Copertina
Autore Saverio Lodato
CoautoreMarco Travaglio
Titolo Intoccabili
SottotitoloPerché la mafia è al potere
EdizioneRizzoli, Milano, 2005 [2004], BUR futuro passato , pag. 472, cop.fle., dim. 130x200x32 mm , Isbn 978-88-17-00537-1
PrefazionePaolo Sylos Labini
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe storia contemporanea d'Italia , storia criminale , diritto , paesi: Italia: 2000 , regioni: Sicilia
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Indice

Introduzione di Paolo Sylos Labini              IX

1. Cent'anni di solitudini                       1

 - La parola dalle cinque lettere, p. 3
 - Il braccio violento del potere, p. 8
 - Vedi Palermo e poi Mori, p. 10
 - Portella, la prima strage di Stato, p. 13
 - Il bollettino medico, p. 17
 - La parola agli storici, p. 22
 - Gli anni bui della mafia, p. 26
 - La prima svolta, p. 29
 - Antimafia fascista, mafia antifascista, p. 33
 - Un pugno di uomini, p. 36
 - La prova della droga, p. 39
 - Morti ammazzati, carte scomparse, p. 42
 - Corvi, talpe e veleni, p. 44
 - Il pool, l'antidoto, p. 46
 - «Signor Falcone...», p. 49
 - «Mi parli dei politici», p. 53
 - Vicini alla meta, p. 55
 - La resa dei conti, p. 58
 - La storia si ripete, p. 61
 - Perché la storia si ripete, p. 65
 - Il trionfo delle cinque lettere, p. 68
 - Andamento lento, p. 72
   Note, p. 75

2. Da Falcone a Caselli                         77

 - Nascita e morte di un pool, p. 78
 - Il metodo Giammanco-Pignatone, p. 85
 - Prima Giovanni, poi Paolo, p. 87
 - Caselli, vita da giudice, p. 89
 - La fase 2, p. 94
 - I primi fuochi, p. 99
 - Ispettori ficcanaso, p. 105
 - La crociera di don Masino, p. 109
 - Anonima Sgarbi, p. 111
 - Berlusconi, Dell'Utri e la mafia, p. 114
 - Berlusconi, Dell'Utri e le stragi, p 118
 - Primato della politica o del «papello»?, p. 121
 - Massimo e Silvio, i ri-costituenti, p. 123
 - Quei favori trasversali, p. 126
 - Complotto a orologeria, p. 128
 - Di Maggio: chi spara, chi spera, p. 132
 - Morte provvidenziale di un giudice, p. 136
 - Salvate il soldato Dell'Utri, p. 142
 - Insulti, il catalogo è questo, p. 145
 - Metodo Falcone, metodo Caselli, p. 148
 - I conti tornano, p. 156
   Note, p. 158

3. Da Andreotti alla zeta                      159

 - La genesi, p. 161
 - Disinformafia, p. 167
 - La prima sentenza, p. 185
 - L'Appello, p. 208
 - La Cassazione, p. 243
   Note, p. 250

4. Gli altri intoccabili                       251

   1. Mannino, patto col diavolo               251
    - La prima sentenza, p. 252
    - L'Appello, p. 256
   2. Carnevale, un uomo chiamato cavillo      268
    - La prima sentenza, p. 269
    - L'Appello, p. 273
    - La Cassazione, p. 274
    - Un giudice al telefono, p. 278
   3. Contrada, fra Stato e Antistato          284
    - La prima sentenza, p. 286
    - L'Appello, p. 292
    - La Cassazione, p. 293
   4. Gli altri processi «eccellenti»          295
   5. Dell'Utri, cavallo e Cavaliere           296

5. Fase 3: la normalizzazione                  310

 - Grasso, vita da giudice, p. 311
 - L'allenatore nel pallone, p. 313
 - Pignatone, il passato che ritorna, p. 315
 - La Grande Epurazione, p. 319
 - La trattativa Aglieri, p. 321
 - Senza scorta, p. 324
 - L'eredità scomoda, p. 326
 - Giuffrè, mezza manuzza, p. 330
 - Attenti a quei due, p. 333
 - Lipari, il depistatore, p. 338
 - Il covo di Riina, p. 341
 - Il delitto Rostagno, p. 358
 - L'allenatore cambia squadra, p. 359
 - Concorso a premi, p. 363
 - Fuori altri due, p. 364
 - Grasso grida al complotto, p. 367
 - «Sistemi criminali», p. 371
 - Le promesse tradite, p. 378
   Note, p. 386

