplicatore (se non è ostacolato da svalutazioni competitive, protezionismi, controlli sui flussi internazionali di capitale) avrà fatto crescere il livello del reddito, così da lasciare invariato il rapporto tra debito e prodotto nazionale. Il compromesso eliminerebbe la necessità di misure di austerità, e poiché aumenterebbe l'occupazione, anche se la regola aurea non è rispettata, per un tempo che non sappiamo definire quanto lungo, i capitalisti «reali» riconoscerebbero una forma di egemonia allo Stato. Tuttavia, non è detto che i capitalisti in tutto il mondo si comportino analogamente, e le regole per l'intero universo capitalistico non valgono in ciascun Paese, anche perché i capitalisti finanziari speculerebbero contro il nuovo debito pubblico. In uno schema keynesiano, come l'investimento determina il risparmio e l'investimento dei capitalisti ne determina il profitto, così il disavanzo pubblico determina il gettito che lo compensa. È, però, sempre necessaria la regola aurea, altrimenti, come già discusso, il reddito nazionale e perciò il gettito tributario aumentano meno di quanto accadrebbe con una migliore distribuzione del reddito, e il debito crescerebbe in proporzione al Pil. Inoltre, in economia aperta, la ricostruzione dell'avanzo da spesa pubblica è solo parziale e il debito cresce anche in proporzione al Pil. Così, l'unico modo che avrebbe lo Stato per finanziare il debito sarebbe venderlo ai propri capitalisti, ma non c'è ragione che ciò accada nella globalizzazione; né potrebbe requisire profitti e rendite attraverso l'imposizione fiscale, perché ciò non è compatibile con questo tipo di capitalismo. Il compromesso è molto instabile e non risolve il conflitto tra i capitalisti finanziari e quelli «reali».

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X. RIFLESSIONI NON CONCLUSIVE



Non sono in grado di rappresentare le caratteristiche di un nuovo capitalismo, sufficientemente duraturo, soprattutto perché l'analisi precedente mostra che esiste una varietà di possibili rapporti tra capitalisti e Stato, tra l'anarchia dell'accumulazione e l'esigenza di mantenere elevato il tenore della domanda effettiva, tra globalizzazione e mercantilismo. Esistono, però, alcuni punti fermi.


1. Lo Stato

La globalizzazione non elimina le strutture pubbliche, può limitarne il raggio d'azione e renderle servizievoli nei confronti dei capitalisti; poiché lo Stato è struttura originaria, più del capitalismo, può cambiare forma ma non autodistruggersi. Sono molti i modi attraverso cui lo Stato protegge la propria esistenza, ma tutti devono assicurare una qualche capacità di osservazione sull'economia nel suo complesso. Ne segue che per quanto servizievole, lo Stato deve promuovere o accettare un compromesso con i capitalisti, soprattutto allo scopo di correggerne, anche solo temporaneamente o parzialmente, l'anarchia. Non è un evento frequente, ma un singolo Stato può perdere anche l'istinto di sopravvivenza: le unioni di Stati, le federazioni e le confederazioni, gli stessi trattati e accordi internazionali che regolano le sovranità, risultano dal deperimento di qualche formazione di Stato nazionale (feudale, confessionale, tirannico) precedente, ma restaurano sempre una forma di Stato. È anche vero che la pressione dei capitalisti verso lo Stato minimo, che spinge gli Stati a qualche forma di unione, non ne spegne l'ansia di esistere: un buon esempio è l'Unione Europea, che oscilla tra il desiderio di diventare una federazione e il mantenimento di singole sovranità nazionali, ma, pur finendo per esaltare la propria burocrazia e umiliare continuamente la sovranità del proprio parlamento, sopravvive. Meno estremo, ma pur sempre un indizio nella stessa direzione, è il maggior ruolo degli Stati negli Usa, rispetto al governo federale, dopo la Presidenza Reagan.

