Copertina
Autore François La Mothe Le Vayer
CoautoreAdrien de Monluc, Claude Le Petit
Titolo L'antro delle ninfe
EdizioneDedalo, Bari, 2008, libelli vecchi e nuovi 6 , pag. 124, cop.fle., dim. 12,5x21x1 cm , Isbn 978-88-220-550-40
OriginaleL'antre des nymphes [2004]
PrefazioneJean-Pierre Cavaillé
TraduttoreRita Tomadin
LettoreLuca Vita, 2008
Classe classici francesi , erotica
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Libertinaggio e allegoria sessuale
di Jean-Pierre Cavaillé                          7

    Sesso e filosofia libertina                 10
    L'antiallegoria libertina                   15
    Paesaggio pastorale e attività amorosa      22
    Luogo terribile, luogo di delizie           26
    Il mondo sotterraneo                        32
    Dolci antri                                 36
    Porta dell'inferno e labirinto d'amore      45
    Camera e anticamera                         56
    Dal testo alla pratica e ritorno            60

Tubertus Ocella [François La Mothe Le Vayer]

Esplicazione dell'antro delle ninfe
Descritto in versi da Omero
nel tredicesimo libro dell'Odissea              69

Adrien de Monluc

Lamento di Tirsi a Clori
Allegoria                                       99

Claude Le Petit

Storia allegorica
(da L'heure du berger)                         107

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Libertinaggio e allegoria sessuale
di Jean-Pierre Cavaillé



[...] nel segreto del tuo corpo, sei tu, adorata Mnasidika, che racchiudi l'antro delle ninfe cantato dal vecchio Omero, il luogo dove le naiadi tessono lini di porpora, il luogo dove, goccia a goccia, colano fonti inesauribili, e dal quale la porta del Nord lascia scendere gli uomini, mentre la porta del Sud lascia entrare gli immortali.

Pierre Loüys, L'antro delle ninfe, in Le canzoni di Bilitis II, Elegie a Mitilene.


L' Explication de l'antre des nymphes, la Plainte de Tircis à Cloris, l' Histoire allégorique contenuta ne L'heure du Berger; questi tre testi in prosa, poco noti, del XVII secolo francese hanno in comune il fatto di presentare delle allegorie molto speciali: l'antro visitato da Ulisse dopo il suo ritorno a Itaca, la caverna pastorale in cui la bella Clori non permette al buon Tirsi di entrare, la città di Somatte dalle tre porte dove arriva una coppia d'amanti. Rispettivamente una scena antica descritta da Omero nel tredicesimo libro dell'Odissea, uno scenario bucolico, una vista della capitale del regno d'Amore. Dunque tre paesaggi piacevoli – tre paesaggi suggestivi, pieni di grotte e fontane, di piante e animali, di pastori e pastorelle, di divinità pastorali, di templi sontuosi e iscrizioni nel marmo – per evocare, invocare, descrivere, sollecitare il corpo sessuato nei suoi vari organi, umori, condizioni, funzioni e azioni. Diversissimi nello stile e nella forma, i tre testi condividono un'identica ironia parodistica, dissacratoria dell'allegorismo neoplatonico e dell'erotismo rarefatto dell'universo pastorale, un identico interesse forte per gli atti e le cose dell'amore fisico, un'identica ostentazione di distacco e indifferenza nei riguardi delle regole sociali, giuridiche e morali della sessualità, nonché un identico rapporto profondamente conflittuale – sebbene velato da un'obbligata discrezione – con la religione costituita, severa fustigatrice dei piaceri carnali.


Gli autori attestati o presunti di queste allegorie licenziose sono quelli che la storiografia è solita chiamare «libertini»: François La Mothe Le Vayer (1588-1672), Adrien de Monluc (1571-1646) e Claude Le Petit (1639-1662). Il primo è uno dei maggiori esponenti di quello che René Pintard aveva definito, piuttosto infelicemente, il «libertinaggio erudito», per distinguerlo dal libertinaggio di costumi tipico dei grandi signori disinibiti, come Adrien de Monluc, e dei poeti licenziosi, come Claude Le Petit. Ma anche se, rispetto agli altri due testi, dobbiamo riconoscere la netta superiorità in fatto di erudizione de L'antro delle ninfe, siamo per forza di cose indotti a constatare che il sapere di Le Vayer è completamente funzionale a una licenziosità morale che non ha nulla da invidiare alla libertà di toni di Monluc (ammesso che sia davvero l'autore della Plainte de Tircis à Cloris) o all'audacia di Le Petit che, in altri testi, raggiunge dei vertici estremi. Tuttavia, dobbiamo sottolineare anche ciò che li separa.

