Autore Huw Lewis-Jones
Titolo I giornali di bordo
SottotitoloL'arte di raccontare i viaggi per mare
EdizioneRizzoli, Milano, 2019 , pag. 304, ill., cop.rig., dim. 27,3x19,4x3,3 cm , Isbn 978-88-918-2471-4
OriginaleThe Sea Journal. Seafarer's Sketchbooks
EdizioneThames & Hudson, London, 2019
TraduttoreSimone Buttazzi, Stefano Chiapello
LettoreGiorgio Crepe, 2020
Classe mare , viaggi , natura , illustrazione












 

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Indice


  8 PREFAZIONE - SIAMO TUTTI PARTE DELL'EQUIPAGGIO
    Don Walsh

 10 INTRODUZIONE - ACQUE INESPLORATE
    Huw Lewis-Jones


    APPUNTI DI MARE

 20 GEORGE ANSON
 22 LOUIS APOL
 28 SIGISMUND BACSTROM
 34 JEANNE BARET
 36 EDWARD BARLOW
 38 FRANCIS BEAUFORT
 42 CHARLES BENSON
 46 PETER BLAKE
 48 WILLIAM BLIGH
 54 ELSE BOSTELMANN

 58 DEVI SOLO TUFFARTI
    Robin Knox-Johnston

 62 ANNIE BRASSEY
 64 GABRIEL BRAY
 66 JOHNNY BROCHMANN
 72 FRANCIS CHICHESTER
 74 LOUIS CHORIS
 80 FREDERIC CHURCH
 82 WILLIAM COATES
 86 ADRIAEN COENEN

 90 LASCIARSI TRASPORTARE
    Roz Savage

 94 JOHN KINGSLEY COOK
100 EDWARD CREE
104 AARON CUSHMAN
108 JOSEPH DESBARRES
112 FRANCIS DRAKE
116 JOHN EVERETT
122 EDWARD FANSHAWE
124 ROSE DE FREYCINET
126 VASCO DA GAMA

130 VIAGGI IMPROBABILI
    Spider Anderson

134 JOSEPH GILBERT
138 KONRAD GRÜNEMBERG
140 ZHENG HE
142 ERIK HESSELBERG
146 GLORIA HOLLISTER
148 FRANK HURLEY
154 KUMATARO ITO
158 ROCKWELL KENT

160 RIPETERE L'ESPERIENZA
    Arved Fuchs

168 BENJAMIN LEIGH SMITH
170 HENRY MAHON
174 NEVIL MASKELYNE
178 WILLIAM MEYERS
182 GEORG MÜLLER
188 HORATIO NELSON
192 PAUL-ÉMILE PAJOT

198 DOVE TERMINA LA STRADA
    Philip Marsden

202 JULIUS PAYER
206 ANTONIO PIGAFETTA
210 NICHOLAS POCOCK
216 PIRI REÌS
220 BARTHOLOMEW SHARP
224 WILLIAM SMYTH
230 WILLIAM SPEIDEN
236 OWEN STANLEY

242 NEL PIÙ PROFONDO SUD
    Rodney Russ

246 GEORG STELLER
248 TOMAS DE SURÍA
252 GUILLAUME LE TESTU
256 GEORGE TOBIN
262 TUPAIA
266 WILLIAM TURNER
272 SUSAN VEEDER
276 WILLEM VAN DE VELDE

280 CARTA E GHIACCIO
    Kari Herbert

284 ROBERT WEIR
286 GERRIT WESTERNENG
292 W1LLIAM WYLLIE


296 BIOGRAFIE
297 BIBLIOGRAFIA SELEZIONATA
300 CREDITI DELLE ILLUSTRAZIONI
301 RINGRAZIAMENTI
302 INDICE  DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI


 

 

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PREFAZIONE - SIAMO TUTTI PARTE DELL'EQUIPAGGIO

Don Walsh


                                Chi viaggerebbe sul mare per non riferire
                                mai nulla e per il solo piacere di vedere,
                                senza aver mai la speranza di comunicarlo
                                ad altri?
                                                       BLAISE PASCAL, 1669



Giù, giù, sempre più giù nell'oscurità degli abissi, in un viaggio come nessun altro, verso il punto più profondo del mondo oceanico, nella Fossa delle Marianne, a est delle Filippine, dove nessuno era mai stato. Dopo cinque ore nel batiscafo Trieste della marina statunitense avevamo toccato terra, a quasi 11.000 metri sotto il livello del mare, e che cosa avevamo trovato? Non molto, a essere proprio sinceri. La scoperta più importante era stata un singolo pesce, piatto, simile a un halibut, che costituiva se non altro la testimonianza che c'era vita anche a queste profondità. Non avevamo scattato foto né disegnato schizzi, perché tutto ciò che si vedeva oltre i finestrini rinforzati era una nebbia bianca di sedimenti che il batiscafo aveva sollevato dal fondale: era come stare dentro un bicchiere di latte.

Il mio copilota, in questo viaggio del 1960, era l'ingegnere svizzero Jacques Piccard, il cui padre Auguste aveva progettato il primo batiscafo e pilotato all'inizio degli anni Trenta un pallone aerostatico a un'altitudine record, non alla ricerca della fama ma allo scopo di raccogliere dati sui raggi cosmici. Io e Jacques avevamo il compito di collaudare quello che doveva essere un nuovo strumento per la ricerca oceanica. A circa 9500 metri avevamo sentito un botto, ma non eravamo riusciti a identificarne la causa; giunti sul fondo del mare, tuttavia, avevamo scoperto che su un finestrino curvo di materiale plastico posto sul retro della galleria d'entrata si era formata un'enorme crepa. Di conseguenza la nostra permanenza sul fondale aveva dovuto limitarsi a venti minuti, alla fine dei quali avevamo iniziato la fase di emersione. Solo nel 1995 un veicolo giapponese, robotizzato e controllato a distanza, sarebbe sceso di nuovo in quell'abisso per registrare le prime immagini del luogo più profondo della terra, e a oggi solo un'altra persona oltre a noi è stata laggiù. Nel nostro viaggio, impiegammo tre ore a riemergere. Dieci giorni dopo eravamo a Washington, dove incontrammo il presidente alla Casa Bianca.

Quasi sessant'anni dopo, scrivo queste righe su una nave che costeggia il Madagascar, e qualche giorno dopo, al largo del Capo di Buona Speranza, mentre attraverso l'Atlantico meridionale invio dal mio portatile questi pensieri; è incredibile pensare che le e-mail che mando dalla mia cabina, attraverso il sistema satellitare, ricevono una risposta quasi immediata. Quante cose sono cambiate nei decenni in cui sono stato sul mare; nei miei primi viaggi con la marina, comunicare con il resto del mondo significava usare l'alfabeto morse o le buone vecchie lettere con il francobollo.

Il mio primo viaggio in mare aperto risale al 1951, quando ero un giovane ufficiale dell'Accademia navale statunitense. La nostra missione estiva sulla nave da guerra Winsconsin prevedeva l'attraversamento dell'Atlantico settentrionale fino a Edimburgo, dal quale avremmo raggiunto Lisbona per poi puntare verso Cuba, dove sarebbero cominciate le esercitazioni di tiro con i nostri cannoni di calibro 406 mm. Da quel momento ho viaggiato per mare con regolarità, e ho anche comandato due navi; in tutto, sono sessantasette anni da marinaio, per cui, quando mi chiedono che cosa significhi il mare per me, penso che la risposta più esaustiva sia: è dove voglio stare. Samuel Johnson disse che «quando gli uomini arrivano ad amare la vita in mare, non sono più adatti a vivere a terra»; erano gli anni Settanta del Settecento, ma ancora oggi c'è qualcosa di vero nelle sue parole.

Ho grande ammirazione per i marinai di ogni epoca. Molti di loro non hanno lasciato tracce, né giornali di bordo né lettere, e le loro storie sono svanite con il tempo: intrepidi vichinghi, mercanti cinesi in giunche più grandi di ogni altra imbarcazione dell'epoca, esploratori polinesiani che avevano attraversato per miglia l'oceano sulle loro canoe, molto prima che gli europei giungessero in Nord America. Per alcuni Magellano è un eroe, ma io preferisco Francis Drake: è stato sì il secondo uomo a circumnavigare il globo, ma almeno è tornato vivo. Molti hanno provato a dare una definizione di ciò che rende grande un viaggio, ma il mio pensiero in proposito è molto semplice: l'esplorazione è un atto di curiosità. Noi umani possediamo tutti il "gene della curiosità", ma sono pochi quelli che, spinti da ciò, decidono di passare all'azione.

