Copertina
Autore Lawrence Lessig
Titolo Remix
SottotitoloIl futuro del copyright (e delle nuove generazioni)
EdizioneEtas, Milano, 2009, Economia , pag. 275, cop.fle., dim. 14x21,5x1,6 cm , Isbn 978-88-453-1559-6
OriginaleRemix. Making Art and Commerce Thrive in the Hybrid Economy [2008]
TraduttoreMatteo Vegetti
LettoreDavide Allodi, 2010
Classe copyright-copyleft , diritto , informatica: politica , informatica: reti
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Indice


Prefazione all'edizione italiana,
di J.C. De Martin,
Creative Commons Italia                                  IX

Prefazione                                               XV

Introduzione                                            XXV


            PARTE PRIMA - Culture

Capitolo 1  Culture del nostro passato                    3

Capitolo 2  Culture del nostro futuro                    13

Capitolo 3  L'ampliamento della cultura RO               15

Capitolo 4  La resurrezione della cultura RW             29

Capitolo 5  Confronto fra culture                        57


            PARTE SECONDA - Economie

Capitolo 6  Due economie: commerciale e di condivisione  87

Capitolo 7  Economie ibride                             137

Capitolo 8  Lezioni di economia                         179


            PARTE TERZA - Aprire la strada al futuro

Capitolo 9  Riformare la legge                          205

Capitolo 10 Riformare noi stessi                        223


Conclusioni                                             235
Ringraziamenti                                          241
Note                                                    245
Indice analitico                                        267

 

 

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Pagina IX

Prefazione all'edizione italiana
di Juan Carlos De Martin



Quando nel novembre 2003 Lawrence Lessig venne a Torino per annunciare l'inizio ufficiale dei lavori sulla versione italiana delle licenze Creative Commons (da noi poi lanciate nel dicembre 2004), fece uno splendido discorso denunciando il ritorno del maccartismo in America. Faceva ovviamente riferimento a posizioni estremiste, per altro ben rappresentate anche in Italia e in Europa, relative al diritto d'autore, non certo alla politica del Senatore Joe McCarthy. Tali forze allora chiedevano con insistenza che il sistema del diritto d'autore rimanesse – nonostante il cambio epocale provocato dalle tecnologie digitali e da Internet – congelato nella struttura concepita dalle generazioni precedenti, con semmai ulteriori estensioni e ulteriori inasprimenti delle sanzioni.

Da allora, purtroppo, l'estremismo non solo non si è attenuato, ma si è anzi rafforzato. Il risultato è che, soprattutto in Italia, il dibattito è rimasto prigioniero di metafore violente, come "guerra", "pirateria", "nemici", "criminali", "ghigliottina", ovvero, di discorsi che, ormai da anni, non fanno che ripetersi tendenzialmente uguali a loro stessi, solo progressivamente sempre più incauti nel proporre soluzioni draconiane contro intere classi di cittadini.

Lessig ci dice che è ora di rigettare questo schema bellico e di reimpostare il confronto su nuove basi. Θ necessario farlo non solo per prenderci a cuore seriamente, come società, il futuro della cultura, ma anche, aggiungo io, di Internet stessa che rischia di diventare un "danno collaterale" della guerra insensata sui contenuti. Ricordiamo che Internet – "la più grande invenzione del secolo", secondo il Premio Nobel Rita Levi Montalcini – è certamente contenuti, ma anche molto altro: motore di sviluppo e di innovazione, piattaforma per creare nuove relazioni tra le persone (e presto, tra gli oggetti) e persino prezioso strumento per ridare vigore alle nostre affaticate democrazie.

Per molte persone il vero problema di Internet è la sua dirompenza. Una forza che obbliga a ripensare, a volte ripartendo da zero, categorie mentali, obiettivi, forme organizzative, abitudini e modelli di business spesso vecchi di decenni, se non di secoli. In passato ogni grande discontinuità tecnologica ha provocato simili ripensamenti, naturalmente; ma Internet rappresenta una discontinuità di magnitudo superiore rispetto a, per esempio, il telefono o la televisione. Θ probabilmente nella stessa categoria dell'invenzione della stampa con caratteri mobili di Gutenberg, che oltre cinque secoli fa ha cambiato la storia dell'Europa e del mondo. Θ per questo che stanno sorgendo in tutto il mondo, da Stanford a Harvard, da Torino a Bangalore, centri di ricerca multidisciplinari per studiare Internet, gruppi di ricercatori che cercano di capire in maniera indipendente e quantitativa i suoi limiti e le sue potenzialità.

Questo nuovo libro di Lawrence Lessig si rivolge a tutti coloro che vorrebbero comprendere meglio in che cosa consista la novità e la promessa di Internet, al di là degli slogan e dei titoli a effetto. Il lettore che aprirà Remix verrà condotto con garbo e lucidità in giro per la Rete che, nei sei anni dal discorso torinese sul maccartismo, si è ulteriormente arricchita e stratificata, producendo trionfi oggettivi come Wikipedia, l'enciclopedia online che ormai solo i superficiali possono considerare superficiale, il software libero, che fa girare i motori di buona parte del web (inclusi quelli di Google), i blog, che ci hanno fatto sentire, tra le altre cose, il dolore degli abitanti di New Orleans dopo l'uragano Katrina o quello dei giovani iraniani nell'estate del 2009, nonché numerosi altri progetti che stupiranno, per varietà e interesse, anche molti lettori pratici di web.

Ma Lessig con Remix offre molto di più di una guida, per quanto ragionata e ben documentata, alle novità più importanti del web di questi ultimi anni. Il fondatore di Creative Commons, infatti, ci spiega che cosa sta succedendo di strutturalmente nuovo sul web, quali siano i problemi da risolvere, quale prezzo stiamo pagando a causa della miopia fin qui dimostrata nel (non) risolverli e cosa avremmo da guadagnare, pensando soprattutto ai giovani, se dimostrassimo maggior lungimiranza nel dare forma al nostro presente e al nostro futuro.

