Autore Gabriele Lolli
Titolo Tavoli, sedie, boccali di birra
SottotitoloDavid Hilbert e la matematica del Novecento
EdizioneCortina, Milano, 2016, Scienza e idee , pag. 176, cop.fle., dim. 14x22,5x1,2 cm , Isbn 978-88-6030-815-3
LettoreCorrado Leonardo, 2016
Classe matematica , storia della scienza












 

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Indice


Presentazione                                         9

1.  Uno spettro si aggira per l'Europa               21

    Gottfried Wilhelm von Leibniz                    22
    George Boole                                     23
    Federigo Enriques                                27
    Giuseppe Peano                                   30
    Heinrich Hertz                                   34
    David Hilbert                                    36
    Oswald Veblen e Edward V. Huntington             47
    Hermann Weyl                                     51
    Henri Poincaré                                   52
    Ennio De Giorgi                                  53
    Confronti                                        56

2.  Hilbert e la nuova matematica                    67

    Algebra e teoria dei numeri                      67
    Geometria                                        69
    Principio di Dirichlet e metodi variazionali     70
    Equazioni integrali, fisica                      71
    Logica                                           72
    Il pensiero matematico, i problemi               73

3.  Hilbert e la logica                              79

4.  I nemici                                         91

5.  Il programma di Hilbert                         101

    Amburgo 1922, la metamatematica                 101
    Lipsia 1922                                     109
    Botta e risposta                                113
    Münster 1925, l'infinito                        115
    Amburgo 1927                                    125
    Weyl abbandona                                  131
    In vista del traguardo                          133
    Gödel affonda il coltello                       139

Epilogo in forma di controfattuale                  145

Note                                                151
Bibliografia                                        165
Indice dei nomi                                     173


 

 

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Pagina 9

PRESENTAZIONE



Alcune convinzioni dell'autore fanno da sfondo alle vicende raccontate in questo libro, al modo in cui sono raccontate. La prima, più generale, è che la matematica attraversa fasi storiche in cui viene prodotta e concepita in modi tra loro molto diversi, quasi irriconoscibili; la seconda, che quella del Novecento ha una sua fisionomia che merita una speciale etichetta: il metodo assiomatico. Per accettare questi presupposti, scontati tra gli storici ma non molto diffusi, e forse non condivisi da tutti, non v'è di meglio che pensare a qualcosa di più familiare, a come drammaticamente sia cambiata la fisica tra la metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

All'inizio dell'Ottocento dominava la meccanica classica, codificata nei cinque volumi della Meccanica celeste di Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), pubblicati tra il 1799 e il 1825. L'universo era popolato e composto di particelle indivisibili e immutabili e la conoscenza del moto di questi elementi doveva permettere la conoscenza esauriente e completa di tutti i fenomeni. La spiegazione scientifica consisteva nella riduzione di tutti i fenomeni a interazioni meccaniche tra le parti ultime della materia. C'erano alcune crepe in questa metafisica, una spia delle quali era lo studio che proprio Laplace aveva dedicato alla teoria della probabilità. Un'altra era la necessità di far intervenire curiose sostanze, come l'etere: solido, rigido, immobile e che pure non opponeva resistenza ai corpi. C'erano visioni alternative, per esempio quella del matematico Joseph Fourier (1768-1839) che nel 1822 affermava: "Quale che sia l'estensione delle teorie meccaniche, esse non si applicano affatto agli effetti del calore". Ma solo con il saggio del 1847 di Hermann von Helmholtz (1821-1894) veniva introdotta una chiara distinzione tra forza ed energia, e si apriva la strada alle leggi di conservazione. A metà del secolo, finalmente "pareva che la materia si aprisse a ventaglio sul proprio ultimo livello atomico, e che [...] in esso si muovesse un insieme crescente di complessità talmente profondo da mettere a dura prova le speranze matematizzanti della cultura francese". Un paio di generazioni dopo, nel secondo decennio del Novecento, teoria della relatività e meccanica quantistica rappresentavano il livello di ricerca della fisica teorica.

Ma questa trasformazione è stata possibile anche o soprattutto grazie all'aggiornamento e alla realizzazione delle "speranze matematizzanti" non tanto della cultura francese quanto di quella europea. Lo ha riconosciuto in diverse occasioni Albert Einstein (1879-1955), magari indirettamente, come quando ha confessato di aver "maturato un enorme rispetto per la matematica, le cui parti più sottili finora ho considerato [...] un lusso", o quando ha detto che "l'equazione alle derivate parziali è entrata nella fisica teorica come una cameriera, ma gradualmente è diventata la padrona" o, più esplicitamente, che "il principio creativo [della scienza] si trova nella matematica".