6. Cuffaro, talpine & talpone                  387

 - Camici e lupare, p. 389
 - Convergenze parallele, p. 391
 - Armi di distrazione di massa, p. 393
 - Divieto di circolazione, p. 394
 - Attacco ai caselliani, p. 396
 - Attacco a Ingroia, p. 398
 - Attacco a Lo Forte, p. 400
 - Fughe di notizie sulle fughe di notizie, p. 404
 - E Totò?, p. 407
 - Caro Silvio, caro Totò, p. 408
 - Storia di fave e di tartufi, p. 411
 - Siamo uomini o marescialli?, p. 413
 - Il pugno del Capo, p. 421
 - Il processo perde i pezzi, p. 427
 - Un altro scacco, p. 430
 - Concorso esterno, addio, p. 436
   Note, p. 443

7. La battaglia finale                         444

 - Regalo di compleanno, p. 446
 - Tre k.o. in un mese, p. 448
 - Un falso attentato, p. 451
 - Grasso contro il «branco», p. 455
 - Tutti contro Caselli, p. 457
 - Un altro falso attentato, p. 459
 - Il vero attentato, p. 462
   Nota, p. 465


 

 

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Cent'anni di solitudini



Prima dei morti per le strade, prima delle stragi, prima dell'inferno di piombo che in Sicilia sarebbe durato a lungo, molto a lungo, la guerra all'inizio fu guerra attorno a una parola. Guerra durissima, guerra interminabile, per una semplicissima parola di cinque lettere. Una parola maledetta, una parola che metteva paura, una parola che tutt'al più veniva sussurrata fra pochissime persone, una parola che nelle case di paese, come ha raccontato Andrea Camilleri nella sua autobiografia, veniva pronunciata solo dopo che gli usci di casa erano stati chiusi, perché nessun estraneo doveva sentirla, perché nessuno voleva ammettere ciò che si celava dietro quella parola: una realtà misteriosa, terribile, vergognosa.

Nei «vocabolari del potere», nei vocabolari delle classi alte, quella parola non figurava per niente, non c'era, non c'è mai stata. Figurava, semmai, in quelli siciliani, in quelli dialettali. La parola maledetta era mafia. Conviene pronunciarla, anche se ci rendiamo conto che, pur pronunciandola, è come dire tutto e niente. Parola dall'origine etimologica incerta. Parola dal significato controverso. Parola che forse era partita per designare qualcosa, ma, nei secoli, ha finito con il designare il suo opposto. Parola che si è fatta risalire agli arabi. Parola che si è fatta risalire al Risorgimento mazziniano. Parola che spesso è stata girata in folclore.

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Portella, la prima strage di Stato

Continuiamo ancora con gli esempi. Il dopoguerra si apre, nel 1947, con la strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra: 11 persone (9 contadini e 2 bambini) muoiono ammazzate e 27 rimangono ferite durante la pacifica festa del Primo Maggio, all'indomani delle prime elezioni regionali siciliane che hanno visto il Blocco del Popolo (Pci e Psi) trionfare col 29,13% sulla Dc (20,52%). L'allarme rosso in vista delle elezioni politiche del 1948 produce quella che gli storici chiamano la «strage dissuasiva». Le indagini accerteranno che a sparare è stata la banda di Salvatore Giuliano, ma che i mandanti sono politici, e che con questi ultimi il bandito ha avuto rapporti prima e dopo l'eccidio tramite alcuni capimafia, agenti governativi ed esponenti dei servizi segreti italiani e americani.

