Autore Doris Lessing
Titolo Amare, ancora
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1996, I Narratori , pag. 314, cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-07-01498-7
OriginaleLove, again [1996]
TraduttoreBianca Lazzaro
LettoreAngela Razzini, 2015
Classe narrativa inglese












 

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Pagina 13

A prima vista si sarebbe detto un ripostiglio, silenzioso e stagnante nel caldo crepuscolo, ma poi un'ombra si mosse, qualcuno comparve a scostare le tende e a spalancare le finestre. Era una donna, che adesso si avviava frettolosa verso una porta e usciva, lasciandola aperta. La stanza così svelata era decisamente strapiena. Lungo una parete c'erano tracce evidenti dell'evoluzione tecnologica – un fax, una fotocopiatrice, un computer, telefoni – ma per il resto, il luogo poteva facilmente sembrare una sorta di deposito teatrale, con il busto dorato di una qualche donna romana, molto più grande del naturale, maschere, una tenda di velluto cremisi, manifesti, e pile di fogli di partiture musicali, o piuttosto fotocopie che riproducevano fedelmente degli originali ingialliti e usurati.

Sulla parete, sopra al computer, c'era una grande riproduzione del Mardi Gras di Cézanne, ancora più malridotta: era stata strappata e rimessa insieme con il nastro adesivo.

La donna nella stanza accanto era intenta a qualcosa con molta energia: gli oggetti venivano spostati di qua e di là. Poi riapparve e si fermò a guardare la stanza.

Non era una donna giovane, come era stato facile immaginare dalla risolutezza dei movimenti, quando la si era intravista nell'ombra. Una donna di una certa età, come si usa dire, o forse un po' più vecchia, e vestita in modo impresentabile, con dei vecchi pantaloni e una camicia.

La donna era agile, piena di energia, ma non sembrava contenta di ciò che vedeva. Comunque sia, lasciò perdere tutto e andò al computer, si sedette, allungò una mano per accendere un registratore. A un tratto la stanza fu invasa dalla voce della contessa Dié, risalente a otto secoli prima (o una voce capace di far credere a chi ascoltava che fosse la contessa), che cantava í suoi eterni lamenti:

        Cantar io devo, che lo voglia o no:
        Colui cui sono amica, pena mi dà
        Perché io l'amo più d'ogni altra cosa...



La donna del presente, seduta con le mani pronte ad aggredire la tastiera, era consapevole del proprio sentimento di superiorità, per non dire di biasimo, nei confronti di quella sorella di tanto tempo prima. La cosa non le piaceva. Stava forse diventando intollerante?

Il giorno prima Mary l'aveva chiamata dal teatro per dirle che Patrick era in uno stato di agitazione perché si era di nuovo innamorato, e lei aveva replicato con un aspro commento.

"Ma dài, Sarah," Mary l'aveva ripresa.

Sicché Sarah le aveva dato ragione, e aveva riso di sé.

Con un senso di inquietudine, però. Pare ci sia una regola per cui quello che biasimi, prima o poi, rispunta fuori perché tu lo viva. Costretti a mangiare il proprio vomito – sì, Sarah ne sapeva qualcosa. Da qualche parte nel suo passato aveva annotato: Guardati dal criticare gli altri, o attenta a te.

La contessa Dié la turbava troppo, e Sarah spense quel lamento.

Silenzio. Rimase seduta ad aspirarlo. Quella vecchia musica da trovieri e trovatori la scuoteva decisamente troppo. Erano giorni che non ascoltava quasi nient'altro per trovare il tono più adatto a quel che doveva scrivere. Non ascoltava soltanto la contessa, ma anche Bernard de Ventadorn, Pierre Vidal, Giraut de Bornelh, e altri vecchi cantanti, che l'avevano ridotta in uno stato di... si sentiva inquieta, e febbricitante. Quando era capitato che la musica la turbasse in quel modo? Non le sembrava che fosse mai successo. Un momento, però. Una volta per dei mesi si era messa ad ascoltare jazz, soprattutto blues, giorno e notte. Ma era stato dopo la morte di suo marito, e la musica aveva nutrito la sua malinconia. Però non ricordava... certo, era stata sopraffatta dal dolore, e allora aveva scelto una musica adatta alla sua condizione. Ma quella era tutta un'altra faccenda.

Il lavoro di quella sera non era impegnativo. I testi del programma avevano un tono troppo austero: questo perché, scrivendoli, aveva temuto di farsi travolgere dalla malia del soggetto. E intanto era affascinata dalla voce sensuale della contessa, o della giovane donna Alicia de la Haye.

Non era quello il momento di scrivere il programma. Infatti si era imposta la regola di non lavorare la sera a casa: regola che ultimamente aveva trasgredito. In altre parole, non si era attenuta a quanto lei stessa si era prescritta per salvaguardare il suo equilibrio e la sua salute mentale.

Rimase seduta ad ascoltare il silenzio. Un passero cinguettava.

Pensò: devo ritrovare quella poesia provenzale di Pound; dopo tutto non lo si può definire un lavoro.

La scrivania era piena di opere di consultazione e di raccolte di ritagli; a fianco c'era una libreria che arrivava fino al soffitto. Un libro era aperto accanto al computer:

"Invecchiare serenamente... seguendo la via indicata. Si potrebbe quasi dire che le istruzioni sono scritte a caratteri invisibili che diventano leggibili via via che la vita li svela. Poi non resta che pronunciare le parole giuste. Nel complesso i vecchi non se la cavano male. L'orgoglio è una gran cosa, e gli immancabili stoicismi delle loro prese di posizione sono facilitati dal fatto che i giovani non sanno – viene loro nascosto – che la polpa marcisce attorno a un nocciolo inalterato. I vecchi condividono le ironie proprie di fantasmi presenti a una festa, visibili gli uni agli altri ma non agli ospiti di cui osservano i capricci e le pose sorridendo, ricordando".

