Copertina
Autore Andrea Licata
Titolo Dal militare al civile
SottotitoloLa conversione preventiva della base USAF di Aviano - Ricerche e progetti
EdizioneKappa Vu, Udine, 2006 , pag. 200, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-89808-35-1
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe politica , guerra-pace
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

  5 INTRODUZIONE
    Gettare le Basi per una Conversione possibile
    di Stefano Raspa

 11 AVIANO, UNA BASE SENZA FUTURO
    di Andrea Licata
 58 ALLEGATI

102 MUTAZIONI IN ATTO NELLA STRATEGIA MILITARE DEI PAESI DOMINANTI
    di Achille Lodovisi

125 CONVERSIONE DI STRUTTURE MILITARI L'ESPERIENZA IN GERMANIA
    di Hartmut Küchle

134 I RIFLESSI DELLA BASE DI AVIANO E DI UNA SUA POSSIBILE
    CONVERSIONE NELLA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE DI "AREA VASTA"
    di Bruno Asquini

149 L'IMPATTO AMBIENTALE DELLE ATTIVITÀ MILITARI
    di Giuseppe Rizzardo

160 I POLIGONI MILITARI NELLA PROVINCIA DI PORDENONE
    di Stefano Del Cont Bernard

184 L'INQUINAMENTO ALLA MADDALENA
    di Marco Mostellino

191 LE BASI DELLA GUERRA GLOBALE PERMANENTE
    di Piero Maestri

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

Introduzione

Gettare le Basi per una Conversione possibile


Il libro che avete fra le mani è il risultato degli ultimi tre anni di lavoro del Comitato Unitario contro Aviano 2000 (CUCA), un'iniziativa politica nata nel 1996 per opporsi all'ampliamento della base USAF di Aviano, che prende il nome di "progetto Aviano 2000". Più giusto sarebbe scrivere che è frutto di dieci anni di controinformazione, denunce, studi, riflessioni, assemblee, convegni e manifestazioni che hanno cadenzato l'impegno di quest'opposizione. Se è vero che ogni percorso parte sempre da più lontano di quanto possa significare una data o l'ufficialità di un'associazione di persone, tuttavia è solo in questi ultimi anni che dall'approccio sostanzialmente di contrasto si è riusciti ad individuare e sostenere una progettualità di ampio respiro, concreta e fattiva.

Questo cambio di prospettiva, se così possiamo definirlo, ha avuto il suo culmine durante il convegno internazionale "La Conversione Possibile della Base USAF di Aviano" del 18 settembre 2004 presso la sala della Regione di Pordenone.

Questo convegno nasce dopo un anno in cui discussioni e confronti ci hanno convinti di quanto fosse necessario rimettere in discussione non solo le modalità d'intervento territoriale, ma anche la finalità del comitato che andava apparentemente esaurendosi con l'attuazione definitiva del "progetto Aviano 2000" e con la sconfitta di un'opposizione tanto combattiva quanto "disarmata", a fronte di un' invasione considerata "fisiologica" e di un "nemico" impari in quanto a potenza e mezzi, l' Areonautica degli Stati Uniti d'America.

Eppure, aldilà delle convinzioni o posizioni etico/politiche, qualcosa non tornava proprio rispetto alle questioni tangibili sollevate tra e con la gente del territorio, tanto che alcune domande sono sorte spontanee:

– In cinque anni di attuazione di ampliamento della Base ci siamo dati da fare nel mettere in guardia dai pericoli ambientali, sanitari ed economici che questo avrebbe comportato. Non era forse il momento per dimostrare quanto sostenuto fino ad allora?

– Non abbiamo mai pensato di poter "vincere" la sfida contro questa mastodontica presenza: cosa dunque ci ha spinti in questa sfida?

