Copertina
Autore Claudia Lightfoot
Titolo L'Avana
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2004, Luoghi , pag. XVII+284, cop.fle., dim. 140x205x20 mm , Isbn 978-88-424-9638-0
OriginaleHavana [2002]
PrefazioneDanilo Manera
TraduttoreNicoletta Poo
LettoreCorrado Leonardo, 2004
Classe viaggi , paesi: Cuba , storia: America , citta'
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Indice

XI Prefazione
XV Introduzione


  1 Parte prima  Storia di una città


  1 L'Avana coloniale

  5 I primi decenni
  7 Il Castillo de la Real Fuerza
 10 Il Castillo del Morro e
    il Castillo de la Punta
 11 Da porto a città
 17 La fioritura dell'architettura religiosa
 20 L'occupazione inglese
 24 L'età dell'oro della cultura
 26 L'Avana dell'Ottocento: poesia e politica
 33 La prima guerra di indipendenza
 35 I primi viaggiatori
 38 L'indipendenza

 41 La metropoli del XX secolo

 43 La repubblica fantoccio
 46 L'Avana all'americana
 50 L'insurrezione di Fidel Castro
 52 Gli anni della rivoluzione
 56 Il tessuto della città: conservazione
    e decadenza
 59 Il periodo speciale

 62 La Maqueta de La Habana:
    paesaggio urbano e architettura oggi

 66 Havana Style


 71 Parte seconda  La città vecchia


 71 Il centro storico

 74 Plaza de Armas
 76 Palacio del Segundo Cabo
 77 La letteratura a Cuba
 87 Plaza de San Francisco
 90 Plaza Vieja
 93 Plaza de la Catedral e Plaza del Cristo
 97 L'architettura coloniale in vetrina
 99 Alejo Carpentier
102 Negozi e negozietti

103 Casa natale di José Martí:
    l'identità cubana

105 Romantico e visionario
111 La città e le sue chiese
113 Iglesia del Santo Àngel Custodio: Cecilia
    Valdés e il sentimento di meticciato
121 Il restauro dell'Avana Vecchia


123 Parte terza  Il Centro


123 La città in espansione

127 L'Inglaterra: gli alberghi all'Avana
133 Paseo del Prado

137 La casa di Lezama Lima:
    il machismo nella letteratura

143 Letteratura al femminile
145 L'Avana gay
149 L'azotea

151 L'Avana a teatro: il Gran Teatro

154 Il teatro bufo
160 La farándula
160 Balletto classico e danza
162 Tropicana: il cabaret
165 Il Capitolio: folie de grandeur
167 Chinatown
172 Il Malecón
176 Spazio pubblico
180 L'esilio e l'oceano


185 Parte quarta  El Vedado


185 Idillio di periferia

187 Il Cementerio Colón
188 Paesaggi che cambiano
191 Coppelia: cinema e media
197 Le ville dell'Avana
200 L'UNEAC
207 Casa de las Américas

209 Parque John Lennon: i giovani e la musica

215 L'antico giardino botanico:
    la cultura giovanile
218 Alamar
219 Plaza de la Revolucion: lo spirito del Che


225 Parte quinta  L'Avana est


225 Regia e Guanabacoa:

    religione e cultura afrocubane
230 I poteri degli orishas
236 Religione e rivoluzione
239 Guanabacoa

244 Cojímar: Hemingway e L'Avana

245 Finca Vigía


249 Parte sesta  L'Avana ovest


249 Miramar: i pro e i contro

250 Quinta Avenida: il culto del corpo
254 L'ISA: le arti visive
256 Pittura moderna

260 Club Havana: gli stranieri

262 Il turismo e i dollari

265 A nord dell'Avana

265 Miami: gioco di specchi
266 Café Nostalgia

269 Fonti
271 Indice dei nomi
277 Indice dei luoghi
 

 

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Parte prima

Storia di una città


Cosa sarei senza di te,
mia città? Mia Avana?
Se tu non esistessi, mia città sognata
fatta di luce e di schizzi?
Cosa sarei senza i tuoi portici,
le tue finestre e colonne, senza i tuoi baci?
Quando ho vagato per il mondo
sei venuta con me,
una canzone ferma in gola,
una macchia di cielo sulla camicia,
un amuleto contro la nostalgia.

Fayad Jamís



L'Avana coloniale

Re Juan Carlos I di Spagna ha visitato L'Avana nel 1999; è stato il primo monarca spagnolo a mettere piede in questa città, a circa un secolo dall'irrimediabile perdita dell'ultimo e preziosissimo gioiello della Corona imperiale spagnola. Erano passati più di quattro secoli da quando il cuore della Fidelísima Habana aveva cominciato a pulsare.