Quando Giuliano intuisce che i suoi referenti lo stanno scaricando, anzi mirano a «bruciarlo» dopo averlo usato con la promessa dell'impunità, tenta di ricattarli inviando lettere e documenti ai giornali. Il 24 novembre 1948 lancia un messaggio ai parlamentari siciliani della Dc: «Nelle nostre zone non si è votato che per voi e così noi abbiamo mantenuto le nostre promesse, adesso mantenete le vostre». Girolamo Li Causi, senatore comunista, lo invita a fare i nomi dei suoi mandanti. Il bandito gli risponde con una lettera autografa all'«Unità», pubblicata il 30 aprile 1950: «Scelba vuoi farmi uccidere perché io lo tengo nell'incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita».

Intanto uno dei suoi uomini, Giovanni Genovese, il 29 gennaio 1949 racconta al giudice istruttore di Palermo un fatto di cui è stato testimone oculare: alcuni giorni prima della strage, Giuliano aveva ricevuto una lettera che gli commissionava l'eccidio. Non è una millanteria, ma un fatto accertato dalla sentenza della Corte d'Assise di Viterbo su Portella della Ginestra, in cui si legge: «Che la lettera abbia una qualche relazione con il delitto che, a distanza di qualche giorno, fu consumato da Giuliano e dalla banda da lui guidata, pare alla Corte non possa essere posto in dubbio». Le indagini appureranno anche una trattativa segreta dopo la strage: Giuliano chiede la scarcerazione di alcuni parenti arrestati e l'impunità per sé, con la garanzia dell'espatrio e di una congrua somma di denaro. Ottenute queste garanzie, il 20 giugno 1950 firma un memoriale in cui si dichiara unico responsabile dell'eccidio di Portella. Un errore fatale, che lo priva dell'ultima arma di ricatto e fa di lui un morto che cammina. In Sicilia sono in molti a prevedere che Giuliano farà presto una brutta fine. Alberto Jacoviello, in un reportage da Montelepre intitolato Giuliano sa tutto e per questo sarà ucciso, scrive sull'«Unità»:

Giuliano conosce esecutori e mandanti. E qui il gioco diventa grosso. Giuliano comincia a sapere troppe cose. Se lo prendono, parla. Messana, l'ispettore di polizia, non lo prenderà. Oppure lo prenderà in certe condizioni. Morto e con i suoi documenti distrutti, se ne ha.

E così puntualmente avviene. Poco tempo dopo, nella notte tra il 4 e il 5 luglio 1950, Giuliano viene assassinato nel sonno dal cugino e luogotenente Gaspare Pisciotta: omicidio su commissione, in cambio dell'impunità. I carabinieri sono sul luogo del delitto prim'ancora che venga perpetrato, assistono alla scena, poi trasportano il cadavere altrove per simulare un tragico conflitto a fuoco fra loro e Giuliano. È questa, infatti, la versione ufficiale dei fatti fornita dall'Arma in un rapporto totalmente menzognero. Ma la messinscena viene presto smascherata da un grande giornalista, Tommaso Besozzi.

Anche Pisciotta, però, viene scaricato e arrestato in barba alle promesse. E, sentendosi ingannato, decide di vuotare il sacco al processo di Viterbo. Il 16 aprile 1951, davanti a una folla di giornalisti, fa i nomi dei mandanti politici della strage e racconta per filo e per segno tutti gli incontri e le trattative fra banditi e uomini delle istituzioni, con tanto di promesse di impunità. Le sue clamorose rivelazioni, però, cadono nel vuoto. Dinanzi a quella mole di notizie di reato, il pubblico ministero viterbese finge di non sentire e non avanza nessuna richiesta al giudice di procedere contro i possibili mandanti politici. Un comportamento talmente scandaloso da indurre la Corte d'Assise a prenderne apertamente le distanze nella motivazione della sentenza:

Non è la Corte investita del potere di esercitare l'azione penale. Essa è un organo giurisdizionale il quale conosce di un reato in base a sentenza di rinvio, ovvero in base a richiesta di citazioni, e non può trasformarsi in organo propulsore di quelle attività che sono proprie di altro organo, il Pubblico Ministero.

Li Causi tenta di rilanciare lo scandalo almeno a livello politico, con un appassionato discorso al Senato in cui punta il dito contro il ministro degli Interni Mario Scelba. È il 26 ottobre 1951:

Perché avete fatto uccidere Giuliano? Perché avete turato questa bocca? La risposta è unica: l'avete turata perché Giuliano avrebbe potuto ripetere le ragioni per le quali Scelba lo ha fatto uccidere. Ora aspettiamo che le raccontino gli uomini politici, e verrà il tempo che le racconteranno.