Riguardo al primo punto, la comprensione di che cosa sta succedendo di nuovo, il lettore troverà che il concetto chiave è quello della condivisione. Θ un dato incontrovertibile, infatti, che Internet consente attività collaborative su una scala senza precedenti nella storia dell'umanità, permettendo di metter a fattor comune almeno parte di quei quattro miliardi di ore libere (il dato è di Yochai Benkler) che ogni giorno il miliardo di persone che vivono nelle economie avanzate hanno a disposizione. Insomma, il web non solo come straordinaria biblioteca universale (è anche quello), ma soprattutto come spazio collaborativo tra utenti. Sono soprattutto gli utenti, infatti, ad aver costruito, liberalmente e individualmente, i successi sopra menzionati, come Wikipedia e il software libero. Al punto che viene da pensare al web come abilitatore quasi ideale del celebre motto di Albert Camus: "solitaire, solidaire". Da questo punto di vista, il lettore di Remix potrà godere di una sintesi accessibile e penetrante non solo delle idee di Lessig stesso, ma anche dei principali risultati di studiosi del web di fama mondiale come Yochai Benkler, Don Tapscott, Henry Jenkins, Eric von Hippel e molti altri.

Il secondo elemento di novità – a cui Lessig dedica tutta la sezione centrale del libro nonché il sottotitolo della versione inglese, ovvero, "far prosperare arte e commercio nell'economia ibrida" – è l'affermarsi, grazie alle evoluzioni del web di questi ultimi anni, della cosiddetta economia "ibrida". L'economia "ibrida" mette insieme le due anime storiche del web, quella basata sulla condivisione, per la quale gli incentivi a produrre non sono monetari, e quella commerciale, basata sulla tradizionale attività economica dedita al profitto. Lessig ci accompagna a visitare i principali successi "ibridi" di questi ultimi anni per farci innanzitutto apprezzare che ci sono e che sono rilevanti (tra gli esempi, GNU/Linux, Amazon, Youtube e persino Microsoft!), e in secondo luogo per provare a estrarre alcune caratteristiche comuni, con l'obiettivo di offrire alcune linee guida per chi volesse proporre nuove soluzioni "ibride". Un elemento chiave delle soluzioni ibride è che dipendono da comunità: come costruirle e sostenerle nel tempo è una delle arti che vanno padroneggiate. Un secondo elemento chiave è che le attività ibride quasi sempre richiedono un cambiamento di prospettiva in merito al diritto d'autore. In particolare, è nell'interesse dei detentori dei diritti abbandonare l'automatismo del "tutti i diritti riservati", per invece chiedersi: "nello spettro che va dal pubblico dominio ai tutti i diritti riservati, dove mi conviene collocarmi per raggiungere i miei obiettivi?". Identificare tale punto non è sempre semplice, anche se Creative Commons, con la sua offerta di sei licenze standardizzate, sta facendo molto per facilitare l'orientamento.

In questo nuovo contesto, i problemi da risolvere sono quelli prodotti da una legge sul diritto d'autore che, pensata per il mondo degli oggetti fisici (libri, CD, DVD ecc.), in genere prodotti e distribuiti da industrie, è ora scossa alle fondamenta dalle tecnologie digitali e da Internet. La tecnologia, infatti, ha ampliato enormemente il numero di coloro che possono produrre, riusare e pubblicare contenuti, inclusi quelli realizzati coi media più ricchi, come l'audio e il video. La barriera all'ingresso, che era di natura prevalentemente economica (il costo di cineprese, registratori, della pellicola ecc.), è crollata, e di colpo la legge sul diritto d'autore, un complicato insieme di regole che una volta riguardava una ristretta cerchia di industrie e di avvocati, ha iniziato a toccare la vita quotidiana di milioni di persone. Come ha scritto Jessica Litman: "La maggior parte di noi non può più passare nemmeno un'ora senza collidere con la legge sul copyright". Il risultato è che mentre la tecnologia ci invita a produrre, a remixare, a diffondere, a sviluppare nuove forme di alfabetizzazione mediatica, la legge – ferma ai tempi in cui serviva prevalentemente a regolare rotative e impianti, non ragazzini davanti a un monitor – continua a dire, come regola automatica: "no".

Lessig, quindi, si chiede (e noi con lui): a che cosa serve il diritto d'autore? Perché le nostre società, mettendo in campo tutto il peso dell'apparato statale, hanno deciso di donare agli autori questa forma di monopolio temporaneo? (temporaneo si fa per dire, purtroppo: ormai il diritto d'autore, infatti, dura fino a settant'anni dopo la morte dell'autore). Con pacatezza ed equilibrio Lessig passa in rassegna i motivi originari, li incrocia con le novità portate da Internet e, pur ammettendo che tutto andrebbe onestamente ripensato dalle fondamenta, prova a identificare gli elementi essenziali per arrivare a un nuovo equilibrio, elementi in grado, se introdotti nell'ordinamento, sia di conservare il molto di positivo che il copyright può ancora offrire alle nostre società sia di abilitare lo straordinario potenziale culturale ed economico di Internet e delle tecnologie digitali.

A distanza di sei anni da quel discorso torinese sul maccartismo, temo che Larry Lessig sarebbe costretto ad ammettere che, almeno in alcune parti dell'Europa (penso soprattutto alla Francia, con le proposte di legge HADOPI e HADOPI-2), dal maccartismo siamo passati addirittura al Terrore: si prospettano, infatti, "ghigliottine" per recidere l'accesso a Internet a interi nuclei famigliari solo per sospetta violazione del diritto d'autore. Tutto ciò in un clima di criminalizzazione di un'intera generazione di giovani e giovanissimi che, ci mette in guardia Lessig, venendo trattati da "pirati" fin dalla più giovane età, rischiano di portarsi dietro anche da adulti un rapporto malato col concetto di legalità.

Con equilibrio, competenza, e passione per i valori fondamentali, Remix ci invita a deporre le armi, a disperdere i fumi dell'ideologia e a progettare insieme un futuro più equo e più fruttuoso per tutti. Θ possibile farlo. Anzi: si sa già come fare, basta volerlo. Si pensi, tra le altre, alle molte proposte per liberalizzare la condivisione di file garantendo al contempo un giusto compenso agli autori. E qui l'invito alla politica non porrebbe risuonare più chiaro. Come ha detto di recente la Commissaria europea Viviane Reding: "Abbiamo considerato tutte le opzioni alternative alla repressione? Abbiamo davvero considerato la questione con gli occhi di un sedicenne? O solo dal punto di vista di professori di legge cresciuti nell'Era di Gutenberg?".

Torino, 20 luglio 2009

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Pagina XXXVIII

Se vi chiedessi di chiudere gli occhi e pensare alle "guerre del copyright", probabilmente non pensereste ad artisti o a creatori come questi. Nelle "guerre del copyright", la condivisione di file peer-to-peer rappresenta il nemico. I ragazzi che "rubano" cose attraverso un computer sono il bersaglio da colpire. Questa guerra non riguarda nuove forme di creatività, non riguarda gli artisti che creano nuove opere d'arte. Il legislatore non si è mosso per criminalizzare Giri Talk.