Essere un vero esploratore significa viaggiare alla frontiera della conoscenza, essere parte attiva del processo di scoperta; non ci sono viaggi brutti, solo viaggi interessanti, perché tutto accresce la nostra esperienza, e in mare - sulla sua superficie come a centinaia di metri sotto di essa - l'esperienza è importante tanto quanto l'immaginazione. I veri esploratori vogliono vedere che cosa c'è dietro la montagna che hanno davanti, e quando sono in mare che cosa si nasconde dietro l'orizzonte, o nell'oscurità degli abissi.

Prestando servizio su navi di ogni tipo ho tenuto giornali di bordo e diari, ma oggi la maggior parte dei miei appunti l'ho scritta nella mente; non dovete pensare che sia per noncuranza, ma piuttosto ricordare che l'andare per mare è strettamente legato al racconto orale della storia. I fatti si perdono o vengono cambiati in meglio, quando vengono raccontati? Chi può dirlo. In portoghese esiste l'espressione história de pescador, così come in italiano c'è il "racconto del pescatore": fin dai primi viaggi, i marinai hanno raccontato storie di creature gigantesche e mostri fantastici avvistati nell'oceano, e ancora oggi alcune cose restano difficili da spiegare.

Nei giornali di bordo possiamo scoprire meraviglie, e questo libro esplora collezioni di tutto il mondo per portarle alla luce; è un vero e proprio baule pieno di tesori d'arte marittima. Solo il quindici per cento dei nostri oceani è stato finora esplorato, e c'è ancora molto da scoprire sul nostro pianeta, anche se preferiamo pensare a tornare sulla Luna o a spedire qualcuno su Marte. Per ora, tuttavia, siamo confinati su questa Terra, e io credo che sia più importante capire come essa funziona e tentare di porre rimedio ai danni che stiamo provocando. Dobbiamo farlo assolutamente. Come scrisse Marshall McLuhan, «sull'astronave Terra non ci sono passeggeri. Siamo tutti parte dell'equipaggio».

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INTRODUZIONE - ACQUE INESPLORATE

Huw Lewis-Jones


                                C'è qualcosa di magico nella distanza,
                                là dove la linea del mare incontra il cielo.

                                                          ALFRED NOYES, 1930



Quando il tè ti va a finire sulle scarpe, capisci che la situazione è brutta. Ma può peggiorare. Una volta al sicuro in coperta, nella mia cabina, provo a compilare il giornale di bordo. La tazza di latta con il tè è sul pavimento, stretta tra i miei stivali di gomma, e la mia schiena è salda contro la cuccetta. L'oblò sopra di me è sprangato e coperto da uno strato di ghiaccio spesso due centimetri; ogni volta che il mare si gonfia, le onde oscurano il sole, basso sull'orizzonte. Dal ponte si vede solo oceano, a perdita d'occhio, mentre vanno ammassandosi nubi tempestose grigio acciaio e viola livido; lontani, all'orizzonte, si scorgono iceberg, che appaiono sparpagliati sullo schermo del radar. Qualche giorno prima abbiamo attraversato il Circolo antartico, procedendo a buon ritmo, ma la scorsa notte le onde si sono fatte più alte e venti forti sono arrivati da sud. Ora, mentre ci facciamo largo tra i flutti, la nave arranca e scricchiola. Penso ai marinai che hanno navigato questi mari prima di noi, su imbarcazioni di legno: in condizioni simili erano costretti a scappare dal vento o a ripiegare le vele e superare la tempesta sotto gli alberi nudi; una notte del genere per loro sarebbe stata lunga, senza mappe elettroniche a guidarli, senza poter contare su eventuali soccorsi in caso di necessità.

Per l'immaginazione, il mare è una tela bianca, e che siano quelli di un marinaio, di un artista, di un passeggero o di un turista che dalla spiaggia si gode il panorama, i nostri occhi e le nostre menti continuano a essere attratti dal mare. Le navi fanno parte della storia dell'uomo dai tempi antichi, e i nostri tentativi di vincere la sfida con l'oceano sono iniziati molto prima delle storie che li raccontano; imbarcazioni di ogni genere hanno affrontato il mare, trasportando genti e idee intorno al mondo, e uomini e donne, famiglie e nazioni hanno tentato l'impossibile imbarcandosi in questi viaggi. Alcune delle storie più antiche giunte fino a noi sono racconti di viaggi per mare.

Da quell'epoca per i marinai molte cose sono cambiate: le coste del mondo sono oggi conosciute, e le loro insidie riprodotte sulle mappe. Un secolo fa, i ponti delle navi erano aperti e non c'era alcun sistema di guida automatica in grado di mantenere la rotta come quelli che esistono oggi: quando le condizioni si facevano difficili, i navigatori non avevano sempre la possibilità di mettersi al riparo, e dovevano restare all'aperto, al timone o sui pennoni; non c'erano nemmeno argani di cui servirsi per controllare le vele e le sagole. La vita in mare rendeva forti e duri, abituava ai frequenti sbalzi d'umore della natura. La preghiera del capitano elisabettiano John Davis riassume bene il concetto. Veterano dell'Artide, aveva sperato di circumnavigare il globo, ma la sorte gli era stata avversa, e nel 1592 il suo equipaggio era ridotto a soli cinque uomini in grado di lavorare: «Oh Signore, se quel che ci aspetta è la morte» scrisse Davis nel suo giornale, «preferirei morire avanzando che battendo in ritirata.»

Molte navi finiscono per naufragare, affondare, per essere demolite o vendute, e solo poche sopravvivono: è la legge della storia. Mentre scrivo il mio giornale, ben saldo contro la cuccetta, mi tornano in mente le navi che si sono spinte a sud fino a giungere in queste acque: l' Erebus e la Terror sono state le prime a penetrare il Mare di Ross, nel 1841, e sono state in seguito assegnate a una spedizione artica, durante la quale si sono perse le loro tracce. I primi uomini a svernare sul continente antartico, nel 1899, viaggiarono sulla Southern Cross, che nel 1914, mentre navigava, urtò un banco di ghiaccio e affondò nei pressi di Terranova. Nel 1917 l' Aurora, nave a vapore di Douglas Mawson, scomparve nell'oceano: mentre rientrava in Nuova Zelanda fu affondata dallo scoppio di una mina piazzata dall'incrociatore tedesco Wolf e tutto ciò che ne rimase fu un salvagente coperto di crostacei recuperato in acque australiane.

A questo punto sembra evidente che il mal di mare è l'ultima delle preoccupazioni di un marinaio: in queste pagine incontriamo scorbuto, attacchi di squali e pirati, avvelenamenti, fame, dissenteria, uragani, addirittura atti di cannibalismo, e arriveremo al punto di chiederci perché mai qualcuno decida di imbarcarsi su una nave. Alla deriva su una barca scoperta, o nella bonaccia senza un filo di vento, certe parti del Pacifico sono senz'altro più simili a un deserto che a un oceano: il sole batte, feroce e impietoso, non c'è modo di ripararsi né di muoversi, non c'è una goccia d'acqua da bere. Ovviamente nel corso dei secoli la vita di mare ha dato ai marinai niente meno che questo: una vita. Il mare è stato un'opportunità, una promessa - se non una realtà - di libertà, una possibilità di lavoro, un modo per fuggire, un'idea di nuove terre oltre l'orizzonte; ma non per tutti, perché a molti marinai ha invece tolto la vita.


Navigare gli oceani richiede abilità ed esperienza. Le carte nautiche, e spesso anche la navigazione a vista vicino alla costa, sono state gli strumenti che hanno permesso alle navi di completare le loro rotte, mentre i giornali di bordo sono stati i loro naturali compagni di viaggio. I mercanti italiani del XIII secolo realizzarono i primi portolani del Mediterraneo, e i viaggi straordinari attraverso l'Atlantico dei navigatori europei alla volta del Nuovo Mondo e, a oriente, verso l'India e le isole delle spezie furono il risultato e insieme un elemento determinante per lo sviluppo della cartografia e delle nuove tecnologie. Nel XVIII secolo la scoperta e la mappatura delle coste e degli oceani del mondo divenne un obiettivo primario delle strategie politiche e commerciali.