Ma anche le sue parole cadono nel vuoto. Come pure gli appelli di Pisciotta. che dal carcere chiede una commissione parlamentare d'inchiesta. Il 10 ottobre 1952 scrive al presidente della Corte d'Assise:

Faccio appello fin da ora a tutti i signori sottonotati [segue elenco di nomi di varie persone coinvolte nella strage, tra cui importanti esponenti politici, N.d.A.] che è giunto il momento in cui dovranno assumere le loro responsabilità, perché io non mi rassegnerò mai e continuerò a chiederlo sino all'ultimo respiro [...] desidero sempre una inchiesta parlamentare.

Un'altra lettera morta. Di lì a poco anche Pisciotta, testimone scomodo dei crimini del potere, sarà messo a tacere per sempre: il 9 febbraio 1954, nel carcere dell'Ucciardone, con un caffè corretto alla stricnina. Dopo di lui, l'uno dopo l'altro, muoiono assassinati o suicidati tutti i depositari dei segreti di Portella: i banditi intermediari tra Giuliano e le forze dell'ordine, i testimoni degli incontri più compromettenti, l'ispettore di Polizia che aveva tenuto i contatti. L'uomo sospettato di aver procurato il veleno per Pisciotta viene trovato morto nella sua cella dell'Ucciardone. Il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione, l'ultimo magistrato che aveva raccolto le rivelazioni di Pisciotta poco prima dell'avvelenamento, senza metterle a verbale, verrà assassinato anni dopo, nel 1971, portandosi nella tomba quegli indicibili segreti.

Scrive Leonardo Sciascia nel libro Nero su nero:

Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l'Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.

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Fateci caso. Non sentirete mai dire a nessun uomo politico: «la mafia sarà sconfitta»; «intendiamo sconfiggere la mafia»; «la mafia è inaccettabile per la democrazia, incompatibile con la democrazia». Non troverete mai, nei programmi elettorali di alcun partito o di alcuno schieramento, il dovuto riconoscimento della centralità di questa annosa questione (in passato avveniva). Semmai sentirete dire (o leggerete) che occorre «colpire» la mafia, «ridimensionarla», impedirle di «rialzare la testa», in un contesto, però, che non prevede mai la sua definitiva uscita di scena. Questo è strano e, a prima vista, potrebbe apparire inspiegabile. Vedremo invece più avanti che è conseguente, logico, spiegabilissimo. E che il problema con il quale dobbiamo fare i conti è esattamente questo.

Tornando alla domanda: come va la lotta alla mafia? Male, molto male. Chi infatti dovesse chiedersi qual è nel 2005 lo stato dei lavori in questa guerra, che in maniera altalenante ha segnato la storia d'Italia dalla Liberazione a oggi, non potrebbe che giungere alla conclusione che sono state sprecate grandi occasioni: occasioni uniche, forse irripetibili. Il problema non è stato risolto. E datiamo «appena» dalla fine del secondo conflitto mondiale, sapendo che, a volere essere rigorosi, si potrebbe andare più indietro, al ventennio fascista, alla lunga fase successiva all'Unità d'Italia. Decine e decine di governi si sono succeduti: tutti, in misura più o meno rilevante, fecero della lotta alla mafia un punto tanto fermo quanto roboante dei loro programmi. Tutti dovettero constatare che la mafia riusciva a sopravvivere alla loro iniziativa. E la mafia è ancora qui.

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Pagina 36

Un pugno di uomini

Abbiamo indicato due estremi: il disinteresse generalizzato degli anni Sessanta e il colpo di maglio successivo alle stragi degli anni Novanta. Quattro decenni di cambiamenti, quattro decenni in cui sia la mafia sia la lotta alla mafia si sarebbero letteralmente rivoluzionate. Quattro decenni che videro salire costantemente la temperatura attorno alla necessità di combattere l'insolito fenomeno criminale. Quattro decenni che rappresentano un ottimo test per gli storici, oltre che per sociologi, opinionisti e uomini politici sinceramente interessati alla comprensione di quanto è accaduto. Ma cosa c'è fra questi due estremi? Cosa rese possibile il passaggio dal luogo comune secondo cui «si ammazzavano fra di loro» alla consapevolezza che la mafia era innanzitutto una grande questione italiana non risolta? Fra questi due estremi si colloca la stagione d'oro della lotta alla mafia.