I primi coloni spagnoli trovarono la giusta posizione per fondare la città solo al terzo tentativo. Colombo attraccò sulle rive orientali di Cuba il 28 ottobre 1492. Rimase incantato dalla sua scoperta, tanto che in una lettera descrisse l'isola come «la più bella che occhi umani abbiano mai visto». Dopo una prima breve incursione nell'entroterra, scrisse che a malincuore riusciva a lasciarsi alle spalle quella meravigliosa e insolita vegetazione e il canto degli uccelli per fare ritorno alla nave. I Siboney e i Taíno, gli indigeni che abitavano l'isola, accolsero amichevolmente gli strani visitatori, senza alcuna diffidenza. Nonostante la tentazione di esplorare questo paradiso, Colombo e i suoi ripartirono dopo pochissimo tempo alla ricerca di oro; gli indios avevano infatti assicurato loro che ne avrebbero trovato in una terra verso levante.

L'isola fu lasciata praticamente a se stessa per i successivi vent'anni. Gli spagnoli si concentrarono sulla vicina Hispaniola e non dedicarono alcuna attenzione alla prima scoperta di Colombo, limitandosi a sceglierle un nome. Il primo fu Juana, in onore sia del principe Juan sia, secondo alcune versioni, di Juana la Loca (Giovanna la Pazza), l'infanta triste e folle, figlia dei sovrani Ferdinando e Isabella, finanziatori dell'impresa di Colombo. Conoscendo la storia successiva dell'isola, si coglie una certa ironia nel suo primo nome, non sfuggita ai commentatori. Nel 1941, lo storico americano Hugh Bradley scrisse: «Così Cuba, entrata a far parte per la prima volta del mondo civilizzato con il nome di una folle, rimase per secoli in balia dei capricci degli eredi di colei che la tenne a battesimo».

Juana divenne Fernandina, poi San Diego, poi Ave Maria Alfa y Omega, finché da ultimo prese il nome di Cuba, una versione del nome che i Siboney avevano dato alla loro isola. Secondo la leggenda, gli indios ripeterono la parola Cubanacán a Colombo e questi, restando convinto di essere approdato nell'impero orientale del Catai, pensò che mormorassero in cinese il nome di Kubilay Khan.

Gli indigeni dissero inoltre a Colombo che si trovava sì su un'isola, ma che l'isola era infinita...

Nel 1508 Sebastian de Ocampo circumnavigò Cuba e scoprì il magnifico porto naturale che sarebbe diventato L'Avana. Soltanto nel 1511, tuttavia, Diego de Velázquez venne incaricato da Diego Colombo, figlio di Cristoforo e allora governatore delle Indie, di esplorare e colonizzare tutta l'isola. Questa volta però i conquistatori dovettero fronteggiare un tentativo di opposizione. Un lungimirante capo indio, Hatuey, era sbarcato dalla Hispaniola per mettere in guardia i Siboney e i Taino sulle possibili conseguenze dell'occupazione spagnola. Velázquez e i suoi incontrarono quindi una valorosa, per quanto breve, resistenza. Hatuey finì sul rogo; al momento dell'esecuzione, quando il fuoco era già acceso, gli fu offerta la possibilità di convertirsi in extremis e di raggiungere così il paradiso. Hatuey domandò se c'erano cristiani in paradiso e, alla risposta positiva, affermò che era più contento di andarsene all'inferno che in un posto dove ci fosse gente crudele quanto gli spagnoli.

Oggi la storia di Hatuey è narrata in tutti i libri di scuola. Fu il primo di una lunga serie di eroi nella coraggiosa lotta di resistenza del popolo indigeno contro l'oppressore. Se vi capita di arrivare in aereo a Baracoa, all'uscita dell'aeroporto vedrete, cercando con lo sguardo in mezzo alla vegetazione lussureggiante che tanto colpì Colombo, una figura scolpita dall'espressione fiera che brandisce un tomahawk. L'altro monumento a Hatuey è la birra che porta il suo nome, gustata da Ernest Hemingway nelle pause fra un daiquiri e l'altro.

