Autore Avi Loeb
Titolo Non siamo soli
SottotitoloI segnali di vita intelligente dallo spazio
EdizioneMondadori, Milano, 2022, Orizzonti , pag. 234, ill., cop.rig.sov., dim. 14,5x22,4x2 cm , Isbn 978-88-04-72636-4
OriginaleExtraterrestrial [2020]
TraduttoreTullio Cannillo
LettoreCorrado Leonardo, 2022
Classe astronomia , cosmologia , evoluzione , fisica , scienza , scienze naturali , biografie












 

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Indice


  3        Introduzione


 13     I  Esploratore

 23    II  La fattoria

 38   III  Anomalie

 60    IV  StarChip

 77     V  L'ipotesi della vela fotonica

 86    VI  Conchiglie e boe

102   VII  Imparare dai bambini

123  VIII  Vastità

132    IX  Filtri

145     X  Astroarcheologia

165    XI  La scommessa di 'Oumuamua

176   XII  Semi

190  XIII  Singolarità


207        Conclusione
213        Poscritto
215        Note
219        Ulteriori letture
229        Referenze iconografiche
231        Ringraziamenti


 

 

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Pagina 3

Introduzione



Quando ne avete occasione, uscite fuori e ammirate l'universo. La cosa riesce meglio di notte, naturalmente. Ma, anche quando l'unico oggetto celeste che riusciamo a distinguere è il Sole di mezzogiorno, l'universo è sempre lì, in attesa che gli prestiamo attenzione. Il semplice fatto di guardare verso l'alto, secondo me, contribuisce a cambiare la nostra prospettiva.

[...]

Questo libro affronta uno di questi profondi interrogativi, forse l'interrogativo più importante. Siamo soli? Nel corso del tempo, tale domanda è stata formulata in modi diversi. La vita sulla Terra è l'unica vita presente nell'universo? Gli esseri umani rappresentano l'unica intelligenza cosciente nell'immensità dello spazio e del tempo? Una formulazione migliore, più precisa, dell'interrogativo sarebbe questa: in tutta l'estensione dello spazio e in tutto l'arco temporale dell'esistenza dell'universo, ci sono o ci sono mai state altre civiltà coscienti che, come la nostra, hanno esplorato le stelle e lasciato prove dei loro tentativi?

Io credo che nel 2017 il nostro sistema solare sia stato attraversato da una prova in grado di corroborare l'ipotesi che la risposta all'ultima domanda sia affermativa. In questo libro prendo in esame tale prova, vaglio tale ipotesi e mi chiedo quali conseguenze potrebbero derivarne se gli scienziati le riservassero lo stesso credito che riservano a congetture sulla supersimmetria, sulle dimensioni addizionali, sulla natura della materia oscura e sulla possibilità di un multiverso.

Ma questo libro si pone anche un'altra domanda, per certi aspetti più difficile. Noi, sia scienziati sia profani, siamo pronti? La civiltà umana è pronta ad affrontare ciò che consegue dall'accettazione della plausibile conclusione, raggiunta tramite ipotesi corroborate da prove, che la vita terrestre non sia unica e forse neppure particolarmente significativa? Temo che la risposta sia negativa, e che questo diffuso pregiudizio debba preoccuparci.

[...]

Siamo l'unico esempio di vita intelligente nell'universo? Le narrazioni fantascientifiche ci hanno preparato ad aspettarci che la risposta sia no e che tale risposta arrivi con un colpo di scena improvviso, mentre le narrazioni scientifiche tendono a evitare del tutto la questione. Il risultato è che l'umanità è miseramente impreparata a un incontro con una controparte extraterrestre. Quando, terminati i titoli di coda, usciamo dal cinema e alziamo lo sguardo verso il cielo notturno, il contrasto è stridente. Sopra di noi vediamo uno spazio prevalentemente vuoto, in apparenza privo di vita. Ma le apparenze possono essere ingannevoli, e nel nostro stesso interesse non possiamo permetterci di farci ingannare ancora a lungo.

[...]

Nelle pagine che seguono prendo in considerazione l'ipotesi che il 19 ottobre 2017 sia stata data una precisa risposta di questo tipo all'umanità. Prendo sul serio non soltanto l'ipotesi, ma anche i messaggi per l'umanità che essa contiene, le lezioni che potremmo trarne e alcune delle conseguenze che potrebbero derivare dal fatto di agire o non agire sulla scorta di quelle lezioni.

Sebbene ricercare le risposte agli interrogativi della scienza, dalle origini della vita alle origini del tutto, possa sembrare uno dei più arroganti tentativi dell'umanità, la ricerca è di per sé un incentivo a dimostrarsi umili. Su qualunque dimensione la si misuri, ciascuna vita umana è infinitesimale: i nostri risultati individuali diventano visibili soltanto nell'insieme cumulativo degli sforzi di molte generazioni. Poggiamo tutti sulle spalle dei nostri predecessori, e le nostre stesse spalle devono sostenere gli sforzi di quelli che verranno dopo di noi. Se lo dimentichiamo, a correre un rischio siamo tanto noi quanto loro.

[...]

Gran parte dei dati empirici con cui questo libro ha a che fare è stata raccolta nel corso di undici giorni, a partire dal 19 ottobre 2017. Questo è stato l'intervallo di tempo che abbiamo avuto a disposizione per osservare il primo visitatore interstellare conosciuto. L'analisi di questi dati, combinata a ulteriori osservazioni, è alla base delle nostre inferenze su questo oggetto peculiare. Undici giorni non sembrano molti, e ogni scienziato desidererebbe che fossimo riusciti a raccogliere più elementi; ma i dati di cui disponiamo sono solidi e ne possiamo inferire parecchie asseverazioni, di cui fornirò un quadro completo e particolareggiato nelle pagine di questo libro. Ma chiunque abbia studiato i dati è d'accordo su una conclusione: questo visitatore, a confronto con ogni altro oggetto che gli astronomi abbiano mai studiato, era insolito. E le ipotesi proposte per rendere conto di tutte le peculiarità dell'oggetto osservate sono altrettanto insolite.

Io affermo che la spiegazione più semplice di queste peculiarità è che l'oggetto sia stato creato da una civiltà intelligente non originaria della Terra.

Questa è un'ipotesi, certo, ma un'ipotesi rigorosamente scientifica.

