Copertina
Autore Torgny Lindgren
Titolo Acquavite
EdizioneIperborea, Milano, 2010, n. 188, , pag. 222, cop.fle., dim. 10x20x1,8 cm , Isbn 978-88-7091-188-6
OriginaleNorrlands Akvavit
EdizioneNorstedts, Stoccolma, 2007
TraduttoreCarmen Giorgetti Cima
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa svedese
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Pagina 11

Una volta l'anno, Ivar comprava una bottiglia di acquavite a Skellefteå.

Quando venne il suo turno e si avvicinò al banco, disse che stavolta voleva una Renat o una Kronvodka o un'Absolut, doveva avere colore o almeno un po' di sapore.

Osservò la commessa con molta cura, c'era qualcosa in lei che contro ogni attesa catturava la sua attenzione; sembrava sulla sessantina, e aveva i capelli attorcigliati in un nodo duro sul cocuzzolo.

"Allora le suggerirei un'acquavite aromatizzata", disse lei. "Sanno tutte o di aneto o di cumino. Che ne dice di una Skåne? OP? Herrgåds? Ödåkra?"

Gli occhi di Ivar sembravano essersi incollati alla crocchia. La commessa evidentemente se ne accorse, e con la mano destra controllò che fosse ferma al suo posto come doveva.

"Non sono un esperto", disse Ivar. "Sembrano tutte buone."

"Se posso permettermi un suggerimento", disse la commessa, "opterei per una Norrlands Akvavit. La buona vecchia Gammal Norrlands Akvavit va bene con tutto, in ogni occasione. Personalmente ne prendo un piccolo dito ogni giorno. Numero di catalogo duecentosessantadue. Molto finocchio."

A questo punto Ivar non riuscì più a dominarsi.

"La sua pettinatura", disse, "mi evoca qualcosa dei miei primissimi anni di vita. Ma che cosa esattamente, non lo ricordo."

"È semplice", disse la commessa. "Quando ero molto giovane facevo parte di una comunità religiosa dove avevamo tutte questo tipo di crocchia. Tutte le donne salvate. Mi sono liberata presto dalla salvazione. Ma ho mantenuto la pettinatura."

"Ah", disse Ivar. "Vada per la Norrlands Akvavit. Andrà sicuramente bene."

"È davvero molto apprezzata", disse la commessa. "Cumino e anice. E finocchio, come abbiamo detto. Come aperitivo. O per accompagnare le aringhe. Per non parlare di un goccetto per così dire di straforo."

"Io vengo da Avabäck di Sotto", disse Ivar. "Noi non siamo gente di quel tipo."

"In poche parole", spiegò la commessa, e la sua voce aveva preso un tono solenne, "tre piante della famiglia delle Ombrellifere, con infiorescenze a ombrella, tre erbe medicinali che si uniscono felicemente nell'acqua della vita. Nobilitate infine da qualche goccia di sherry. Vuole un sacchetto?"


Quando arrivò a casa disse ad Asta: "Possiamo farla assaggiare a Torvald. Se dovesse passare di qui un giorno o l'altro."

E Asta lesse sull'etichetta. "Gammal, vecchia?" chiese. "Cosa può voler dire, vecchia?"

"Oppure a Eskil di Svanliden", aggiunse. "Per il momento la metto nella credenza di Eberhard."

Lì dentro, proprio in fondo all'armadio, trovò un'altra bottiglia. Era praticamente uguale, l'unica differenza stava nel paesaggio riprodotto sull'etichetta, la cascata sulla bottiglia di Ivar era più ripida ma anche più convenzionale.

"Dev'essere rimasta qui dentro per tutti questi anni", disse Asta. "Senza che noi lo sapessimo."

"Eberhard aveva i suoi piccoli segreti", commentò Ivar. "Per chi beveva acquavite ai suoi tempi, a quanto pare, non c'era nessuna grazia, si finiva dritti all'inferno e al fuoco eterno."

"Ormai non ha più nessuna importanza", disse Asta. "Adesso che lui è morto."

E mise entrambe le bottiglie sul ripiano più alto della credenza.

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Pagina 38

Diresse lo sguardo verso l'attempato predicatore, come se potesse vederlo. Con la mano cercava di parare il sole che gli arrivava in faccia.

"Forse ti ricordi", disse, "che ho sempre avuto facilità a cadere in estasi?"

"Sì, me lo ricordo."

"Non succedeva mai nel segreto", disse lui. "Sempre in modo palese. E non soltanto durante gli incontri di preghiera."