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La metropoli del XX secolo

Il primo gennaio del 1899 il generale Fitzhugh Lee, nipote dell'eroe della guerra civile americana, condusse le truppe statunitensi all'Avana: gli eventi verificatisi da questo momento in avanti sono più che sufficienti per farci capire il successo della rivoluzione di Fidel Castro e l'attuale tensione nelle relazioni fra Cuba e gli Stati Uniti. Da un giorno all'altro, i decenni di lotta dei cubani per la loro terra, l'orgoglio per la faticosa conquista dell'indipendenza, i secoli di maturazione del criollismo e il crescente senso di identità cubana furono azzerati dall'ignoranza e dall'arroganza delle forze statunitensi occupanti. I cubani subirono una grave umiliazione in quanto alla neonata nazione fu negata ogni forma di espressione autonoma. L'esercito cubano dovette cedere le armi e i mambises, i più valorosi combattenti per la libertà, non furono nemmeno invitati alla sfilata per la vittoria; fu la Casa Bianca a dettare le condizioni alla Spagna nel trattato di Parigi dell'aprile del 1898 e a Washington fu stilata la nuova costituzione che prevedeva, fra l'altro, l'emendamento Platt, tristemente noto perché conferiva agli Stati Uniti il diritto di ingerenza negli affari cubani in qualunque momento, a loro più completa discrezione. Gli Stati Uniti, fieri della propria lotta per la libertà e del nascente senso della nazione, erano completamente sordi al fiorire di medesimi sentimenti a Cuba. Gli occupanti mettevano alla berlina quello che ai loro occhi non era che un manipolo di soldati straccioni, incapaci e senza alcuna preparazione, senza tener presente il fatto che questi uomini, i loro padri e il loro nonni avevano dedicato una vita intera al sogno della libertà. Nemmeno al grande eroe cubano Calixro García fu permesso di entrare a Santiago per festeggiare la vittoria, anche se nei dintorni della città aveva capeggiato battaglie decisive. Breckenridge, sottosegretario alla guerra statunitense, rappresenta perfettamente l'insensibilità del suo paese in una nota al capo di stato maggiore, generale Miles. A proposito dei cubani, commenta infatti:

Sono bianchi, negri e asiatici, più tutti i possibili incroci. Gli abitanti sono in genere indolenti e apatici. È ovvio che l'annessione immediata di gente come questa alla nostra Federazione sarebbe una follia e prima di procedere occorre ripulire il paese [...] Dobbiamo concentrarci per attuare un blocco cosicché la fame e la sua eterna compagna, la malattia, possano mettere in ginocchio la popolazione e decimare l'esercito.

La storia dell'Avana nel XX secolo è divisa in due periodi di durata più o meno uguale. I primi 59 anni portarono una sfacciata americanizzazione della città, in tutti i suoi aspetti. Nel 1902, l'isola aveva finalmente raggiunto l'indipendenza, ma fu subito chiaro che era un fatto puramente formale. Lo stesso generale Wood, il primo governatore americano dell'isola, scrisse al presidente McKinley: «Con l'emendamento Platt rimane naturalmente pochissima se non nessuna indipendenza».

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Il Palacio del Segundo Cabo costituisce un'attrattiva per chiunque si interessi di letteratura cubana, poiché oggi ospita l'Instituto del Libro, un'organizzazione sorta negli anni settanta al fine di promuovere la letteratura e in generale l'editoria cubane. All'Instituto fanno capo sette case editrici di proprietà dello Stato e sotto il suo patrocinio si svolge gran parte della vita letteraria cubana, sia nel palazzo stesso sia in altre sedi in giro per la città. All'entrata vedrete una bacheca con informazioni su letture, seminari teorici e pratici e presentazioni con argomenti che coprono tutti gli aspetti della letteratura. (A titolo di curiosità, si svolge qui l'annuale Conferenza cubana di fantascienza.) Incuranti della folla di turisti intenti a comprare libri o cartoline, giovani di belle speranze si aggirano sotto il colonnato con i loro manoscritti sdruciti insieme a scrittori affermati che vengono a presentare i loro libri. Per il lancio di un libro di solito ci sono lunghe file perché è un'ottima occasione per acquistarlo; infatti in un'economia con doppia valuta alcune copie sono vendute in pesos per un solo giorno e poi il libro passa nei negozi al prezzo di copertina in dollari, quindi fuori dalla portata di un cubano medio. Come tutto il resto, anche l'Instituto del Libro si è dato da fare per convertirsi all'economia di mercato e nel 1999 il vecchio cortile malandato ha cambiato faccia, sono comparse tre librerie su cui campeggiano brutte lampade alogene del tutto fuori luogo accanto agli eleganti lampadari di cristallo baccarat. I banchetti nella piazza all'esterno continuano a tenere copie su copie, sempre più consunte, degli scritti di Fidel e di Che Guevara, ma si trovano oggi anche titoli impensabili in passato come Il miracolo economico giapponese o 100 modi di preparare la pasta. L'Instituto vanta ora anche un piccolo Café Literario nascosto giù per una scala, dove si può prendere un caffè stando praticamente seduti nel fossato del Castillo de la Real Fuerza, all'ombra delle imponenti mura.