Ogni guerra, però, ha i suoi danni collaterali. Questi creatori rappresentano solo uno dei danni collaterali di questa guerra. La legge sul diritto d'autore è diventata una normativa estremista che rende difficile, e a volte impossibile, un'ampia gamma di attività creative a cui qualunque società libera – basta pensarci anche solo per un secondo – permetterebbe di esistere, dal punto di vista legale. In uno stato di guerra, però, non possiamo essere lassisti. Non possiamo perdonare infrazioni che in un altro periodo, magari, nessuno noterebbe neppure. Pensate a una "nonna ottantenne maltrattata dagli agenti della Transportation Security Administration" e vi farete un'idea anche di quest'altra guerra.

I danni collaterali rappresentano il tema centrale di questo libro. Voglio porre in evidenza le cose che nessuno, in realtà, vuole eliminare: le cose più interessanti, le cose migliori fra quelle che possono esistere grazie a queste nuove tecnologie. Se la guerra finisse domani, quali forme di creatività potremmo aspettarci? Quali belle cose potremmo fare, e incoraggiare, e sfruttare per imparare qualcosa di nuovo?

Pertanto, voglio porre in evidenza il danno su cui non stiamo riflettendo abbastanza: il male che stiamo facendo a un'intera generazione classificando come un crimine un'attività che essa compie con la massima spontaneità. Quale impatto ha sui suoi esponenti? E che cosa faranno a noi, in un futuro?

Risponderò a queste domande tracciando una mappa dell'evoluzione di quelle che potremmo chiamare "culture della creatività". Tale mappa parte dalla fine del secolo scorso. Θ costellata di timori, sorti proprio allora, riguardo a ciò che la nostra cultura stava diventando. Per la maggior parte, quei timori si sono rivelati fondati. Tuttavia ci aiutano a capire perché gran parte di ciò che apparentemente temiamo al giorno d'oggi non è affatto qualcosa di cui aver paura. Stiamo assistendo al ritorno di qualcosa che eravamo prima. Dovremmo festeggiare questo ritorno, nonché la prosperità che promette di generare. Dovremmo usarlo come motivo per riformare le norme che trasformano in un atto criminale gran parte di ciò che i nostri figli fanno al computer. Soprattutto, dovremmo apprendere qualcosa da esso, riguardo a noi e alla natura della creatività.

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Pagina 29

Capitolo 4
Le resurrezione della cultura RW



Una delle mie amicizie più intime (nonché più complicate), al college, fu con un ragazzo diplomato in Letteratura inglese. Era anche un ottimo scrittore. In tutti i corsi nei quali saper scrivere era il fattore decisivo ai fini del risultato, non c'era nessuno che lo battesse. Negli altri, beh, le cose andavano in tutt'altro modo.

Ben scriveva con uno stile particolare. Se si fosse trattato di musica, l'avremmo definito sampling (o campionatura). Se si fosse trattato di pittura, sarebbe stato etichettato come collage. Se si fosse trattato del digitale, l'avremmo chiamato remix. Ogni paragrafo veniva costruito a partire da una serie di citazioni. Poteva trattarsi di un saggio su Hemingway o Proust, in ogni caso, Ben sviluppava la sua tesi accorpando citazioni tratte dagli autori di cui stava parlando. Erano le loro parole a costituire la sua tesi.

Il suo approccio, peraltro, veniva premiato. Effettivamente, all'interno dei circoli per i quali scriveva quei testi, il talento e l'attenzione che si evincevano dal suo stile confermavano la sua capacità di comprensione. Ben non otteneva buoni risultati limitandosi a mettere in fila una serie di citazioni. Li otteneva in quanto la rilevanza delle citazioni, nel contesto di turno, dimostrava punti che le sue parole, da sole, non avrebbero mai potuto dimostrare. Le scelte che operava, inoltre, evidenziavano un bagaglio intellettuale che andava al di là del messaggio comunicato dal testo. Solo il lettore più attento sarebbe stato in grado di costruire, a partire dai testi letti, un altro testo che li spiegasse efficacemente. Lo stile di scrittura di Ben dimostrava che era un lettore incredibilmente attento. La sua capacità di leggere con enorme attenzione lo rendeva un ottimo scrittore.

Lo stile usato da Ben non viene premiato soltanto nei seminari di Letteratura inglese. Rappresenta l'essenza della scrittura di qualità nel campo della giurisprudenza. Un ottimo atto legale, in genere, non dice nulla in via autonoma. Tutto è tratto da casi che si sono verificati in precedenza e viene presentato come se la tesi esposta nella sede attuale in realtà non rappresentasse nulla di nuovo. Anche in questo caso, si usano parole altrui per dimostrare punti che gli altri non hanno espresso direttamente. I casi passati vengono "remixati". L'idea è che il remix aggiunga qualcosa di nuovo (tant'è che oggi Ben fa l'avvocato).

In entrambi i casi, ovviamente, ci vogliono delle citazioni. Ma il fatto di essere citati rappresenta invariabilmente un "pagamento" sufficiente per gli autori originali. E nessuna delle persone che si guadagnano da vivere scrivendo crede davvero che vada richiesto alcun permesso al di là di quel semplice pagamento. Se Ben avesse scritto agli eredi di Ernest Hemingway per chiedere loro l'autorizzazione a inserire una citazione da Per chi suona la campana nei suoi saggi universitari, i loro avvocati sarebbero stati più che altro infastiditi. Quale folle, si sarebbero chiesti, pensa che ci sia bisogno di un'autorizzazione per inserire una citazione in un saggio?

Questa, dunque, è la domanda su cui voglio che incentriate l'attenzione nell'avvio di questo capitolo: perché è "folle" pensare che ci sia bisogno di un'autorizzazione per riprendere delle citazioni? Perché dovremmo sentirci "infuriati" se la legge ci obbligasse a chiedere il permesso ad Al Gore qualora volessimo inserire una citazione dal suo libro L'assalto alla ragione in un saggio? Perché gli autori si infastidiscono (invece di sentirsi onorati) se uno studente delle superiori li chiama per ottenere l'autorizzazione a usare una loro citazione?