A queste e ad altre domande le risposte essenziali sono giunte anche grazie ad alcuni spunti ben rintracciabili nell'introduzione al convegno di cui riporto alcuni stralci:

"Sulla scia di alcuni articoli e informazioni recenti, pubblicate da giornali o notiziari, che rimettevano in discussione la presenza della Base di Aviano, ci pare opportuno affrontare seriamente un'eventualità tutt'altro che impossibile. Se è vero che tali notizie non hanno la pretesa di essere attendibili nel breve o nel medio periodo, tuttavia rimettono in discussione una presenza faraonica in uno scenario globale notevolmente mutato ed offrono la possibilità di confrontarsi su cambiamenti concreti, che in molte parti d'Europa, ed in particolare nella vicina Germania, sono 'fatti' normali e diffusi: il recupero delle basi militari USA e NATO". Bisogna inoltre comprendere quanto, in una dimensione di "economia di guerra", ciò che può apparire illogico (spreco di soldi, risorse, investimenti ecc.) rientri "sensatamente" in una logica ampiamente collaudata che considera il dominio e la sua estensione necessari a qualunque costo.

Le conversioni di aree militari, sono dunque sempre più «normali» laddove i confini delle geografia politiche ed economiche si ridisegnano.

Tutto il convegno s'è snodato partendo dall'intervento di Andrea Licata, dal carattere prefigurativo e provocatorio sostenuto da una solida base scientifica ricca di dati e di esperienze, che hanno sfatato una serie di luoghi comuni dietro cui si nascondono amministratori ingenui.

– E difficile e complesso smantellare una base? Non necessariamente, alcune basi sono state abbandonate in due mesi.

– Spostare migliaia di persone (8000 nella base di Aviano) è possibile?

In Germania sono state smobilitate basi per due milioni di addetti complessivamente.

– Crollo economico delle zone interessate?

Tutt'altro, anzi nuovi slanci produttivi e decine di migliaia di nuovi posti di lavoro!

– E la ricchezza portata dalle basi?

Nessun riscontro oggettivo, semmai evidenze di blocco economico di regioni che vedono frenato il loro sviluppo dall'ingombrante presenza.

Dopo più di un anno le questioni poste non solo restano corrette ma divengono ancora più attuali. A confermarlo sono le nuove scelte strategiche degli USA sulle basi in Europa, annunciate in parte ufficialmente nei recenti work-shop e in parte messe in pratica direttamente sul campo attraverso lo smistamento di risorse e militari, ridimensionamento di basi e siti se non dismissioni vere e propre come per la Base della Marina militare degli Stati Uniti presso La Maddalena in Sardegna.

A spiegare questa nuova concezione (che non è da confondersi come un disimpegno rispetto all'Italia o all'Europa ma piuttosto come "nuova strategia") al convegno di Pordenone è stato Achille Lodovisi nella sua relazione "Mutazioni in atto nella strategia militare dei paesi dominanti"; Lodovisi spiega come la "questione basi militari" vada considerata in uno scenario in continua trasformazione, nell'ottica di sorveglianza totale dello spazio aereo e terrestre: «e potrebbe divenire un modello da applicare nel corso dell'attuale riposizionamento delle forze USA nel mondo legato all'adozione della dottrina della guerra preventiva. Quest'ultima, incentrata sull'esigenza di proiettare rapidamente la potenza militare statunitense in ogni angolo del mondo, comporta la necessità di cambiare l'attuale distribuzione geografica delle basi e la loro organizzazione logistica. Le nuove infrastrutture militari saranno dei nodi operativi prossimi alle regioni di importanza strategica, da cui dirigere il dispiegamento preventivo delle forze.»


I danni ambientali, sono stati ampliamente illustrati nelle relazioni di Giuseppe Rizzardo ("L'impatto ambientale delle attività militari") di "L'Ambiente è vita" Associazione promotrice del Convegno insieme al CUCA 2000 e di Stefano Del Cont Bernard ("L'inquinamento da poligoni militari"). Importante è stata la presenza di Hartmut Küchle studioso del Bonn International Center for Conversion (il maggiore centro in questo campo) che ha contribuito a rafforzare, attraverso una relazione incentrata su esempi concreti di recupero in Germania e non solo, le tesi del Comitato Unitario Contro Aviano 2000 a favore della "Conversione preventiva", ossia di una mobilitazione dal basso, ampia e partecipata prima ancora che la Base militare lasci il territorio che occupa.