La letteratura a Cuba

La storia della letteratura cubana comincia propriamente nel XVII secolo poiché prima di allora la colonia era troppo impegnata a costruirsi solide fondamenta e i primi immigrati erano uomini d'azione e non di lettere. L'età dell'oro della letteratura spagnola non riscosse molta eco sull'isola, mentre le popolazioni indigene Siboney e Taino non avevano una tradizione scritta, quindi della loro cultura sopravvivono solo alcune leggende. Esistono comunque una o due opere datate agli albori della colonia e in generale si può affermare che l'attività letteraria comparve precocemente, se si considerano le priorità di sopravvivenza e difesa impellenti all'epoca. Il primo scrittore "cubano" che si conosca fu José Augusto Escoto, nato mtorno al 1515, che scrisse sotto lo pseudonimo di Miguel Velázquez. L'unico manoscritto che ci rimane è una lettera del 1548 indirizzata al vescovo di Sarmiento che parla di questa «terra infelice, come ridotta in schiavitù».

Il primo esempio di letteratura genuinamente cubana è considerato il poema epico Espejo de paciencia ("Lo specchio della pazienza") apparso nel 1608. L'autore, Silvestre de Balboa (1563-1644), nacque alle Canarie ma si trasferì a Cuba da giovane e ricoprì l'incarico di scrivano ufficiale nella città orientale di Puerto Principe, oggi Camagüey. Espejo de paciencia narra la vicenda realmente accaduta del rapimento del vescovo di Santiago Cabezas Altamarino per mano del pirata francese Gilbert Giron e della successiva battaglia per salvarlo combattuta dai vecinos di Bayamo guidati da Gregorio Ramos, durante la quale Giron venne ucciso.

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L'anno della rivoluzione non segnò un chiaro spartiacque nella vita letteraria come nell'ambito politico, economico e sociale. Il mondo letterario nel complesso salutò con ottimismo il cambiamento e nei primissimi anni scoppiò un'ondata di euforia e creatività. Fu solo quando le politiche culturali presero una piega diversa che i singoli autori dovettero fare i conti con la propria posizione nella società. Due eventi in particolare scioccarono abbastanza presto gli ambienti letterari facendo allontanare alcune fra le voci più significative del paese, compreso lo stesso Cabrera Infante. Il discorso di Fidel Castro agli intellettuali radunati al famoso incontro alla Biblioteca nazionale lasciò tutti confusi quando non palesemente intimoriti. Ancora più scioccante fu l'affare Padilla (vedi p. 208) che colpì direttamente un intellettuale affermato trascinandolo alla pubblica gogna.

Alcuni decisero di restare, altri se ne andarono, ma in diversi momenti delle loro storie personali. Il poeta e drammaturgo Antón Arrufat vide censurata la sua opera teatrale Los siete contra Tebas ("I sette contro Tebe") nello stesso periodo in cui scoppiò il caso Padilla. Decise di non andarsene ma si trovò tagliato fuori per anni, relegato a un oscuro lavoro come bibliotecario a Marianao. Non ci fu un esodo di massa né una polarizzazione netta delle posizioni politiche. Ciascuno si disincantò, chi più chi meno, in momenti diversi. Oggi gli scrittori che frequentano il Palacio del Segundo Cabo saranno presumibilmente un misto di anziani "sopravvissuti" ed esponenti della nuova generazione.

Verso la fine degli anni ottanta comparve un gruppo di giovani scrittori che dava voce alle preoccupazioni della nuova generazione, conosciuto come Los Novisímos. Affrontarono problemi rimasti fino ad allora tabù che appartengono tuttavia alla realtà quotidiana di Cuba, come la guerra in Angola, lo jineterismo, i balseros (quelli che fuggono dall'isola con imbarcazioni di fortuna), ma anche la droga e il disagio giovanile. In un certo senso stanno tuttora semplicemente continuando la tradizione dei cronisti dell'Ottocento, i costumbristas, ma dal loro lavoro emerge una critica implicita del sistema, impensabile solo dieci anni fa, che ha avuto una particolare risonanza coincidendo con l'apertura di Cuba al resto del mondo e con un generale e rinnovato interesse per tutto ciò che viene dall'isola. Recentemente questi autori sono stati acclamati in tutto il mondo ispanofono, potendo godere dell'opportunità di viaggi e introiti riservati finora solo ai suonatori di salsa. All'Avana tuttavia una critica comune è che questi scrittori abbiano piegato la loro creatività alle esigenze del mercato. Sanno bene che gli editori stranieri esigono una certa visione esotica di Cuba con tante storie di difficoltà quotidiane, un pizzico di dissidenza politica e grande abbondanza di sesso ai tropici, così si mettono a sfornare libri di questo tenore. Gli scrittori che sono partiti e stanno facendo fortuna con la loro storia nel período especial sono disprezzati come volgari opportunisti.