Io suggerisco che la risposta abbia molto a che vedere con la "natura" della scrittura. La scrittura, nel senso tradizionale riferito a una serie di parole messe nero su bianco, rappresenta la forma più pura di "creatività democratica"; ove, nuovamente, "democratica" non si riferisce a un voto popolare, ma piuttosto significa che tutti gli esponenti di una società hanno accesso ai mezzi necessari per scrivere. Noi insegniamo a tutti quanti a scrivere, perlomeno in teoria se non in pratica. Siamo consapevoli che l'utilizzo di citazioni rappresenta una componente essenziale di tale scrittura. Sarebbe impossibile svolgere e promuovere questa attività se ci volesse un'autorizzazione per ogni citazione. La libertà di citare, nonché di sviluppare, le parole altrui viene data per scontata da chiunque scriva un testo. In altri termini, la libertà che Ben dava per scontata è perfettamente naturale in un mondo nel quale la scrittura è aperta a tutti.


LA SCRITTURA AL DI LA DELLE PAROLE

Le parole, ovviamente, non sono l'unica forma di espressione che possa essere remixata come faceva Ben. Se possiamo riprendere un passo di Per chi suona la campana di Hemingway in un saggio, possiamo riprendere una scena dal film tratto dal romanzo e diretto da Sam Wood all'interno di un altro film. Oppure, se possiamo riprendere una parte del testo di una canzone di Bob Dylan in un articolo dedicato alla guerra del Vietnam, possiamo inserire parte di una ripresa in cui Bob Dylan canta quei versi in un video riferito a tale conflitto. L'atto è lo stesso; solo la fonte è diversa. E anche i fattori da considerare per stabilire la legalità dell'atto potrebbero essere gli stessi: si tratta davvero di una citazione e nulla più? La sua paternità viene esplicitata correttamente? E così via.

Eppure, per quanto tali atti di citazione possano essere simili, le norme che li governano oggigiorno sono molto diverse. Benché non abbia ancora trovato nessuno capace di spiegare il perché, qualunque avvocato competente di Hollywood spiegherebbe che esiste una differenza fondamentale tra il fatto di riprendere una citazione da Hemingway e quello di citare la versione di Hemingway diretta da Sam Wood per il grande schermo. Lo stesso vale per la musica: in un caso seguito da quello che potremmo considerare uno dei peggiori giudici federali statunitensi del XX secolo, Kevin Thomas Duffy, la corte sanzionò "severamente" alcuni artisti rap che avevano campionato un'altra registrazione musicale. Scrisse il giudice:

"Non rubare" è un ammonimento che abbiamo seguito fin dagli albori della civiltà. Sfortunatamente, nel mondo del business moderno tale ammonimento non viene seguito sempre. In effetti gli imputati coinvolti in quest'azione legale contro una possibile violazione del diritto d'autore vorrebbero far credere a questa corte che il furto sia un'attività dilagante nel settore musicale e che, per tale motivo, la condotta esaminata in questa sede debba essere giustificata. La condotta degli imputati in questa sede, però, viola non solo il Settimo Comandamento, ma anche le leggi di questo paese sul diritto d'autore.

Che siano giustificate o meno, le norme che governano tali forme di espressione sono molto più restrittive di quelle che regolano la parola scritta. E non ammettono alcuna delle libertà che qualunque scrittore dà per scontate quando scrive un saggio universitario, o persino un articolo per il New Yorker.

Perché?

Rispondere esaustivamente a questa domanda va al di là dei miei obiettivi, e pertanto dei nostri, in questa sede. Tuttavia possiamo fare un primo passo. Esistono differenze evidenti fra queste forme di espressione. La più rilevante, ai fini della nostra argomentazione, è quella relativa al grado di democrazia, dal punto di vista storico, di tali forme di "scrittura". Mentre la scrittura testuale è una cosa che viene insegnata a tutti, la realizzazione dei film e quella dei dischi fu, per gran parte del XX secolo, appannaggio dei professionisti. Ciò implicò che fosse più facile immaginare un regime che obbligava a chiedere il permesso per trarre citazioni dai film e dalla musica. Tale regime era quanto meno praticabile, benché inefficiente.

Che cosa succede, però, quando la "scrittura" attraverso la pellicola (o la musica, o le immagini, o qualunque altra forma di "discorso professionale" nato nel XX secolo) diventa altrettanto democratica quanto la scrittura testuale? Come mi ha spiegato Don Joyce dei Negativland, che cosa accade quando la tecnologia "democratizza la tecnica, l'atteggiamento e il metodo [creativo] in un modo mai sperimentato in precedenza [...] In termini di collage, [che cosa accade quando] chiunque, adesso, può essere un'artista"?

Quali norme (e successivamente leggi) governeranno questo tipo di creatività? Θ opportuno che le norme che tutti diamo per scontate in relazione alla scrittura vengano applicate ai video? E alla musica? Oppure è il caso che le norme relative ai film vengano applicate ai testi? In altri termini: è opportuno che le norme che obbligano a "chiedere l'autorizzazione" vengano estese dai film e dalla musica ai testi? Oppure che le norme che consentono di "citare liberamente, esplicitando la fonte" vengano estese dai testi alla musica e ai film?

A questo punto, alcuni dissentiranno dal modo in cui ho delineato le alternative. Insisteranno sul fatto che la distinzione non è fra i testi da una parte e film/musica/immagini dall'altra, ma, piuttosto, sarebbe fra rappresentazione commerciale o pubblica di testi/film/musica/immagini da un lato, e utilizzo privato o non commerciale di testi/film/musica/immagini dall'altro. Nessuno si aspetta che il mio amico Ben chieda agli eredi di Hemingway l'autorizzazione a riportare una sua citazione in un saggio universitario, perché nessuno ha intenzione di pubblicare (almeno per il momento) i saggi scritti da Ben all'università. E allo stesso tempo nessuno si aspetterebbe che Disney, ad esempio, se la prendesse se un padre prelevasse una clip da Superman e la inserisse in un suo video fatto in casa, oppure se alcuni bambini dipingessero Topolino sui muri di un asilo.

Eppure, per quanto tale distinzione possa sembrare sensata, in realtà non è così che le regole vengono applicate attualmente. Come ho già detto, la libertà di cui gode Ben nei confronti del testo è la stessa sia che si tratti di un saggio universitario o di un articolo pubblicato sul New Yorker (tranne, forse, se parla di poesia). E in realtà, Disney ha protestato per il fatto che alcuni bambini hanno dipinto Topolino sui muri di un asilo. Nell'ambito di un evento organizzato da J.D. Lasica (un esperto di social media e nuove tecnologie, n.d.r.), tutte le major hollywoodiane (tranne una) hanno sostenuto con insistenza che un padre non ha il diritto di inserire una scena tratta da un grande film in un video fatto in casa – anche se tale video non viene mai mostrato a nessuno oltre che ai familiari – senza pagare migliaia di dollari per essere autorizzato a farlo.