Stagione d'oro, perché resta unica nel suo genere. Stagione d'oro perché risultato di una sinergia di sforzi che non si sarebbe mai più riprodotta, neanche negli anni del dopo stragi (e avremo modo di vedere cosa mancò a quella stagione per raggiungere le vette di allora). Stiamo parlando della stagione in cui vennero poste le radici di un impegno che non avrebbe mai più dovuto essere effimero, dilettantesco, costruito sulla sabbia. La stagione dei primi autentici «giudici antimafia» che la Sicilia ricordi. La stagione dei primi autentici «investigatori antimafia». Una stagione segnata da un patto tacito fra persone per bene: magistrati e poliziotti, giudici e carabinieri, qualche uomo politico, che per la prima volta dopo compromissioni e sconfitte, guerre mancate e pratica dello struzzo, ribadivano ufficialmente che la mafia esisteva e non aveva niente a che vedere con altre forme di delinquenza organizzata. Che con la mafia, di conseguenza, non era possibile convivere.

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Pagina 41

Purissima la droga, purissime le indagini che le si svilupparono attorno, potremmo dire. Rievocando quella stagione, è doveroso citare Boris Giuliano, il capo della squadra Mobile di Palermo che ebbe il merito di dirigere le indagini con metodi nuovi e molta convinzione nelle proprie idee. Non si esagera affermando che le sue intuizioni, rivoluzionarie per i tempi, consentirono alla magistratura di vedere finalmente un po' di luce dopo le tenebre che avevano segnato gli anni precedenti.

Boris Giuliano fu assassinato dalla mafia, dai trafficanti internazionali e palermitani dell'eroina il 21 luglio 1979, mentre stava sorseggiando il suo primo caffè della giornata. Venne colpito alle spalle da un killer solitario (era Leoluca Bagarella, ma lo si sarebbe saputo solo molti anni dopo).

La ruota dell'Antimafia iniziava la sua corsa. Ormai stava cambiando tutto. Due mondi stavano cambiando. Due mondi che, sino a quel momento, non si erano dati particolarmente fastidio. Due mondi che avrebbero continuato a convivere. Tutto quello che accadde, da quel momento in avanti, non accadde infatti perché lo Stato, in quanto tale, aveva deciso improvvisamente di fare la sua parte. Accadde perché quel pugno di uomini, che avevano «stretto il patto», avevano deciso di interpretare in quella maniera il loro essere Stato. Se ne sentivano parte, pur vivendone ai margini, in una lontana periferia. Ne conoscevano così bene le compromissioni passate, da considerare indilazionabile una qualche forma di riscatto. Soprattutto si rendevano conto che la mafia andava fermata o sarebbe stato troppo tardi.

Sia chiaro: nessuno lo aveva chiesto loro. Se solo Boris Giuliano — ed è appena uno dei tanti esempi possibili in quegli anni – si fosse dedicato di più agli scatti ministeriali della sua carriera, se avesse preferito evitare di vedere tutto quello che in fondo era mimetizzato e nascosto, non avrebbe scoperto sacchi di oppio, raffinerie d'eroina, valigie di dollari. E sarebbe, con ogni probabilità, ancora vivo. In tanti, oggi, sarebbero ancora vivi se non si fossero intestarditi, come Boris Giuliano, in quella pericolosissima idea di volere sconfiggere la mafia.


Morti ammazzati, carte scomparse

Diamo qualche nome a coloro che fecero parte di quel pugno di uomini. Magistrati: Cesare Terranova, Gaetano Costa, Giaccio Montalto, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Alberto Giacomelli, Antonino Saetta, Rosario Livatino. Poliziotti: Boris Giuliano, Calogero Zucchetto, Ninni Cassarà, Giuseppe Montana. Carabinieri: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Domenico Russo, Emanuele Basile, Mario D'Aleo, Giuliano Guazzelli. Uomini politici: Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Giuseppe Insalaco. Giornalisti: Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Mario Francese, Peppino Impastato, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno, Beppe Alfano. E perché non ricordare gli otto, fra uomini e donne, delle scorte di Falcone e Borsellino? Questi i loro nomi: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Víto Schifani, Emanuela Loi, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano.