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Pagina 103

Casa natale di José Martí: l'identità cubana

Per essere un maestro, un maestro nel sangue e un apostolo in ogni sistole e diastole e in ogni fibra mentale è necessario innanzi tutto proclamarsi con raggiante modestia e sereno orgoglio un uomo sincero, di dove cresce lo palma e dichiarare che prima di morire [...] perché da qui nasce un manifesto delle nostre radici e del senso della nazione, un tenero e attento sermone che parla al cuore di tutti gli umili della terra.

José Lezama Lima, a proposito di Martí


La casa natale di José Martí è un piccolo edificio a due piani, con l'intonaco color ocra e parti in legno azzurro, in Calle Leonor Pérez, in genere nota come Calle Paula, al numero 314, quasi di fronte alla stazione ferroviaria. Oltre a essere la casa natal dell'eroe nazionale cubano, l'abitazione offre la rara opportunità di scoprire l'interno di una semplice casa familiare ottocentesca, diversa dai palazzi signorili visibili nel resto della città. Ci sono cinque o sei piccole stanze che occupano tre lati di uno stretto cortile; in una di queste, da cui si scorge il porto, nacque Martí. Ora è un museo, o meglio un piccolo santuario, in genere affollato di scolaresche riverenti che vengono a respirare l'atmostera eroica e ad ammirare i tanti oggetti e fotografie appartenuti a Martí e alla sua famiglia, come per esempio un ricciolo di capelli biondissimi dell'eroe bambino, una lettera scritta alla madre in un elegante corsivo all'età di nove anni, oppure le foto delle cinque sorelle rimaste in vita.

José Martí nacque qui il 28 gennaio del 1853 da genitori spagnoli, il padre peninsular, di Valencia, e la madre delle isole Canarie. Bambino prodigio e precocemente interessato alla politica, Martí pubblicò il suo primo giornale all'età di 16 anni: "La Patria Libre". Scrisse inoltre una lettera in tono d'accusa a un amico che aveva assistito a un comizio filospagnolo. La lettera fu giudicata sediziosa e Martí venne condannato a sei anni di lavori forzati nella cava di pietra di San Lázaro. Nel 1871 però fu rilasciato ed esiliato in Spagna, dove si laureò in legge e prese parte ai moti per l'indipendenza cubana a Madrid. Nel 1878 gli fu permesso di rientrare a Cuba grazie a una generale amnistia, ma lo stesso anno fu nuovamente cacciato dall'isola. Viaggiò in Francia, Messico, Guatemala e tornò anche clandestinamente a Cuba per due mesi per poi stabilirsi a New York, dove rimase per i successivi quattordici anni lavorando come giornalista e come console dell'Argentina e impegnandosi senza sosta per la causa dell'indipendenza cubana. Nel 1892 Martí presentò ai leader cubani in esilio a New York i Principi fondamentali e segreti del Partito rivoluzionario cubano. Il suo idealismo appassionato lo trasformò in apostolo e capo degli esuli e si dimostrò capace di unificare tutte le diverse fazioni in un fronte unito e forte. Fondò un centro di attività a New York, il Cuba libre, e organizzò l'addestramento di soldati rivoluzionari. Nel 1895 pubblicò il Manifiesto de Montecristi, in cui tratteggiò le linee guida dell'imminente guerra d'indipendenza. Fu poi nominato maggiore generale dell'esercito di liberazione mentre Maximo Gómez, eroe del precedente conflitto decennale, fu scelto come comandante delle truppe.