Della pianificazione territoriale e del ruolo degli enti locali e della regione, per sottolineare l'assenza di quest'ultima, ha parlato Bruno Asquini (che fino a poco tempo fa ha diretto il Servizio di Pianificazione della Provincia di Pordenone). Marco Mostallino, giornalista attento, autore del libro "L'Italia radioattiva" ha parlato del rapporto tra basi e nucleare tracciando un parallelismo tra il Friuli e la Sardegna come "laboratori territoriali" di depauperamento ambientale e sociale; Piero Maestri, della rivista "Guerre e Pace" ha concluso i lavori sottolineando l'esigenza di una rete di comitati locali collegata in maniera stabile e politicamente orientata.

Il futuro delle basi, la loro presenza, diventano quindi una questione squisitamente politica nell'accezione vera del termine, una questione che riguarda la polis, la cittadinanza, la sua capacità di (ri)prendere in mano la gestione del territorio e delle decisioni che la riguardano, di vedere, capire e denunciare l'inquinamento ambientale (acustico, chimico, ideologico, radioattivo), di opporvisi creando e proponendo realtà produttive alternative, piani di smobilitazione e riconversione partecipati.

Immaginare e progettare un territorio senza installazioni militari è già un risultato, specie in Friuli dove per decenni la società ed il paesaggio sono stati fortemente influenzati dalla presenza militare, sia nazionale sia straniera.

La pubblicazione di questo libro ha per noi un duplice significato: la chiusura di un percorso di analisi e raccolta di informazioni avviato molti anni fa, ma soprattutto l'inizio di un impegno nuovo di coinvolgimento locale, di divulgazione oltre il territorio o meglio oltre i territori, un lavoro di avveduta progettualità per un accerchiamento risoluto delle basi militari.

Un accerchiamento che non si limiti alla pur necessaria denuncia dei danni, ma sappia porre in essere i presupposti della conversione ad usi civili della Base come la richiesta di un monitoraggio indipendente del sito, l'istituzione, in prospettiva, di un fondo regionale per la conversione, l'avvio d'attività alternative esterne alla base, predisposte a ricollocarsi al suo interno.

Tutto questo, come suggerisce Andrea Licata nella sua relazione, ha assolutamente bisogno di un'iniziativa politica di base, in grado di coinvolgere la cittadinanza e spingere gli amministratori a riconoscere l'importanza di un progetto di riqualificazione dell'area, della costituzione di un gruppo permanente di studiosi, che inizi a lavorare insieme sul progetto di riqualificazione della base in termini pratici (ambientalisti, esperti di bonifica, agricoltura, energie rinnovabili, urbanisti, architetti ecc.), la promozione ad Aviano di conferenze e convegni sul tema, ma anche sulle energie rinnovabili, l'urbanistica e l'ambiente, l'avvio di un dibattito approfondito, attraverso incontri che coinvolgano la cittadinanza e servano a chiarificare gli aspetti problematici ed i rimedi della chiusura della base.

Si tratta di mettere a disposizione degli strumenti, il meglio di cui ci si può dotare in un panorama desolato fatto di miopia politica da una parte e mistificazione dei mezzi di informazione di massa dall'altra.

Così come è stato per il convegno, questo libro vuole gettare le basi di questo processo, ponendo realisticamente sul piatto nodi, modi e tempi su cui lavorare, tentando di coinvolgere la popolazione nel recupero di un territorio, affinché sia restituito ai bisogni e alle opportunità della società civile.