In particolare, continuò, era di fronte alla natura che la commozione e l'entusiasmo talvolta potevano portarlo a perdere quasi il controllo. E l'amore spontaneo per tutte le cose vive, le piante e le bestiole sulla terra e gli uccelli dell'aria e gli insetti potevano ogni tanto unirsi nella sua salvazione così profondamente sentita. Era come se perdesse la ragione, non aveva più il controllo di se stesso, tutto il suo essere fremeva e ribolliva, un potere superiore prendeva possesso di lui. Così era accaduto una volta che era seduto su un ceppo dietro l'ovile, un paio di giorni dopo il decesso di Ingrid. Pregava Dio e Cristo e lodava la creazione. Purtroppo l'aria era piena di cinguettii, gli insetti gli ronzavano e volteggiavano intorno, il paleo odoroso emanava il suo profumo e gli alberi verdeggiavano.

"Come adesso", disse in tono interrogativo. "Perché le foglie sono già spuntate, vero?"

"Sì, le betulle sono verdi. E i sorbi."

E l'estasi l'aveva sopraffatto. Aveva preso a correre qua e là tra sassi e ciuffi d'erba e formicai, invocando Dio e Gesù, inni in lingue e dialetti sconosciuti gli erano sgorgati dalle labbra. E gli era venuto l'impulso di abbracciare il pino più grande li dietro l'ovile, un abbraccio fraterno.

"Puoi darmi un bicchier d'acqua?"

E Olof Helmersson andò a prendere un bicchiere d'acqua al lavandino. Dopo aver bevuto, Gideon continuò.

Mentre dunque si precipitava a incredibile velocità verso l'enorme pino, i suoi piedi erano scivolati sul muschio umido ed era finito a capofitto contro il tronco massiccio. Questo era quel che ricordava chiaramente.

Quanto tempo fosse rimasto svenuto, non lo sapeva. Era semplicemente come morto. Aveva fatto una visita temporanea nel regno dei morti, a circa cinquanta metri dall'ovile. Quando, dopo un numero imprecisato di ore, era tornato in vita, resuscitando per così dire dall'aldilà, aveva perduto per sempre la vista. Era cieco fin nel midollo. E almeno altrettanto straordinario era che la salvazione l'aveva abbandonato. Invano aveva provato le vecchie parole di invocazione e di sottomissione e di giubilo e di profondo abbandono. Non aveva più la minima traccia di salvazione.

E gli dispiaceva doverlo dire proprio a un vecchio predicatore del risveglio religioso:

La vista gli mancava più della salvazione.

"Hai fatto bene", disse Olof Helmersson, "a non dire niente al medico provinciale. Non ti avrebbe creduto, un medico provinciale non sa cosa significhi credere."

Il sole adesso aveva raggiunto anche lui. Spostò la sua sedia con lo schienale a pioli un po' più lontano dalla finestra. Deglutì a vuoto un certo numero di volte e infine disse:

'Anche da te sono dunque giunto troppo tardi con il mio compito."

"Lo immaginavo", disse Gideon. "Vecchio e decrepito come probabilmente sei, devi di sicuro avere una missione fondamentale per aver voglia di andartene in giro per il mondo."

"Ormai sono morti quasi tutti", disse Olof Helmersson. "Eberhard Lundgren teneva un registro dei decessi. Un libro sul mio arrivo troppo tardi. È spaventoso."

"Hai detto, come si accennava", osservò Gideon, "che avevi un compito."

E a quel punto Olof Helmersson si fece coraggio, con il pollice e l'indice della mano destra si afferrò la pelle cascante sotto il mento e la tirò in fuori di un palmo, come a pompare aria nella gola e negli organi di fonazione. Poi riassunse in una serie di frasi lapidarie la sua missione, che talvolta amava definire messaggio:

Non esiste nessun Dio.

Il Messia non è venuto, e probabilmente non verrà mai.

Gesù era solo un comune mortale presuntuoso.

La salvazione non è altro che una morbosa tempesta emotiva.

Non è immaginabile nessuna vita eterna. Ma la morte è eterna.

Non esiste nessuna Gerusalemme celeste, nessuna strada d'oro, nessuna porta di perla, niente angeli né serafini, nessun Inferno, nessuna grazia o riconciliazione, nessuna purificazione nel sacro sangue dell'Agnello di Dio.

Il Giorno del Giudizio non verrà mai.

Più nobile il pensiero non diventerà mai, più in alto non arriverà mai tranne che nella negazione.

Lo Spirito Santo non è nessun tipo speciale di spirito, è uno spirito qualunque.

E così via.