L'11 aprile del 1895, Martí, Gómez e altri quattro ribelli approdarono clandestinamente sulla costa orientale dell'isola a bordo di una piccola imbarcazione che, come il panfilo Granma con cui arrivarono Castro e i suoi nel 1956, rischiò di essere inghiottita dalle onde del mare in tempesta. Con un messaggio nascosto in un sigaro i ribelli erano stati avvertiti del loro arrivo. Martí si nascose con i suoi uomini nella Sierra dove fu raggiunto dai sostenitori per poi incontrare l'esercito di Maceo. Il primo scontro con le truppe spagnole ebbe luogo a Dos Ríos il 19 maggio 1895 e Martí fu la prima vittima. Si precipitò a capofitto a spezzare le linee nemiche e fu immediatamente raggiunto da uno sparo mortale. Alcuni sostengono che Martí abbia voluto commettere uno spettacolare suicidio. Informato della sua morte, il poeta nicaraguense Rubén Dado si dice abbia esclamato: «Maestro, cosa mai avete fatto?».

La morte di Martí creò il primo e più insigne martire del movimento di liberazione; del resto in gran parte dei suoi scritti aveva affrontato il tema della morte e del martirio. All'età di quindici anni pare avesse sorpreso la madre affermando: «A generazioni e generazioni di schiavi deve necessariamente seguire una generazione di martiri».

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Pagina 180

L'esilio e l'oceano

I cubani sono isolani e, come tutti gli isolani, hanno l'ossessione del mare. Per le vicissitudini storiche, sono anche perseguitati dall'ombra e dal desiderio dell'esilio. È quasi come se ogni cubano percepisse intimamente lo struggimento dell'esule anche se magari non ha mai lasciato l'isola. Per gli habaneros, il Malecón è l'ostacolo ma anche il trampolino di agognate partenze e ritorni. Sedendo sul frangiflutti, stanno in bilico sul confine tra la loro amatissima città e il mondo di opportunità che pensano aprirsi al di là di essa. Il Malecòn ha un posto speciale non solo nella topografia della città ma anche nel paesaggio interiore di ogni suo abitante.

Una delle più note poesie di Virgilio Piñera, La isla en peso ("Il peso dell'isola"), è un lungo, lirico lamento che coglie esattamente questo senso di cattività che ogni isolano percepisce. Composta nel 1943, molto prima della rivoluzione e delle conseguenti restrizioni alla libertà di movimento, la poesia è attualissima per il senso di pesantezza e frustrazione che sa comunicare. Così nei primi versi:

La dannata circostanza di essere circondati dall'acqua
mi obbliga a sedere al tavolino di un bar;
se non sentissi che quest'acqua mi assedia come un cancro
facilmente mi sarei addormentato.

E si conclude:

Un popolo si cala inesorabilmente in un enorme pozzo nero
e sente l'acqua che lo assedia da ogni lato,
sempre più in basso, il mare gli rosicchia le spalle;
un popolo si aggrappa all'istinto quando giunge il momento di partire,
ululando nel mare, divorando la frutta, sacrificando animali,
sempre più in basso fino a conoscere il peso della sua isola;
il peso di un'isola nell'amore della sua gente.

Gli habaneros amano profondamente il mare, ma è un rapporto difficile, perché le sue onde rappresentano insieme libertà e prigionia.

Esilio, addii, perdite e desideri si intrecciano nella psiche dei cubani. Sotto al calore, alla sensualità e all'allegria che travolgono i turisti, giace una profonda, spesso impercettibile vena di tragedia. Molti cubani partirebbero domani se potessero, ma allo stesso tempo il desiderio di andarsene è offuscato dalla certezza che la nostalgia sarebbe lancinante. L'ironia della grande diaspora cubana è che molti cubani vorrebbero più di ogni altra cosa vivere nella loro isola.

Non si contano quelli che portano le cicatrici dovute alla perdita di coloro che hanno preferito andarsene. Sono pochi i cubani che non hanno dovuto sacrificare parenti, amici o innamorati che hanno deciso un giorno di fare il grande salto. Parole semplici come "partire" o "restare" raccolgono il non detto di un'intera nazione. Espressioni come se fue ("se n'è andato") o se quedó ("è rimasto") sono gravide di una tristezza che non richiede spiegazioni. L'idea della partenza è un'eterna speranza e un eterno dolore. A volte la tragedia di singole storie è angosciante: una coppia scappa e lascia il bambino ai nonni per riprenderlo in seguito, ma poi non riescono a farlo espatriare, i nonni muoiono e per lo Stato il piccolo risulta orfano. Donne e uomini di trenta o quarant'anni stanno ancora rielaborando il trauma di essere stati abbandonati dalle loro madri. Ci sono famiglie smembrate non solo dalla distanza, ma dalle diverse opinioni politiche. Ci sono fratelli che non si parlano nemmeno per telefono per l'odio che l'uno nutre nei confronti del sistema politico che l'altro difende. La scrittrice cubano-americana Cristina García lasciò Cuba da bambina e nel suo romanzo Questa notte ho sognato in cubano coglie l'essenza e tutti i terribili strascichi di quelle dolorose separazioni.