Stefano Raspa

Comitato Unitario Contro Aviano 2000

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 191

Le basi della guerra globale permanente

di Piero Maestri (Guerre & pace, Milano)


Nell'ambito di questo convegno, che ha come obiettivo quello di porre la questione della possibile e necessaria riconversione della base militare USA di Aviano ad usi civili, restituendola in questo modo alle/ai cittadine/i del territorio, è importante provare a tracciare un quadro complessivo del sistema globale delle basi militari e definire come il movimento contro la guerra debba affrontare questa militarizzazione del territorio, necessaria a quella che definiamo "guerra globale permanente".

Alla fine degli anni Ottanta abbiamo dovuto assistere alla propaganda sui cosiddetti "dividendi della pace", secondo la quale con la fine delle Guerra Fredda e la caduta del muro di Berlino, finalmente saremmo entrati in un epoca di pace e di conseguente riduzione delle spese e della presenza di infrastrutture militari: meno addetti nelle industrie della difesa, minori spese militari, meno soldati e basi militari in Europa.

La realtà ci ha mostrato una situazione diversa:

– se per alcuni anni effettivamente le spese militari mondiali sono diminuite – soprattutto per la caduta dei bilanci militari dei paesi dell'ex Unione sovietica, ma anche in occidente – questa tendenza durerà per poco e già nel 1995/96 le spese militari mondiali ricominceranno a crescere, per raggiungere nel 2003/2004 livelli paragonabili alla metà degli anni '80, quando la guerra fredda era all'apice;

– si sono ridotti i contingenti militari dei vari paesi, soprattutto dei paesi europei della NATO, soprattutto per effetto di una loro ridefinizione e ristrutturazione in senso professionale e volontario;

- la riduzione del numero di basi militari in Europa e nel resto del pianeta è stata poco significativa, mentre si è consolidata la loro rete, che è andata sempre più formando un sistema delle basi a livello planetario - diretto dagli USA - con un ruolo ancor più definito ed importante.

Non siamo di fronte ad una fase nella quale potremo aspettarci una progressiva "estinzione" della basi militari, nemmeno di quelle "straniere", dal nostro territorio, mentre avanza a livello globale una maggiore presenza di basi e infrastrutture militari degli USA e dei loro alleati.


Fin dai documenti governativi statunitensi dei primi anni '90 (dalla "Defense Planning Guidance" del 1992, fino alla "Quadriennial Defense Review" del 2000 e alla "National Security Strategy" del 2001) risulta chiaro che uno degli obiettivi principali di quella che abbiamo chiamato "strategia dell'impero" era quello di assicurarsi una presenza militare diretta e indiretta nelle varie aree strategiche del pianeta. Naturalmente le zone geografiche dove avrebbero dovuto essere posizionate le nuove o rinnovate infrastrutture della guerra riguardavano in primo luogo il medioriente, il Golfo Persico e l'Asia Centrale (quell'area che oggi chiamano "Grande Medioriente"); ma non era esclusa l'Europa in questo quadro strategico.

Una strategia di controllo planetario che rende sempre più vero il detto per cui "il sole non tramonta mai sulle basi" - e che ha fatto giustamente affermare che le nuove basi militari non sono un effetto secondario delle guerre che gli USA hanno portato avanti dal 1991 ad oggi: è stato così con l'intervento contro l'Iraq del 1991, che ha consolidato la presenza in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo; con la guerra jugoslava, al "termine" della quale Stati Uniti e NATO hanno a disposizione nuove basi in ognuno degli Stati createsi con la dissoluzione della Jugoslavia - di cui Camp Bondsteel in Kosovo rappresenta la maggiore; con l'intervento in Afghanistan gli USA si sono assicurati una presenza rinnovata in Pakistan, Uzbekistan, Kyrgizistan, Tajikistan e, ovviamente, in Afghanistan; e oggi ancora in Iraq, dove è programmata e in fase di realizzazione la costruzione di una quindicina di basi che renderanno permanente l'occupazione dell'Iraq stesso.