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Pagina 14

Le isole Hawaii sono gioielli incastonati nel Pacifico, che attraggono turisti provenienti da ogni parte del mondo. Ma agli occhi degli astronomi sono affascinanti per un motivo ulteriore: ospitano alcuni dei più evoluti telescopi del pianeta, testimonianza della nostra tecnologia più avanzata.

Tra i telescopi d'avanguardia delle Hawaii ci sono quelli che costituiscono Pan-STARRS (Panoramic Survey Telescope & Rapid Response System), una rete di telescopi e fotocamere ad alta definizione collocati in un osservatorio in cima all'Haleakala, il vulcano quiescente che forma gran parte dell'isola di Maui. Uno dei telescopi, Pan-STARRS1, è dotato della fotocamera con la più alta definizione a livello mondiale, e, da quando è in funzione, il sistema nel suo insieme ha scoperto gran parte delle comete e degli asteroidi near-Earth (cioè che possono intersecare l'orbita della Terra) identificati nel sistema solare. Ma Pan-STARRS ha un altro merito: ha raccolto i dati che per primi ci hanno avvertito dell'esistenza di 'Oumuamua.

Il 19 ottobre Robert Weryk, astronomo dell'Osservatorio dell'Haleakala, scoprì 'Oumuamua nei dati raccolti da Pan-STARRS, le cui immagini mostravano un punto luminoso che sfrecciava nel cielo a una velocità troppo rapida perché l'oggetto fosse legato alla gravità del Sole. In poco tempo, questo indizio portò la comunità degli astronomi a concordare sul fatto che Weryk avesse scoperto il primo oggetto interstellare mai individuato nel nostro sistema solare. Ma, nel momento in cui riuscimmo a escogitare un nome per l'oggetto, esso era ormai a più di trentadue milioni di chilometri dalla Terra, ossia all'incirca ottantacinque volte più lontano della Luna, e in rapido moto di allontanamento da noi.

Era giunto nelle nostre vicinanze come uno sconosciuto, ma quando se n'era andato era diventato qualcosa di più. L'oggetto cui avevamo dato un nome ci aveva posto di fronte a una quantità di domande senza risposta che avrebbero impegnato a fondo la capacità di indagine degli scienziati, oltre che l'immaginazione del mondo.

'Oumuamua è una parola hawaiana che si può tradurre, in modo approssimativo, come «esploratore». Nel suo annuncio della denominazione ufficiale dell'oggetto, l'UAI (Unione astronomica internazionale) ha definito 'Oumuamua in modo appena diverso, come «messaggero arrivato per primo da lontano». A ogni modo, il nome implica chiaramente che l'oggetto era il primo di altri a venire.

Alla fine i media definirono 'Oumuamua «strano», «misterioso» e «singolare». Ma in confronto a che cosa? La risposta, in poche parole, è che questo esploratore era strano, misterioso e singolare se paragonato a tutte le altre comete e a tutti gli altri asteroidi scoperti in precedenza.

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Pagina 39

III
Anomalie



La scienza assomiglia a un romanzo poliziesco. Per gli astrofisici si tratta di un'ovvietà che assume un significato peculiare. Nessun'altra area dell'indagine scientifica, infatti, ha a che fare con un'analoga varietà di scale e di concetti. L'ambito cronologico che studiamo inizia prima del big bang e si protrae fino alla fine del tempo, anche se riconosciamo che le nozioni stesse di tempo e di spazio sono relative. La nostra ricerca discende fino al livello dei quark e degli elettroni - le più piccole particelle a noi note - per poi allargarsi fino al confine dell'universo, e riguarda, direttamente o indirettamente, tutto quello che c'è in mezzo.

E così gran parte del nostro lavoro di investigazione è tuttora incompleto. Ancora non comprendiamo la natura degli elementi principali dell'universo, quindi per ignoranza li chiamiamo «materia oscura» (che contribuisce al totale della massa cosmica cinque volte più della materia ordinaria di cui siamo fatti) ed «energia oscura» (che domina sia la materia oscura sia quella ordinaria, e che causa, quantomeno attualmente, la peculiare accelerazione cosmica). Neppure comprendiamo che cosa abbia provocato l'espansione cosmica o che cosa accada all'interno dei buchi neri: due aree di studio, queste ultime, in cui mi sono impegnato fin da quando decisi di passare all'astrofisica, tanti anni fa.

Ci sono talmente tante cose a noi ignote che spesso, addirittura, mi chiedo se un'altra civiltà, che avesse il vantaggio di aver sviluppato la scienza per un miliardo di anni, ci considererebbe intelligenti. La possibilità che magari ci sia riservata tale cortesia, sospetto, sarà determinata non da ciò che sappiamo ma dal modo in cui lo sappiamo, cioè dalla nostra fedeltà al metodo scientifico. Sarà sul terreno della ricerca, senza pregiudizi di dati che confermino o confutino le ipotesi, che la pretesa dell'umanità di partecipare a una qualsiasi forma di intelligenza universale si dimostrerà fondata oppure no.

[...]

Il nostro Sole funziona come un lampione che illumina non soltanto tutti i pianeti che gli orbitano intorno, ma ogni oggetto che si avvicina a sufficienza ed è abbastanza grande per essere visibile dalla Terra. Per farsi un'idea chiara della situazione, ci si deve prima rendere conto del fatto che in quasi tutti gli scenari due oggetti qualsiasi ruoteranno l'uno rispetto all'altro quando si passano accanto. Tenendo presente questo, si immagini una sfera perfetta che sfreccia accanto al Sole mentre segue la sua traiettoria attraverso il sistema solare. La luce che si riflette sulla sua superficie è costante, perché l'area della sfera in moto che fronteggia il Sole è costante. Ma qualunque corpo diverso da una sfera rifletterà la luce solare in misura variabile a mano a mano che l'oggetto ruota. Un pallone ovale, per esempio, riflette più luce quando a fronteggiare il Sole è una delle sue facce oblunghe e meno luce quando, nella sua rotazione, a opporsi al Sole sono le sue facce più ridotte.

Agli astrofisici, la variazione di luminosità fornisce preziosi indizi sulla forma di un oggetto. Nel caso di 'Oumuamua la luminosità variava di un fattore dieci ogni otto ore, che deducemmo fossero il periodo di tempo occorrente affinché effettuasse una rotazione completa. Questa drastica variazione della luminosità ci diceva che la forma di 'Oumuamua era molto allungata, ossia che la sua lunghezza era almeno da cinque a dieci volte maggiore della larghezza.