Un elenco sintetico di lapidi, di morti ammazzati. Fa capire, meglio di tanta retorica e proclami, quanto la mafia si sentisse finalmente minacciata dal modo di fronteggiarla scelto da quel pugno di uomini. Ma quei servitori dello Stato non furono eliminati tutti in un colpo solo. Furono uccisi nell'arco di quindici anni.

I superstiti avrebbero avuto tutto il tempo per fare marcia indietro, per capire il segnale che veniva dal loro nemico, per indietreggiare adesso che era evidente che la posta in gioco era ormai diventata la vita. Accadde proprio il contrario. Si spinsero più avanti. E andarono al macello.

Se infatti un gruppo di uomini strinse un patto, altri uomini, che a quel patto avrebbero dovuto automaticamente aderire, vi si sottrassero. È questa la ragione per cui non si può parlare di autentico coinvolgimento dello Stato.

Roma assisteva, fra imbarazzo e indifferenza, a quello che stava accadendo a Palermo. Roma registrava l'improvvisa «fuga in avanti» di magistrati, poliziotti e carabinieri che rompevano con la pesante tradizione del passato. Gradiva? Difficile poterlo affermare.

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La resa dei conti

Fu nel 1988, infatti, che i nodi vennero al pettine. Sarà l'anno del clamoroso arresto – voluto dai gerontocrati della Procura – di due giornalisti, Attilio Bolzoni della «Repubblica» e Saverio Lodato dell'«Unità», «rei» di aver pubblicato «notizie coperte da segreto». Quali? I diari di Giuseppe Insalaco, l'ex sindaco democristiano di Palermo assassinato dalla mafia perché, provenendo anche lui dal sistema di potere, non gli veniva perdonata la sua improvvisa conversione «antimafiosa»; e i memoriali del pentito catanese Giuseppe Calderone, l'equivalente di Buscetta nella Sicilia orientale.

Il 1988 fu – soprattutto – l'anno dello smantellamento del pool antimafia con la nomina, a capo dell'Ufficio istruzione, di quell'Antonino Meli il quale andava teorizzando che bisognava smembrare le inchieste antimafia fra una Procura e l'altra di Sicilia, applicando il criterio di dove fossero stati commessi i singoli reati.

Fu l'anno in cui un Csm poco attento a quanto era accaduto in quegli anni a Palermo si spaccò, consentendo con la nomina di Meli la sconfitta di Falcone e del pool. Ormai queste storie sono state raccontate in tanti libri e tante inchieste giornalistiche. Ma cosa portò a quella paurosa retromarcia, nel momento in cui il traguardo della sconfitta della mafia sembrava finalmente raggiungibile? Perché il «metodo Falcone» veniva vissuto come un pericolo dai poteri forti dell'epoca? Perché quel metodo non venne favorito, potenziato, sostenuto? Perché, al contrario, si fece il possibile per scardinarlo?

Domande apparentemente complicate, ma dalla risposta semplice: il «metodo Falcone» faceva paura perché sfuggiva al controllo del potere. Si basava su un peso eccessivo della magistratura. Peggio ancora: di una «parte» della magistratura, quella avulsa dai legami con la politica: orientata al recupero di una larva di controllo della legalità sul territorio; che non aveva alcun timore reverenziale verso il passato e che, anzi, voleva innovare radicalmente.

Ma era diffuso anche un altro timore – destinato col tempo a diventare autentico panico – che traspariva da ogni attacco al lavoro dei giudici di Palermo. In quale direzione andavano i pentiti? Chi li «controllava»? Se venivano considerati valido strumento contro i mafiosi doc, come impedire che parlassero e aiutassero a inchiodare anche i fiancheggiatori della mafia nella politica, nelle istituzioni, nell'economia, nelle professioni? A colpire, cioè, quell'area grigia tendente al nero che galleggia a metà strada fra Stato e cosiddetto Antistato?