Questo sistema di basi in tutto il pianeta è reso necessario dalle strategie di intervento rapido e dall'idea di flessibilità che la dottrina militare ha cercato di affermare in questi ultimi quindici anni, e rende complementari e totalmente intrecciati i sistemi di USA, NATO e Unione Europea - e per questo risulta difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra le basi USA, NATO o italiane sul nostro territorio, perché tutte partecipano a quel sistema di guerra globale.


Le basi in Italia sono obsolete dunque? Sono solamente un retaggio della guerra fredda e saranno poco a poco abbandonate? Purtroppo non è così, e se qualche base o infrastruttura sarà abbandonata, nel loro insieme assumono invece un rinnovato ruolo dentro il quadro che abbiamo provato a descrivere sommariamente.

Così assistiamo a progetti di riqualificazione e potenziamento delle strutture militari in Italia:

- ad Aviano, come sanno bene gli organizzatori di questo convegno, già oggetto di progetti di allargamento continua a essere deposito di armi nucleari;

- a Solbiate Olona, vicino a Varese e all'aeroporto milanese della Malpensa, che dal 2002 ospita un Comando della Forza di Rapido Intervento della NATO, frutto delle nuove strategie di questa organizzazione, anch'essa purtroppo non considerata obsoleta;

- a Camp Darby, principale base logistica USA del Mediterraneo, situata tra Pisa e Livorno, dove ci sono progetti per l'ampliamento del Canale dei Navicelli e per avere in esclusiva una banchina per l'approdo del materiale bellico;

- a Taranto dove e stata inaugurata la seconda base navale e rischia di essere sede di una terza — e che rappresenta uno dei principali "trampolini di lancio" della proiezione di potenza USA e NATO, strettamente legato alla riqualificazione di Sigonella e alla nuova funzione di Napoli, dove sarà trasferito il Comando generale delle Forze navali USA in Europa, così che il Pentagono possa avere "la massima flessibilità nel proiettare forze in Medio Oriente, Asia Centrale e altri potenziali teatri bellici", come ha comunicato il Pentagono stesso; e via così...


Questo ruolo rinnovato delle basi militari in Italia dentro il sistema della guerra globale permanente è e deve essere il principale motivo dell'opposizione che i movimenti pacifisti devono sviluppare contro la presenza militare e la militarizzazione del territorio. È questo ruolo che fa sì che dal nostro territorio partano aerei e navi che provocano i morti nei paesi vittime degli interventi militari — e questo è per noi sufficiente per chiedere la chiusura di queste infrastrutture.

Ma dobbiamo sottolineare anche che questa stessa presenza ha un impatto continuo sulla vita delle popolazioni che si trovano a subirne la localizzazione:

— un impatto economico. È idea comune che la presenza di basi militari sia un'occasione di "sviluppo" per i territori interessati. In realtà non c'è alcun sviluppo, ma solamente la crescita di un economia dipendente da tali basi e spesso negativa per il territorio stesso: se da una parte può favorire la rendita per gli edifici affittati dai militari, dall'altra si stanno sempre più affermando le tendenze all'approvvigionamento diretto verso multinazionali USA; all'interno delle basi vengono negati i diritti dei lavoratori civili e all'esterno ci sono conseguenze negative sulle produzioni agricole, mentre risulta bloccata qualsiasi possibilità di un diverso uso del territorio, completamente sottratto ad ogni programmazione delle comunità e degli enti locali;

— un pesantissimo impatto ambientale e sulla salute delle popolazioni, come è stato ampiamente evidenziato da altri interventi in questo convegno e come mostra soprattutto il caso sardo, dal possibile inquinamento radioattivo dei fondali de la Maddalena, allo sviluppo di malattie tumorali nei paesi dove è localizzato il poligono militare di Salto di Quirra. E questi rischi sono generalmente nascosti alle stesse autorità locali, che avrebbero invece il dovere di garantire la tutela della salute per i propri cittadini.