I navigatori percorsero la rotta di Magellano nel Pacifico, attraverso lo stretto che porta il suo nome, e in seguito si spinsero più a sud, alla ricerca delle coste di un continente sconosciuto, o a nord, verso un labirinto artico di isole e ghiaccio. James Cook, un astronauta dell'Illuminismo, sceglieva con cura i suoi marinai e i suoi ufficiali, molti dei quali erano anche abili con matita e pennelli; spesso alle spedizioni si univano artisti di bordo, come William Hodges, e gli album che ci sono pervenuti raccontano i loro viaggi in ogni parte del mondo. I giornali di bordo ci restituiscono un po' della brezza marina che ha accarezzato i loro visi, ci fanno viaggiare nel tempo e ci guidano in un viaggio tutto nostro. Le spedizioni partite da diverse parti del mondo nel corso della storia hanno gradualmente ridefinito i confini di ciò che è spaventoso e sconosciuto, e in questi viaggi il pericolo è sempre stato in agguato. Scrivere il giornale di bordo per i navigatori era spesso una routine, o forse un modo per sconfiggere la noia e la paura, bloccati tra i ghiacci, alla deriva, nella bonaccia, in attesa della balena o diretti verso casa; in ogni caso, era sempre un atto di speranza, mosso dal desiderio di lasciare qualcosa che avesse un valore. Pensiamo a James Teer, che naufragò con la General Grant nei pressi delle isole Auckland, e nonostante la situazione di estrema difficoltà sentì comunque il bisogno di tenere un giornale; i sopravvissuti raccontano che se n'era fabbricato uno con la pelle di foca, su cui scriveva con legnetti carbonizzati raccolti da quel fuoco che cercavano di tenere acceso a tutti i costi, e dal quale, nel freddo atroce e umido del remoto sub-antartico, dipendevano le loro vite. Per un naufrago come Teer, il giornale era un conforto, un simulacro di ordine in circostanze estreme; purtroppo è andato perduto, ma questo libro ne raccoglie molti altri, incluso quello del brillante Frank Hurley. Naufragato in Antartide con la spedizione di Shackleton, e rimasto per diversi mesi su un' isola inospitale dei mari dell'estremo Sud, in un rifugio costruito con pietre e una barca rovesciata, Hurley tenne un giornale; questo lo aiutò a sopravvivere, gli diede un futuro.

                                Frank Hurley tenne un giornale dettagliato della spedizione
                                dell'Endurance di Ernest Shackleton (in alto a sinistra),
                                raccontando le disavventure dell'equipaggio «in quel mare
                                di giaccio alla deriva» fino al salvataggio, nel 1916.
                                Pagine del giornale di Solomon Baratow (a sinistra),
                                scritto durante un viaggio di quattro anni nel Pacifico
                                meridionale, mostrano un capodoglio e le bandiere delle navi.

Per molti marinai, dunque, tenere un diario o un giornale di bordo non era soltanto una pratica di navigazione - per determinare dove ci si trovava e dove si stava andando - ma anche un modo per collocarsi emotivamente all'interno di un mondo capovolto: un giornale poteva combattere solitudine, paura, frustrazione e anche prevenire l'ammutinamento. Per William Bligh del Bounty, alla deriva su una barca scoperta, compilare accuratamente un giornale di bordo significava lasciare una testimonianza importante; mentre cercava una via di salvezza attraverso l'inesplorata barriera corallina australiana, badò a descrivere gli ammutinati e i segni che portavano sulla pelle, perché potessero essere identificati e catturati. Nonostante tutte le difficoltà, non dimenticò di descrivere le coste sconosciute sulle quali approdava; in costante esplorazione, era un marinaio abilissimo e un artista brillante, e non il mostro marino ritratto nei film di Hollywood. Un semplice giornale di bordo contribuì a tenere in vita Bligh e i suoi compagni.

                                Il baleniere Joseph Ray, a bordo dell'Edwsrd Cary,
                                decorò il suo giornale con questa prima pagina
                                ad acquerello (pagina a fianco); Perry Winelow era
                                il capitano della nave, che salpò da Nantucket nel 1959.



Fin dai primi viaggi, gli ufficiali di bordo venivano invitati ad annotare tutto: «Portati carta e inchiostro» dice un marinaio istruito di fine Cinquecento, «e tieni un diario aggiornato [...] che possa essere mostrato e letto al tuo ritorno.» E non solo per quanto riguardava la navigazione, ma anche in occasione di escursioni sulla terraferma: «Un viaggiatore curioso dovrebbe sempre avere con sé carta, penna e inchiostro» scrive un altro. Tenere un giornale significava mantenere un atteggiamento di osservazione costante, e la registrazione dei dati si traduceva nella possibilità di condividere le informazioni, una volta rientrati sani e salvi a casa.

Tutti gli schizzi raccolti in questo libro sono sopravvissuti a lunghi viaggi e sono testimonianze di grandi esplorazioni e di intime storie personali. James Cook amava utilizzare l'espressione "viaggi di scoperta", quando parlava delle sue imprese; cartografo brillante già prima di avventurarsi nel Pacifico, i suoi furono itinerari anche emotivi e intellettuali, lungo i quali incontrò uomini che avevano a loro volta storie di viaggio da raccontare, maori, tahitiani e hawaiani che avrebbero collocato quel misterioso visitatore sulle loro mappe in modi che Cook non avrebbe potuto comprendere né controllare. Il navigatore tahitiano Tupaia, con la sua conoscenza del mare di isole del Pacifico, fu un aiuto fondamentale per Cook; per generazioni di viaggiatori polinesiani, infatti, il mare non aveva costituito un ostacolo, ma una via.

Che cos'è dunque un viaggio? Nella sua accezione più semplice è uno spostamento, in questo caso per mare, da punto sulla Terra a un altro. "Scoperta", invece, deriva dal latino dis-cooperire, ovvero "rimuovere ciò che copre", "scoperchiare", "svelare". Inizialmente, in francese antico, il termine era utilizzato per indicare un tradimento o una rivelazione malevola (con "scopritore" originariamente si intendeva "informatore"), ma iniziò a essere usato nella sua accezione moderna e positiva di "avvistatore dell'ignoto" a partire da metà del Cinquecento, e i giornali di bordo sono effettivamente pieni di scoperte e avvistamenti dell'ignoto di ogni genere.

I viaggi di scoperta come quelli di Cook erano esplorazioni vere e proprie. Il verbo "esplorare" deriva anch'esso dal latino: explorare significa "investigare", "esaminare", ma ha anche l'accezione originaria meno ovvia, usata nella caccia, di "lanciare un grido"; in questo senso, gli esploratori partono per scoprire e per gridare al mondo le proprie scoperte. Un altro termine ricorrente nei giornali dei marinai è "avventura", che deriva dal latino ad ventura, ovvero qualcosa "che sta per succedere"; il suo significato più concreto è quello di un mix di spontaneità e futuro, con l'aggiunta di rischio e pericolo. Nel XV secolo avventura avrebbe significato "impresa pericolosa", e nel XVI "romanzo" o "aneddoto emozionante"; a quanto pare, nel XIII secolo significava "meraviglia", "miracolo", "racconto di cose straordinarie". Anche oggi pensando all'avventura ci possono venire in mente molte cose: un'impresa rischiosa dal risultato incerto, una sequenza emozionante di eventi, una speculazione finanziaria. I viaggi storici sono stati spesso tutte queste cose insieme, con i navigatori che scommettevano, rischiavano e spesso portavano a casa testimonianze di meraviglie. Nei giornali di bordo sono rappresentate le meraviglie degli abissi, perché come dice Agostino «gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri» e così facendo «trascurano se stessi.»

                                Pagina a fianco: Giornale di bordo di George Bliss
                                della baleniera William Baker, che nel 1838 partì
                                da Warren, nel Rhode Island, diretta nell'Atlantico
                                meridionale.



Dai registri nautici ai blog online, da molti secoli i navigatoti tengono giornali di bordo, registrando dati e osservazioni. Le loro pagine sono piene di scoperte personali e di riflessioni che ci aiutano a farci un'idea dei rischi e dei piaceri della vita in mare, e leggendoli possiamo condividere le loro esperienze. Quella che segue è una raccolta di opere originali e straordinarie, che spero riesca a restituire lo spirito dell'oceano e degli uomini e delle donne che hanno risposto alla chiamata del mare imbarcandosi, viaggiando tra tramonti, tempeste e silenzi, scambi commerciali e guerre, disastri e imprese. Dallo sterminato ghiaccio dell'Artide all'afoso Pacifico meridionale, dalle coste ai fondali, artisti e pionieri hanno immortalato ciò che hanno visto con matite, colori e inchiostro, e le loro parole, i loro appunti e i loro schizzi si possono ritrovare tra le pagine di giornali di bordo sgualciti, taccuini, registri nautici, diari e quaderni con la copertina di tela: rappresentano la paura e l'attrazione dell'oceano vissuto in prima persona, dei confini del mondo visti per la prima volta.