Molti sulla via della vecchiaia sarebbero disposti a sottoscrivere questa sequenza di frasi pacate e piene di dignità, ritenendole idonee a rappresentare e a tutelare la loro condizione.

Sì, le porterò con me, pensò Sarah. Sarah Durham. Un bel nome sensato per una donna sensata.

Il libro in cui aveva trovato queste frasi proveniva dalla bancarella di un mercato, le memorie di una donna di mondo un tempo nota per la sua bellezza, scritte in vecchiaia e pubblicate quando era quasi centenaria, venti anni prima. Strano, pensò Sarah, che avesse scelto quel libro. Un tempo, non avrebbe mai aperto un libro scritto da una persona anziana: niente da spartire, avrebbe pensato. Ma cosa c'è di più singolare del modo in cui i libri che si intonano a una condizione o a una fase della nostra vita ci si insinuano tra le mani?

Mise via quel libro, pensò che i versi di Pound potevano aspettare e decise di godersi una serata in cui non si sarebbe preteso da lei un bel niente. Una sera di aprile, e c'era ancora luce. La stanza era tranquilla, tranquillizzante come al solito, e al pari delle altre tre di quell'appartamento conteneva trent'anni di ricordi. Le stanze in cui si è vissuto a lungo possono somigliare alle spiagge piene di rifiuti; difficile sapere da dove viene questo o quel frammento.

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Pagina 20

I ricordi di Sarah suddividevano la sua vita in due epoche o paesaggi diversi, una soleggiata e senza problemi, e l'altra piena di intoppi e di difficoltà. (Eppure in un modo o nell'altro, la guerra con tutti i suoi affanni apparteneva alla prima fase assolata. Come era possibile? E tutti quei problemi economici e familiari? Sciocchezze, pure bazzecole, in confronto a quel che seguì.) La morte del marito, quello era l'inizio dell'altra Sarah Durham, povera e disperata. I suoi genitori non avevano molto denaro. Non esisteva alcuna polizza. Lei in realtà non avrebbe potuto permettersi di restare in quell'appartamento ma decise di tenerlo ugualmente, per dare un senso di continuità ai figli, già traumatizzati. Guadagnò il necessario per sé e per loro svolgendo da freelance ogni genere di lavoro mal pagato per giornali e riviste, editori e teatri; tra questi uno in particolare, il Green Bird, all'epoca semplicemente un gruppo di persone che con piccole compagnie metteva in scena degli spettacoli dove capitava, a volte nei pub. Negli anni settanta erano tante le piccole compagnie coraggiose che tentavano la fortuna. Un certo testo italiano che le avevano dato da tradurre, ritenendo di possederne i diritti teatrali, si era rivelato indisponibile, sicché in sostituzione Sarah aveva riadattato degli sketch di vita contemporanea tratti da un romanzo. Fu un successo e Sarah si ritrovò a far parte del gruppo che dirigeva il teatro, cosa che innanzitutto significava star li tutto il giorno a occuparsi del cast, nonché in seguito della regia, e poi avere un vero stipendio. E in un vero teatro. Fu tra i quattro che decisero di rischiare con un contratto a lungo termine. Quei tre erano i suoi migliori amici, poiché certo non si può definire altrimenti la gente con cui si trascorre tutta la giornata, e spesso molte serate. Per dieci anni avevano condotto un'esistenza precaria, poi, cinque anni prima, uno spettacolo era passato nel West End, era andato bene e pareva destinato arimanere in cartellone per sempre. Il Green Bird si era ormai affermato come uno dei migliori teatri sperimentali, e i critici assistevano alle prime dei suoi spettacoli. Dopo essere stata poco più che una dilettante, un'apprendista mal pagata sempre ai margini del vero teatro, Sarah era ormai conosciuta nell'ambiente come autorevole dirigente del Green Bird e, talvolta, come regista di alcuni spettacoli. Il punto è che i quattro facevano tutto da soli, e questo sin dall'inizio. Il successo aveva subito attirato su di loro l'invidia e – come era inevitabile – erano stati soprannominati la Banda dei Quattro. Tali cambiamenti avevano richiesto anni, e mai Sarah aveva avanzato pretese di carattere personale. Talvolta, in cuor suo, si meravigliava del fatto che il lavoro e, s'intende, la fortuna fossero cresciuti fino a quel punto: come si vedrà non era una narcisista, e nemmeno un'ambiziosa.