Avevo soltanto due anni quando ho lasciato Cuba, ma mi ricordo ogni più piccolo avvenimento successo quand'ero bambina, persino i discorsi parola per parola. Stavo seduta in braccio alla nonna, giocavo con i suoi orecchini di perle a goccia, quando mia madre le disse che avremmo lasciato il paese. Abuela Celia la accusò di tradire la rivoluzione. La mamma cercava di trascinarmi via, ma io mi aggrappavo ad Abuela e urlavo con tutto il fiato che avevo in corpo. Mio nonno arrivò di corsa e disse: «Celia, lascia andare la bambina. Appartiene a Lourdes». Quella fu l'ultima volta che la vidi.

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Pagina 210

È meno strano che all'Avana ci sia un Parque John Lennon che un Jardin de Diana. I cubani sono sempre stati grandi ammiratori dei Beatles, tanto che in passato si sono accese polemiche fra diverse fazioni e scuole di pensiero sul mito dei fabulous four. Per diversi anni consecutivi si tenne all'Avana una conferenza sui Beatles e l'edizione del 1998 fu persino impreziosita dalla presenza dei Quarrymen in carne e ossa, anche se un po' in là con gli anni.

La mania dei Beatles non è affatto un fenomeno generazionale. I ventenni all'Avana conoscono tutte le canzoni a memoria, tuttavia per quelli che erano giovani negli anni sessanta questa musica ha un significato particolare perché rappresentava allora un intero universo della cultura giovanile al quale i cubani non potevano accedere. Infuriano tuttora vibranti discussioni per capire se i Beatles siano stati effettivamente banditi sull'isola, ma è senz'altro vero che i primi programmi radiofonici dedicati a loro furono trasmessi solo dopo lo scioglimento della band. Circolano inoltre testimonianze e aneddoti su registrazioni pirata fatte con metodi casalinghi e dischi confiscati e distrutti dalle autorità. Non solo questi erano gli anni delle politiche culturali più repressive e generalizzate, ma la rivoluzione non voleva neanche sentir parlare di un movimento giovanile, per non tacere del fatto che i Beatles cantavano nella lingua degli imperialisti. Qualunque sia la verità, i cubani sanno di tutto e di più sull'argomento, dalla musica nota per nota, al nome del cane di Paul McCartney. È stata pubblicata un'antologia intitolata Los Beatles en Cuba, che raccoglie articoli come "Il pensiero economico di Lennon e McCartney", "I Beatles e la salsa" e il più sorprendente in assoluto, "I Beatles sono cubani"!

Questa passione dei cubani per la band di Liverpool lascia un po' spiazzati; non sorprende tuttavia che il più grande fenomeno di musica pop del XX secolo sia salutato così entusiasticamente in un paese dove la forma di creatività dominante è quella musicale. La popolarità della salsa e il successo del Buena Vista Social Club hanno riportato solo di recente la musica cubana sotto i riflettori, ma sull'isola questa tradizione non si è mai interrotta. I cubani trovano inspiegabile il successo internazionale ottenuto da alcuni di questi musicisti e in genere pensano: «Sì, bravo, certo, ma niente a che vedere con quel tale che suona sotto casa mia».

È difficile evitare esagerazioni quando si parla della musica cubana perché questo paese vive di musica, la respira e si identifica pienamente con essa. Passeggiando per le strade dell'Avana sarete accompagnati da melodie di ogni sorta che sgorgano all'improvviso da ogni angolo. È impossibile rendere giustizia alla storia e alla tradizione musicale anche solo della capitale senza compilare volumi e volumi; ci aiuta però la definizione fornita dall'eminente etnologo Fernando Ortiz che ha colto l'essenza della musica cubana definendola «una storia d'amore fra le percussioni africane e la chitarra spagnola». Si racconta che Norman Mailer abbia rimproverato il presidente Kennedy per la debacle alla Baia dei Porci con questa battuta: «Non si rende conto dell'enormità del Suo errore? Ha invaso un paese senza capirne la musica».