"Se non sapessi", disse Gideon pizzicandosi piano il mento non rasato, "se non mi fosse evidente che sei tu, Olof Helmersson, a parlare, e che sei stato tu che un tempo hai salvato la mia anima immortale, direi che sembri un ateo."

Olof Helmersson aveva gradualmente alzato la voce mentre esponeva e spiegava la sua missione, si poteva quasi credere che stesse parlando a un'intera comunità quando continuò:

Sì, effettivamente negava tutto ciò che un tempo, molti anni prima, si era convinto di credere e tutto ciò che nella sua ingenuità aveva considerato sacro. Gli ci erano voluti decenni per arrivare a quella sconfessione liberatoria.

Ateo non lo si diventa in un batter d'occhio!

Ma finalmente adesso vedeva tutto molto, molto chiaro. Era questa cognizione che l'aveva costretto e spronato a fare ritorno li in quelle lande desolate. Un potere più forte della sua stessa volontà gli aveva intimato di procurarsi una bicicletta pieghevole e di partire. Per quel suo ultimo viaggio, per così dire, di missione.

Il distretto doveva assolutamente dimenticare al più presto tutto ciò che aveva predicato tanto tempo prima! Tutti quelli che con giovanile imprudenza aveva risvegliato e convertito e salvato dovevano perdonarlo! Era quella la preghiera che voleva diffondere, quella la summa della sua nuova predicazione: Rimettetemi i miei errori!

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Pagina 72

Proprio allora una mano pesante si posò sulla sua spalla fragile e spiovente. Dietro di lui era comparso il sagrestano custode del camposanto. Il suo volto era di un rosso intenso, quasi infiammato dal sole.

"Te ne vai qui in giro a parlare", disse.

"I ricordi premono", disse Olof Helmersson tendendo la mano per salutare. "Un infinito tempo fa ero padre spirituale al confine settentrionale della parrocchia. Sono io il famoso Olof Helmersson."

Ma il sagrestano non parve accorgersi della mano tesa.

"È da un po' che ti seguo", disse. "Non hai mai smesso di parlare."

"Quando si rivedono i propri vecchi parrocchiani", disse Olof Helmersson, "è difficile limitarsi a stare zitti. Il cuore trabocca e la bocca parla."

"È proibito parlare con i defunti", disse il sagrestano. "L'ha vietato il consiglio parrocchiale."

"Non lo sapevo", disse Olof Helmersson.

"Noi siamo buoni protestanti", disse il sagrestano. "Ci fidiamo di Martin Lutero. Da noi i morti sono morti per davvero. Non ha nessun senso cercare di parlare con loro."

"Ma allora non può neanche fare del male a nessuno", disse Olof Helmersson.

"Devono essere lasciati in pace. Riposano qui nel campo di Dio e attendono la resurrezione. Nel giorno del giudizio si rialzeranno. E si scrolleranno la terra di dosso. E Dio farà un nuovo cielo e una nuova terra."

"No", ribatté Olof Helmersson molto energicamente. "Non ci sarà mai nessuna resurrezione. E questa povera terra è l'unica e definitiva."

Si raddrizzò nel modo più deciso e severo che gli riuscì, con la mano destra abbracciò in un solo gesto tutto l'ampio camposanto.

"Loro sono morti per sempre", disse. "Nell'attimo del trapasso erano contemporanei degli oranghi e dei fossili di Darwin. Erano mammiferi qualsiasi, nient'altro. Animali che mettono al mondo dei piccoli vivi. Sono sepolti qui per motivi igienici. Una vita eterna non può esistere."

Tuttavia volle aggiungere una piccola riserva: "Si può pensare che alcuni virus abbiano vita eterna. Ma allora bisogna chiedersi come stiano le cose con la coscienza. Nel loro caso. Una vita eterna senza coscienza sembrerebbe un po' vuota. Come le serie televisive. Bisogna per così dire mettere entrambi i termini «eterna» e «vita» tra virgolette. E che effetto farebbe se Cristo ritornasse e raccogliesse tutti i virus del mondo intorno a sé. Quelli del cancro alla sua sinistra, e quelli dell'influenza alla sua destra."

"Ma perché allora parli con i morti?"

"Come ho già detto, perché non sapevo che fosse proibito."

E a quel punto il sagrestano confessò che anche lui ogni tanto era tentato di chiacchierare con tutti i defunti che aveva ogni giorno e ogni momento intorno a sé. Come per consolarli e infondere loro coraggio. Quell'ogni momento gli pareva che andasse un po' oltre gli accordi contrattuali. Certi giorni aveva la sensazione che i morti fossero presenti in maniera quasi indecente. "Nessuno vuole essere morto", disse. "Si diventa piuttosto tristi quando ci si pensa. E ci si deve fortificare."