Chi erano questi colleghi con cui aveva condiviso tanto? Mary Ford era stata un tempo una graziosa creaturina con immensi e opachi occhi azzurri e un faccino timido e ostinato, ma gli anni avevano fatto di quella randagia una quarantenne tenace, equilibrata e competente, che in teatro si occupava prevalentemente di pubblicità e di promozione. Roy Strether, altro modello di professionalità, era ufficialmente il direttore di scena. Uomo serio, apparentemente pigro, non si concedeva mai ansie, qualunque fosse il problema da affrontare. Con autoironia diceva di essere come un calciatore che si era messo a fare l'allenatore. Era grosso, sciatto, persino goffo. Gli altri lo ricordavano da giovane, un alternativo anni sessanta, che come molti futuri uomini di successo si era guadagnato da vivere facendo l'imbianchino. Il quarto membro dello staff fisso era Patrick Steele. Anche in sua presenza avevano l'abitudine di scherzare sul fatto che, essendo lui tanto volubile, scontroso e lunatico, era una fortuna che gli altri tre fossero risoluti e affidabili fino a risultare quasi noiosi. Ragazzo esile (Patrick restava sempre un ragazzo, mentre loro cambiavano con l'età) ricordava un uccello, coi suoi capelli neri soffici come piume e gli inquieti occhi scuri. Era omosessuale e, visti i tempi, alquanto impaurito. Non voleva sottoporsi al test, poiché diceva che nel caso fosse risultato sieropositivo avrebbe preferito non saperlo, e in ogni caso lui si comportava in modo responsabile e non nuoceva a nessuno. Spesso piangeva, perché la sua vita sentimentale gli offriva di frequente l'occasione di farlo. Era geniale, un vero mago: riusciva a creare un chiaro di luna, un lago, una montagna, servendosi di luci, carta stagnola e ombre. Altri teatri avevano cercato di adescarlo ma invano, perché quei quattro nutrivano la comune convinzione che il talento di ognuno di loro unito a quello degli altri fosse maggiore di quanto non lo sarebbe mai stato singolarmente. Patrick era versatile come gli altri. Aveva scritto i testi di un musical che era stato quasi un trionfo, sicché loro lo stuzzicavano dicendo che alla prossima occasione sarebbe assurto alla fama e non lo avrebbero visto più.

Questa era la loro dimensione pubblica, la loro "immagine", il modo in cui li si vedeva dall'esterno, magari durante quelle riunioni quotidiane, in un piccolo ufficio paragonabile a una cabina di pilotaggio o a una sala motori. Era il consueto insieme di tecnologia elegante – ogni apparecchio già obsoleto quasi prima d'essere installato – e di vecchie sedie e tavoli di cui non avevano voglia di sbarazzarsi.

Quattro individui caricati dalla professionalità e dal successo. Dietro ognuno di loro c'era quel retroterra che si chiama vita privata, che in quel caso era lungi dall'essere cosa distinta dalle ore di lavoro.

Mary era nubile – senza un uomo – poiché doveva assistere la madre, affetta da sclerosi multipla e totalmente invalida. Talvolta, quando Mary non riusciva a trovare un aiuto, un vecchia signora dalle mani tremanti assisteva alle prove su una sedia a rotelle sistemata in un corridoio tra le file di poltrone.

Roy Strether era sposato, con un figlio. Il matrimonio era fallito. A volte, durante le prove, il ragazzino veniva messo a sedere accanto al padre e tutti ne lodavano la bontà. Se era stanco o aveva bisogno di attenzione, poteva sedersi in braccio alla vecchia signora, la quale era ben felice di servire a qualcosa.

Gli obblighi di Sarah erano volontari. Negli ultimi dieci anni le sue energie vitali, emotive, erano state assorbite, non da figli e nipoti, ormai felicemente sistemati in altri continenti (India e America), ma dalla figlia minore di suo fratello, Joyce. Hal e Anne avevano tre figlie, le prime due normali e uguali a quelle di chiunque altro. Joyce era stata un problema sin dalla nascita. Perché? E chi lo sa? Nella culla strillava, ai primi passi piagnucolava, a pochi anni era scontrosa. Spedita a scuola, all'improvviso si ammalò e fu rimandata a casa. In poche parole non sopportava la scuola e gli altri bambini. I genitori erano entrambi medici, sicché la sua condizione non era mai stata a corto di diagnosi. Le cartelle cliniche che la riguardavano erano voluminose e sparse in diversi ospedali. Uno psichiatra raccomandò che le fosse permesso di restare a casa. Si rivolsero a Sarah, e Joyce passò le giornate da lei, in quella che era stata la stanza dei figli. In quel periodo Sarah lavorava spesso a casa, e quando usciva per qualche appuntamento Joyce se ne stava tranquilla per conto suo. Cosa faceva? Niente di niente. Prendeva il tè, guardava la televisione e talvolta faceva dei numeri di telefono a caso finché non trovava qualcuno disposto a parlarle, e magari restava a chiacchierare per un'ora o due. Le bollette erano carissime, e Hal e Anne non si offrivano di pagarle.

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Pagina 24

Durante gli anni ottanta del secolo scorso, in Martinica, una splendida ragazza – creola, come la Joséphine di Napoleone – incantò un giovane ufficiale francese. Da qui cominciava Julie Vairon, il dramma o, come diceva il cartellone, "un intrattenimento". La ragazza era figlia di una mulatta che era stata l'amante del figlio di un uomo bianco, proprietario di una piantagione. Ereditata la piantagione, il giovane era convolato a giuste nozze con una ragazza francese squattrinata ma aristocratica, e tuttavia aveva continuato a mantenere Sylvie Vairon, anche se correva voce che facesse per lei molto di più. Egli convenne sulla necessità di dare un'istruzione alla ragazza, almeno pari a quella delle eredi delle ricche famiglie vicine, anch'esse proprietarie terriere. Può darsi che non si sentisse la coscienza a posto, ma si diceva anche che egli fosse di idee illuminate e che queste trovassero applicazione su quell'unico terreno, l'educazione di Julie. La ragazza prese lezioni di musica e di disegno, e lesse una quantità di libri consigliati dai precettori, i quali si recavano da lei negli intervalli tra le più formali lezioni impartite alle ragazze facoltose, nelle loro grandi case distanti cinque miglia. Si trattava in genere di impetuosi giovanotti che rimpiangevano di non essere nati in tempo per unirsi alla Rivoluzione, o almeno per combattere nelle armate di Napoleone, proprio come i ragazzi e le ragazze di oggi si struggono al pensiero di non essere stati a Parigi nel Sessantotto. "Ma il Sessantotto è stato un fallimento," replica magari un adulto di buonsenso, col solo effetto di farsi sbranare da occhi furiosi di sdegno. "Che importa! Pensa a come dev'essere stato eccitante!"