Per quanto sensata, la libertà di riprendere delle citazioni non è universale nella sfera non commerciale. Anzi, quelli che indossano abiti da svariate migliaia di euro sostengono di solito con insistenza che "l'autorizzazione è indispensabile, dal punto di vista legale".

Allo stesso tempo, non credo che la libertà di riprendere delle citazioni debba essere estesa universalmente solo all'interno della sfera non commerciale. Dal mio punto di vista, dovrebbe andare ben oltre. Prima che possa sperare di dimostrare efficacemente tale tesi normativa, però, dovremmo riflettere più attentamente sui motivi per cui tale diritto di riprendere citazioni – oppure, come lo chiamerò da ora in poi, di remixare – rappresenta un'espressione cruciale di una libertà creativa che, in un'ampia gamma di contesti, nessuna società libera dovrebbe limitare.

Il remix è un atto essenziale di creatività RW. Θ l'espressione di una libertà di prendere "le canzoni del momento o quelle d'altri tempi" e di usarle per creare. Nell'epoca di Sousa, la creatività era una performance. La selezione e l'arrangiamento dei brani esprimevano l'abilità creativa dei cantanti. Nella nostra epoca, la creatività va ben oltre la sola performance. In entrambi i contesti, però, il punto fondamentale di cui prendere atto è che la creatività RW non fa concorrenza al mercato delle opere creative che vengono remixate, né lo indebolisce. Questi due mercati si complementano, non si fanno concorrenza.

Di per sé, ovviamente, ciò non dimostra che entrambi i mercati non debbano essere regolamentati (ovvero, governati dalle norme relative al diritto d'autore). Come vedremo nella prossima parte di questo libro, tuttavia, esistono ragioni importanti per cui sarebbe opportuno che limitassimo la regolamentazione delle copie ai contesti in cui è più probabile che la creatività RW fiorisca maggiormente. Tali ragioni non sono basate soltanto sul profitto di un settore, per quanto rilevante; piuttosto, sono basate sulla capacità di parola di un'intera generazione.

Prenderò le mosse da una forma di cultura RW più vicina alla nostra tradizione, associata al remix dei testi. Su tale base, passerò alle forme più significative di remix che stanno emergendo attualmente. Il mio fine ultimo è accorpare tutte queste forme per porre in evidenza un tipo di "discorso" che apparirà naturale e familiare. Nonché un tipo di libertà che sembrerà inevitabile.

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Capitolo 5
Confronto fra culture



Nei capitoli precedenti ho descritto due culture e due tipi di creatività. Una (RO) è alimentata da professionisti. L'altra (RW) è alimentata tanto da professionisti quanto da dilettanti. Entrambe hanno avuto un ruolo fondamentale in vista dello sviluppo della cultura. Entrambe si diffonderanno grazie alla maturazione delle tecnologie digitali. Sebbene sia convinto che entrambe cresceranno nell'era digitale, però, bisogna sottolineare che esistono ancora differenze significative tra le due. In questo breve intermezzo rifletteremo su alcune di esse. Poi, prima di occuparci di quello che probabilmente rappresenta lo sviluppo più interessante, prenderemo in considerazione alcuni insegnamenti che possiamo trarre dalla comprensione di queste due culture.


DIFFERENZE IN TERMINI DI VALORE E "VALORI"

Queste due culture incarnano valori diversi.

La cultura RO ci parla di professionalità. I suoi emblemi esigono un certo rispetto. Si propongono come delle autorità. Insegnano, ma non ponendo domande. Oppure, se lo fanno, le indirizzano a qualcuno diverso dall'oratore. O all'esecutore. O al creatore.

Questa forma di cultura riveste un'importanza cruciale, tanto ai fini della diffusione della cultura quanto a quelli della diffusione della conoscenza. Vi sono luoghi in cui deve esserci un'autorità: nessuno vorrebbe mai che le leggi parlamentari fossero pubblicate su un wiki. Lo stesso vale per le istruzioni di utilizzo dei farmaci. O per il piano di volo di una compagnia aerea commerciale.

La cultura RO, inoltre, ha un ruolo fondamentale in vista dello sviluppo delle arti. La capacità di incanalare i proventi commerciali ricavati dalla musica o dai film ha dato l'opportunità di creare a molte persone che altrimenti non avrebbero potuto farlo. Θ questa la funzione appropriata della legge sul diritto d'autore, nonché l'unico buon motivo affinché essa esista. Ove riusciamo a vedere chiaramente che la creatività sarebbe ostacolata dall'assenza di questo privilegio speciale, il privilegio appare sensato.

Infine, tale cultura rende possibile un'integrità espressiva che, perlomeno per alcuni, è cruciale. Gli artisti vogliono che la loro espressione sia contestualizzata esattamente come desiderano. La cultura RO dà loro tale libertà. I medici e le aziende farmaceutiche vogliono assicurarsi che le istruzioni dei farmaci o le spiegazioni mediche non vengano tradotte da una persona qualunque. In questi ambiti il controllo è importante, e non è affatto malevolo. Anche in questo caso, ove ci fornisca qualcosa che altrimenti non avremmo – l'espressione artistica o la garanzia della qualità – il controllo può essere opportuno.

La cultura RW si estende in modo diverso. Incide sulla vita sociale in modo diverso. Dà al pubblico qualcosa in più. O meglio, chiede al pubblico qualcosa in più. Viene offerta come se fosse una "bozza". Invita a una risposta. In una cultura in cui ciò accade, i cittadini sviluppano un tipo di conoscenza che conferisce potere tanto quanto informa o intrattiene.

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Capitolo 7
Economie ibride



Le economie commerciali creano valore basandosi sui soldi. Le economie di condivisione creano valore ignorando i soldi. Entrambe hanno un ruolo cruciale nella nostra vita, tanto online quanto offline. Entrambe prospereranno maggiormente a mano a mano che la tecnologia Internet si svilupperà.

Fra queste due economie, però, ve n'è una terza sempre più importante, che è basata tanto sull'economia di condivisione quanto su quella commerciale e dà un valore aggiunto a entrambe. Questa terza tipologia – l'ibrido – dominerà l'architettura del commercio sul web. Inoltre cambierà radicalmente le modalità di funzionamento delle economie di condivisione.