Il processo di creazione di questo libro è stato un'esplorazione continua, una caccia al tesoro, una ricerca in oscure biblioteche, collezioni private, soffitte polverose e scrigni in fondo al mare di oggetti rari magari passati da una generazione all'altra, spesso dati per persi. Tornati dalle loro esplorazioni, i giornali di bordo partono per altri viaggi, e le loro possono essere storie curiose: sopravvissuti a naufragi, tempeste, ammutinamenti, guerre o semplicemente all'abbandono, portano addosso i segni della loro vita in mare, che li rendono ancora più straordinari.

Quella che abbiamo è anche l'opportunità di ripercorrere le memorabili vite dei navigatori, e ciò richiede una ricerca ancora più approfondita in ogni sorta di archivio; le storie interessanti però si fanno trovare, se si ha il tempo di cercarle. In queste pagine ci sono ovviamente i navigatori più famosi - tra i quali da Gama, Drake, Nelson, Bligh -, anche quelli più vicini a noi - Francis Chichester e Peter Blake -, ma pure la moglie di un cacciatore di balene, un cuoco di bordo, un cartografo, un mozzo, marinai e chirurghi, viaggiatori e mercanti, artisti celebri e un paio di pirati. Tra gli equipaggi, poi, troviamo un alchimista tedesco, un ammiraglio turco, un botanico francese, un pescatore olandese, un prete tahitiano e tanti altri.

Dietro i comandanti delle spedizioni più famose c'era sempre un equipaggio di talento, determinante per il successo dell'impresa: a raccontare il grande viaggio di Magellano, ad esempio, non fu il capitano stesso, ma Antonio Pigafetta, studioso vicentino che navigò intorno al mondo con l'esploratore portoghese e che, al contrario di quest'ultimo, sopravvisse per raccontare la sua storia. Senza le sue cronache e il suo giornale, impreziosito da alcune delle primissime carte delle isole del Pacifico, gran parte della storia di Magellano sarebbe andata perduta. Un viaggio che nel XX secolo conquistò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo fu quello della zattera Kon-Tiki, ma invece del suo capitano, il norvegese Thor Heyerdahl, raccontiamo del navigatore Erik Hesselberg, così come invece di James Cook parliamo qui del suo navigatore, Joseph Gilbert, e invece dell'esploratore francese Bougainville, che ha dato il suo nome a località e piante, compare qui un'altra appassionata di piante, la brillante Jeanne Baret, prima donna a circumnavigare il globo, una passeggera clandestina che fece grandi sacrifici in nome della scienza. «Rischi del genere» scriveva Cook, «sono gli inevitabili compagni degli uomini che si cimentano in queste Esplorazioni.» È proprio così, ma non sono stati solo gli uomini a osare viaggi degni di essere ricordati: nella storia del famoso oceanografo William Beebe, che affascinò il mondo con il racconto radiofonico della sua discesa a oltre novecento metri di profondità, bisogna includere due delle molte donne che parteciparono alle sue spedizioni e contribuirono alla realizzazione delle sue scoperte, la tedesca Else Bostelmann e l'americana Gloria Hollister.

Questa raccolta inizia con il commodoro Anson, pioniere della circumnavigazione, a cui seguono molti altri, di varie nazionalità, che hanno descritto e illustrato nei modi più disparati le coste, le creature e le genti che hanno incontrato. Incontriamo anche alcuni marinai di oggi, che riflettono sui loro viaggi: Don Walsh ci porta nel punto più profondo dell'oceano, Roz Savage combatte con l'Atlantico, Rodney Russ si spinge alle estremità più meridionali, altri esploratori e artisti ci offrono scorci della loro vita in mare. E terminiamo con William Wyllie, che visse poco distante da quella che oggi è la casa di Portsmouth di Robin Knox-Johnston. Come molti degli uomini di mare che compaiono qui, Wyllie era innamorato dell'oceano, delle sue bellezze, delle sue sfide e delle innumerevoli navi che lo solcano; realizzò molti dei suoi schizzi in mare, spesso su imbarcazioni da lui stesso costruite, ma dipinse anche all'asciutto, sulla terraferma. Più o meno. Durante l'alta marea primaverile, o quando il vento spazzava il Solent, le onde raggiungevano le porte di legno di casa sua, e il suo studio si allagava, nonostante i suoi sforzi di sigillare gli infissi: si trovava a dipingere a piedi nudi, con i pantaloni e i mutandoni arrotolati a mezza gamba, mentre i suoi figli tiravano via l'acqua con i secchi.

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SIGISMUND BACSTROM 1750-1808


                                Alle estreme latitudini una tempesta è così fredda
                                [...] che strappa letteralmente via la pelle
                                dalla faccia.



Una delle più antiche immagini di balene di tutto l'archivio del Museo di storia naturale di Londra è uno schizzo realizzato da uno sconosciuto chirurgo tedesco, che in seguito si sarebbe interessato all'alchimia e alla traduzione dei geroglifici e avrebbe provato a distillare luce dalla Luna.

Sigismund Bacstrom visse gran parte della sua vita adulta su una nave o nella città di Londra. Fa la sua prima comparsa negli archivi grazie ad alcune lettere in cui offre i propri servigi al famoso botanico Joseph Banks, che stava pianificando di unirsi a James Cook nella sua seconda spedizione nel Pacifico. Banks e Cook non riuscirono a mettersi d'accordo e non se ne fece nulla, così, dopo aver messo insieme equipaggio e attrezzatura per un grande viaggio, Banks decise invece di dirigersi a nord. Affittò il brigantino Sir Lawrence e partì il 12 luglio 1772, stesso giorno in cui Cook lasciò con la sua nave la Baia di Plymouth; con lui viaggiavano Bacstrom, che era diventato il suo segretario personale, il botanico svedese Daniel Solander, due disegnatori bavaresi, i fratelli James e John Müller, un cuoco francese, un giardiniere e un seguito di servitori.

Nel 1775, concluso il suo servizio al seguito di Banks, Bacstrom iniziò una collaborazione pluriennale con William Kent, capitano e collezionista di piante: tra il 1780 e il 1786 fece poi quattro viaggi a nord verso le stazioni di pesca in qualità di chirurgo e due spedizioni in Africa occidentale e in Giamaica su navi che trasportavano schiavi. Pensò di partire per l'Australia allo scopo di raccogliere esemplari botanici per un collezionista, ma poi preferì aiutare Edward Shute nella realizzazione di un laboratorio "chimico" per la preparazione di medicinali. Nel 1789, però, il suo datore di lavoro morì, e Bacstrom e sua moglie si ritrovarono costretti a vendere i propri vestiti per pagare l'affitto.

Alla fine Bacstrom venne invitato a unirsi a una spedizione commerciale nel Pacifico, il cui obiettivo dichiarato era quello di scoprire «spezie preziose e prodotti naturali». La flottiglia di tre navi mercantili partì nel 1791, in realtà con la missione di contrastare il monopolio spagnolo del commercio delle pelli nella zona della Baia di Nootka, sulla costa nordoccidentale del Nord America. Banks disse a Bacstrom che l'avrebbe pagato per ogni specie di pianta che gli avesse portato: «Sei pence per ogni esemplare che abbia fiori o frutti, e uno scellino nel caso ci siano tutti e due.»

Le cose precipitarono una volta raggiunta la Baia di Nootka, quando il comandante della spedizione permise ai suoi uomini di derubare e uccidere alcuni indigeni Nuu-chah-nulth. Bacstrom abbandonò la nave e cercò rifugio nell'accampamento militare spagnolo, e il suo successivo tentativo di tornare a casa si rivelò un'impresa di proporzioni epiche: prima raggiunse l'Alaska su un brigantino proveniente da Newcastle, poi si imbarcò su una nave americana che trasportava pellicce in Cina, per rimanere infine bloccato a Canton quando la nave venne sequestrata dai britannici. Trovò un posto su una ex East Indiaman (classe di navi mercantili inglesi), ma l'equipaggio francese ammutinò nei pressi del Capo di Buona Speranza e Bacstrom restò rinchiuso per sei mesi in una prigione delle Mauritius.

È qui, a quanto pare, che venne a conoscenza di alcuni segreti dell'arte alchemica e divenne membro di una loggia massonica. Comprò un passaggio su una nave americana diretta a New York, che anche in questo caso venne catturata dalla marina britannica e tirata in secca alle Isole Vergini britanniche. Riuscì finalmente a raggiungere Londra nel 1795, quattro anni e otto mesi dopo la sua partenza, e per un po' si mantenne vendendo schizzi e illustrazioni del suo avventuroso viaggio intorno al mondo.