Un'aristocratica fanciulla, più intraprendente delle sorelle, decise di soddisfare la propria curiosità riguardo alla misteriosa Julie e riuscì a raggiungere segretamente la casa nella foresta dove questa viveva con la madre. La fanciulla si vantò dell'impresa, prova del suo ardito sprezzo delle convenzioni, e la cosa alimentò le già insistenti chiacchiere. Per Julie la visita fu preziosa, poiché non aveva mai avuto occasione di misurarsi con nessuno. Grazie a essa capì d'essere più intelligente di quelle rispettabili ragazze – la sua ospite era considerata la migliore di tutte – ma realizzò anche lo svantaggio della propria condizione sociale, poiché l'educazione che aveva ricevuto era superiore alle sue possibilità e alle sue aspettative. Inoltre capì la ragione per cui i precettori fossero tanto solleciti nel darle lezione. Poteva anche darsi che fossero tutti innamorati, ma con lei avevano anche la possibilità di conversare.

Parlando di sé, quasi dieci anni più tardi, scrisse: Quale olla podrida di pensieri fra loro incompatibili, in quella graziosa testolina. Eppure invidio l'innocenza di quella ragazza. Aveva letto gli enciclopedisti, era una seguace di Voltaire, quanto a Rousseau, così irresistibile per qualunque fautore del diritto naturale, doveva averla folgorata. Era in grado di discettare (cosa che faceva, continuamente, con i precettori) in merito all'operato e ai discorsi di ogni personaggio comparso sulla grande ribalta della Rivoluzione, come se li avesse visti coi propri occhi. Conosceva altrettanto bene gli eroi della guerra d'indipendenza americana. Adorava Tom Paine, venerava Benjamin Franklin, era convinta che Jefferson e lei fossero fatti l'uno per l'altra. Era certa che, ad averne l'età, si sarebbe imbarcata per l'America per andare ad assistere le vittime della guerra civile. Ma di fatto viveva grazie alla piantagione di banane del padre, figlia meticcia (era di carnagione scura, come una francese o un'italiana del Sud) e illegittima di una signora di colore, la cui casa nel mezzo dell'afosa foresta era periodicamente invasa da giovani ufficiali che morivano di noia in quell'isola stupenda ma monotona, e che si recavano lì allo scopo di divertirsi, ballare, mangiare e ascoltare il magnifico canto della bellissima Julie. Un giovanissimo ufficiale, Paul Imbert, s'innamorò di lei. La adorava, ma al punto di sposarla o se non altro portarla con sé in Francia? Forse no, se lei non avesse insistito perché fuggissero insieme, rifiutandosi di considerare le difficoltà. I genitori del giovane erano persone rispettabili che vivevano poco distante da Marsiglia, il padre era magistrato. Essi non vollero accogliere Julie. Paul le trovò una casetta di pietra tra le colline della romantica campagna francese e per un anno andò lì a trovarla tutti i giorni, cavalcando tra il profumo dei pini, i pioppi e gli ulivi. Poi, in seguito alle pressioni dei genitori, l'esercito perdonò al ragazzo la sua malefatta e lo mandò in servizio nell'Indocina francese. Sicché Julie si ritrovò da sola nel bosco, senza alcun mezzo di sussistenza. Il magistrato le mandò del denaro. Una volta aveva intravisto la ragazza passeggiare tra le colline con suo figlio. Invidiava Paul. Ma non fu questa la ragione per cui le mandò il denaro. Preso dai dovuti rimorsi, Paul aveva confessato che Julie era incinta. Per un certo tempo lei fu convinta di esserlo. Con appena qualche franco a separarla dalla fame, Julie restituì il denaro al padre di Paul, spiegando che effettivamente era rimasta incinta, ma che la natura era presto corsa in suo aiuto, in aiuto di tutti loro. Quindi si appellò a lui, al suo senso di responsabilità. Lo ringraziò dell'interessamento e gli chiese di aiutarla a trovare un impiego presso le famiglie borghesi della cittadina a lei più vicina, Belles Rivières. Lei sapeva disegnare bene, e dipingeva ad acquerello – purtroppo non poteva permettersi i colori a olio. Suonava il piano. Sapeva cantare. "Sono certa che per ciò che attiene a tali attività saprò dimostrare di non essere in alcun modo da meno dei precettori del circondario." Quel che chiedeva era molto più della generosa somma di denaro che egli le aveva offerto. Ormai tutti sapevano della ragazza bella ma equivoca che aveva tentato di irretire il rampollo di una delle più rispettabili famiglie della zona, e che viveva da sola nel bosco come una selvaggia. Il padre del suo innamorato rifletté a lungo. Forse non le avrebbe mai risposto se quella volta non l'avesse vista di sfuggita insieme a Paul. Andò a trovarla e scoprì una giovane deliziosa, compita, brillante, vivace, e dai modi incantevoli quant'altri mai. In breve, se ne innamorò, come facevano tutti. Non riuscì a dirle di no, promise di intercedere per lei presso le migliori famiglie, ma salvò la faccia chiedendole di impegnarsi a non contattare mai più alcun membro della sua famiglia. Lei rispose con un immediato e impaziente moto di sdegno che egli riconobbe come sincero: "Mi sembrava, signore, che la cosa fosse ormai chiara".