La matematica della seconda metà dell'Ottocento è andata ben oltre quella del calcolo infinitesimale del Settecento riassunta nell'opera di Laplace e nei programmi dell'Ecole Polytechnique. La geometria quadridimensionale di Hermann Minkowski (1864-1909), il calcolo differenziale assoluto di Gregorio Ricci Curbastro (1853-1925) e Tullio Levi Civita (1873-1941), la topologia di Henri Poincaré (1854-1912) sono alcune delle nuove teorie. Abbiamo citato solo teorie che hanno avuto un riferimento alla relatività, ma la matematica di fine Ottocento e inizio Novecento è un ribollire di nuove ricerche e nuovi concetti, soprattutto nella sua parte più teorica e astratta, come algebra o teoria dei numeri. Se si volessero fare nomi simbolici si potrebbe menzionare Georg Cantor (1845-1918), artefice della matematica dell'infinito, ma Cantor, nel suo modo di fare matematica, era un uomo del passato: la sua creatura era proiettata nel futuro, ma il modo di trattarla non risentiva di alcuna delle tendenze in corso. A lui si deve, tuttavia, l'aver coniato quello che può essere considerato il motto della nuova matematica, nella dichiarazione che l'essenza della matematica è la libertà. A Cantor interessava principalmente che ai suoi numeri infiniti fosse concesso un posto riconosciuto.

Invece David Hilbert (1862-1943) è il rappresentante più limpido di questa nuova matematica, sia per i suoi contributi diretti, che citeremo, sia per aver creato a Göttingen, dove insegnò dal 1895 al 1930, il centro della matematica europea, e quindi mondiale, ma soprattutto per essersi interrogato sul nuovo modo di fare matematica e per aver elaborato il contributo più originale per la giustificazione della matematica dell'infinito (a prescindere dal successo delle sue proposte).

La sua idea di fondazione ruotava intorno al concetto di metodo assiomatico, che egli vedeva come la forma scientifica della conoscenza, non solo per la matematica, ma per ogni campo conoscitivo; in particolare per le teorie fisiche in cui la matematica svolge un ruolo importante. In questo troverà rispondenza anche in Einstein, quando questi affermerà:

Gli obiettivi della scienza sono, da una parte, una comprensione tanto completa quanto possibile della connessione tra le esperienze sensibili nella loro totalità e, dall'altra, il soddisfacimento di questo obiettivo per mezzo dell'uso di un minimo di concetti e di relazioni primarie.

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Pagina 16

Infine Hilbert si dedicò a precisare il tipo di affidabilità degli strumenti matematici con cui svolgere le dimostrazioni di non contraddittorietà, che fossero possibilmente accettabili dallo stesso Brouwer, per tagliargli l'erba sotto i piedi; e così si formò una nuova disciplina, la metamatematica o teoria della dimostrazione (Beweistheorie), destinata a studiare le questioni epistemologiche emergenti dallo studio delle dimostrazioni.

Alla fine di questi affinamenti, se il programma fosse riuscito si sarebbe proprio potuto dire che si aveva una legittimazione della matematica dell'infinito, senza alcuna teorizzazione filosofica sullo stesso, senza doverne neanche accettare l'esistenza, in alcun senso. Il "risultato conclusivo" sarebbe stato:

La matematica è una scienza senza ipotesi. Per la sua fondazione, non ho bisogno né del buon Dio (come Kronecker), né dell'assunzione di una particolare capacità del nostro intelletto sintonizzata con il principio di induzione completa (come Poincaré), né dell'intuizione originaria di Brouwer, e neanche infine (come Russell e Whitehead) di assiomi dell'infinito, di riducibilità o completezza.


Il programma fu dimostrato irrealizzabile da Kurt Gödel (1907-1972) nel 1930, dopo che, fino al 1928, era prevalso l'ottimismo, alla luce di risultati parziali significativi; ma l'esito nulla toglie alla genialità della visione né alle sue conseguenze e ricadute sulla matematica e sulla logica.

I protagonisti di questo prolungato episodio appaiono due giganti, come Newton e Leibniz, ma impegnati in una disputa per difendere non meschini titoli personali di priorità ma il destino della matematica, per l'"onore dello spirito umano". Hilbert e Brouwer hanno scritto una delle pagine più belle della storia del pensiero: un fuoco di artificio di idee originali e costruzioni di concetti, teorie e risultati tecnici per inverarle, un'eredità di conoscenze nuove e di strumenti che hanno cambiato definitivamente il panorama della logica e della matematica, e anche della filosofia. Abbiamo la fortuna che uno dei partecipanti, Hermann Weyl, avendo militato prima con Brouwer e poi con Hilbert, "arbitro s'assise in mezzo a lor", lasciando una testimonianza obiettiva e un bilancio ragionato delle conseguenze della disputa, oltre a un ritratto tracciato con stima e simpatia dei due principali contendenti.