Nella globalizzazione, con governi che sono sempre tentati dal mercantilismo e con Stati che proteggono la propria esistenza, si materializza un conflitto tra Stati: in assenza di una qualsiasi egemonia planetaria, si oscillerebbe continuamente tra forme di violenza mercantilistica o autoritaria e accordi provvisori fondati sulla cultura liberista dei capitalisti finanziari. La «free trade area» dell'Atlantico è un esempio recente di questa oscillazione, considerando che la moneta di riserva resterebbe il dollaro; ma poiché nel passato mercantilismo e protezionismo hanno sempre trovato nuove vie per aggirare i trattati liberoscambisti, gli accordi regionali non sostituiscono un vero accordo internazionale su nuove basi.


2. La contraddizione dello Stato minimo

Poiché lo Stato deve mantenere una capacità di riconoscere le crisi prima che si manifestino, allora deve dotarsi di politiche economiche volte a questo scopo. Esiste così un limite al suo possibile ridimensionamento, anche perché la sua stessa dimensione è uno stabilizzatore automatico: lo Stato minimo è lì a dimostrarlo. Inoltre, l'intervento pubblico deve poter correggere l'anarchia dei capitalisti anche nazionalizzando imprese e proprietà, ma fornendo nuova domanda ai capitalisti «reali»: non è in gioco la proprietà privata, ma solo la sua sacralità. Pur anarchici, i capitalisti «reali» non temono i propri simili nazionalizzati, se ciascuno di loro si troverà con maggiori profitti o rendite. Ogni nazionalizzazione, però, ostacola il motivo dell'accumulazione e la globalizzazione non apprezza affatto l'esproprio: ne segue che ogni azione dello Stato in questa direzione deve presentarsi come temporanea, altrimenti il flusso internazionale dei capitali si arresterà alle porte dello Stato espropriante e verrà a mancare l'adesione di tutti i capitalisti. Poiché spesso la temporaneità è solo formale, se le imprese nazionalizzate rimangono in vita, ne deriverà un rinnovato scontro tra governi e capitalisti finanziari, e tra questi e quelli «reali».


3. Il mercato finanziario e l'accumulazione

Per quanto provvisto solo di un limitato potere di leverage, il mercato finanziario è qui per restare, ma sembra inevitabile, dal conflitto tra capitalisti, una regolazione pubblica: in effetti, anche se i valori nei mercati finanziari aumentano, è finita la gloriosa accumulazione, capace di aumentare la domanda effettiva. Ciò dovrebbe favorire una regolazione volta a separare i capitalisti «reali» dai finanzieri, e i mercati delle merci e della forza lavoro da quelli dei titoli, ponendo tutti i derivati sotto un'autorità che ne freni il conflitto di interessi, vietando la possibilità di coprire contemporaneamente i rischi delle diverse parti degli stessi contratti. Lo strumento di questa separazione sarebbe l'applicazione generalizzata di una Volcker Rule rafforzata, contemporaneamente consentendo alle banche centrali di diventare creditori di ultima istanza di banche e, soprattutto, di Stati. Ciò non impedirebbe la globalizzazione, ma indirizzerebbe il flusso dei capitali verso il finanziamento degli investimenti e della speculazione «bona fide», e le banche non sarebbero più il veicolo per la creazione di moneta endogena. Se questa politica assomiglia troppo a un ritorno alle istituzioni economiche del dopoguerra, allora non può reggere alla mutazione avvenuta successivamente; ma si capisce che un ritorno ad alcune di quelle istituzioni in un quadro globalizzato sarebbe realistico se si riuscisse a far risorgere, in una nuova Bretton Woods, invece dell'idea degli americani sul dollaro come moneta di riserva internazionale, quella di Keynes sulla moneta mondiale, magari derivante dall'accordo tra alcuni dei principali governi (G7 o G8, certo non G20). C'è da chiedersi, ovviamente, se una riforma che tenesse insieme regolazione e globalizzazione sarebbe capace di suscitare il consenso di tutti i capitalisti, e forse il cuore ha saltato l'ostacolo.