Le Vayer è un intellettuale affermato, discende da una famiglia di magistrati, in passato è stato anche precettore della famiglia reale. Rivendica il titolo di «filosofo». Monluc, conte di Cramail (o Carmain), fa parte dell'altissima nobiltà e, significativamente, non firma nessuna delle opere che gli sono attribuite. Claude Le Petit è figlio di un semplice sarto parigino e, come racconta nella prefazione de L'heure du Berger, cerca, non senza difficoltà, di vivere della propria penna. Né Le Vayer, che sappiamo essere l'autore dei Dialogues faits à l'imitation des Anciens (semiclandestini), ritenuti dai contemporanei – a ragione – profondamente irreligiosi, né Monluc, nonostante la condanna del testo che pubblichiamo qui, furono mai seriamente attaccati per i loro scritti. Claude Le Petit, che non poteva contare su protezioni altolocate, riconosciuto colpevole del crimine di lesa maestà divina e umana per aver composto il Bordel des Muses ou Les Neuf Pucelles putains e altri scritti «contro l'onore di Dio e dei santi», muore sul rogo nel 1662, all'età di ventitre anni. Ma il confronto dei tre testi, nonché di altri che citerò più avanti, dimostra l'ampia circolazione, al di là delle cesure sociali negli ambienti letterari più vari, degli stessi motivi licenziosi e irreligiosi.


Sesso e filosofia libertina

Nelle pagine che seguono, mi propongo di mettere alla prova alcune delle potenzialità sovvertitrici di questi testi, quasi sempre presentati come innocui divertimenti. Il fatto è che la letteratura borghese ha confinato questo genere di letteratura nel reparto delle «curiosità», privandola di tutta la sua forza culturale. Per parlare chiaro, queste storie di fica (perché, se vogliamo, il sesso della donna è senza dubbio il centro del corpus), di membro (per dirla alla vecchia maniera) e di letto (nel senso stretto e in quello ampio del termine) sono troppo gustose per lasciarle alle masturbazioni meschine di qualche bibliofilo erotomane. Non perché intenda imporre una lettura che, in qualche modo, si innalzi «al di sopra» del sesso (sarebbe il peggior travisamento di tutti), ma perché queste opere tanto meglio svolgono la propria funzione umoristica e umorale, gioiosa e gaudente, quanto più sono sovraccariche di poste in gioco che non esiterei a definire «filosofiche», nel senso confuso, ma efficace, che l'uso del termine riveste nel XVIII secolo, quando l'emancipazione linguistica della sessualità e l'emancipazione sessuale della lingua sembrano indissociabili dalle mire politiche e sociali. Per gli autori di cui parliamo non è forse ancora pienamente così, ma si tratta, in ogni caso, di affrancare il sesso dalla morale e dalle credenze proprie della cultura cristiana nell'epoca del clima repressivo della riforma postridentina (per inciso, aggiungiamo che ogni somiglianza con la contemporaneità neoreazionaria non è affatto casuale).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 22

Paesaggio pastorale e attività amorosa

Vediamo così che al testo di Le Vayer va ad aggiungersi, oltre al riferimento satirico alle allegoresi dell' Odissea, l'allegoria capovolta e indiretta dei paesaggi bucolici e delle scene pastorali. Questa appare ancora più evidente e aggressiva negli altri due testi che pubblichiamo in questo volume.

Il paesaggio convenzionale che funge da scenario nella pastorale moderna è brulicante di piante, di sospiri, di soliloqui appassionati, di effusioni solitarie, di slanci amorosi tormentati; troviamo qui tutta una poetica del desiderio esasperato e insoddisfatto, che arriva a contaminare lo scenario circostante, trasformandolo in una composizione di luoghi erotici, di tappe obbligate lungo il percorso degli amanti frustrati, descritte come le parti intime del corpo amato: colline, avvallamenti e pianure, fiori, prati, antri e fonti. Un paesaggio, cioè, fortemente sessualizzato all'insaputa del discorso esplicito, o perlomeno mentre quest'ultimo fa finta di nulla. Ma dobbiamo cogliere in profondità la dialettica il cui corso viene capovolto dai testi di cui trattiamo. Dal momento che è anzitutto un'erotica del godimento sessuale rifiutato, o come minimo differito (pensiamo a L'Astrée), la pastorale — con i suoi personaggi, scene e paesaggi — si presta all'allegoresi platonizzante e cristiana. Possiamo affermare, d'altronde, che l'universo dell'opera pastorale, nella sua forma stessa e per il suo rapporto contrastato con la sessualità, oscilla tra la letteralità passionale e un'allegoresi morale, venata in varia misura, di filosofia spiritualista e/o di religiosità. Nel XVII secolo ne troviamo varie versioni — semplicemente devote o decisamente mistiche — che fondono gli slanci dell'anima desiderante del Cantico dei cantici con i sospiri dei pastori arcadici. Jean Rousset ha parlato, a ragione, di una «pastorale mistica», fornendone esempi eloquenti nella sua celebre antologia. L'allegoria, alimentata dall'esegesi del Cantico, aveva permesso del resto, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, di rappresentare le astrazioni più cariche di santità attraverso un corpo femminile ostentatamente offerto al desiderio sessuale, come mostra, per esempio, lo straordinario poema di André Mage Fiefmelin, che si protrae in una lunga descrizione delle bellezze carnali della Chiesa, e si spinge addirittura a promettere ai santi (e a loro soltanto) la visione (se non anche di più) delle sue attrattive segrete:

Il tuo ombelico delicato della rotondità
di un vaso ha la somiglianza,
Dove sparsi sono fiori e profumi in abbondanza,
[...] Io seguo, aggirandomi a monte,
degli altri tratti la traccia
Che il tuo ventre morbido, rotondetto, fermo e grasso,
Mi apre nel corpo umano:
ventre che assomiglia a un ammasso
Di frumento arrotondato,
dal giglio completamente circondato,
Che quella rotondità sporgente tra due fianchi corona.
Qui sono i sollazzi, i veri appagamenti
E le felicità per i divini amanti:
Non per il pagliaccio di corte né per l'ateo scellerato
Che dai fuochi infernali, fino a morirne,
hanno l'animo tormentato.
Soltanto il vero Santo, nessun altro,
ha proprio qui il piacere

Di veder scoperto quel bel verziere d'onore.

Con lo stesso movimento che li conduce a vedere nel Cantico dei cantici un epitalamio piuttosto frivolo, finito per sbaglio nella Bibbia, rifiutandone ogni altra esegesi e che li porta anche a trattare gli slanci mistici come pulsioni naturali esasperate dalla castità, i libertini considerano l'opera pastorale come l'espressione – tanto più veemente quanto più nascosta – del desiderio sessuale. L'allegoresi libertina si sforza così di mettere in primo piano, attraverso opportuni giochi linguistici (metafore, equivoci, ecc.), tutto ciò che la pastorale incessantemente evoca, differisce, rifrange e dissimula nei contorni del paesaggio. Prendiamo, per esempio, lo scenario abbozzato all'inizio della Plainte de Tircis à Cloris:

Crudele, da così tanto tempo languisco davanti alla tua caverna, adorando il marmo bianco che la sostiene e i cespugli delicati e ombrosi che la circondano, laddove la spada oltraggiosa non si è mai avvicinata.

Il lettore può, anzi deve, farsi ingannare da una prima lettura. Il lamento amoroso è uno stereotipo collaudato (come le prime parole del testo: «Pastorella ingrata, sarai per sempre sorda ai miei lamenti, cieca al mio martirio e spietata di fronte alle mie sventure?») e riconosciamo subito, al primo colpo d'occhio, gli ingredienti di una tipica scena pastorale, paesaggio compreso. Ma non c'è dubbio che lo stereotipo viene a trovarsi perturbato nella sua espressione stessa: un marmo (una statua, quindi) adorato che regge una caverna, dei cespugli «delicati». Tuttavia, se il lettore può capire così presto di «cosa» parla in realtà questo provocante pastore, è perché gli antri, i marmi e i boschi della pastorale sono sempre già carichi di connotazioni sessuali inconfessate o anche solo vagamente suggerite, ma che da lungo tempo ossessionano l'immaginario. Se possiamo capire così in fretta, è perché l'opera pastorale, in fondo, non fa altro che parlare di questo. Possiamo dunque concludere, a proposito dell'allegoresi libertina, che essa è in realtà la costituzione del punto di vista a partire dal quale giungiamo a scoprire che il quadro raffigurante la scena e il racconto pastorale è semplicemente un'anamorfosi degli organi e degli atti sessuali. Allora tutto diventa «chiaro», per così dire, e le metafore che nell'allegoria indicano verso l'alto, diventano perfettamente leggibili non appena facciamo loro significare ciò che – a torto – è considerato basso per eccellenza: i sospiri dell'amante respinto diventano gli affanni della masturbazione, l'occhio diventa il membro virile e le lacrime lo sperma, mentre la caverna, il prato e la fonte si sono tramutati nel sesso femminile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 99

Adrien de Monluc


Lamento di Tirsi a Clori
Allegoria



Pastorella ingrata, sarai per sempre sorda ai miei lamenti, cieca al mio martirio e spietata di fronte alle mie sventure?