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JEANNE BARET 1740-1807


                                Ebbe il coraggio di affrontare la fatica, i pericoli
                                e tutto quello che ci si può realisticamente aspettare
                                da un viaggio del genere.

                                La sola immagine che abbiamo oggi di Baret è un'incisione
                                del 1816 inclusa in un'edizione italiana dei viaggi di Cook.
                                La spedizione di Bougainville raggiunse Tahiti, o Nuova
                                Citera, nell'aprile 1768. Fu qui che il segreto di Baret
                                venne svelato.



Nell'aprile 1768, due navi della marina francese gettarono l'ancora di fronte alla costa di Tahiti. Sulla spiaggia c'era una donna terrorizzata, circondata da uomini tahitiani, che gridava invocando aiuto. Gli ufficiali si accorsero che si trattava di un membro del loro equipaggio: «Avevano scoperto che il servitore del signor Commerson era una donna» racconta un osservatore, «che fino a quel momento era stata scambiata per un ragazzo.» Se le cose stanno così, Jeanne Baret era riuscita a celare la sua vera identità per quasi un anno e mezzo, nonostante vivesse a contatto ravvicinato con 115 ufficiali e marinai a bordo dell' Étoile, la nave di supporto della famosa spedizione di Louis-Antoine de Bougainville, la prima missione scientifica francese intorno al mondo.

Baret si era unita all'equipaggio fingendosi il valletto del suo amante, il botanico Philibert Commerson; anche se non era una pratica comune, appellandosi all'affollamento della nave i due avevano ottenuto di condividere la cabina, ma presto avevano cominciato a sorgere i primi sospetti: Baret non era mai stata vista fare i propri bisogni nei bagni, e Vivés, il chirurgo di bordo, si accorse della particolare cura che Baret dedicava al suo signore, che «non sembrava naturale per un inserviente maschio». Le voci si fecero più insistenti quando la spedizione attraversò l'equatore e l'equipaggio si spogliò per il consueto rituale che accompagnava l'avvenimento, mentre Baret rimase vestita. Quando gliene venne chiesta la ragione, dichiarò di essere un eunuco, cosa che provocò una tale meraviglia e repulsione che nessuno osò più dire nulla.

La nave proseguì verso il Brasile e attraversò lo Stretto di Magellano, e a un certo punto Commerson e Baret sbarcarono sulla terraferma per raccogliere esemplari di piante; rallentato da un infortunio alla gamba, il botanico fu costretto a fare affidamento su Baret, che si inerpicava su pendii ripidi e sdrucciolevoli e ritornava portando piante da includere nella sua collezione, tra le quali il rampicante tropicale che avrebbe portato il nome del comandante della spedizione, la bougainvillea. Alcuni membri dell'equipaggio la chiamavano la "bestia da soma» di Commerson.

Scorbuto e malnutrizione colpirono duramente gli uomini di Bougainville, che giunti all'altezza della Nuova Guinea faticavano a manovrare la nave; i malati erano stesi su giacigli preparati con sacchi e vele, la puzza sottocoperta era diventata insostenibile, c'erano ratti dappertutto. Baret sopportò ogni difficoltà mantenendo il suo travestimento, ma alla fine il segreto venne svelato.

Anche se Bougainville scrisse che la rivelazione avvenne a Tahiti, altre quattro versioni dell'accaduto affermano che la donna venne circondata e spogliata dall'equipaggio mentre si trovavano alle Nuove Ebridi, oggi Vanuatu. Bougainville permise a Baret di restare a bordo, nonostante la sua presenza contravvenisse alle sue regole di navigazione. Per fortuna, a Commerson venne offerto un lavoro al giardino botanico di Pamplemousses, sull'Île de France, oggi Mauritius, e Baret, incinta di sette mesi, rimase con lui. Commerson morì quattro anni dopo, e a quel punto Baret decise di tornare a casa. Con il suo arrivo a La Rochelle, nel 1775, nove anni dopo la sua partenza, divenne la prima donna ad aver completato una circumnavigazione del globo; la sua storia divenne nota, e Bougainville chiese che il ministero della Marina stanziasse una pensione annuale per «questa donna straordinaria».

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CHARLES BENSON 1830-1881


                                Il mare è come vetro, gli uccelli volano tutto intorno
                                a noi e sembra che al mondo ci siamo solo noi e loro.
                                Tutto è immobile e remoto.



Com'è triste la vita di mare» lamentava Charles Benson nel suo diario, nel 1862. «Se sopravvivo, voglio smettere.» Nonostante ciò, continuò a lavorare sulle navi mercantili per più di vent'anni, determinato a dare ai suoi cari una vita migliore. Capitava che passasse in mare cinquanta settimane all'anno. Affrontò difficoltà ben peggiori della nostalgia di casa e della tristezza, delle tempeste e dei naufragi, specialmente per quel che riguardava il suo rapporto con l'equipaggio e gli ufficiali. Nell'America del XIX secolo migliaia di neri lavoravano sulle navi, ma le loro storie sono poco note, e il loro contributo alla navigazione raramente riconosciuto.

Nato e cresciuto nel Massachusetts rurale, Benson era pronipote di schiavi, e nonostante suo nonno fosse un veterano della Rivoluzione americana, e lui fosse un uomo nero libero nel Nord, le sue prospettive erano limitate. Aveva sperato di fare carriera come calzolaio, ma dopo il fallimento del suo matrimonio si era trasferito a Salem e aveva deciso di diventare un marinaio e un buon cristiano. La sua carriera in mare iniziò negli anni Cinquanta dell'Ottocento, prima come cuoco e in seguito come assistente di bordo, mansione che gli risparmiava le rischiose incombenze di un comune marinaio - come arrampicarsi sull'albero con il mare in tempesta per ripiegare le vele o caricare la nave sotto il sole rovente dei tropici - ma che era comunque impegnativa: era in contatto costante con gli ufficiali, servendo loro i pasti, provvedendo a ogni loro esigenza e soprattutto aiutando il capitano a vestirsi e a radersi ogni mattina, pulendo i suoi quartieri e lavandogli la biancheria. Questa sua posizione da una parte lo escludeva dal gruppo dei marinai, dall'altra non lo poneva allo stesso livello degli ufficiali. Come cambusiere, poi, doveva anche sorbirsi le lamentele quotidiane sul cibo. Passava la maggior parte delle sere da solo, nella sua cabina, o in cucina a fumare la pipa con il cuoco, che spesso era l'unico altro uomo di colore a bordo. A volte preparava torte di mele o il suo dolce preferito, la sugar cake ("torta di zucchero"), che era anche il nomignolo affettuoso della sua nuova moglie, Jennie, che adorava e che gli mancava immensamente - le immagini di belle ragazze incollate sulle pagine dei suoi diari erano per lui un magro conforto.

Nel 1879 era assistente di bordo sulla Glide, che era partita a marzo da Boston diretta a Tamatave, oggi Toamasina, sulla costa orientale del Madagascar, con la stiva carica di balle di cotone grezzo. Benson aggiornava il suo diario ogni sera prima di andare a dormire, annotando le coordinate e le condizioni atmosferiche, a volte descrivendo le sue mansioni a bordo o i malanni dell'equipaggio, al quale somministrava le medicine; a volte era ottimista, altre mesto, altre pieno di speranza o di solitudine. La Glide rientrò a Boston in tempo per Natale, ma riprese il mare prima di Capodanno. «Eccomi di nuovo sul vasto Oceano» scrisse Benson la sera in cui ripartirono. «Be', meglio così, credo.» Quando morì, un paio d'anni dopo, la sua adorata Jennie fece quello che facevano tantissime mogli di marinai: tirò avanti da sola, anche se i suoi figli morirono uno dopo l'altro. Rimase vedova per quarant'anni.


                                ... tutto è calmo, il capitano e i suoi assistenti
                                leggono, i marinai anch'essi leggono, o cuciono, o
                                dormono, e non si sente altro che il flusso dell'acqua
                                oltre il vascello, e gli schiocchi e gli scricchiolii
                                delle funi e del legno.

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VASCO DA GAMA 1460-1524


                                Non ho paura dell'oscurità. La morte vera e propria
                                è preferibile a una vita non vissuta.

                                A destra: Un ritratto di da Gama tratto dal manoscritto
                                "Vite dei viceré" portoghesi in india, del 1598, oggi
                                conservato alla Pierpont Morgan Library a New York.