A queste caratteristiche si aggiunsero altri dati sulle dimensioni. L'oggetto, si poteva affermare con certezza, era relativamente piccolo. La sua traiettoria in prossimità del Sole implicava che 'Oumuamua dovesse avere una temperatura superficiale molto elevata, il che l'avrebbe reso visibile alla fotocamera a raggi infrarossi di Spitzer, il telescopio spaziale che la NASA aveva lanciato già nel 2003. Tuttavia la fotocamera di Spitzer non riuscì a rilevare alcuna radiazione termica emessa da 'Oumuamua. Ciò ci spinse a supporre che l'oggetto dovesse essere piccolo e quindi difficile da rilevare per il telescopio. Secondo le stime, la sua lunghezza doveva essere di circa cento metri, ossia all'incirca pari a quella di un campo da calcio, e la sua larghezza di meno di dieci. Si tenga presente che anche un oggetto sottile come un rasoio spesso sembra avere una certa larghezza al variare casuale del suo orientamento nel cielo, quindi l'effettiva larghezza di 'Oumuamua poteva essere anche minore.

Ipotizziamo che la stima più elevata di queste dimensioni sia esatta e che l'oggetto misurasse qualche centinaio di metri per qualche decina di metri. Ciò renderebbe la geometria di 'Oumuamua più estrema di diverse volte almeno, quanto a rapporto di formato - cioè a rapporto tra larghezza e altezza -, rispetto agli asteroidi o alle comete più estreme che siano mai state osservate.

[...]

E c'era dell'altro.

Oltre a essere piccolo e ad avere una forma singolare, era stranamente brillante. Nonostante le sue minuscole dimensioni, mentre passava in prossimità del Sole, riflettendone la luce, 'Oumuamua risultò piuttosto brillante, almeno dieci volte più riflettente delle comete e degli asteroidi tipici del sistema solare. Se, come sembra possibile, 'Oumuamua era diverse volte più piccolo rispetto al limite superiore di alcune centinaia di metri che gli scienziati attribuivano alle sue dimensioni, la sua riflettanza doveva raggiungere valori senza precedenti, simili a quelli di un metallo lucido.

[...]

Si potevano formulare ipotesi a partire da supposizioni sul transito di 'Oumuamua o sulle sue origini. Se la particolarità di 'Ournuamua si fosse limitata alla sua peculiare forma e alle sue peculiari proprietà di riflessione, entrambe le teorie avrebbero potuto risultare soddisfacenti. In tal caso, avrei continuato a essere curioso, però sarei passato ad altro.

Ma non potei fare a meno di partecipare al seguito di questa indagine per una semplice ragione che riguardava l'anomalia più sconcertante di tutte.

Mentre 'Oumuamua si muoveva rapido intorno al Sole nel tratto più interno della sua orbita, la sua traiettoria aveva deviato da quella prevista in base alla sola forza gravitazionale della nostra stella. E non c'era alcuna spiegazione ovvia del perché.

Questo, ai miei occhi, era il dato più sorprendente tra quelli che registrammo durante le due settimane circa in cui potemmo osservare l'oggetto. Di lì a poco, tale anomalia relativa a'Oumuamua, unita alle altre informazioni raccolte dagli scienziati, mi avrebbe portato a formulare un'ipotesi destinata a mettermi in contrasto con la maggior parte dell'establishment scientifico.

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Pagina 48

'Oumuamua era entrato nel sistema solare lungo una traiettoria approssimativamente perpendicolare al piano orbitale della Terra e degli altri pianeti. Proprio come esercita la sua forza gravitazionale su quegli otto pianeti e su ogni altro oggetto che gli orbiti intorno, il Sole esercitava la sua forza gravitazionale su 'Oumuamua. Il 9 settembre 2017 'Oumuamua girò intorno al Sole alla velocità di circa trecentoventimila chilometri all'ora, acquisendo slancio dalla gravità solare, e poi rinculò in una direzione diversa. Quindi proseguì il suo viaggio attraverso il sistema solare e oltre.

Le leggi universali della fisica ci consentono di prevedere con certezza quale dovrebbe essere la traiettoria di un dato corpo mentre passa intorno al Sole. Ma 'Oumuarnua non si comportò come ci aspettavamo.

Nel giugno 2018 i ricercatori riferirono che la traiettoria di 'Oumuamua deviava leggermente, ma in una misura altamente significativa dal punto di vista statistico, da un'orbita determinata dalla sola gravità solare. Questo in quanto accelerava in direzione opposta a quella del Sole, spinto da un'ulteriore forza che diminuiva all'incirca come l'inverso del quadrato della distanza dal Sole. Quale forza repulsiva, opposta a quella gravitazionale attrattiva, può essere esercitata dal Sole?

Le comete provenienti dall'interno del sistema solare mostrano una deviazione simile a quella di 'Oumuamua, ma sono accompagnate da una coda cometaria di polvere e vapore acqueo emessa dal ghiaccio riscaldato dalla luce solare.

[...]

In ultima analisi, tutti questi misteri possono essere ricondotti a un mistero soltanto: la deviazione di 'Oumuamua dalla traiettoria attesa. Tutte le ipotesi sulla natura di questo oggetto devono rendere conto di tale deviazione, e ciò significa dare della forza che agiva su di esso una spiegazione compatibile con il fatto che, se c'era una qualsiasi coda cometaria di gas e polvere dietro di essa, tale coda era abbastanza inconsistente da passare inosservata alle lenti dei nostri strumenti.


Al momento in cui scrivo, la comunità scientifica è d'accordo sull'ipotesi che 'Oumuamua fosse una cometa, sia pure di tipo peculiare. Un pregio di questa ipotesi è la sua familiarità.. Abbiamo osservato numerose comete le cui traiettorie deviavano da orbite determinate dalla sola gravità solare. Sappiamo anche perché ciò accade: la causa è sempre il degassamento.

Ma, come ho appena spiegato, 'Oumuamua non dava alcun segno di degassamento. Eppure deviava.

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Quando lessi le informazioni secondo le quali la forza addizionale agente su 'Oumuamua diminuiva in modo inversamente proporzionale al quadrato della sua distanza dal Sole, mi chiesi che cosa potesse spingerlo, escludendo il degassarnento e la disintegrazione. L'unica spiegazione che mi venne in mente fu la luce solare che rimbalzava sulla sua superficie come il vento su una vela sottile.