Crudele, da così tanto tempo languisco davanti alla tua caverna, adorando il marmo bianco che la sostiene e i cespugli delicati e ombrosi che la circondano, laddove la spada oltraggiosa non si è mai avvicinata.

Pallido e sfigurato, disteso per terra, sembro davvero l'immagine della morte e, a volte, infiammato dal corruccio, il fuoco del cuore che mi sale al volto fa sì che alzi la testa verso il Cielo, per accusare le intelligenze che lo governano e gli astri, che hanno ispirato nella tua anima il rigore con il quale tu ripaghi il mio amore. Ahimè! Quando mi tocco l'occhio, ne irrito le lacrime, e la mia vita se ne va con loro, una stilla dietro l'altra.

Il sonno, commosso dalle mie pene, cerca invano di sedurre le mie palpebre; perché, invece di dar riposo alle mie membra stanche, troppo caritatevole, esso eccita i disordini della mia fantasia con illusioni che, al risveglio, mi lasciano madido e fradicio di lacrime; ma non appena il Sole comincia a rischiarare il mondo, mi alzo di soprassalto e, senza preoccuparmi del mio gregge, corro in giro qua e là, alla ricerca dei doni che mi presentano la terra e il mio ingegno, per offrirteli.

Fra questi ecco due piccole mele cotogne, che un vello morbido e dorato ricopre ovunque; ecco latte in abbondanza, miele e, zucchero per renderti sacrificio; guarda questo doppio garofano di Spagna, e questo ramo di corallo color incarnato, che ho pescato con le mie mani nella costa vicina.

Getta l'occhio su questa grossa ciliegia, più gustosa dell'ambrosia; e su questo bel cerchio di rubini che circonda il mio collo, che felicissimo sarà di finire nelle tue belle mani.

E se tutti questi ricchi regali non possono flettere la tua crudeltà, pensa almeno, ti prego, che giaccio prostrato davanti a te, nella postura di un adoratore, a testa scoperta, invocando la tua dolcezza e chiamando la tua pietà in mio soccorso.

Grido, mi dispero, muoio, eppure, nonostante le rocce e gli antri si siano commossi per me e vadano ripetendo alle tue orecchie gli ultimi accenti della mia voce, tu, più serrata di un'ostrica marina, temi di aprire le labbra per rispondere ai miei clamori.

Bisogna forse che quest'occhio, datomi dalla natura, non mi serva ad altro che a piangere?

Come una nuova Galatea, forse disprezzi tu la razza di Polifemo?

C'è forse, in queste valli, un pastore più bello, più ardito, più duro e più alto di me?

Chi è colui che non posso vincere nella lotta, nella corsa, e nell'abilità a lanciare il dardo?

Che lo chiedano ad Alceste, a Sirena e a Melibea, sulle quali, con la mia abilità, conquistai l'altro giorno il premio, ai giochi della dea Pale.

Quale ninfa di questa valle non è stata costretta ad arrendersi, danzando con me, e dov'è quella che, rovesciata sull'erba, non mi preghi di darle tregua, senza nemmeno che io sia sfinito e che il sudore scorra sulla mia fronte?

Cosa temi tu, scontrosa, forse che rompa le siepi che circondano l'entrata della tua roccia? Non sai che, come un serpente, io entro nelle macchie più fitte senza che nulla si veda e che il mio corpo è così leggero, che l'erba sottile reca appena le tracce della mia impronta; e che potrei perfino correre sopra i capelli di Cerere, senza far loro abbassare la testa.

Ma dimmi tu, inumana, quale barbaro umore ti insegna a cospargere ogni mese con un liquido purpureo i bordi della tua caverna? Dimmi tu, quale innocente vittima fornisce la materia per la tua crudeltà?

Non sei tu la figlia di qualche crudele leonessa, piuttosto che di quella madre dolce e pietosa, che a ogni ora si commuove per i miei dolori? Non è lei, ne sono sicuro, che ti obbliga a rifiutarmi, e so che lei è così cortese che verrà a ricevermi alla porta, se mi permetti di avvicinarmi.

E se il tuo rigore estremo mi condanna a morire, sopporta almeno che io renda l'anima nel segreto del tuo antro, dove, troppo avara, tu nascondi i tesori della natura, dell'amore e del piacere; permetti che sia la mia tomba e la mia ultima abitazione; o, se vuoi che resti vivo, accordami la grazia di poter piangere le mie colpe passate dentro quell'eremitaggio, affinché io possa concludere in sì dolce penitenza il resto dei miei giorni.