Per poter sviluppare una campagna contro le basi militari in Italia, dobbiamo cominciare a conoscere e mettere in relazione le esperienze di lotte e iniziative contro la presenza militare in molte località, che partono da differenti ma spesso convergenti motivi specifici:

— le lotte contro i rischi per la salute, come in Sardegna, che sono spesso lotte per garantirsi un futuro economico che la presenza militare nega, come nel caso dei pescatori di Capo Teulada;

— l'iniziativa contro il nuovo porto militare di Taranto, sia per i suoi rischi nucleari sia per le dimensioni che sta assumendo lo stesso porto al centro del sistema di guerra del mediterraneo;

— la lotta a Sigonella perché finalmente quel territorio abbia nuove prospettive economiche e di sviluppo, negate da una base "in odore di mafia" e nella quale le poche occasioni di lavoro sono sottoposte a dure condizioni e alla negazione dei diritti sindacali;

— le iniziative in Toscana per restituire l'area di Camp Darby a nuove funzioni civili e ambientali;

— la nascita di nuovi comitati e gruppi locali, come in Romagna, o le iniziative che da tempo ci sono in altre zone, come a Brescia/Ghedi o Aviano/Pordenone.


Dobbiamo però sapere e riconoscere che queste iniziative non hanno una forza di attrazione e di mobilitazione per la gran parte della popolazione, nemmeno nelle aree dove si trovano le basi — se si esclude, in parte, il caso sardo.

Perché questo "minoritarismo" delle lotte contro le basi? Le autorità militari e politiche hanno saputo creare volta per volta consenso e/o indifferenza verso questa localizzazione, tanto che anche il movimento contro la guerra che ha saputo mobilitare milioni di donne e uomini contro l'intervento in Iraq, non è riuscito a collegare questo intervento alla funzione militare del territorio italiano – se non con la sporadica intuizione del "Train Stopping", che ha avuto una discreta simpatia ma non una partecipazione di massa e si è comunque fermata "ai cancelli della basi".

Come possiamo scalfire questo consenso - nelle zone dove la presenza di infrastrutture militari è considerata occasione di sviluppo locale - o l'indifferenza e incomprensione del coinvolgimento globale dell'Italia nel sistema della guerra?

Serve mettere insieme e sviluppare tutte le nostre intelligenze e competenze, per immaginare e comunicare proposte alternative all'uso militare del territorio; serve coinvolgere enti locali e comunità in una politica partecipata che mostri le prospettive positive della rinuncia alle basi militari; serve una forte e coordinata iniziativa che renda evidente e pertanto insopportabile la complicità italiana alla guerra globale; serve una rete del movimento contro la guerra.

Anche attraverso questi appuntamenti dobbiamo tutte/i impegnarci a tessere questa rete, che sia organizzazione di un movimento per la smilitarizzazione del territorio e contro le basi militari.

Una rete che in Italia ha provato a fare i suoi passi varie volte - l'ultima nel 1998 con la proposta di "Gettiamo le basi", nata qui a Pordenone e motore di una giornata nazionale il 28 giugno 1998, purtroppo senza seguito.

Questo insieme di iniziative deve saper agire a differenti livelli, per poter coinvolgere differenti soggetti sociali e una maggiore partecipazione politica delle persone:

- prima di tutto a livello politico, contestando e opponendosi al sistema delle basi e al suo ruolo strategico nelle politiche di ricolonizzazione e intervento militare occidentale;

- a livello economico e di una diversa idea dello sviluppo territoriale, coinvolgendo sempre più donne e uomini in progetti di riconversione possibile e di riappropriazione di territori militarizzati e quindi sottratti ad un uso sociale;

- per la tutela della salute e contro i rischi della presenza delle basi.

Questa rete deve essere un impegno forte per tutto il movimento, e deve vedere soprattutto la presenza dei comitati e dei soggetti locali, che hanno la capacità e l'opportunità di mettere a disposizione di tutto il movimento esperienze e competenze. Mi auguro che anche questo convegno possa rappresentare una spinta in questa direzione.

| << |  <  |