4. Il conflitto tra capitalisti e il compromesso con lo Stato

Poiché i capitalisti non sono solidali gli uni con gli altri, qualsiasi investimento privato che crea una disutilità in altri capitalisti, come le imprese finanziarie, in semplici proprietari, in portatori di interessi (gli evanescenti stakeholder), determina una reazione sulla quale può intervenire lo Stato a favore dell'una o dell'altra parte. In generale, se dopo il crollo il motivo dell'accumulazione si indebolisse, alcuni capitalisti «reali» – che sono parte di un compromesso – la spunterebbero, ma non potrebbero sempre prevalere sugli altri, che sono pur sempre capitalisti; si possono umiliare i semplici proprietari e i portatori di interessi, ma non le imprese finanziarie, e ciò rafforza la possibilità che lo Stato introduca nel compromesso regole generali di condotta.

Proprio perché i capitalisti non sono tra loro solidali, e poiché la globalizzazione tende a dividere quelli capaci di parteciparvi da quelli che non lo sono, realizzando una forma particolare di competizione, lo Stato può valorizzare il sindacato, soprattutto allo scopo di rispettare la regola aurea, una decente distribuzione tra salari e altri redditi, e ottenere un consenso utile al sistema politico. La globalizzazione mette, però, i lavoratori e i sindacati di un'economia contro quelli di tutte le altre, e l'unico modo per evitare il depotenziamento del sindacato è quello di regolare globalmente il dumping sociale. Questo è un altro modo di dire che è necessario ridurre il mercantilismo. L'interessante contraddizione che emerge tra globalizzazione (free trade) e mercantilismo (intervento pubblico) potrebbe forse generare le forze per una vera riforma economica internazionale. Mentre si dovrebbe completare l'ambito dei poteri dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, che oltre a sanzionare politiche protezionistiche, dovrebbe introdurre regole generali in campo ambientale, con la forza di veri trattati, più che accordi tra Paesi volonterosi. Nei trattati che hanno costituito l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, occorrerebbe prevedere forme di sanzione per le politiche di dumping sociale. Ciò non eliminerebbe la concorrenza tra lavoratori, ma eviterebbe di trascinare verso il basso l'intero mercato internazionale della forza lavoro. Si tratta di condizioni importanti per la domanda effettiva, perché — se riuscissero — tenderebbero a far valere una regola aurea globalizzata e a rendere più stabile il ruolo pubblico. Certo, negli Stati che hanno raggiunto un compromesso con i capitalisti, è difficile imporre una regola avversa al dumping sociale che tutte le imprese — sia pure relativamente alla situazione di ciascuna economia — praticano e desiderano; ma poiché il dumping sociale si traduce in un dumping dei capitalisti, come accade quando la produzione si delocalizza e il capitale cambia di proprietà, allora il compromesso tra i capitalisti e lo Stato potrebbe reggere. Se una regolazione fosse ritenuta – finalmente! – necessaria, dovrebbe esprimersi nella nuova Bretton Woods aggiungendo, appunto, nuovi poteri effettivi all'Omc e all'Oil.

Il realismo di queste proposte è molto scarso, ma potrebbe rafforzarsi se si dovessero affacciare nuove circostanze negative per l'economia mondiale, che peraltro sarebbe troppo lungo e difficile identificare e analizzare compiutamente: mi accontento di elencare, tra queste, l'assenza di un motore internazionale della crescita, la divaricazione tra la dinamica degli indici finanziari e quella del prodotto mondiale, lo stesso conflitto tra capitalisti e, forse più importante, la permanenza e l'estremizzazione della cultura individualistica e proprietaria. D'altra parte, la domanda effettiva mondiale dipende più dalle politiche economiche dei Paesi emergenti che da quelle dei Paesi di vecchia industrializzazione, e poiché lo sviluppo sociale in quei Paesi è in corso, la loro responsabilità internazionale dovrebbe aumentare: forse l'ostacolo maggiore è ancora il ruolo del dollaro, moneta di una grande economia, ma ormai insufficiente per il mondo. Se fosse così, anche la riforma del sistema monetario internazionale apparirebbe possibile.

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