I viaggi per mare un tempo avevano il potere di ridisegnare l'ordine mondiale. Nel 1498, mentre Vasco da Gama si spingeva a Oriente nell'Oceano Indiano, un avventuriero italiano di nome Cristoforo Colombo navigava verso ovest per la terza volta, raggiungendo finalmente l'America continentale, prendendo possesso di un "nuovo mondo" per conto della Spagna. Entrambi perseguivano lo stesso obiettivo: una rotta via mare verso l'Asia. Non era una ricerca donchisciottesca, con il solo scopo di oltrepassare i confini della conoscenza umana, ma un tentativo audace e molto pragmatico di sovvertire gli equilibri del traffico commerciale con l'Oriente, allora controllato dall'Islam.

Il Portogallo era diventato una grande potenza marittima, e da Gama era un gentiluomo di corte, di circa trentacinque anni, formatosi come navigatore nella marina portoghese. Dopo alcuni viaggi volti a provare il suo valore, divenne una sorta di ambasciatore finanziario itinerante che viaggiava sulle navi della flotta lusitana per curare gli interessi portoghesi all'estero. Più che compiere nuove scoperte, la sua missione principale era quella di stabilire buone relazioni con i potentati locali, intessere reti commerciali e perorare la causa della cristianità. Quando partì da Lisbona, nel 1497, ai suoi ordini c'erano quattro navi: l'ammiraglia, la São Gabriel, e la São Raphael, capitanata da suo fratello Paulo, entrambe caracche a vele quadre, o nãos; una nave per il trasporto provviste e una caravella a vela latina, la Berrio, comandata da Nicolau Coelho.

Puntando verso sud, da Gama costeggiò l'Africa occidentale, doppiò il Capo di Buona Speranza e si inoltrò in acque sconosciute. A gennaio, mentre si avvicinava alla città-Stato islamica di Mozambico, la spedizione fu costretta a fermarsi per effettuare riparazioni e approvvigionamenti. Ad aprile, le navi lasciarono Malindi (nell'odierno Kenya) tra i monsoni e puntarono verso Calicut, guidate da un navigatore indiano di nome Ibn Majid. Il 29 aprile avvistarono la Stella polare per la prima volta da quando avevano lasciato l'Atlantico e finalmente, il 18 maggio 1498, «dopo ventitré giorni senza avvistare terra, a una distanza di otto leghe scorgemmo delle maestose montagne». Avevano finalmente raggiunto la catena montuosa dei Gati occidentali.

Dopo dieci mesi di viaggio, la coraggiosa missione verso l'India era compiuta. Probabilmente l'impresa più grande nella storia della navigazione europea fino a quel momento, segnava anche l'inizio di una nuova epoca caratterizzata dalla diffusione delle idee e da una profonda ridefinizione dei rapporti tra Oriente e Occidente. Il viaggio di ritorno fu difficoltoso per da Gama, che fu costretto a vedersela con i monsoni che soffiavano in direzione contraria sull'Oceano Indiano e l'ondata di scorbuto che colpì duramente il suo equipaggio (la prima di cui si parlò diffusamente). Nel tentativo di razionare le provviste, ordinò addirittura che una delle navi venisse bruciata. Suo fratello Paulo morì durante il viaggio di ritorno, e quando da Gama raggiunse finalmente il Portogallo, il 9 settembre, osservò nove giorni di lutto prima di entrare nella capitale da trionfatore.

                                Pagina a fianco: L'Oceano Indiano immaginato dal sublime
                                Atlante Miller del 1519, un capolavoro che mostra il
                                livello di conoscenza del mondo dei portoghesi dell'epoca
                                e che era basato sui giornali di bordo di da Gama e sulle
                                carte di altri navigatori - una raccolta di informazioni
                                segretissime.

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Pagina 198

DOVE TERMINA LA STRADA

Philip Marsden

                                Pagina 190: Il manuale di navigazione di Matheus Rogiers,
                                in olandese (1680-1683), ora conservato allo Het
                                Scheepvaartmuseum di Amsterdam.



                                Narrami, o musa, dell'eroe multiforme, che tanto
                                vagò, dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia.

                                OMERO, ODISSEA, TRAD. IT. G. A. PRIVITERA, 1981



Due carte nautiche, due epoche. La prima, che illustra le isole britanniche e una porzione dell'Atlantico, è stata disegnata nel 1473 da Grazioso Benincasa, prolifico cartografo di Ancona. È un portolano, un lembo di pergamena vergato a inchiostro e tempera e usato per guidare le navi lungo la costa fino a Vaste, anonime aree in pieno oceano, in modo da rendere accessibile il mondo agli spiriti irrequieti dell'Europa postrinascimentale.

L'altra è sul mio telefonino. È l'app Navionics Boating. Copre un'analoga area marittima e, per puro caso, anch'essa è stata creata in Italia. Sono profondamente legato a questa app, acquistata a un prezzo ragionevole e capace di zoomare in profondità o in ampiezza con il minimo tocco dell'indice o del pollice. Il suo motto è: «Iniziamo dove termina la strada». Amo la sua grafica pulita, la freccetta che indica la posizione della nave. Adoro la vivace linea rossa che ne scaturisce, proiettando la traiettoria e quello che succederà se la mantengo. Adoro la sicurezza che dà a me, marinaio solitario. Ho delle mappe cartacee e un plotter Raymarine a bordo, ma niente di tutto ciò mi fornisce le immagini istantanee di Navionics, il colpo d'occhio necessario per stabilire la posizione, la profondità e il rischio quando succedono diverse cose in contemporanea e molto rapidamente. Il touch screen non è il massimo se la schiuma sciaborda in cabina bagnando tutto, ma in occasione di tratte tempestate di rocce e quando ci si avvicina a porti molto angusti è un autentico dono del cielo.

Anche il portolano di Benincasa, nel 1473, era il meglio sulla piazza. Metteva insieme tutte le conoscenze disponibili. Offriva il medesimo senso di sicurezza, le medesime informazioni essenziali per programmare i passaggi, indicando porti e attracchi grandi e piccoli. Navionics usa i satelliti e il GPS per stabilire la posizione - quindi funziona anche se non c'è campo - e il cursore si può piazzare su qualsiasi destinazione per calcolare la distanza e fare i dovuti rilevamenti. Inoltre ha un orologio sincronizzato che indica le correnti e lo stato della marea. Il portolano usa la rosa dei venti e linee rette. Non prende in considerazione la curvatura della Terra, eppure per gli standard dell'epoca era molto pratico, accurato e bello da vedere, tanto da alleviare la costante ansia del navigatore.

Ma il portolano di Benincasa ha anche qualcos'altro. A poco più di un giorno di navigazione dalla costa occidentale irlandese è indicata un'isola dove non ce ne dovrebbe essere nessuna. Aggiungere isole fittizie è, in termini nautici, molto meno pericoloso che non indicarle là dove ci sono davvero; inoltre, è più facile dimostrare la presenza di un elemento in mezzo all'oceano che smentirla. Così, le isole fantasma hanno ingombrato le mappe per anni. Nel 1875 il grande idrografo Sir Frederick Evans ne eliminò centoventitré dal solo oceano Pacifico (comprese tre che in realtà esistevano sul serio). Solo nel 2012 Sandy Island nel Pacifico è stata cancellata dalle mappe quando una nave ha attraversato la sua posizione scoprendo che là il mare era profondo 1300 metri.

L'isola sulla mappa di Benincasa, però, era più di una semplice voce di corridoio o di un tic cartografico. Larga circa 32 chilometri, è indicata come «Brasile». Con il nome di Hy Brazil o Hy Brasil ha fluttuato lungo i confini europei per un po', attirando verso le sue mitiche rive relitti di storie e dicerie. L'ambasciatore spagnolo in Inghilterra narrò degli zelanti sforzi che si stavano compiendo per trovarla: «Negli ultimi sette anni gli abitanti di Bristol hanno equipaggiato due, tre, quattro caravelle per andare in cerca dell'Isola di Brazil e delle Sette città».

Anche l'Isola delle Sette Città - o Antillia - era un fantasma. Faceva capolino su un gran numero di carte dell'epoca, tra cui quelle di Benincasa, a una certa distanza a ovest delle Azzorre. La sua forma, di solito, era stranamente regolare e assomigliava a un enorme francobollo con sette perforazioni in corrispondenza delle baie. Come Hy Brasil, la speranza di trovarla aveva generato un bel po' di attività portuali sui litorali europei. Più che luoghi, queste erano idee - speranze, fantasie - delimitate da coste immaginarie. Hy Brasil possedeva l'elisir di lunga vita: era l'Isola dei Beati, l'isola della ricerca di san Brandano, persino il luogo di sepoltura di re Artù. Analogamente, Antillia e le sue sette città incarnavano le speranze e le proiezioni del mondo cristiano. Durante l'invasione moresca dell'VIII secolo, sette vescovi erano fuggiti dalla Spagna con i fedeli diretti a ovest, verso Antillia nell'Atlantico. Sull'isola, ciascun vescovo aveva fondato una colonia. E ora, secoli dopo, quelle comunità attendevano di essere riscoperte.