Ritmi africani battono nel cuore della musica cubana. I diversi gruppi etnici africani approdati sull'isola con la tratta degli schiavi hanno portato con sé la loro musica, in particolare i tamburi. Gli schiavi a Cuba, a differenza di quelli trapiantati nelle società anglofone, avevano il permesso di suonare i loro strumenti e furono così in grado di mantenere vive le diverse tradizioni ritmiche e musicali. Già la Spagna aveva accolto influenze culturali africane, e non ci volle molto perché le chitarre spagnole, come il piccolo requinto e il tres a nove corde, si coniugassero con le percussioni africane, le zucche secche riempite di semi e i due bastoncini detti claves, donando alla musica cubana quelle sonorità che la rendono inconfondibile. Probabilmente il primo ritmo ballato fu il guaguancó, di una sensualità tuttora senza pari. Poi vennero la rumba e il son. Piccoli gruppi di sei o sette musicisti, con l'aggiunta di una tromba, si costituirono negli anni venti, e fra i trenta e cinquanta le sonorità si arricchirono aggiungendo all'originario gruppo del son altri strumenti, fra cui il pianoforte. Nascono così le musiche dei grandi complessi e l'immensa popolarità di musicisti come Arsenio Rodríguez e la cantante Celia Cruz. Quest'ultima lasciò l'isola nel 1959 per diventare una stella negli Stati Uniti, ma resta sempre innamorata di Cuba nonostante la sua dichiarata avversione per Castro.

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I poteri degli orishas

Gli schiavi di origine yoruba, provenienti dall'Africa occidentale, erano noti alle aurorità spagnole come Lucumís. Quando la complessa cosmologia yoruba, popolata da divinità chiamate orishas, arrivò sull'isola insieme ai principali riti divinatori, i diversi culti orisha si fusero nella Regla de ocha, mentre le pratiche propiziatorie presero il nome di Regla de ifá. Comunemente questi culti afrocubani sono etichettati indistintamente come santería, in quanto a Cuba gli orishas si identificarono con i santi della Chiesa cattolica. Agli schiavi era permesso, entro certi limiti, mantenere le loro danze e musiche tradizionali, ma non la religione. Subivano quindi un battesimo coatto e adottavano i santi cattolici associandoli ai diversi orishas, secondo vari criteri. Delle centinaia di divinità africane, circa venti si radicarono a Cuba clandestinamente nel periodo coloniale. Ciascuna possiede attributi e colori distintivi e un preciso raggio d'azione. Le collane di perline che molti indossano indicano l' orisha particolare da cui la persona è protetta. Ciascuno nasce nella sfera di controllo e tutela di uno specifico orisha ed è compito del babalawo, l'officiante, identificarlo. Le molte persone che vedrete in giro per la capitale vestite di bianco da capo a piedi (a eccezione delle collanine variopinte) sono appena state "fatte sante". La cerimonia per diventare santo, durante la quale il babalawo compie i riti del caso - compreso il sacrificio di animali che rende il tutto piuttosto costoso -, serve per individuare il proprio orisha. La cerimonia dura diversi giorni e il nuovo santo deve vestirsi di bianco per un anno.

La cosmologia orisha e i culti relativi non hanno niente in comune con quelli delle religioni giudaico-cristiane. Il legame fra il devoto e gli orishas è assai più mutevole del rapporto gerarchico tra l'uomo e Dio nelle religioni monoteistiche. Queste divinità sono fallibili, capricciose e molto simili agli uomini. Il loro compito è aiutare le persone nella vita senza fare riferimento a un sistema di valori assoluto, in base al quale stabilire il bene e il male. I devoti possono cambiare o abbandonare gli orishas se questi si rivelano inefficaci, mentre l' orisha che controlla e protegge ciascuno è immutabile. I principali orishas venerati a Cuba sono:

Changó, divinità del tuono, del fulmine e del fuoco, i cui simboli sono un'ascia a due lame, una spada, una tazza e un castello; i suoi colori tipici sono il rosso e il bianco e viene identificaro con santa Barbara, patrona delle fonderie e dell'artiglieria.

Elegguá, custode delle strade, burlone e Anima Sola; i suoi colori sono il rosso e il nero e viene identificato con il Cristo bambino di Atocha.

Yemayá, divinità del mare, il cui colore distintivo è il blu intenso; i suoi simboli sono il sole, la luna e tutto ciò che appartiene al mare e viene identificata con la Virgen de Regla.

Oshún è la divinità dell'amore e delle risa, signora della dolcezza; il suo colore è il giallo e fra i suoi simboli ricorrono specchi, piume di pavone e sassi dei letti dei fiumi; viene identificata con la Virgen de la Caridad del Cobre. Oshún è una divinità ammaliante, gioiosa e appassionata, perciò comprensibilmente è spesso assimilata a Venere ed è inoltre una perfetta patrona per la sensuale Cuba.

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