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Pagina 62

Sono da molto tempo consapevole del fatto che nella comunità degli astronomi il progetto SETI è accolto con atteggiamento ostile. E da molto tempo ritengo che tale atteggiamento sia piuttosto singolare. I fisici teorici ortodossi oggi accettano ampiamente lo studio di dimensioni spaziali aggiuntive oltre alle tre con cui abbiamo tutti familiarità - in parole povere: altezza, larghezza e profondità - e alla quarta dimensione, il tempo. Questo nonostante il fatto che non vi sia alcuna prova dell'esistenza di una qualsiasi dimensione addizionale del genere. In modo analogo, un ipotetico multiverso - un numero infinito di universi che esistono tutti simultaneamente e in cui tutto ciò che potrebbe accadere accade davvero - tiene occupate molte delle menti più ammirate del pianeta nonostante il fatto, di nuovo, che non vi sia alcuna prova che una cosa del genere sia possibile.

Non è su tali tentativi che ho da ridire; anzi, ben venga che le teorie si moltiplichino (e magari producano esperimenti replicabili in grado di fornire prove a loro sostegno). In realtà dissento sul sospetto con cui spesso è guardato il SETI. In confronto a certi voli di fantasia dei fisici teorici, la ricerca altrove nell'universo di qualcosa che sappiamo esistere sulla Terra, ovvero il fenomeno della vita, costituisce una linea di indagine tutt'altro che azzardata. La Via Lattea ospita decine di miliardi di pianeti di dimensioni e temperature superficiali simili a quelle terrestri. Complessivamente, circa un quarto dei duecento miliardi di stelle della nostra galassia ha pianeti in orbita che sono abitabili proprio come lo è la Terra, con condizioni superficiali che consentono la presenza di acqua liquida e la chimica della vita come la conosciamo. Dato l'alto numero di mondi con analoghe condizioni favorevoli alla vita - cinquanta miliardi solo nella nostra galassia! -, è assai probabile che anche altrove si siano evoluti organismi intelligenti.

E stiamo contando soltanto i pianeti abitabili all'interno della Via Lattea. Se si tiene conto di tutte le altre galassie presenti nella regione osservabile dell'universo, il numero dei pianeti abitabili aumenta a 10^21, raggiungendo un numero maggiore di quello dei granelli di sabbia presenti in tutte le spiagge della Terra.

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Pagina 77

V
L'ipotesi della vela fotonica



All'inizio del settembre 2018, più o meno un anno dopo che 'Oumuamua era passato nel cielo, scrissi un articolo poi pubblicato su «Scientific American» in merito a ciò che potrebbe comportare la ricerca di resti di civiltà aliene, specialmente di civiltà estinte. Sulla base dei dati della missione Kepler, sostenevo, sappiamo che circa un quarto di tutte le stelle è accompagnato da pianeti abitabili di dimensioni analoghe a quelle della Terra. Anche se soltanto una piccola frazione di tutte le Terre abitabili avesse prodotto civiltà tecnologiche come la nostra nel corso della vita delle rispettive stelle, potrebbero esserci numerosissimi resti da investigare là fuori, nella Via Lattea.

Alcuni di questi mondi abitabili, teorizzavo, potevano recare prove di civiltà preesistite, qualunque cosa, da tracce atmosferiche o geologiche a megastrutture abbandonate. Ma ancor più eccitante era la possibilità di trovare nel nostro sistema solare relitti tecnologici, privi di funzionalità riconoscibile, intenti a volare: per esempio pezzi di apparecchiature rimasti senza energia nel corso del loro viaggio lungo milioni di anni e ormai diventati spazzatura spaziale.

Proseguivo osservando che era senz'altro possibile che avessimo già trovato un simile relitto tecnologico. Riferendomi alla scoperta di 'Oumuamua avvenuta l'autunno precedente, riassumevo i dati anomali che si erano accumulati in merito a quell'oggetto e poi ponevo una domanda retorica: data la sua deviazione dall'orbita attesa e le sue altre peculiarità, 'Oumuamua potrebbe essere stato un motore artificiale?

[...]

Per spiegare le comprovate peculiarità di 'Oumuamua, gli scienziati hanno dovuto proporre opzioni «mai viste prima». Di tutti gli asteroidi e le comete che abbiamo catalogato, non ce n'è mai stato uno che abbia presentato peculiarità simili. Se le spiegazioni conformi alla scienza ortodossa erano ritenute abbastanza valide da meritare una ponderata considerazione, l'ipotesi che 'Oumuamua fosse un prodotto di tecnologia extraterrestre - anche questa una possibilità «mai vista prima» - non meritava minore attenzione.

Gli interrogativi sollevati dall'ipotesi della vela fotonica, inoltre, sono interessanti. Se supponiamo invece che 'Oumuamua sia una cometa eccezionalmente rara composta di idrogeno puro congelato, gran parte delle nostre domande finisce incastrata in un vicolo cieco. Lo stesso accade se si immagina che 'Oumuamua sia una soffice nube di polvere con un'integrità interna sufficiente a tenerla insieme ma comunque abbastanza leggera da essere sospinta dalla luce solare. In entrambi i casi possiamo rimanere meravigliati, ma tutto si riduce sostanzialmente a questo effetto sorpresa. Le rarità statistiche vanno esposte negli scaffali di una camera delle meraviglie, non dovrebbero dare origine a nuove aree di indagine scientifica. Ma, se riteniamo plausibile l'ipotesi che 'Oumuamua potesse essere un prodotto di tecnologia extraterrestre e affrontiamo tale ipotesi con curiosità scientifica, si apriranno davanti a noi intere nuove piste di esplorazione alla ricerca di prove e scoperte.

Dopo che i media ebbero superato il turbamento iniziale, suscitato dal fatto che il direttore del dipartimento di astronomia della Harvard e un suo dottore di ricerca stavano postulando che 'Oumuamua fosse il resto di una tecnologia extraterrestre, fui accusato di vedere vele fotoniche ovunque guardassi. Dopotutto, il mio coinvolgimento nella Starshot Initiative era stato annunciato soltanto due anni prima, e l'obiettivo del progetto era quello di inviare chip elettronici fino alla stella più vicina sfruttando l'energia generata dalla tecnologia delle vele fotoniche.

L'intervistatore dello «Spiegel» espresse la suddetta idea con una schiettezza ammirevole: «Secondo un proverbio, chi ha soltanto un martello non vede altro che chiodi».