Temi forse, tu, i fedeli confidenti che mi accompagnano? Ah no! Non temerli affatto, io li lascerò alla porta. Ma cosa! Non sai tu che sono muti, e che essi si rattristano assieme a me, cosicché ho ben motivo di credere che furono messi al mondo solo per contribuire con le lacrime ai miei dolori?

Mi hanno detto che i pastori delle foreste qui vicine, invidiosi del mio intento, spargono la voce che quest'antro è come un altro labirinto dove, attraverso sinuosità e meandri, si finisce senza accorgersene in un abisso, del quale non si è ancora ritrovato il fondo. E aggiungono anche, per cercare di sviarmi, che è pieno di furie e di demoni, come se fosse un passaggio o un ingresso dell'inferno.

Ma io non mi curo delle loro sciocche invenzioni, e penso al contrario che esso racchiuda con le più incantevoli voluttà dell'anima le gioie e le delizie che gli dèi possiedono sulla terra.

Ahimè! Mia Clori, permettimi soltanto di baciare i bordi di questa dimora, e che rispettosamente io vi metta la testa; toglierò la mia ghirlanda di rose per entrarvi con più riverenza, e sii sicura che esporrò ragioni così efficaci, argomenti così stringenti e parole così dolci, che sarai costretta ad ammettere che dalla mia bocca scorre un fiume di latte, e che i movimenti della mia eloquenza sono inevitabili, cosicché alla fine, persuasa e commossa, mi esorterai a entrare nei posti più segreti della tua abitazione e, pentendoti di avermi visto languire così sovente davanti alla tua porta, spargerai con me, pietosamente, lacrime di sangue.

Allora i satiri sull'alto delle rocce batteranno i piedi per l'invidia, e resi forsennati da una rabbia amorosa, correranno brutalmente dietro alle greggi cornute; anche i pastori, gelosi della mia buona sorte e spinti da un insopportabile martello, fuggendo da questa valle deliziosa, condurranno i loro greggi dall'altra parte, verso occidente, e sulle corde mal tese delle loro ribeche stonate, o sulle loro musette mezze sgonfie, con ritornelli negligenti e maneggiamenti delle dita cercheranno di calmare le loro passioni.

Tuttavia, inebriate a sazietà da mille piaceri, le nostre anime si dissolveranno nel fuoco di un amore reciproco e, scambiandosi il posto, esse saranno, contro l'opinione dei saggi d'Arcadia, due forme nello stesso soggetto.

Dopo, ornerò questo delicato boschetto con corone e festoni, che comporrò di mughetto, di narciso, di gelsomino e di rose muschiate.

Poi, metterò sulla porta un guardiano così fedele, che nessun animale, sia domestico o selvatico, oserà avvicinarvisi: e sul frontone, che sembra formato naturalmente da una collinetta di terra e sul quale l'erba più piccola spunta appena, appenderò un quadro, dove si vedrà, a caratteri d'oro, la seguente iscrizione d'amore:

Oh tu!, pastore o cacciatore, chiunque tu sia, spinto dai raggi del Sole o dalla fatica della caccia a cercare il fresco di quest'ombra e di questo ruscello, sappi che questo luogo è l'amabile dimora dove soltanto Tirsi, grazie al favore del destino, ha il permesso di appagare la propria sete d'amore, tuffando la testa infiammata nel cristallo di queste acque e che, in ricompensa dei suoi sacrifici e della sua perseveranza, gli è concesso di entrare nel sacro timore di quest'antro, miracolo della natura; così è stato decretato dalla dea del terzo cielo. Non essere dunque così temerario, da avvicinare la testa profana a quest'ombra, o la bocca empia a questo ruscello, o sarai fulminato dal grande dio dell'Olimpo come un temerario insolente, spregiatore degli dèi.

Così sospirava Tirsi, allorché Clori, commossa dalle sue bellezze, dalla sua fermezza, dalla sue lacrime, dai suoi doni, dalla sua vigorosa giovinezza e dal suo stile, gli socchiuse a metà l'ingresso della sua dimora, non senza qualche resistenza vezzosa, accompagnata da un certo dolore, che fece sì che, per quel giorno, ella lo pregò di arrestarsi sulla soglia della porta, affinché, moderando la sua violenza, lei potesse elogiarne la discrezione, rimandando all'indomani l'esibizione delle opere rare che la natura aveva artificiosamente composto, con le proprie mani, per la felicità di quel pastore innamorato.

| << |  <  |