Nei quattro anni che seguirono Julie fece da istitutrice alle figlie di un dottore, di due avvocati, di tre farmacisti e di un facoltoso commerciante. Tutti l'avevano supplicata di trasferirsi nella piccola cittadina, "dove si troverà più a suo agio". Il che voleva dire che a loro creava disagio il pensiero che quella ragazza, per quanto brava e a modo, vivesse da sola a buone tre miglia da Belles Rivières. Lei aveva rifiutato, in modo garbato ma risoluto, raccontando loro delle grandi foreste della Martinica, dei fiori, delle farfalle e degli splendidi uccelli, tra cui aveva sempre errato in completa solitudine. Vivere in una strada l'avrebbe resa infelice, diceva, benché per la verità il suo sogno fossero proprio le strade di Parigi, e quel che desiderava era trovare un modo per raggiungerle senza peggiorare le sue già precarie condizioni. Se si fosse decisa a tentare la fortuna nella grande città avrebbe dovuto farlo subito, finché era giovane e carina, ma lei continuava a pensare a Paul. Che fosse destinata a perderlo ben presto le fu chiaro, e sapeva che se anche fosse tornato dall'esercito lei non avrebbe potuto riaverlo. Continuando a vivere libera ma in solitudine, come si ostinava a fare, induceva la gente a credere che lo stesse aspettando, e tutti – il padre, la madre, le sorelle – lo avrebbero certo informato della cosa nelle loro lettere. Il che, lungi dal legarlo a lei, avrebbe finito con l'allontanarlo, come le suggerivano tanto il suo istinto quanto il buonsenso ereditato dalla madre. Ma non riusciva a lasciare quel luogo. Indipendenza! Libertà! urlava spesso da sola, aggirandosi nella sua foresta.

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Pagina 33

Non c'è mai un accenno a un calcolo di tipo economico. Eppure lei era completamente sola al mondo. Sua madre era morta durante il terremoto del Monte Pelée, quando era andata a St Pierre a trovare la sorella, e la città era stata completamente distrutta. Dai diari non risulta se Julie abbia mai chiesto aiuto al padre. Una settimana prima che il sindaco, vecchio amico di Philippe, celebrasse il loro matrimonio in municipio, Julie si gettò nel vortice in cui le malelingue dicevano avesse annegato la figlia. Nessuno credeva che si fosse suicidata. Perché avrebbe dovuto, ora che tutti i suoi problemi si erano risolti? Tanto meno che fosse scivolata e annegata, che è quanto sostennero i gendarmi. Assurdo! Lei che per anni si era aggirata in quel bosco saltellando come una capra. No, l'avevano uccisa, forse un amante deluso di cui nessuno sapeva nulla. Vivendo tutta sola così tanto distante dalla gente dabbene, in un certo senso se l'era voluta.

Seguirono le condoglianze di rito al concittadino che aveva perso la sua amata, poiché nessuno dubitava del fatto che lui la adorasse, ma la gente diceva che l'aveva scampata bella. I gendarmi raccolsero le carte di Julie, i disegni, i quadri, buona parte degli spartiti, e non sapendo che altro fare chiusero tutto in una cassa che andò a finire nei sotterranei del museo provinciale. Poi, nel 1970, i discendenti di Rémy trovarono tra le loro carte della musica scritta da lei, ne furono deliziati, si ricordarono dell'esistenza della cassa presso il museo, scoprirono dell'altra musica e la fecero eseguire a un festival estivo locale. Fu lì che l'inglese Stephen Ellington-Smith ebbe modo di sentirla. Come gli amanti della musica sapranno, Julie Vairon è stata ben presto riconosciuta come una compositrice unica tra i suoi contemporanei, un talento originale, e già si adopera per lei l'aggettivo grande.