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Pagina 103

La ricerca di vita extraterrestre non è mai stata più di una bizzarria per la maggioranza degli scienziati: dal loro punto di vista è un argomento che merita un fugace interesse nel migliore dei casi, aperta derisione nel peggiore. Pochi scienziati di fama hanno dedicato la loro carriera al progresso di questa area di ricerca, e perfino nella fase della sua massima rispettabilità accademica - gli anni Settanta del secolo scorso - soltanto un centinaio di studiosi aveva dichiarato pubblicamente di avere rapporti con il SETI Institute. È notorio che aree assai più speculative di ginnastica matematica attraggono comunità di fisici molto popolose.

Un approccio più rigoroso nei confronti del progetto SETI ebbe inizio nel 1959, quando due fisici della Cornell University, Giuseppe Cocconi e Philip Morrison, scrissero il fondamentale Searching for Interstellar Communications. L'articolo, che fu pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica «Nature», faceva due semplici congetture. La prima ipotizzava che esistessero civiltà extraterrestri progredite come la nostra, se non di più. La seconda sosteneva che tali civiltà avrebbero con ogni probabilità trasmesso la loro comunicazione interstellare - NOI ESISTIAMO - alla frequenza radio di 1,42 GHz, l'«unico standard, oggettivo di frequenza, che deve essere noto a ogni osservatore nell'universo». Cocconi e Morrison si riferivano alla lunghezza d'onda di ventun centimetri dell'idrogeno neutro, proprio la stessa radioemissione di cui ci saremmo occupati io e altri astrofisici quasi mezzo secolo dopo, nel tentativo di spingere lo sguardo all'indietro nel tempo fino all'alba cosmica.

L'articolo provocò subito molto scalpore, annunciando la nascita del progetto SETI e stabilendo la base di tutte le successive ricerche di intelligenza extraterrestre tramite la sua frase conclusiva: «La probabilità di successo è difficile da stimare; ma se non cercheremo mai, la probabilità di successo è nulla». A mio avviso, riecheggia un pensiero molto più antico, attribuito a Eraclito di Efeso: «Se non ti aspetti l'inatteso, non lo troverai».

L'articolo di Cocconi e Morrison richiama alla mente anche il vecchio adagio sulle persone che, non avendo altro che martelli, vedono solo chiodi ovunque guardino. I due autori scrivevano un quarto di secolo dopo la nascita della radioastronomia, un fatto che di certo li aiutò nello sforzo di «aspettarsi l'inatteso». Come nel caso dell'ipotesi mia e di Bialy sulla vela fotonica, sembra che siamo più bravi a riconoscere la firma tecnologica di civiltà aliene dopo che abbiamo sviluppato noi stessi la tecnologia in questione.

L'articolo di Cocconi e Morrison ispirò immediatamente l'astrofisico Frank Drake , anche lui della Cornell. Nel 1960 egli decise di effettuare proprio il tipo di ricerca proposto dai due colleghi. Servendosi dell'NRAO (National Radio Astronomy Observatory) di Green Bank, nel West Virginia, Drake condusse uno studio di due stelle vicine analoghe al Sole, Tau Ceti ed Epsilon Eridani. Per centocinquanta ore distribuite su oltre quattro mesi, Drake utilizzò il radiotelescopio per cercare, senza successo, un segnale distinguibile indicativo di intelligenza. Il tocco di fantasia con cui Drake intraprese la sua ricerca di vita extraterrestre è ben espresso dal nome che diede al progetto: Ozma, come il personaggio del mondo di Oz uscito dalla penna di Lyman Frank Baum.

Il progetto di Drake suscitò vasto interesse e attrasse l'attenzione dei media più popolari. Il fatto che circa duecento ore di osservazione non avessero prodotto nessuna scoperta quasi non intaccò l'entusiasmo dell'ampio pubblico. E sulla spinta di tale partecipazione, all'inizio del novembre 1961, Drake partecipò a una conferenza informale promossa dall'Accademia nazionale delle scienze presso l'NRAO. Fu in quella sede che formulò la cosiddetta «equazione di Drake», che utilizzò per stimare il numero di civiltà extraterrestri impegnate attivamente a comunicare.

L'equazione campeggia sulle magliette, ispira le trame di romanzi per giovani, è stata usata impropriamente da Gene Roddenberry per conferire una patina di plausibilità alla serie televisiva Star Trek, e fin da subito è stata severamente criticata e modificata dagli scienziati. A causa del polverone che si è sollevato, abbiamo dimenticato la semplice idea che l'equazione non è altro che un espediente euristico, uno strumento agile per esplicitare i vari termini da cui dipende il successo del SETI. La formula è

N = R* x fp x ne x fl x fi x fc x L

dove i fattori sono definiti come segue: N è il numero di specie nella nostra galassia che possiedono la tecnologia necessarie per la comunicazione interstellare; R* è il tasso di formazione stellare nella nostra galassia; fp è la frazione di stelle con sistemi planetari; ne è il numero di pianeti in ciascun sistema con condizioni ambientali compatibili con la vita; fl è la frazione di pianeti in cui sorge la vita; fi è la frazione di pianeti in cui sorge la vita intelligente; fc è la frazione della vita intelligente che sviluppa una tecnologia sufficientemente evoluta per prendere parte alla comunicazione interstellare; L è l'intervallo di tempo in cui tale vita intelligente è in grado di produrre segnali rilevabili.


A differenza della maggior parte delle equazioni formulate, quella di Drake non era stata concepita per essere risolta. Era piuttosto destinata a fungere da cornice concettuale per pensare a quante civiltà intelligenti potevano popolare il nostro universo. È improbabile che saremo mai in grado di inserirvi i valori di tutte le variabili, figuriamoci determinarne il risultato.

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A differenza di ciò che fa tendenza sui social media, il progresso scientifico è misurato dal grado con cui un'idea proposta si avvicina alla verità confortata dalle prove. Tale fatto ampiamente accettato suggerisce che i fisici misurino il loro successo in base a quanto le loro idee si accordano con i dati piuttosto che in base a quanto tali idee siano popolari. Ma non è quel che constatiamo quando passiamo in rassegna il panorama della fisica teorica. Spesso sono le mode a determinare i finanziamenti, e a volte ciò accade benché non vi sia nulla di simile a un adeguato rendimento degli investimenti.

A dispetto dell'assenza di prove sperimentali, le idee matematiche della supersimmetria, delle dimensioni spaziali aggiuntive, della teoria delle stringhe, della radiazione di Hawking e del multiverso sono considerate irrefutabili e autoevidenti dalla corrente principale della fisica teorica. Per dirla con le parole di un fisico eminente a una conferenza cui ho partecipato: «Queste idee devono essere vere anche in assenza di verifiche sperimentali che le confermino, perché migliaia di fisici ci credono ed è difficile immaginare che una comunità così vasta di scienziati matematicamente dotati possa sbagliarsi».