Quella del portolano e della app è una storia sull'acquisizione della conoscenza, sulla consapevolezza sempre più precisa del mondo fisico che ci circonda. Ora Navionics accumula dati in tempo reale: quanto rilevato dalle strumentazioni degli utenti serve a migliorare l'immagine idrografica offerta dalle mappe. Con l'introduzione di calcoli precisi che misurano palmo a palmo la superficie terrestre, scompaiono le infinite possibilità, le utopie, l'esistenza prolungata di isole del tutto inventate.

E insieme a loro scompare una certa magia. Ora non abbiamo più terre ignote, non vi sono litorali sulle nostre mappe che delimitano l' hic sunt dracones, "qui ci sono i draghi". Ora sappiamo che da nessuna parte, sulla Terra, vivono i grifoni o i fiumi scorrono tre giorni a settimana, non vi sono isole con pecore giganti o dove si ride senza freni, niente sirene o demoni carnivori, nessun luogo mantiene la promessa gioiosa dei Campi Elisi o dei piaceri senza peccato dell'Eden, oltre l'orizzonte non vi è nessun posto dove le anime dei morti riposano nella pace eterna.

Ogni epoca ha le mappe e le cartine che merita. Le nostre sono incredibilmente efficienti, protese verso uno stato di onniscienza, di sicurezza totale. Ma sono anche pedisseque e utilitariste. Trascorrete qualche ora chini sui portolani cinquecenteschi, guardateli in dettaglio, osservate i disegni ai margini ed entrerete in un mondo dove non c'è confine tra il reale e il fantastico. Vi troverete risucchiati in un mondo di viaggi marittimi su caravelle scricchiolanti piene zeppe di uomini, uno scomodo miscuglio di privazione, rischio e terrore che galleggia su una speranza da giocatore d'azzardo di far fortuna, di trovare un tesoro.

L'estate scorsa ho navigato lungo la costa occidentale dell'Irlanda. Persino con il mio Navionics, l'almanacco nautico, l'ecoscandaglio e il giornale di bordo, il viaggio è stato rischioso. Le rocce erano prive di gavitelli e illuminazione, il tempo spesso impietoso, la portata del moto ondoso atlantico allarmante. Un marinaio di Donegal mi ha detto che s'imbatte ancora in rocce che non appaiono nemmeno sulle mappe elettroniche. Un tenue brivido reazionario: verrà un tempo in cui questo non accadrà più, in cui ogni roccia sarà nota. Ma le mappe non sono mai puramente funzionali. Sono un'astrazione, una versione aggiustata del mondo reale. Come una storia, richiedono un certo riassemblaggio immaginativo per passare dalla pagina alle scene che rappresentano - ed è in questo riassemblaggio che si cela il loro piacere duraturo.

Ora è inverno. Sto mettendo il mio viaggio per iscritto. Sul telefonino ho passato in rassegna il litorale, zoomando per verificare il profilo di un porticciolo su un'isola. Rivivo il passaggio, quella notte trascorsa all'ormeggio nel bel mezzo di un fortunale; mi torna in mente una storia che mi hanno raccontato, quella di san Columba, che convertì l'isola al cristianesimo e scacciò i suoi demoni trasformandoli in maiali che si buttarono dalle scogliere andando incontro alla morte. La mappa elettronica evoca tutto questo. Seduto alla mia scrivania, quei giorni lontani e quelle rive remote risplendono nella gioia del ricordo. Li bramo - così come altri prima di me hanno guardato i portolani di Benincasa bramando i porti di Antillia e il litorale inaccessibile di Hy Brasil.

                                Pagina a fianco: A Venezia, nel 1473, Grazioso Benincasa produsse delle mappe,
                                i "portolani", rilegate per formare un piccolo atlante. Questa doppia pagina
                                introduttiva illustra le coste navigabili dell'Europa, dalla Spagna fino alla Scozia.

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Pagina 206

ANTONIO PIGAFETTA 1491-1531


                                Avendo io avuto gran notizia [...] de le grandi
                                e stupende cose del mare Oceano, deliberai [...]
                                far esperienzia di me e andare a vedere quelle cose...




All'inizio li scambiarono per dei fantasmi. Scalzi e inzaccherati, i pochi che potevano ancora camminare avanzarono lenti tra la folla, dal molo alla cattedrale di Siviglia. Ormai ischeletriti, i loro corpi devastati erano ricoperti di pustole e ulcere, le gengive erano blu e sanguinanti, erano quasi senza denti. Avevano visto orrori indicibili, eppure erano loro quelli fortunati. Ammutinamento, cannibalismo, tortura, scorbuto, inedia e affogamenti erano solo alcuni dei destini toccati in sorte ai loro compagni durante quello che era stato, senza dubbio, il più grande viaggio marittimo della storia: la prima circumnavigazione del globo.

Delle cinque navi e dei circa duecentosessanta uomini salpati dalla Spagna nel settembre 1519, era tornato un solo vascello con un equipaggio di diciotto persone. Tra i sopravvissuti vi era uno studioso vicentino di nome Antonio Pigafetta. Il comandante, Fernão de Magalhães - il navigatore portoghese noto in Italia come Ferdinando Magellano - era morto a metà strada nel corso di quel viaggio di tre anni, abbattuto mentre combatteva con l'acqua alle ginocchia sulle rive di un'isola dell'arcipelago filippino. Avevano impiegato novantotto giorni ad attraversare il vasto oceano Pacifico, con provviste così scarse che erano stati costretti a mangiare segatura, i vermi delle gallette e pezzi di cuoio. I ratti catturati a bordo, arrostiti o crudi, erano diventati parte integrante della loro dieta.

L'unica nave che alla fine riuscì a tornare, la Victoria, portò spezie, rivendicazioni territoriali e racconti che meravigliarono tutto il mondo. Era stato scoperto un passaggio che dall'Atlantico portava a un nuovo oceano, le tanto favoleggiate isole delle spezie erano state raggiunte e si era fatta la conoscenza di nuovi, curiosi popoli - tra cui i «giganti della Patagonia». Dopo la morte di Magellano era diventato comandante un marinaio basco con un passato da ammutinato, Sebastián Elcano, che finì per ricevere gli allori meritati dal suo predecessore: riconoscimento regale e uno stemma con il globo recante l'iscrizione primus circumdedisti me (sei stato il primo a circumnavigarmi).

Non si sa molto di Pigafetta, ma senza il suo diario si avrebbero ancora meno informazioni sugli alti e i bassi del viaggio di Magellano. Il suo resoconto è basato sul diario minuzioso che tenne durante il viaggio. Al suo ritorno presentò di persona nelle mani di Carlo V, sovrano del Sacro Romano Impero, «non oro né argento, ma cose da essere assai apprezzate da un simil signore» vale a dire «uno libro, scritto de mia mano». A quanto si narra, l'imperatore restò impassibile e Pigafetta non ricevette onori oltre al magro stipendio. Dopodiché portò la sua storia alla corte portoghese e a quella francese; in Italia, il papa fu così impressionato da assegnargli degli alloggi mentre preparava il manoscritto e lavorava alle mappe illustrate che descrivevano per la prima volta molte coste allora ignote.

Pigafetta non ha mai visto il libro stampato. Si unì al famoso Philippe Villiers de l'Isle-Adam , gran maestro di Rodi, e divenne un cavaliere errante. Si suppone che sia morto combattendo i turchi. Quanto a Elcano, sulla terraferma aveva tanti di quei problemi che tornò a imbarcarsi. Morì di scorbuto nel 1526, dopo aver condotto una nave attraverso lo Stretto di Magellano per la seconda volta.

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PIRI REÌS 1465-1554


                                Questo è il porto dove abbiamo fatto svernare
                                le nostre navi da guerra [...] un porto sicuro,
                                al riparo da tutti i venti.