Ma non era soltanto una musicista. Il mondo dell'arte ha grande ammirazione per lei. "Un posticino modesto ma innegabile..." è ciò che in genere le viene riconosciuto. Alcuni pensano che verrà ricordata per i suoi diari. Alcuni brani sono apparsi tanto in Francia che in Inghilterra e hanno riscosso un immediato consenso: molto in sintonia col gusto del momento. Tre volumi dei diari sono stati pubblicati in Francia, e un unico volume (un compendio dei tre) è apparso in Gran Bretagna, dove nessuno ha contestato il giudizio francese secondo cui Julie Vairon merita un posto accanto a Madame de Sévigné. Ma ci sono individui che possiedono troppe inclinazioni per poterne trarre dei benefici. Forse sarebbe stato meglio se come artista avesse avuto quel talento istintivo, mediocre e contenuto che così bene si addice alle donne. Il che ci porta alle femministe, per le quali Julie è una figura controversa. Alcune vedono in lei l'archetipo femminile della vittima, altre la identificano con il suo spirito di indipendenza. In quanto musicista, come ha lamentato un critico, "il problema è che Julie sfugge a ogni catalogazione". È giusto sottolinearne oggi la modernità, ma resta il fatto che quella musica non appartiene al suo tempo. Julie era nata nelle Indie occidentali, viene spesso ricordato, e lì suonano quella musica chiassosa e molesta che lei aveva "nel sangue". Nessuno dimentica quel "sangue", oggi come oggi un pregio, ma non certo allora. Niente di strano che i suoi ritmi non fossero europei. Ma il punto è che non sono neanche africani. A complicare le cose, la sua musica presenta due fasi distinte. Quella della prima fase non è di difficile comprensione, mentre lo è di certo la sua provenienza: la cosa che più le somiglia è la musica dei trovieri e dei trovatori del XII, XIII e XIV secolo. Ma al tempo di Julie questo genere di musica non era disponibile, come lo è adesso, nelle registrazioni di arrangiamenti riprodotti con gli strumenti dell'epoca e sulla base di manoscritti di difficile decifrazione. Ci sono vari modi per far rivivere quella musica antica. Una musica di tradizione araba che ha subito poche modifiche nel corso dei tanti secoli trascorsi fino al suo approdo in Spagna, e che da lì era giunta nel Sud della Francia ispirando cantori e musici che vagavano di castello in castello, di corte in corte, con strumenti che erano gli antenati di quelli che noi conosciamo. Tuttavia, quando si tratta di decifrare, di ricreare, di "sentire" la musica, l'interpretazione di ognuno deve essere almeno in parte originale. Le parole della contessa Dié sono le stesse che cantava lei, ma in che modo esattamente le cantava? È possibile che Julie avesse visto da qualche parte dei vecchi manoscritti? Si sa, spesso accadono le cose più impensate. E dove? La famiglia Rostand possedeva forse degli antichi manoscritti? Il punto debole di questa interessante teoria – la quale presuppone che un simile casato, con un debole per le discendenze e per la musica, fosse tanto disinteressato a un tesoro del passato da non scorgerne gli influssi su Julie – è che lei componeva già quel tipo di musica prima di conoscere i Rostand, poiché le sue canzoni erano allora ispirate dal dolore per la perdita di Paul. Si può sempre avanzare l'ipotesi che tra quelle facoltose famiglie borghesi presso cui Julie faceva l'istitutrice ve ne fosse una con una vecchia cassa piena di... è possibile. Bene, ma allora da dove tirò fuori quel modo di cantare, lei che viveva tutta sola tra le colline? Cosa sentiva, cosa ascoltava? Di sicuro il rumore della corrente e dello sciabordio delle acque, il baccano dei grilli e delle cicale, dei gufi e dei caprimulghi, lo strido alto e attutito del falco dalle sue cime rocciose, e i venti della zona, il cui gemito attraversa implacabile le colline da cui transitavano i trovatori, suonando la loro caratteristica musica. Qualcuno, dotato di fervida immaginazione, sostiene che lo spirito di questi ultimi calasse su di lei in quelle lunghe notti solitarie, quando componeva le sue melodie. In effetti, durante un concerto di musica di trovieri, un cultore le aveva eseguite tra lo stupore generale poiché sembrava del tutto naturale che l'autore fosse uno di loro. Questa dunque, fu la sua "prima fase", difficile da spiegare ma di facile ascolto. La "seconda" fu diversa, anche se per un breve lasso di tempo tra i due generi musicali perdurò un'incerta affinità. L'olio e l'acqua. Niente di africano nella fase nuova. Si susseguono ritmi andanti e prolungati, e solo di rado compare un tema di carattere primitivo, se con esso si intendono dei suoni che alludono alla danza, al movimento del corpo. Ma in questo caso si tratta soltanto di uno dei tanti temi che si insinuano e poi scompaiono, un po' come le voci che nella musica tardo medievale creano delle figure in cui nessuna prevale sulle altre. Spersonalizzata. Forse è questo che turba. La musica della sua fase "provenzale" è senz'altro dolente, ma lo è in modo convenzionale, entro i limiti dettati da una forma (come il fado o, in questo senso, come il blues) che pone sempre dei vincoli al lamento di un povero individuo che chiede compassione, sollievo, amore. La musica della sua fase successiva, fredda e cristallina, avrebbe potuto essere l'opera di un angelo, come ha detto un critico francese, e un altro ha replicato: No, di un diavolo.

Riesce difficile, ascoltando la musica dell'ultimo periodo, associarla a quel che Julie dice di sé nei diari, e ai suoi autoritratti. Poco prima di gettarsi in quel vortice, perché quel sensato matrimonio non le sembrava "convincente", disegnò con i pastelli una ghirlanda con delle immagini di se stessa, un'imitazione ironica di quei piccoli cherubini o angeli che si trovavano sui cartoncini d'auguri. La sequenza parte dall'alto a sinistra, una piccina in fasce, graziosa e vivace, che con i suoi occhi neri e intelligenti guarda dritto verso chi la osserva – vale a dire la stessa Julie, va ricordato, che è intenta al suo lavoro. Subito dopo, una deliziosa bambina, col suo abito di mussola bianca, i nastrini rosa, i grossi boccoli neri, e un sorriso che seduce e al tempo stesso si fa beffe di chi la guarda. Di seguito, un'adolescente, l'unica che non guarda dritto fuori del disegno. È ritratta di profilo, e le sue fattezze sono piene d'orgoglio e di dignità, come un aquilotto. Niente in lei ispira tranquillità, e ci si sente sollevati dal poter evitare i suoi occhi, destinati a suscitare forti reazioni e simpatia. In basso, un tradizionale ramoscello fa il paio con un fiocco bianco posto in alto. Giù a destra, in corrispondenza dell'aquilotto, una giovane donna, intesa come il culmine di quel percorso di vita, il suo compimento: ricorda la Duchessa d'Alba del Goya, ma è più graziosa, con i riccioli neri, l'aspetto fresco e florido, e gli occhi neri audaci e divertiti, che costringono a fissarli. Nel punto opposto all'adolescente, cui a suo modo corrisponde o fa da commento, c'è una donna sui trent'anni con un sorriso freddo, bella e composta, senza nulla che colpisca tranne lo sguardo pensoso che ti cattura finché: Bene, sentiamo, cosa hai da dire? C'è una linea nera che collega questa immagine alle due successive: due fasi della vita che Julie ha deciso di non vivere. Una donna paffuta di mezza età, seduta con le mani giunte e gli occhi bassi. Tutta la forza dell'immagine sta in una sciarpa gialla poggiata sui capelli grigi: potrebbe essere una qualsiasi donna di cinquantacinque anni. La donna vecchia è soltanto una vecchia. Non ha alcuna personalità, come se Julíe fosse incapace di immaginarsi da vecchia o non le importasse abbastanza di pensarsi in quel modo. E dopo aver tracciato quella enfatica linea nera, lei si era addentrata tra gli alberi ed era rimasta – per quanto tempo? – sull'orlo del fiume, per poi gettarsi nel vortice pieno di sassi aguzzi.