Si è detto di Buscetta e dei Salvo. Era solo un assaggio. I politici compromessi sapevano perfettamente ciò che sapevano i mafiosi che diventavano collaboratori di giustizia. E naturalmente non si sentivano tranquilli. Vedevano un futuro cupo. Sapevano che il primo terremoto ne poteva innescare altri, di proporzioni ben maggiori. Temevano l'escalation verso i piani alti.

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Pagina 68

Il trionfo delle cinque lettere

Siamo arrivati ai tempi nostri. Siamo arrivati alla quotidianità della mafia e della lotta alla mafia. Torniamo all'interrogativo iniziale: qual è il bollettino medico? Cosa resta in Italia, e nella coscienza degli italiani, di quella lunga scia di «eroi sobri» assassinati?

A proposito della parola dalle cinque lettere: non figura neanche nella stele di Capaci, ai bordi dell'autostrada insanguinata, tirata su, con un anno di ritardo sul previsto, dall'attuale presidenza del Consiglio. Ci sono i nomi delle vittime, una data (quella dell'Apocalisse), nient'altro. Perché? Perché ancora oggi la parola dalle cinque lettere fa rizzare i capelli a molti?

Se la migliore legislazione italiana antimafia è stata approvata dal Parlamento italiano solo all'indomani del delitto eccellente o della strage, la migliore legislazione paramafiosa è stata approvata a freddo e senza essere motivata – ovviamente – da alcuna emergenza. Negli ultimi tempi, si è capovolto tutto.

Se decine di governi, sin dai tempi dell'Unità d'Italia, avevano proclamato lotta senza quartiere alla parola dalle cinque lettere, il governo presieduto da Silvio Berlusconi è stato il primo che ha lanciato parole rassicuranti a un nemico insidiosissimo.

«Bisogna convivere con la mafia» (Pietro Lunardi, ministro della Repubblica, 22 agosto 2001) è frase che resterà scolpita nelle cronache dell'infamia politica italiana, ancor prima che giudiziaria. Cercarono di farla passare per un lapsus. Cercarono di smentirla una volta che era stata pronunciata. Cercarono di attribuirla alla strumentalizzazione dell'opposizione che darebbe – quasi per principio – un significato deleterio alle affermazioni degli uomini del governo di per sé condivisibili, o quantomeno giustificabili.

«Bisogna convivere con la mafia» era – invece – il vessillo di un'Italia che decideva finalmente di liberarsi per sempre dall'imbarazzante monito dei suoi «eroi sobri». Era il richiamo della foresta per chi aveva solo da perdere dall'eventuale affermazione di quei valori che avevano prodotto le stagioni migliori della lotta alla mafia. Rappresentava la chiusura di un cerchio. Il «nuovo» non era riuscito a nascere, e il «vecchio» era resuscitato.

«Bisogna convivere con la mafia»: un proclama nero; qualcosa di paragonabile al «viva la muerte» dei falangisti spagnoli, anche se proclama all'italiana, dunque un po' annacquato dal suo contrario: il «convivere», appunto.

Fatto sta che al «bisogna convivere con la mafia» tacquero tutti. E che voleva dire? Ma era frase da prendere sul serio? E non era meglio lasciar cadere, lasciar perdere, considerarla «frase dal sen fuggita»?

Solo Pina Maisano Grassi, la vedova dell'imprenditore Libero Grassi, assassinato a Palermo dalla mafia per il suo rifiuto di pagare il «pizzo», ebbe un civile scatto di orgoglio, prontamente raccolto dal presidente Ciampi.

Davvero poco, troppo poco, per questo Paese che è abituato a convivere con il fenomeno sin dai tempi di Franchetti e Sonnino, di Pitrè e Capuana. C'era un precedente di quella scellerata frase di Lunardi. Non era stato forse proprio Silvio Berlusconi, durante il suo primo governo nel 1994, a minimizzare sull'argomento, stimando in poche centinaia di siciliani il numero di quanti «infangavano» il buon nome della Sicilia? Vittorio Emanuele Orlando non avrebbe saputo dire meglio.