Adesso aveva messo il braccio sinistro intorno alle spalle di Olof Helmersson e lo conduceva con cautela verso il cancello del cimitero, quello che si apre su Skolgatan.

"Molti", disse Olof Helmersson, "hanno suggerito l'idea che la morte sia una specie di sonno. Che uno dorma soltanto. E che sogni."

"Molto suggestivo", disse il sagrestano. "Ma il consiglio parrocchiale ha respinto quell'idea."

"Anche se in tal caso", continuò Olof Helmersson, "se quell'ipotesi assurda fosse giusta, i defunti potrebbero sentirci. Lontanamente e vagamente. Come quando la mattina può capitare di sentire il primo notiziario alla radio."

"Io dormo nel letto del predicatore a Avabäck di Sotto", aggiunse come spiegazione. "Con una radio a transistor sul tavolino da notte."

"Disgraziatamente", disse il becchino. "Non è permesso pensare in quei termini. E per sicurezza seppelliamo i defunti così in profondità che nessuna voce possa raggiungerli."

"Parli, per così dire, in servizio?"

"Ovviamente. Non si può mai fare a meno di parlare in servizio! Dimmi un po' chi non parla in servizio! In realtà avrei la proibizione di esprimermi sulla vita dopo questa."

Olof Helmersson pareva non avere nulla in contrario al braccio che gli era stato messo intorno alle spalle. Anzi, ogni tanto lasciava che il busto si sbilanciasse di lato e si appoggiasse discretamente al suo alto e muscoloso accompagnatore.

"Il contratto d'assunzione", continuò il custode. "Il regolamento del consiglio parrocchiale. E la legge per la tutela del lavoro. In particolare il paragrafo diciotto."

Arrivati sul marciapiede di Skolgatan si fermarono. Il sagrestano tolse il braccio come segnale che quel visitatore troppo loquace era a quel punto libero di andarsene dove voleva.

"Come hai detto che ti chiamavi?" domandò.

"Olof Helmersson. Il grande predicatore del risveglio religioso. Sono io."

Ma il custode del cimitero scosse la testa. No, di un personaggio del genere non aveva mai sentito parlare. E il tempo dei predicatori del risveglio religioso era passato da un pezzo.

"Facciamo in modo che questo non succeda più", disse per concludere. E quando Olof Helmersson prese a incamminarsi in direzione del capolinea degli autobus, aggiunse con aria competente: "Dovresti veramente pensare a quello che dici. Non può restare neanche a te tanto tempo davanti."

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Pagina 155

Era tutta colpa del caldo. Lui si era spogliato nudo, raccontò. Appoggiato al manico di un rastrello, era in piedi all'ombra sotto il sorbo del cortile. E Kristina aveva riso del suo scroto, gli arrivava quasi alle ginocchia, aveva detto.

Era ovviamente colpa del caldo spaventoso. Del caldo e delle leggi di natura.

Ma poi lei si era fatta molto, molto seria. "Vestiti", aveva detto. "Noi non siamo mai stati nudi all'aperto. Non ci siamo mai mostrati in pubblico senza indumenti."

Quelle parole sullo scroto l'avevano un po' urtato.

"Ti capisco", disse Olof Helmersson. "Uno scroto di dimensioni considerevoli non è certo cosa su cui fare del sarcasmo."

Ma, continuò lo Stoccolmese, quando lei aveva detto Noi in quel modo presuntuoso, senza alcun dubbio xenofobo, allora qualcosa dentro di lui si era spezzato. Per tutti quegli anni lei aveva usato questo Noi, indirizzato per lo più verso di lui, sempre pronunciato con le maiuscole, sì, con le lettere più grandi dell'alfabeto e in un tono didattico, altezzoso, di critica, un Noi così pieno di arroganza e di superbia, di sciovinismo e di megalomania che alla lunga non era più tollerabile. Per tutto il tempo che erano vissuti insieme lui aveva pazientemente portato quel Noi sulle proprie spalle, stretto i pugni dentro di sé, taciuto e subito. Nel suo Noi lei includeva tutti gli avi e i parenti e i terreni bonificati e i canali demaniali e i discendenti fino alla terza e quarta generazione e le sorgenti d'acqua potabile e le pertiche per graticci con sei cavicchi e il Vindelälven e l'Avaträsket e gli zii acquisiti, sì, tutto e tutti, ma non lui. No, lui mai. Con il suo Noi grottescamente ingigantito, protratto e un po' nasale, lei lo escludeva da tutte le comunanze possibili e immaginabili, lo indicava come estraneo e incapace e condannato per l'eternità.