Ma andiamo oltre il consenso prevalente e consideriamo più da vicino queste idee. Per esempio la supersimmetria. Questa teoria, che postula che tutte le particelle abbiano dei partner, non è così naturale come eminenti teorici avevano predetto che sarebbe stata. I dati più recenti forniti dal Large Hadron Collider del CERN non hanno individuato alcuna delle prove attese relativamente alle scale di energia sondate per confermare la supersimmetria. Altre idee congetturali riguardanti la natura della materia oscura, l'energia oscura, le dimensioni aggiuntive e la teoria delle stringhe non sono ancora state nemmeno sottoposte a verifica.

Immaginiamo che i dati indicanti che 'Oumuamua è un prodotto di tecnologia extraterrestre siano più solidi di quelli indicanti che la teoria della supersimmetria è valida. Quali potrebbero essere le conseguenze? Sono stati spesi poco meno di cinque miliardi di dollari per realizzare il Large Hadron Collider, un acceleratore di particelle costruito nella speranza di ottenere prove a conferma della supersimmetria, e farlo funzionare costa un altro miliardo di dollari all'anno. Se il consenso scientifico alla fine si arrenderà, lo farà dopo enormi investimenti e tentativi che hanno coinvolto intere generazioni. Finché non avremo speso cifre analoghe nella ricerca di intelligenza extraterrestre, le dichiarazioni perentorie su ciò che 'Oumuamua è o non è andrebbero valutate di conseguenza.

[...]

Procurarci dei dati e confrontarli con le nostre idee teoriche garantisce che facciamo i conti con la realtà e ci dice che non soffriamo di allucinazioni. Inoltre riconferma ciò che è centrale per la disciplina. La fisica non è un'attività ricreativa che serve a farci stare bene con noi stessi. La fisica è un dialogo con la natura, non un monologo.

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Dopo il big bang, l'idrogeno era di gran lunga l'elemento più abbondante nel cosmo: l'universo primordiale era composto per il 92 per cento circa di atomi di idrogeno e per l'8 per cento di atomi di elio. Ma a quel punto l'idrogeno presente nell'universo non emetteva alcun segnale radio che oggi possiamo rivelare. Questo perché nell'infuocato periodo immediatamente successivo al big bang la stragrande maggioranza della materia ordinaria dell'universo, l'idrogeno appunto, era ionizzata.

Gli atomi dell'idrogeno neutro sono costituiti da un solo protone e un solo elettrone. Ma a temperature elevate e in presenza di intensa radiazione ultravioletta essi vengono scissi (ionizzati); l'atomo di idrogeno perde il suo elettrone e si riduce a un solo protone con carica positiva. Ciò cambia il comportamento dell'idrogeno o, più precisamente, il tipo di segnali radio che esso emette. L'elettrone legato in un atomo di idrogeno neutro può subire delle transizioni fra diversi stati di energia, più alti e più bassi, e nel farlo emette un fotone (particella di luce) sotto forma di un'onda radio di ventun centimetri di lunghezza. Ma l'idrogeno ionizzato non può farlo.

Circa trecentottantamila anni dopo il big bang, l'universo si raffreddò a sufficienza perché elettroni e protoni si combinassero e formassero atomi di idrogeno neutro: da lì possiamo cominciare a cercare la firma caratteristica dell'elemento, le onde radio di ventun centimetri. Per centinaia di milioni di anni gli atomi di idrogeno rimasero neutri, passando tra i loro stati di energia più alti e più bassi ed emettendo immediatamente onde, finché cominciarono a formarsi le stelle e poi le galassie, e l'idrogeno dell'universo fu nuovamente tutto ionizzato.

Le stelle emettono non solo luce visibile, ma anche radiazione ultravioletta, che può scindere gli atomi di idrogeno nei loro componenti: elettroni e protoni. Quando si accesero le prime stelle, riionizzarono gli atomi di idrogeno neutro dell'universo. Si trattò di un'epoca, più che di un momento: un lungo periodo in cui la luce ultravioletta emessa dalle prime stelle e dai primi buchi neri scindeva la nebbia oscura dell'idrogeno neutro in protoni ed elettroni. Ma la chimica in mutamento dell'universo diede agli astrofisici dei dati da ricercare, e cioè l'assenza di emissioni a ventun centimetri. Gli atomi di idrogeno ionizzati, come si è detto, non emettono questi segnali radio, mentre atomi di idrogeno neutri lo fanno.

Di conseguenza, il momento in cui il segnale dell'emissione a ventun centimetri scompare è il momento in cui nacquero le stelle. Come il celebre racconto di Sherlock Holmes che si incentrava sul cane che non abbaiava, questo mistero scientifico divenne il caso dell'idrogeno che non produceva più la sua emissione a ventun centimetri.

Al momento in cui scrivo, è in corso la ricerca di dati che ci aiuteranno a individuare con precisione il momento in cui le stelle cominciarono a splendere. In Sudafrica una schiera di antenne chiamata HERA (Hydrogen Epoch of Reionization Array) sta misurando le emissioni a ventun centimetri dell'universo primordiale.

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Enrico Fermi è stato uno dei giganti della fisica del secolo scorso. Tra i suoi successi si annovera la realizzazione del primo reattore nucleare, e, dato che ebbe un ruolo nel Progetto Manhattan e nella produzione della prima bomba nucleare, gli va riconosciuta parte della responsabilità per la rapida fine delle ostilità fra Stati Uniti e Giappone al termine della seconda guerra mondiale.

Verso la fine della sua celebre carriera, durante un pranzo con i colleghi, Fermi sollevò un interrogativo semplice e stimolante: come si spiega il paradosso per cui, data la vastità dell'universo, la probabilità della vita extraterrestre sembra elevata eppure non ci sono prove certe di nulla al di fuori della vita terrestre? Se la vita è comune nell'universo, si chiese, allora dove sono tutti quanti?

Nel corso degli anni sono state formulate numerose risposte. Una è particolarmente degna di nota e attinente al mistero di 'Oumuamua che sta sotto i nostri occhi, e alle sue implicazioni per noi.