Il tutto alle soglie della prima guerra mondiale, che in modo tanto rapido e drastico modificò la vita delle donne. E se Julie non si fosse gettata, e avesse deciso di vivere?

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I tre alberghi in città si chiamavano in origine Hôtel des Clercs, Hôtel des Pins, e Hôtel Rostand. Adesso erano Hôtel Julie, Hôtel la Belle Julie, e Hôtel Julie Vairon. Per i loro proprietari qualsiasi pasticcio relativo alle prenotazioni, alla posta, e alle telefonate era un'inezia in confronto ai vantaggi derivanti dall'essere associati all'illustre figlia di Belles Rivières. Sin dal mese precedente la prima di Julie Vairon erano tutti al completo. Per evitare malumori, la compagnia era stata ripartita equamente nei tre alberghi.

La finestra di Sarah dava su una delle piazze principali racchiusa tra case lasciate lì a confondersi in una tavolozza di colori pastello, bianco sporco, crema, grigi tenui, e il più sbiadito degli ocra, così amorevolmente lavorati dal tempo (a giudicare dall'aspetto generale, da svariati decenni) che un unico muro pitturato di fresco, la facciata dell'Hôtel la Belle Julie, spiccava bianco. Quest'ultima era la ragione per cui le autorità cittadine preferivano tollerare quella graziosa decadenza. La stanza di Sarah era sull'angolo dell'Hôtel Julie, e da lì riusciva a vedere le finestre di una stanza dell'Hôtel la Belle Julie, anch'essa al secondo piano, che aveva un terrazzino, con degli oleandri bianchi e rosa nei vasi. Lì Bill Collins passò tutta la domenica disteso in costume da bagno, e sempre da lì, aveva fatto un cenno di saluto a Sarah prima di sprofondare sulla sedia, con le braccia dietro la testa. I suoi occhi si nascondevano dietro gli occhiali scuri. Tra Sarah e il giovane c'era un pino domestico con una ruvida corteccia rossiccia, e quel grosso tronco conteneva in sé una tale carica di desiderio erotico che Sarah non poteva sopportarne la vista, sicché spostò lo sguardo su un vecchio platano, con sotto una panchina, dove giocavano dei bambini. Cercò di non guardare più quel pericoloso terrazzino una volta accortasi che a Bill si era aggiunta Molly, stesa su una sedia a fianco a lui. Non era mezza nuda, perché la sua lattea carnagione irlandese non si poteva esporre al sole senza rischio. Stava sdraiata in un ampio pigiama da spiaggia blu, con le mani dietro la testa. I suoi occhi erano invisibili, come quelli di Bill. I due avevano lo stesso fascino lascivo e ostentato di giovani gatti che sanno di essere ammirati. Sarah li ammirava perdutamente, mentre il dolore si insinuava tagliente dentro di lei. Non erano propriamente coltelli: sembravano piuttosto spiedi arroventati, o vampate di fuoco. Era da tanto che non provava un senso fisico di gelosia, per prima cosa non poté fare a meno di meravigliarsene. Cosa mi succede? Ho la febbre?

Era avvelenata. Un feroce veleno la divorava, l'avvolgeva in una veste di fuoco, come quelle usate nell'antichità per avviluppare í nemici, che non riuscivano più a staccare il tessuto dalla pelle. Non soltanto la vista di Molly – il corrispettivo di Bill, data la sua giovinezza – e il ruvido tronco rovente del pino, ma anche la trama grezza della tenda che tratteneva la luce lanosa come sole sulla pelle, le curve corpose delle nuvole chiazzate dalla luce dorata della sera, il suono di una risata giovane – tutto, ovvero ogni singola cosa, le sottraeva l'aria, lasciandola con gli occhi annebbiati e la testa in preda alle vertigini. Senza dubbio era malata; se quella non era una malattia, come chiamarla allora? Si sentiva proprio morire, ma doveva fare buon viso a cattivo gioco e fingere che nulla stesse accadendo. Non aveva senso, però, fingere anche con Bill. Quando quella sera si incontrarono insieme a tutti gli altri davanti al Les Collines Rouges, il modo intenso in cui la strinse non mancò di informarla che lui capiva la sua situazione e voleva che lei lo sapesse. Fece in modo di sfiorarle la guancia con la bocca e mormorò: "Sarah...".