Ma questo filo nero (Berlusconi-Lunardi) restò invisibile a molti. Successivamente — ma ormai era troppo tardi — si aprirono le cateratte della legislazione voluta dagli esponenti del centrodestra. Ne proponiamo un elenco, stringato e privo di commenti. Con l'invito, al lettore, di affiancarlo a quello delle vittime di Sicilia per mano di mafia.

Bastano i titoli di queste leggi, perché parlano da soli. Bastano i titoli a rendere l'idea di quello spregiudicato repulisti che ha calpestato memoria e dolore, storia e ansia di riscatto, decenni di altalena fra speranze e rassegnazione.

La legge che limita a 180 giorni il tempo a disposizione per i collaboratori per confessare tutto quello che sanno (votata da destra e sinistra ancor prima dell'ascesa al trono di Berlusconi).

La legge che, di fatto, cancella con un colpo di spugna il falso in bilancio.

La legge che inceppa le rogatorie internazionali.

La legge che consente il rientro, dietro pagamento di un modico 2,5%, dei capitali illecitamente accumulati ed esportati all'estero.

La legge sul «legittimo sospetto» per dotare l'imputato eccellente di una nuova arma procedurale contro i suoi giudici di merito.

E poi tante altre, varate, tentate e minacciate da destra e sinistra negli ultimi dieci anni, che vedremo meglio fra poco.

Sappiamo che alcune di queste leggi non sono state fatte su misura per la mafia e per i mafiosi. Sappiamo che, magari, saranno anche rari i casi di processi destinati a esaurirsi in presenza di simile normativa. Sappiamo che alcune leggi sono state fatte per favorire gli interessi stessi degli «intoccabili», non certo quelli di tutti i cittadini. Ma che segnale è venuto dalla classe dei governanti in questi ultimi tre anni? Il meno che si possa dire è che si è imboccata la strada esattamente opposta a quella indicata da Weber (e qui parliamo di «politica», non più di «magistratura»).

Qualche volta sarà capitato anche a voi di attraversare a distanza di pochi giorni lo stesso metaldetector. Una volta eravate zeppi di chiavi e monetine, eppure l'allarme non ha suonato. Una volta, invece, avevate solo un centesimo in tasca, e il metaldetector se ne è accorto immediatamente. Dipende da come viene tarata la macchina, tutto qui. Ecco, fuori di metafora: l'attuale legislazione ha innalzato vertiginosamente la soglia del metaldetector antimafia. Ha dato il via libera. Ha rappresentato il superamento di Colonne d'Ercole che gli «eroi sobri» consideravano sacre e inviolabili. Parliamo, insomma, di una legislazione che ha strizzato l'occhio. Di una legislazione perseguita pervicacemente in un brevissimo arco di tempo, a dimostrazione che, nel retrobottega, c'è un progetto, un disegno, una idea di «legalità» e di «illegalità» totalmente inedita nella storia d'Italia di questi sessant'anni.

Di conseguenza, qui si aprono scenari nuovi e terreni vergini di interpretazione e di opinione. Limitiamoci a porre queste domande.

È un caso se da qualche anno il flusso delle collaborazioni dei pentiti si è inaridito? È un caso che la caccia ai latitanti non ottenga più i risultati del quadriennio 1993-96? È un caso che le indagini sui cosiddetti «mandanti esterni» alla mafia delle stragi del 1992-93 si sia arenata? È un caso che, per la prima volta in quarant'anni, la commissione Antimafia – nel 2003 – abbia concluso i suoi lavori esprimendo scetticismo e fastidio per la ricerca di questi «mandanti» da parte della magistratura? È un caso che mafia e lotta alla mafia siano praticamente scomparse dalle prime pagine dei giornali?

La risposta che ci sentiamo di proporre è questa: si è fatto, ancora una volta, il gioco della mafia. La mafia ha fatto la sua parte, con l'inabissamento di cui si è detto. Raccontiamola così: la mafia ha messo la «politica» in condizione di dimenticarsi della sua esistenza. Niente morti, niente «delitti eccellenti», niente stragi, bassissimo profilo. Grandissimi affari — come sempre — ma in gran segreto. Opinione pubblica, finalmente, distratta.

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