Noi daremo ampio spazio alle loro voci, ovvero abbonderemo con le citazioni, perché riteniamo che di pensieri così profondi, lucidi e appassionati, e in fondo non impossibili da seguire con un po' di impegno, tutti debbano godere. E la lettura diretta è più chiara di qualsiasi riassunto, e più piacevole. Si legga la pagina in cui Hilbert parla della drosofila, che "è una piccola mosca, ma grande è il nostro interesse per essa"; e il suo entusiasmo per il fatto che le leggi di ereditarietà della drosofila si trovano come applicazione degli assiomi della congruenza lineare, "con tanta semplicità e precisione, e al tempo stesso in una maniera tanto meravigliosa, quale nemmeno la più audace fantasia avrebbe mai immaginato". Abbiamo avuto spesso la tentazione di lasciar parlare solo loro, proponendo semplicemente una raccolta di scritti; poi abbiamo pensato di fare cosa utile inserendo qualche informazione di contorno, soprattutto sui documenti meno accessibili.

Nonostante l'insuccesso, il metodo assiomatico propugnato e strenuamente difeso da Hilbert è diventato il vangelo dei matematici.

[...]

Hilbert è l'eroe della nostra storia, ma non è possibile comprenderne le motivazioni e gli obiettivi se non si è al corrente del suo lavoro matematico, perché la matematica che voleva salvare era quella che lui faceva, e che facevano i suoi allievi e chi confluiva a Göttingen, anche dagli Stati Uniti, per imparare da lui: matematici e fisici. Chi non avesse familiarità con queste informazioni è invitato a leggere prima il capitolo 1, dove sono fornite anche notizie biografiche essenziali.

Non è necessario, tuttavia, conoscere tutti gli argomenti matematici menzionati; non è necessario, per esempio, sapere che cosa sia la teoria dei corpi di classi o la definizione dei numeri ideali di Kummer; l'importante è avere la chiara sensazione che si tratti di argomenti che, nella generazione precedente, erano impensabili, e sarebbero stati considerati incomprensibili, non matematici. Qualcuno dei contemporanei, come Kronecker, li giudicava tali. Cerchiamo di trasmettere questa impressione, mentre per i concetti logici necessari per capire il programma di Hilbert forniremo tutte le definizioni e le spiegazioni necessarie.

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Pagina 36

David Hilbert


Degli autori menzionati finora, Hilbert è quello che maggiormente ha riflettuto sul metodo assiomatico. In "Über den Zahlbegriff", Hilbert aveva chiamato metodo genetico l'introduzione del più generale concetto di numero reale mediante successive estensioni del semplice concetto di numero, dai naturali agli interi ai razionali ai reali ai complessi, per rendere risolubili sempre più ampie classi di equazioni. In geometria, invece, Hilbert notava che si incomincia con l'assunzione dell'esistenza di tutti gli elementi e quindi si pongono questi elementi in certe relazioni tra loro mediante certi assiomi. Il procedimento di indagine qui coinvolto lo ha chiamato metodo assiomatico, distaccandosi definitivamente dalla denominazione "ipotetico-deduttivo".

Ci domandiamo se realmente il metodo genetico sia il solo adeguato per lo studio del concetto di numero e il metodo assiomatico sia il solo adeguato per i fondamenti della geometria; appare interessante anche paragonare i due metodi e ricercare quale sia il metodo più vantaggioso quando si tratti di un'indagine logica dei fondamenti della meccanica e di altre discipline fisiche.

La risposta era la seguente:

La mia opinione è questa: nonostante l'alto valore pedagogico ed euristico del metodo genetico, tuttavia per una definita presentazione e per una piena sicurezza del contenuto della nostra conoscenza merita la preferenza il metodo assiomatico.


Quindi Hilbert iniziava l'esposizione nello stesso modo in cui aveva esordito per la geometria nelle Grundlagen: "Pensiamo un sistema di cose; chiamiamo numeri queste cose, e indichiamoli con a, b, c, ... Pensiamo questi numeri in certe mutue relazioni la cui descrizione precisa e completa avviene mediante i seguenti assiomi [...]".

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2
HILBERT
E LA NUOVA MATEMATICA



La produzione matematica di Hilbert è stata talmente vasta, e profonda, che può essere sufficiente conoscere la sua carriera per avere un'idea del nuovo modo di fare matematica, o almeno per sfiorare i nuovi campi che si aprivano alla ricerca, ché di più non possiamo fare "in sì breve sponda".