Il destino delle nazioni è spesso dipeso dagli esiti di violente battaglie navali. Ora poco ricordata, ma senza dubbio uno degli scontri più importanti di tutti i tempi, la battaglia di Lepanto del 1571 ebbe ripercussioni per secoli. La flotta ottomana, fino a quel momento inarrestabile, fu respinta da una coalizione recante la bandiera del Sacro Romano Impero presso il porto greco di Corinto. Sarebbe stata l'ultima grande battaglia tra galeoni guidati da rematori, con tanto di colluttazioni da ponte a ponte e collisioni a colpi di prua. Furono distrutte non meno di centottantasette navi ottomane; e insieme a loro ogni speranza residua, per i turchi, di espandersi a ovest in Europa.

Nella lunga storia navale turca spicca un navigatore in particolare: il comandante e cartografo Hājji Muhyieddin Piri Ibn Hājjī Mehmed, di solito noto come Piri Reìs, "capitano Piri". Nato a Gallipoli, fece esperienza sulle navi corsare insieme allo zio Kemal, poi combatté nelle guerre navali contro la Spagna e le repubbliche marinare rivali. Partecipò alla battaglia di Modone nel 1500, quando gli ottomani bombardarono la fortezza per poi invadere quasi tutti i possedimenti veneziani in Grecia. Portò spesso in salvo rifugiati musulmani ed ebrei dal Mediterraneo occidentale. Quando lo zio morì in un naufragio, Piri si ritirò a Gallipoli. Fu là, nel 1513, che ideò il suo primo planisfero.

La sua opera principale resta tuttavia il Kitāb-i bahriyye (Libro sulla navigazione) - un compendio di mappe basate su decenni di esperienza in mare. Sul trono c'era un nuovo sultano, e Piri sperava di ottenerne i favori. Fece due versioni, la prima nel 1521 e la seconda qualche anno più tardi, per poi farne delle copie nei decenni a seguire. Si trattò di una risorsa pionieristica di conoscenza integrata, l'espressione di una forza navale dominante, con le pagine piene di testi e immagini dal valore strategico per i comandanti ottomani. Piri descrisse con cura i porti e i punti di riferimento dei principali partner commerciali, i castelli e le fortificazioni dei potenziali nemici, mise in guardia da secche e scogliere pericolose, indicò le direzioni dei venti locali e i luoghi dove i marinai potevano trovare rifugio e acqua fresca.

Di nuovo in mare, Piri fu comandante nella campagna contro l'Egitto e funse da capitano al servizio del famigerato ammiraglio Khayr al-Dīn Barbarossa. Nel 1522 si unì all'assedio di Rodi, sconfiggendo i Cavalieri Ospitalieri e ottenendo la resa dell'isola. Salì al rango di capo della flotta ottomana, combattendo i portoghesi dal Mar Rosso all'Oceano Indiano e tenendo Suez come quartier generale. Nel 1548 riconquistò Aden, poi occupò la penisola del Qatar per evitare che altri costruissero basi sulle coste arabe. Quando tornò in Egitto aveva quasi novant'anni, esausto, consumato dalle battaglie. A corte qualcuno mise in giro la voce che avesse segretamente accumulato un grande tesoro, e quando si rifiutò di imbarcarsi per condurre l'ennesima campagna nel Golfo Persico, fu arrestato. Malgrado tutti gli anni di fedele servizio, le sue mappe furono confiscate e lui finì decapitato in quattro e quattr'otto.


                                Dio non ha dato la possibilità di menzionare tutte
                                le cose che vado a menzionare - i luoghi coltivati
                                e in rovina, i porti e le acque presso le coste e le
                                isole del Mediterraneo, gli scogli e i pericoli celati
                                nell'acqua - e allora una mappa, in fin dei conti,
                                una mappa è un riassunto.

                                Pagina a fianco, a sinistra: Nel 1513 Piri Reìs produsse
                                il suo primo planisfero, di cui resta solo questo
                                frammento. Venne riscoperto nel palazzo di Topkapi
                                a Istanbul, nel 1929, ed è una delle più antiche carte a
                                mostrare le Americhe. Si dice che le porzioni occidentali
                                siano state copiate da mappe realizzate da Colombo,
                                sottratte dallo zio di Piri nel 1501 all'atto di catturare
                                le navi spagnole.

                                Pagina a fianco, a destra, Una bella copia del Kitāb-i
                                bahriyye è conservata al Walters Art Museum di Baltimora.
                                Originariamente composto nel 1521, venne dedicato al
                                sultano Solimano il Magnifico, al cui comando la flotta
                                ottomana dominava i mari dal Mediterraneo occidentale al
                                Golfo Persico. Questa copia mostra l'emisfero occidentale
                                all'interno di una rosa dei venti.

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TUPAIA 1725-1770


                                Grazie a Tupaia c'erano sempre persone disposte
                                a guidarci da un'isola all'altra, con la certezza
                                di essere accolti con calore.

                                Sebbene non ve ne sia la certezza, questo ritratto di un
                                «alto sacerdote di Raiatea», raffigura probabilmente Tupaia.
                                È basato su uno schizzo dell'artista Sydney Parkinson,
                                presente sulla Endeavour. Tupaia disegnò la scena
                                tahitiana a destra nel 1769, con una canoa a vela e due
                                canoe da guerra al largo. Ai due lati della casa lunga
                                vi sono piante del genere Pandanus, alberi del pane,
                                banani e palme da cocco.




Sulla piccola isola di Edam, al largo della costa settentrionale di Giava, c'è un faro ma nessuna traccia della tomba di un prete che fu un eccellente navigatore polinesiano. Si chiamava Tupaia ed era nato a Raiatea, un'isola nel cuore del Pacifico circondata da una barriera corallina - luogo anche noto come Havai'i, patria dei maori. Nel corso del tempo Tupaia divenne un sacerdote di spicco, con una vasta cultura. Tramandata per generazioni, la sua conoscenza comprendeva dimensioni e posizione di tante isolette sparse, oltre alle coordinate astronomiche e alle maree indispensabili per passarci attraverso.

La sua vita tranquilla subì un duro colpo nel 1763, quando i guerrieri di Bora Bora invasero l'isola, costringendolo a cercare rifugio a Tahiti. Fu qui, nell'estate del 1767, che Tupaia incontrò Samuel Wallis e l'equipaggio della Dolphin, ovvero i primi europei ad aver raggiunto le coste tahitiane. Tupaia divenne amico di Wallis, imparò qualche parola d'inglese e lo aiutò a osservare l'eclissi solare. Nel 1769 arrivò un'altra nave, la Endeavour di James Cook, e Tupaia aiutò ben presto il botanico Joseph Banks a raccogliere campioni di flora. Il giovane e facoltoso Banks avrebbe portato volentieri Tupaia in Inghilterra come «curioso esemplare» umano, e l'avventuroso Tupaia voleva continuare a esplorare il mondo, così s'imbarcò proseguendo il viaggio con loro.

Sia Cook sia Banks riconobbero i suoi talenti. Ogni volta che arrivavano da qualche parte, Tupaia scendeva per stabilire un primo contatto e fungere da interprete, evitando attriti e aiutando Banks a incrementare la sua collezione. Quando gli chiesero dettagli sulle aree che stavano attraversando, Tupaia diede una mano a Cook a disegnare una mappa con qualcosa come centotrenta isole sparpagliate nel giro di 3200 chilometri. La spedizione volse poi a sud verso la Nuova Zelanda, allora ignota agli europei eccezion fatta per un piccolo tratto di costa tracciato dal navigatore olandese Abel Tasman il secolo prima. Tupaia fu accolto da alcuni maori come un tohunga - un esperto degno di rispetto, anello di congiunzione vivente con la tradizione degli avi. Gli diedero molti regali, tra cui un cappotto di pelle di cane.

Dopo la Nuova Zelanda e l'Australia, la Endeavour e il suo equipaggio si diressero verso Batavia (Giacarta), dove si fermarono per riparare la nave. A causa delle condizioni insalubri, molti si ammalarono. Tupaia morì di dissenteria poco prima di Natale, indebolito dallo scorbuto e forse anche dalla malaria, e fu seppellito su Edam. Durante il viaggio di ritorno in Inghilterra morirono altre ventotto persone, e i loro corpi furono gettati in mare. In occasione della morte di Tupaia, Cook scrisse nel suo diario: «Era un uomo acuto, di buon senso e ingegnoso». Il marinaio irlandese John Marra lo descrisse come «un uomo di autentico genio, un sacerdote di prima grandezza, artista eccellente».

Quando Cook tornò in Nuova Zelanda per un secondo viaggio nel 1773, i maori gli corsero incontro urlando: «Tupaia! Tupaia!». Quella notte, Cook scrisse che il suo nome era «così popolare tra quella gente, che non dovrebbe far meraviglia se, anche ora, fosse conosciuto in gran parte della Nuova Zelanda».

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