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Sarah stava seduta a guardare la propria rabbia crescere come un grosso e inarrestabile cancro. Non sapeva dire se la sua fosse più ira o più desiderio. Pensava che se quel giovane non fosse andato da lei quella notte, probabilmente sarebbe morta, il che nel suo stato febbrile non sembrava una esagerazione. Sapeva che Bill non l'avrebbe fatto. Non perché lei era tanto vecchia che avrebbe potuto essere sua nonna, ma per quell'invisibile linea tracciata attorno a lui: Non toccare – quello sguardo sessualmente altero che è tipico di chi è molto più giovane, sotto i vent'anni e dice: "Non sono per voi, gente spudorata, ma se sapeste cosa potrei farvi se solo lo volessi...", uno sguardo accompagnato dal (silente) rauco ghigno dei ragazzi, pieno di aggressività, di desiderio e di insicurezza. Una castità impura. Era questa (la sua inaccessibilità) la ragione per cui piuttosto che nel suo stesso albergo lo aveva sistemato in quello accanto? Sarah aveva deciso che si trattava di orgoglio o anche di senso dell'onore. Eppure aveva messo Molly nello stesso albergo di Stephen, mormorando qualcosa come Quel che è giusto è giusto, volendo significare che Stephen doveva trarre beneficio da quel soggiorno nella terra di Julie anche se lei, Sarah, non poteva farlo. Ma se avesse tenuto conto degli ovvi desideri di Molly, la ragazza avrebbe dovuto alloggiare nell'albergo di Bill. (Lei, Sarah, non aveva assegnato le stanze, ma si era limitata a passare ai vari hotel una lista di nomi.) Lo aveva fatto per gelosia? Riteneva di no. Per prima cosa, non c'era niente che impedisse a Molly (o a Bill, figurarsi!) di fare i pochi metri che separavano i due hotel. E in fin dei conti, lei aveva trascorso la giornata sul terrazzino di lui. Ma il pensiero dominante di Sarah era stato: Stephen la desidera mille volte più di quanto possa mai desiderarla Bill.

Mentre queste congetture amorose seguitavano, Sarah chiacchierava, rideva e più in generale dava il suo contributo a quella piacevole situazione; guardava Stephen, il cuore le doleva per lui e per sé, e sapeva di ospitare nel suo animo comparti o insiemi distinti di sentimenti, che erano tra loro contraddittori al punto da sembrare impossibile che potessero convivere sotto la stessa pelle. O nella stessa testa. O nello stesso cuore.

Per prima cosa lei era innamorata. A quanto pareva era opinione diffusa che l'essere innamorati sia una condizione di nessuna importanza, e persino comica. Eppure poche altre situazioni portano maggiori sofferenze nel corpo, nel cuore e, peggio, nella mente, e quest'ultima, che si direbbe preposta al controllo degli individui, li osserva comportarsi in modo sciocco e addirittura vergognoso. Il punto è, lei rifletteva – mentre impediva ai suoi occhi di trascinarsi fino a Bill, e chiacchierava con Stephen, a sua volta felice di potersi distrarre – che c'è una zona della vita così terrificante di cui è difficile persino ammettere l'esistenza. Perché la gente spesso si innamora, e di solito non in modo paritario, o nello stesso momento. Ci innamoriamo di gente che non ci ama, quasi come fosse una regola, e questo ci porta a... se il suo stato non poteva essere etichettato come "innamorata", allora i suoi erano sintomi di una vera e propria malattia.

Da questa riflessione o area centrale partivano diversi sentieri, e uno di essi conduceva alla constatazione che il comune destino di invecchiare, o anche di diventare adulti, è talmente crudele che se anche si impiegano tutte le energie per sovvertirlo o ritardarlo, è proprio raro che si riesca a colpire dritto nel segno senza esitazione: dall'essere così – e Sarah guardava i giovani attorno a lei – si diventa così, una nullità priva di colore, soprattutto priva di lustro, di splendore. E io, Sarah Durham, seduta qui stasera e attorniata per lo più da giovani (o persone che a me sembrano tali), mi trovo nella stessa identica situazione di una infinità di gente al mondo che è orribile, deformata, o mutilata, o soffre di terribili disturbi della pelle. O che è priva di quella cosa misteriosa che è il sex appeal. Milioni di individui passano la vita dietro orride maschere, inseguendo i semplici piaceri dell'amore consueti alle persone di bell'aspetto. Ormai non c'è più differenza tra me e quella gente messa al bando dall'amore, ma per la prima volta mi accorgo di aver appartenuto in gioventù a una classe sessualmente privilegiata, senza aver mai riflettuto su questo e su quel che comportasse la condizione opposta. Tuttavia, indipendentemente da quanto spietati e insensibili si è stati da giovani, tutti, ma proprio tutti, scopriamo prima o poi cosa voglia dire trovarsi in un deserto di privazione e, consapevoli o meno, il nostro rapido viaggio verso la vecchiaia è esattamente lo stesso.

Ma allora, se ciò è davvero così terribile, così doloroso, che stando qui seduta mi sento come un vecchio triste fantasma a una festa, perché per vent'anni, anche più, ho convissuto allegramente con una privazione che adesso mi appare intollerabile? Per gran parte del tempo non mi sono quasi accorta di invecchiare. Non mi importava. Ero troppo indaffarata. Ho una vita troppo interessante. Con un po' più di fortuna (cioè, se non fossi mai penetrata nel territorio di Julie), avrei potuto convivere tranquillamente con una sorta di lento offuscamento, o con un fuoco che inosservato va spegnendosi, e sarei giunta alla vecchiaia senza quasi accorgermi del mutamento. Ma suppongo che presto guarirò da questa pena, e voltandomi indietro ne riderò. Benché al momento l'idea di ridere sia certo difficile da concepire. Non potrei mai dimenticare quel che sto passando adesso. O no?

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