L'ibrido è un'entità commerciale che mira a sfruttare il valore creato da un'economia di condivisione, oppure un'economia di condivisione che dà vita a un'entità commerciale per agevolare il raggiungimento dei propri obiettivi di condivisione. In entrambi i casi l'ibrido crea un legame fra due economie più semplici, o più pure, e produce qualcosa a partire da tale legame.

Questo legame, però, dura nel tempo solo se viene preservata la distinzione fra le due economie. Se le persone che operano nell'ambito dell'economia di condivisione iniziano a considerarsi strumenti di un'economia commerciale, saranno meno disposte a partecipare. Se quelle che operano all'interno di un'economia commerciale iniziano a considerarla un'economia di condivisione, può essere che attenuino il loro focus sulla ricompensa economica. Mantenere una distinzione concettuale è fondamentale per far sì che il valore dell'ibrido sia sostenibile. Come preservarla, tuttavia, non è una questione che si possa spiegare in astratto.

Internet rappresenta l'era dell'ibrido. Tutte le imprese interessanti del settore Internet sono già, o stanno diventando, un ibrido. Le ragioni non sono difficili da cogliere. Come spiega Yochai Benkler:

Quel miliardo di persone che appartiene alle economie avanzate può avere fra 2 e 6 miliardi di ore libere in totale ogni giorno. Per mettere a frutto tutti questi miliardi di ore, ci vorrebbe l'intera forza lavoro dei circa 340.000 lavoratori impiegati dall'intera industria cinematografica e discografica negli Stati Uniti, supponendo che ciascuno lavori 40 ore alla settimana senza prendere neppure un giorno di ferie, per un periodo compreso fra tre e otto anni e mezzo!

Se le economie di condivisione promettono di creare valore, è l'eco- nomia commerciale ad avere la vocazione giusta per sfruttarlo. Come le persone che operano all'interno dell'economia commerciale stan- no arrivando a notare, però, non si può sfruttare il valore scaturito da un'economia di condivisione attraverso un'acquisizione ostile o sem- plicemente comprando gli asset. Bisogna mantenere contento chi partecipa all'economia di condivisione, e per gli stessi motivi che lo rendevano tale in precedenza, perché anche in questo caso money can't buy you love – "i soldi non possono comprarti l'amore" – anche se l'amore può farti guadagnare un sacco di soldi. Detto ciò, vi sono alcune differenze fra questi ibridi. Nel presente capitolo spero prima di tutto di mascherare a sufficienza tali differen- ze da far emergere un modello comune. Successivamente sposterò il focus sulle differenze al fine di imparare qualcosa in più su come e perché alcuni ibridi abbiano successo laddove altri falliscono. Come Wikipedia fra le economie sociali, anche in quest'ambito esiste un caso paradigmatico. Questo è il tema rispetto a cui tutto il resto rappresenta una variazione. Prenderò le mosse da questo tema, dopodiché mi occuperò delle variazioni che stanno emergendo.


IL CASO PARADIGMATICO: IL FREE SOFTWARE

Nei primi anni Novanta Robert Young operava nel campo del leasing dei computer. Per attirare nuovi clienti, realizzava una newsletter chiamata New York Unix. Essa trattava qualunque tema a cui i suoi (potenziali) clienti potessero essere interessati. Pertanto Young era ansioso di capire esattamente di quali temi si trattasse. "Chiedevo a tutti i membri dei gruppi di utenti, 'Su quale argomento volete informarvi, fra quelli che non vengono già trattati dalle principali pubblicazioni dedicate ai computer?'. L'unica cosa che avevano in mente, all'epoca, era il free software".

Così, Young decise di approfondire il tema. Prese un treno diretto a Boston per riunirsi con Richard Stallman e "chiedergli da dove venisse quella roba". Fu sbalordito da ciò che scoprì. "[Stallman] diceva cose [del tipo] 'dagli ingegneri secondo le loro competenze agli ingegneri secondo i loro bisogni'."

"Io sono un capitalista" ricorda di aver pensato Young "e il muro di Berlino era appena caduto. Pensai, non sono certo che si continui a usare questo modello". Young decise di dimenticarsi del free software. "Dato che non c'era alcun sostegno economico [per questa] roba del free software" era convinto che "fosse un fenomeno passeggero". Pensava che "Le cose non avrebbero fatto che peggiorare, con l'andar del tempo, dato che il sistema comunista non ha mai fatto altro che peggiorare con l'andar del tempo".

Eppure Young notò rapidamente che, come molti di quelli ipotizzati da Marx, il suo parallelismo storico non funzionava. Il sistema del free software non peggiorò: "Nel corso dei 24 mesi in cui lo tenni d'occhio, continuò a migliorare. Il kernel migliorò. Uscirono più driver fatti apposta. Più persone iniziarono a usarlo".

Questo sviluppo inaspettato lo spinse a parlare con alcuni degli utenti più affezionati al free software per capire le ragioni per cui quel sistema aveva così successo. Uno dei soggetti che consultò era Thomas Sterling, che lavorava presso il Goddard Space Flight Center alla periferia di Washington. Durante il loro colloquio colse per la prima volta l'ampia gamma di motivi di tale successo. Uno dei dipendenti di Sterling, Don Becker, stava sviluppando dei driver Ethernet di cui offriva la licenza di utilizzo a titolo gratuito. Becker pensava che il free software fosse una forma di "altruismo" e si considerava parte dell'"economia dell'altruismo". Sterling, invece, vedeva la cosa in modo diverso. Come mi ha raccontato Young rievocando la loro conversazione: "Sterling disse: 'Beh, sì, a Don piace pensarla così. Ma la realtà è che sta sviluppando questi driver durante le sue ore lavorative presso il Goddard, e sono io a firmargli la busta paga'". Dal suo punto di vista, era semplicissimo: l'attività faceva parte di un'economia basata sul baratto. "Lui stava cedendo gratuitamente qualcosa di valore relativamente basso e ricevendo in cambio qualcosa di valore molto più alto."

Young è un pragmatico. Nutre scetticismo verso le ricostruzioni dei fatti basate sull'intervento di uno spirito misterioso. Il free software, mi ha detto, non scaturì da una "community". "Per quanto mi riguarda, le community non esistono. Si tratta semplicemente di un drappello di persone che hanno un interesse in comune." Quel "drappello di persone" equivaleva all'"intera gamma dell'umanità". Tuttavia, aveva una cosa in comune: "un desiderio di veder sfondare il software open-source". E quel desiderio spinse i membri del "drappello" ad accettare l'idea che un'entità commerciale sfruttasse quell'economia di condivisione.