Nel 1998 l'economista Robin Hanson pubblicò un saggio intitolato The Great Filter - Are We Almast Past It? Forse la risposta al paradosso di Fermi, sosteneva Hanson, era che in tutto l'universo il progresso tecnologico di una civiltà ne preannuncia con soverchiante probabilità la distruzione. Il momento in cui una civiltà raggiunge il nostro stadio di avanzamento tecnologico - la finestra temporale in cui è in grado di segnalare la propria esistenza al resto dell'universo e di cominciare a inviare veicoli verso altre stelle - è anche il momento in cui la sua maturità tecnologica diventa sufficiente per la propria distruzione, sia mediante mutamento climatico sia mediante guerre nucleari, biologiche o chimiche.

L'esercizio mentale di Hanson ha una plausibilità sufficiente per convincerci che l'umanità farebbe bene a prendere in considerazione la domanda presente nel titolo del suo articolo: la civiltà umana si sta avvicinando al proprio grande filtro?

Non sarebbe un'ironia della storia di poco conto se Fermi rappresentasse la soluzione del suo stesso paradosso, in quanto, proprio con il suo contributo, abbiamo sviluppato le armi nucleari sette decenni fa. Ma, anche a prescindere dalle armi nucleari, stiamo procedendo verso l'autodistruzione alterando in modo permanente il clima. Anche l'incremento della resistenza agli antibiotici, dovuto a molti fattori fra i quali ha di certo un peso il loro uso ampiamente indiscriminato nell'agricoltura e nell'allevamento industriali, costituisce una minaccia. Altrettanto si può dire delle pandemie, accelerate e aggravate dalla nostra aggressione industriale all'ecosistema del pianeta.

[...]

In astronomia ci rendiamo conto che la materia assume nuove forme nel corso del tempo. La materia di cui siamo fatti fu prodotta nel cuore di stelle massicce che esplodevano. Si aggregò a formare la terra che nutre le piante che a loro volta alimentano il nostro corpo. Che cosa siamo, allora, se non semplici forme fugaci assunte da qualche granello di materiale per un breve momento della storia cosmica sulla superficie di un pianeta tra tanti altri? Siamo insignificanti non soltanto perché il cosmo è tanto vasto, ma anche perché noi stessi siamo davvero minuscoli. Ognuno di noi non è nulla più che una struttura transitoria che viene e va, registrata nella mente di altre strutture transitorie. E questo è tutto.

La morte dei miei genitori mi ha fatto capire questa e altre verità fondamentali sulla vita. Siamo qui per un breve arco di tempo e di conseguenza faremmo meglio a non mistificare le nostre azioni. Restiamo sinceri, autentici e ambiziosi. Lasciamo che le nostre limitazioni, che senz'altro comprendono il tempo ristretto che è concesso a ognuno di noi, incoraggino l'umiltà. E lasciamo che il piccolo filtro che rappresenta la durata della nostra vita ci offra un contesto accessibile e favorevole alla riflessione per il grande filtro di Hanson, che rappresenta la fine della nostra civiltà. In mancanza di cura, diligenza e intelligenza applicata adeguate, gli esseri umani si sono dimostrati fin troppo propensi a porre fine alla vita dei loro simili.

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La ricerca sulle origini della vita è allo stato nascente. Anche se sappiamo moltissimo su un aspetto, l'abiogenesi terrestre, tale conoscenza è un'isola in un vasto oceano di ignoranza. Eppure ci sono ragioni per essere cautamente ottimisti sugli obiettivi cui essa mira.

Al momento in cui scrivo, siamo assai più vicini a comprendere come le prime cellule, i mattoni costitutivi della vita, conseguirono la replicazione e le funzioni metaboliche, e siamo assai più vicini a spiegare come i precursori delle molecole biologiche, quali proteine e carboidrati, furono sintetizzati e assemblati muovendo da un punto di partenza comune. E, anche se ignoriamo se la vita extraterrestre si fonderebbe sugli stessi mattoni costitutivi che diedero origine alla vita sulla Terra, siamo sempre meglio attrezzati per riflettere sulla frequenza dell'abiogenesi altrove a mano a mano che ci avviciniamo a una comprensione di come la vita è sorta qui.

Nella ricerca della vita extraterrestre, nulla è più importante che sapere se la vita è ampiamente deterministica e molto probabile oppure se è una conseguenza di eventi casuali e improbabili. In altre parole, le medesime condizioni fondamentali danno sempre origine alla vita? Oppure la comparsa della vita sulla Terra fu un avvenimento anomalo che è assai improbabile si verifichi nuovamente?

Numerose aree disciplinari stanno affrontando queste domande. Intanto, una semplice osservazione domina il campo: l'unica solida fonte di dati di cui disponiamo - e cioè la Terra - è feconda in modo sbalorditivo. I fattori che hanno consentito alla vita di sorgere sulla Terra - fra i quali la distanza dal Sole è cruciale - non hanno prodotto solamente alcuni microrganismi che si accalcano intorno alle bocche idrotermali sui fondali oceanici. Hanno prodotto una cornucopia di vita di ricchezza e complessità tali da spaziare dalla flora e dalla fauna odierne a un'intera era di rettili che le ha precedute. Da parte nostra, credere che il brulicare della vita sia limitato a un'unica biglia azzurra in tutta l'estensione dell'universo sembra proprio un atto di tracotanza ai massimi livelli.

Quasi tutta la vita sulla Terra dipende dal Sole. Non per nulla gli esseri umani lo hanno adorato dall'alba della civiltà fino all'ultima volta che avete passato un'ora sdraiati su un asciugamano da spiaggia. Siamo letteralmente polvere stellare: la materia di cui siamo fatti fu prodotta nel cuore di stelle che esplodevano e che poi formarono pianeti come la Terra, la quale a sua volta fornì il materiale di tutta la vita terrestre, compresi voi e me. E senza il calore e la luce del Sole non ci sarebbero né piante, né abbondanza di ossigeno, e nemmeno vita come la conosciamo.

Non è un'esagerazione affermare che la maggioranza della vita pluricellulare complessa sulla Terra è direttamente o indirettamente dipendente dall'esistenza del Sole. Ma che cosa dovrebbe dedurne la ricerca di vita extraterrestre? Come possiamo servirci della conoscenza certa del fatto che il Sole sostenta vita intellettuale cosciente per orientare la nostra ricerca di vita altrove?