"Non esiste nessuna condanna eterna", riuscì a inserire Olof Helmersson.

Ma adesso, continuò lo Stoccolmese, quando lei dunque per l'ultima volta aveva detto Noi, un argine si era spezzato dentro di lui e un torrente verdastro di rabbia e di amor proprio ferito e di legittima amarezza gli era straripato dentro riversandosi in tutte le sue membra.

Sì, concordò Olof Helmersson, anche lui conosceva da tempo quel Noi, che il più delle volte era pronunciato in un tono che poteva essere interpretato come una maledizione verso tutto ciò che era estraneo, un grido d'invettiva contro il resto del mondo. Lui aveva affrontato quella parola e i pensieri sottintesi ogni giorno.

E così aveva abbandonato l'ombra sotto il sorbo, seguitò lo Stoccolmese, e nella sua nudità e rabbia e con lo scroto penzolante senza difesa si era lanciato contro di lei, che si era appena rialzata sul bordo del suo orticello.

"Aveva appena raccolto questo", disse, indicando il mazzetto di ravanelli. "Stava giusto torcendo il ciuffo per liberarlo dalle foglie."

E lui le aveva messo le mani intorno al collo. E aveva stretto e girato più o meno come lei aveva fatto lei con i ravanelli, mai più sarebbe stata in grado di dire quel Noi. Era stato uno scatto improvviso e sconsiderato di indignazione e senso di giustizia, scrupoloso e meticolosamente studiato.

Lei non aveva fatto in tempo a dire una parola, nemmeno una parolina di tre lettere soltanto. Un rantolo modesto, e basta.

"Mi sembra di vedere una chiazza di sangue laggiù nell'erba", disse Olof Helmersson.

Sì, quando l'aveva coricata a terra, disse lo Stoccolmese, dalla bocca le era uscito del sangue. Ma non in grande quantità. Niente a cui dare importanza. E presto le cinciallegre avevano fatto piazza pulita.

Era assolutamente vero: le cinciallegre avevano proprio messo mano al sangue, filo d'erba per filo d'erba. Asta passò per la strada, fece loro un cenno di saluto con la mano attraverso il finestrino abbassato. Loro non se la sentirono di ricambiare il gesto.

Olof Helmersson studiava il volto dello Stoccolmese.

"Tra un certo numero di anni", disse, "comincerò ad avvicinarmi alla vecchiaia. E finora non avevo mai visto un omicida."

"No", disse lo Stoccolmese. "Nemmeno io ho mai visto un omicida."

"Ma che cosa hai fatto quando ti sei reso conto che era morta?" domandò Olof Helmersson.

"Sono entrato in casa a telefonare", disse lo Stoccolmese.

Aveva dunque telefonato. Al numero di emergenza centododici. In realtà non c'era nessuna situazione di emergenza, ma era l'unico numero che gli era venuto in mente così su due piedi. E l'ambulanza sarebbe arrivata immediatamente.

Aveva incontrato solo gentilezza, niente da dire. Poi si era vestito, non voleva ovviamente farsi trovare nudo quando fosse arrivata l'ambulanza.

"È poco fine", disse, "farsi vedere nudi da gente che non si conosce. Per così dire in pubblico. Noi non l'abbiamo mai fatto."

"E la polizia?" volle sapere Olof Helmersson.

Sì, aveva descritto l'accaduto secondo quanto si raccomandava all'interno della copertina dell'elenco telefonico. Il più accuratamente che fosse in grado, doveva ammettere, in fondo non aveva ancora acquisito quella distanza dai fatti che esige un racconto perfettamente chiaro. Purtroppo la polizia non aveva la possibilità di venire, erano pur sempre duecento chilometri dalla costa all'interno estremo della provincia, le pattuglie a disposizione proprio quel giorno erano impegnate a sorvegliare il traffico automobilistico sull'autostrada. Ma domani sarebbero venuti. Lui non poteva allontanarsi, doveva avere un po' di pazienza, le promettiamo che verremo a prenderla, avevano detto, l'omicida non si doveva preoccupare, doveva solo continuare a vivere assolutamente come al solito. Tutto si sarebbe sistemato per il meglio.

"È per questo che sono seduto qui", disse, prendendo un altro ravanello. "Devo solo far passare il tempo."

"Posso farti compagnia", propose Olof Helmersson.

"In avvenire la vita sarà ancora più solitaria qui a Linus", disse lo Stoccolmese. E poi domandò: "Credi che mi possa fidare di loro?"

"Se non ci si può fidare della polizia", rispose Olof Helmersson, "nessuna fiducia è più possibile."

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