Quando Young si convinse che il free software non era solo una moda passeggera e, soprattutto, che il suo successo non dipendeva da un'eventuale risurrezione di Lenin, iniziò a cercare un modo per creare un giro d'affari incentrato su Linux. "Stavo cercando un prodotto perché sapevo che, dato l'aumento dell'interesse nei confronti di Linux, esso sarebbe finito nei negozi della catena CompUSA [...] Non volevo CompUSA come concorrente. Avrei preferito averla come cliente. Dunque cercavo di prodotti sui quali potessi ottenere l'esclusiva."

Young trovò un socio, un giovane imprenditore di nome Marc Ewing. Ewing stava sviluppando da qualche tempo un'applicazione da eseguire in ambiente Linux. Dopo mesi di frustrazioni, però, era giunto alla conclusione che ciò di cui il mondo aveva realmente bisogno era una versione migliore di Linux. Pertanto aveva iniziato a sviluppare quella versione migliore, che alla fine avrebbe chiamato Red Hat Linux. Young sentì parlare del software di Ewing e lo contattò. Si offri di acquistare una fornitura della sua versione beta per 90 giorni, all'incirca 300 copie. "Calò un silenzio spettrale all'altro capo del telefono," mi ha raccontato Young. "Alla fine riuscii a far confessare a Marc che in effetti aveva pensato di produrre soltanto 300 copie." Così nacque Red Hat, un esempio paradigmatico di ciò che chiamo "l'ibrido".

Il successo di Red Hat, perlomeno secondo Young, scaturì da una strategia che appare talmente ovvia, col senno di poi, da far sembrare incredibile che un maggior numero di persone non ci abbia provato: ovvero il fatto che quest'azienda specializzata nel free software abbia reso il proprio software open-source. Altri distributori di Linux cercarono di fondere alcune componenti open-source con componenti proprietarie. Questa fu, ad esempio, la strategia di Caldera. Young, però, capì che l'unico modo in cui la sua azienda avrebbe potuto competere con Microsoft o Sun Microsystems sarebbe stato dare ai suoi clienti qualcosa in più di ciò che le due rivali potevano dar loro, cioè l'accesso totale al codice.

Young se ne rese conto molto presto. Mi ha raccontato di un colloquio che ebbe con alcuni ingegneri di Southwestern Bell durante una conferenza tenuta presso la Duke University. Rimase sorpreso quando gli dissero che stavano usando Linux per far funzionare la centrale di commutazione principale dell'azienda. Chiese loro il motivo. La risposta fu piuttosto illuminante:

Il nostro problema è che non abbiamo scelta. Se usiamo Sun OS o NT e qualcosa va storto, dobbiamo aspettare mesi e mesi prima che Sun o Microsoft si facciano vive per risolvere il problema. Se usiamo Linux, possiamo farlo da soli se è davvero urgente. Così possiamo risolverlo in base ai nostri tempi, non ai tempi di questo o quel fornitore.

Il punto chiave sarebbe stato vendere "benefici", non "funzionalità". E in quel caso il beneficio era un tipo di accesso che nessun'altra azienda leader nel settore del software poteva offrire.

Red Hat, dunque, è un "ibrido". Young non se ne occupava per rendere il mondo un posto migliore, benché, conoscendolo, so che è ben contento di farlo. Se ne occupava per i soldi. L'unico modo in cui Red Hat avrebbe potuto sfondare, però, sarebbe stato assicurarsi che migliaia di persone continuassero a contribuire – gratuitamente – allo sviluppo del sistema operativo GNU/Linux. Young e la sua azienda avrebbero sfruttato il valore scaturito da quel sistema. Tuttavia, avrebbero avuto successo solo se le persone che stavano contribuendo volontariamente allo sviluppo del codice di base avessero continuato a farlo.

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Capitolo 9
Riformare la legge



La legge sul copyright regola la cultura occidentale. La legge sul copy- right dev'essere cambiata. Cambiata, non abolita. Personalmente respingo l'appello di molti (dei miei amici), che in pratica chiedono di eliminare il diritto d'autore. Né la cultura RW né quella RO possono prosperare per davvero senza il diritto d'autore. Ma la forma e il raggio d'azione della legge sul copyright, oggi, sono radicalmente obsolete. Θ ora che il legislatore avvii una seria riflessione per capire come si possa traghettare questo enorme, nonché enormemente inefficiente, sistema normativo nel XXI secolo.

Fornire un piano esaustivo di questo tipo esula dagli scopi che mi prefiggo in questo volume. Piuttosto, in questo capitolo delineerò cinque modifiche che, qualora fossero apportate alla legge, migliorerebbero radicalmente il suo rapporto con la creatività RW, il che a sua volta migliorerebbe significativamente le prospettive di mercato per gli ibridi. Nessuna di esse metterebbe a rischio un solo centesimo del mercato attuale delle opere creative che, oggigiorno, vengono difese così strenuamente dall'industria dei contenuti. Se venissero apportate tutte e cinque darebbero un contributo notevole una maggiore realizzazione delle potenzialità creative delle tecnologie digitali.


1. DEREGOLAMENTARE LA CREATIVITΐ AMATORIALE

Il primo cambiamento è il più ovvio: dobbiamo dotarci di una legge sul copyright che lasci la "creatività amatoriale" libera da qualunque regolamentazione. Oppure, in altri termini, dobbiamo resuscitare quella specie di indignazione che Sousa provava all'idea che la legge regolasse l'equivalente dei "giovani intenti a cantare le canzoni del momento o quelle d'altri tempi". Questo è il nostro passato; un passato che incoraggiò un'ampia gamma di creatività RW. E anche se il XX secolo ci ha cullato fino a indurci in uno stato di torpore da pantofolai, nulla può giustificare che permettiamo a tale torpore di ratificare il cambiamento radicale che la legge, nel contesto delle tecnologie digitali, ha ormai determinato: cioè la regolamentazione della cultura amatoriale.

Si potrebbe evitare tale regolamentazione, semplicemente esentando gli utilizzi "non commerciali" dal raggio d'azione dei diritti conferiti dal copyright. Indubbiamente è difficile tracciare questa linea di demarcazione. Tuttavia la legge l'ha già tracciata in molti contesti diversi legati al diritto d'autore. Otto articoli del Copyright Act distinguono esplicitamente i loro campi di applicazione sulla base della differenza fra utilizzo commerciale e non commerciale [e la distinzione è presente per analoghe situazioni anche nella legge italiana sul diritto d'autore, n.d.r.]. In aggiunta a ciò, si potrebbe sviluppare una giurisprudenza che contribuisca a distinguere i diversi utilizzi.