Sapere se il Sole rappresenta un'anomalia oppure no ci direbbe molto su quanto anomala è la vita che esso sostenta. Se il Sole è un ospite tipico sotto tutti gli aspetti e la presenza di vita cosciente nelle sue vicinanze è eccezionalmente rara - se non unica -, la nostra esistenza è con ogni probabilità il risultato di una pura casualità ed è quindi davvero qualcosa di fuori dal comune. Ma, se il Sole è per certi aspetti atipico, forse quelle caratteristiche atipiche sono necessarie per la vita, il che rende la nostra esistenza meno fortuita e meno unica. Ciò, a sua volta, renderebbe la nostra ricerca di vita extraterrestre meno casuale perché avremmo buone ragioni per prendere in esame stelle come la nostra.

Si dà il caso che il sistema Sole-Terra sia anomalo sotto due aspetti. Primo, la massa del Sole - trecentotrentamila volte maggiore di quella della Terra - ne fa una stella più massiccia del 95 per cento di tutte le stelle note. E, sebbene ciò non escluda il nostro interesse per la ricerca di vita su pianeti in orbita intorno a stelle più vicine alla media statistica, dato che abbiamo risorse limitate in termini di tempo e denaro, ci incoraggia comunque a cercare stelle che abbiano una massa particolarmente elevata, proprio come quella che ci sostenta.

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Proiettate ancora una volta in avanti la vostra mente, fino al giorno successivo alla scoperta di una prova dell'esistenza di vita altrove nell'universo. C'è un'altra predizione che mi sento di fare con sicurezza: quando apprenderemo per certo che non siamo soli, tutte le religioni dell'umanità - e tutti i suoi scienziati, anche i più conservatori - troveranno modi per far rientrare questo fatto nel quadro delle loro credenze.

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Non c'è mistero più fondamentale del significato della vita. A qualcuno è assegnato il ruolo di Amleto, ad altri i ruoli di Rosencrantz e Guildenstern, ma tutti proviamo la sensazione di muoverci su una scena senza un copione. È raro l'essere umano, e più in generale l'essere senziente, che non cerca mai la risposta alla seguente domanda: che senso ha tutto ciò?

[...]

La condizione comune della vita cosciente, vivere e morire senza mai sapere perché, era, secondo Camus , assurda. Io credo che gli altri esseri senzienti - che, proprio come noi, sono soggetti a limitazioni intellettuali - arriveranno inevitabilmente alla medesima conclusione: la vita è assurda.

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Oggi teniamo tutte le nostre uova in un unico paniere: la Terra. Di conseguenza, l'umanità e la nostra civiltà sono estremamente vulnerabili alla catastrofe. Diffondendo nell'universo molteplici copie del nostro materiale genetico, potremmo tutelarci da tale rischio.

Questo sforzo sarebbe analogo alla rivoluzione causata dall'introduzione di un nuovo torchio tipografico con caratteri mobili, che consentì a Johann Gutenberg di produrre in serie copie della Bibbia e distribuirle in tutta Europa. Non appena furono realizzate numerose copie del libro, ciascuna di esse perse il suo valore unico di manufatto prezioso.

Allo stesso modo, non appena impareremo a produrre vita sintetica nei nostri laboratori, si potrebbero distribuire «torchi Gutenberg per il DNA» in grado di produrre copie del genoma umano utilizzando materie prime recuperate sulla superficie di altri pianeti. Nessuna particolare copia sarebbe essenziale per preservare l'informazione genetica della nostra specie, poiché tale informazione sarebbe invece contenuta in molteplici copie. Al momento in cui scrivo, i miei colleghi alla Harvard e altrove stanno lavorando senza sosta per trasferire il miracolo della creazione della vita nella rubrica delle realizzazioni terrene. Proprio come la fisica ha tratto grande beneficio dagli esperimenti di laboratorio che hanno svelato quali leggi governano l'universo, così gli scienziati stanno tentando di creare vita sintetica in laboratorio e di venire a capo della moltitudine di processi chimici che potrebbero dare origine alla vita. Per esempio il Szostak, il laboratorio guidato dal premio Nobel per la medicina da cui prende il nome, Jack W. Szostak, sta costruendo un sistema cellulare sintetico che evolve, si replica e preserva l'informazione genetica conformemente al meccanismo delineato da Charles Darwin nel 1859. Szostak e i suoi colleghi si concentrano sulla creazione di una protocellula capace di replicazione e di variazione, il che significa che dovrebbe essere in grado di evolvere: essi sperano che ciò porterà alla comparsa spontanea di catalizzatori genomicamente codificati e di molecole strutturate.

Se il tentativo funzionasse, questo risultato ci guiderebbe verso i migliori obiettivi celesti nella nostra ricerca astronomica della vita, mostrandoci in quali condizioni la vita può manifestarsi. Ma potrebbe anche insegnarci qualcosa di più su noi stessi come forme di vita, conferendoci nel contempo una dose di umiltà di cui c'è grande bisogno.

Si pensi ai libri di cucina, pieni di ricette che utilizzano gli stessi ingredienti ma hanno come risultato dolci diversi, a seconda dei tempi di manipolazione e del modo in cui tali ingredienti sono mescolati e riscaldati. Alcuni dolci sono più gustosi di altri. Non c'è ragione per aspettarsi che la vita terrestre, comparsa in circostanze casuali sul nostro pianeta, sia ottimale. Possono esserci altri percorsi che portano a dolci migliori.

La prospettiva di un'umanità che produce vita sintetica in laboratorio solleva anche interessanti interrogativi sulle nostre origini. Siamo il prodotto di un'evoluzione esclusivamente terrestre? Oppure abbiamo ricevuto, come le protocellule in corso di sviluppo nei laboratori universitari, una spinta di incoraggiamento?


Nel 1871, in un discorso tenuto davanti all'Associazione britannica per l'avanzamento della scienza, il prolifico fisico e matematico Lord William Kelvin propose l'ipotesi che la vita potesse essere pervenuta sulla Terra tramite meteoriti in viaggio nello spazio.

Non era un'idea originale. Già i Greci l'avevano presa in considerazione, e decenni prima di Lord Kelvin altri scienziati europei avevano vagliato tale possibilità. Ma, nonostante l'interesse suscitato nel XIX secolo, dopo la presentazione del 1871 l'idea rimase ignorata per un altro secolo.

Nel corso degli ultimi due decenni, però, la teoria della panspermia - l'idea cioè che la vita possa raggiungere pianeti abitabili venendo trasportata da meteoriti, comete o polvere stellare - si è progressivamente guadagnata un'attenzione più rigorosa, a mano a mano che la ricerca scientifica ha confermato l'ipotesi che alcune meteoriti scoperte sulla Terra erano di origine marziana.

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