Bisognerebbe esentare in tal modo quantomeno il remix non commerciale, o amatoriale. Considerate, ad esempio, la seguente tabella:

                     |   "Copie"      |   Remix
    —————————————————|————————————————|————————————————
    Professionisti   |   ©            |   ©/gratuito
                     |                |
    Dilettanti       |   ©/gratuito   |   gratuito
    —————————————————|————————————————|————————————————

Le righe riflettono la distinzione fra creatività professionale e amatoriale. Il video della figlia di un anno e mezzo di Stephanie Lenz, pubblicato su YouTube, è creatività amatoriale; il remix del White Album dei Beatles e del Black Album di Jay-Z da parte di DJ Danger Mouse è creatività professionale. Le colonne riguardano la distinzione fra il remix e il non-remix, ovvero quelle che definisco "copie".

In questa sede, il termine "remix" indica un atto trasformativo. Il termine "copie" evidenzia un'attività che non mira a cambiare l'opera originale, ma semplicemente a renderla più accessibile.

Grazie a questa matrice, dunque, possiamo rilevare almeno un caso inequivocabile di un tipo di cultura che andrebbe deregolamentata: il remix amatoriale. Non c'è alcuna ragione convincente per cui la legge sul copyright debba regolamentare tale creatività. Ci sono molte ragioni – sia economiche sia creative – per cui essa debba lasciare libera quest'area. Come minimo, il Congresso dovrebbe esentare tale categoria di lavoro creativo dalla necessità di farsi concedere i diritti per poter creare.

Le copie delle opere professionali, invece, dovrebbero continuare a essere regolate nel modo tradizionale. Il diritto a distribuirle, in base a questo modello, potrebbe restare soggetto al controllo esclusivo di chi detiene i diritti d'autore.

Il remix professionale e la distribuzione amatoriale sono due casi più complicati. I professionisti dovrebbero godere di un'ampia fetta di libertà nelle attività di remix delle opere coperte da diritti d'autore e non c'è ragione di preoccuparsi più di tanto per la distribuzione amatoriale o non commerciale delle opere creative, perlomeno se si adotta il piano retributivo che descriverò a breve. Anche tali categorie, dunque, potrebbero essere parzialmente liberalizzate. Nessuna delle due, però, dovrebbe essere deregolamentata tanto quanto dovrebbe esserlo il remix amatoriale.

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4. DECRIMINALIZZARE LA COPIA

La quarta modifica è probabilmente la più strana ma forse, in ultima analisi, anche la più importante. La legge sul copyright deve abbandonare la sua ossessione nei confronti della "copia". Non dovrebbe regolamentare le "copie", o le "riproduzioni moderne" di per sé. Piuttosto, dovrebbe regolare gli utilizzi – come la distribuzione pubblica delle copie di opere coperte da diritto d'autore – direttamente correlati agli incentivi economici che in teoria avrebbe dovuto promuovere.

Ai più, l'idea che la legge sul copyright debba regolare qualcosa di diverso dalle copie sembra assurda. Come potremmo avere una legge sul copyright (letteralmente diritto di copia) se essa non regolasse le "copie"? In realtà, però, per la maggior parte della storia americana la legge sul copyright non è servita a questo. Dal 1790 al 1909 disciplinò i diversi utilizzi direttamente correlati, o probabilmente correlati, allo sfruttamento commerciale delle opere creative. Ad esempio la "pubblicazione" e la "ripubblicazione" dei libri, nonché la "vendita" dei libri, tutte attività di natura generalmente commerciale.

Nel 1909 essa fu modificata affinché facesse riferimento alle "copie". Eppure, come già spiegato, neppure tale modifica aveva l'intento di ampliarne il raggio d'azione effettivo. E in ogni caso, come ha sostenuto Lyman Ray Patterson, la cosa più probabile è che tale modifica sia scaturita da un errore di stesura. Ciò nonostante, dopo il 1909, la legge ampliò il proprio raggio d'azione al di là degli atti specifici regolamentati dal Congresso. Da quel momento in poi si sarebbe estesa fino a dove si fosse estesa la tecnologia volta alla "copiatura".

Successivamente, i progressi tecnologici avrebbero cambiato radicalmente il raggio d'azione della legge sul copyright. Nel 1909, scrive Jessica Litman:

La legge sul copyright in vigore negli Stati Uniti era tecnica, incoerente e di difficile comprensione, ma non si applicava a moltissime persone o a moltissime cose. Se facevi l'autore o l'editore di libri, cartine, grafici, quadri, sculture, fotografie o spartiti, o l'autore/produttore di spettacoli teatrali, o il tipografo, la legge incideva sulle tue attività. I rivenditori di libri, gli editori di rulli per pianoforti e dischi per fonografo, i produttori di film, i musicisti, gli studiosi, i membri del Congresso e i comuni consumatori potevano fare ciò che volevano senza avere mai problemi legati al copyright.

Novant'anni dopo, la legge sul copyright in vigore negli Stati Uniti è ancora più tecnica, incoerente e di difficile comprensione; soprattutto, si applica a tutto e a tutti. In questo intervallo di tempo il diritto d'autore ha ampliato la sua portata fino a comprendere gran parte delle attività comuni nella società moderna [...] La tecnologia, senza far caso alla legge, ha sviluppato modalità che inseriscono molteplici atti di riproduzione e trasmissione — potenzialmente perseguibili in base alla normativa sul copyright — nelle comuni interazioni quotidiane. La maggior parte di noi non può passare neppure un'ora senza scontrarsi con la legge sul copyright".

Se il copyright regolamenta le copie, e copiare è un atto comune quanto respirare, una legge che fa scattare una prescrizione ogni volta che viene fatta una copia è una legge che ha un raggio d'azione troppo vasto.

Piuttosto, il legislatore dovrebbe adottare nuovamente la vecchia pratica di specificare con precisione i tipi di utilizzo delle opere creative che dovrebbero essere regolamentati dalla legge sul diritto d'autore. Essa dovrebbe scattare in corrispondenza di utilizzi presumibilmente, o probabilmente, commerciali in concorrenza con l'utilizzo da parte di chi detiene il copyright. Dovrebbe lasciare liberi da ogni regolamentazione gli utilizzi che non hanno nulla a che vedere con le tipologie che il detentore del copyright deve avere sotto controllo. La copiatura, in tale scenario, di per sé non farebbe scattare la normativa. L'esibizione in pubblico, la distribuzione pubblica o la distribuzione commerciale la farebbero scattare.

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