Nato vicino a Königsberg, Hilbert compì in quella città gli studi e restò all'università come docente per molti anni, fino a diventare professore, nonostante gli si dicesse che era un posto isolato, non adatto; compensava l'isolamento con frequenti viaggi in Germania e in Francia per incontrare i matematici più importanti e discutere con loro. Aveva stretto una forte amicizia con Hermann Minkowski. Nel 1895 si trasferì a Göttingen per iniziativa di Felix Klein (1849-1925) e lì sarebbe rimasto per tutta la vita.

Scrisse la tesi con Ferdinand von Lindemann (1852-1939) e la tesi di abilitazione sulla teoria degli invarianti. Quindi esordì con il botto.

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Pagina 74

Hilbert ha imposto con il suo lavoro e le sue teorizzazioni un nuovo modo di pensare la matematica e di pensare in matematica. Due sono i tratti distintivi, apparentemente divergenti e in opposizione, e che in effetti hanno dato origine a due tendenze alternative, ma in lui coesistenti: da una parte l'astrazione e la piena accettazione di metodi non costruttivi, dell'infinito, a cui si riferiva come al "paradiso di Cantor", in una parola la teologia, e dall'altra il metodo assiomatico. Per la teologia, Hilbert non aveva dubbi.

Il pregio delle dimostrazioni puramente esistenziali sta proprio nel fatto che con esse si elimina la costruzione particolare e si riassumono con un'idea basilare più costruzioni diverse, cosicché emerge soltanto quel che è essenziale per la dimostrazione. Brevità ed economia di pensiero sono la ragion d'essere delle dimostrazioni esistenziali. I teoremi puramente esistenziali sono stati realmente le più importanti pietre miliari nello sviluppo storico della nostra scienza.


Quando dovrà difenderla dall'intuizionismo dirà: "Togliere al matematico il tertium non datur sarebbe come voler vietare all'astronomo il telescopio o al pugile l'uso dei pugni".

A parte gli strumenti e le tecniche usate, tuttavia, in ogni campo il modo caratteristico di lavorare di Hilbert è stata la soluzione di problemi. Blumenthal lo ha ritratto così: "Hilbert è l'uomo dei problemi. Raccoglie e risolve i problemi sul tappeto. Ne pone di nuovi".

La matematica, secondo Hilbert, si sviluppa attraverso la soluzione di problemi concreti. Soluzione di problemi e costruzione di teorie procedono insieme, perché spesso – e sono i problemi più interessanti – la loro soluzione richiede l'estensione dei concetti e dei metodi dimostrativi. Invece, "chi cerca metodi senza avere un problema definito in mente cerca per la maggior parte invano".

Per questo Hilbert volle offrire a Parigi una lista di problemi aperti, invece di presentare nuovi risultati o metodi, come si fa di solito ai congressi. L'introduzione di "Mathematische Probleme" è un testo che si dovrebbe distribuire agli studenti al momento della loro immatricolazione.

In essa Hilbert presentava alcuni esempi di problemi la cui soluzione è stata origine di avanzamenti in matematica: i problemi devono essere difficili, ma non al punto di scoraggiare il tentativo di risolverli; devono essere chiari, come devono esserlo le teorie matematiche che "non si possono dire complete finché non sono state esposte in modo così chiaro da poterlo spiegare alla prima persona che passa". Discuteva se e come si possa riconoscere l'importanza di problemi, che spesso si può capire solo a posteriori, dalle loro conseguenze. Osservava come uno stesso problema si possa presentare in diverse parti della matematica, come il problema di Johann Bernoulli (1667-1748) della brachistocrona; quali siano le caratteristiche di una soluzione accettabile, che includono necessariamente sempre una dimostrazione finita; i diversi tipi di soluzioni, che si basano sulla generalità o sulla specializzazione; l'importanza delle soluzioni negative, che mostrano come un problema non sia risolubile con i mezzi adoperati, o come nella sua formulazione qualche condizione o ipotesi sia insufficiente o difettosa, e costringa a creare nuovi strumenti, a introdurre nuovi concetti; la fonte di nuove idee, che spazia dalla teoria della conoscenza alla geometria e alle scienze fisiche e naturali; il rigore, che non è soltanto esclusiva dell'analisi, ma riguarda ogni nuova idea, per la necessità di formularla nel modo più chiaro in base a sistemi di assiomi; lo sforzo del rigore, che costringe a trovare metodi di dimostrazione più semplici; il modo in cui alle nuove idee si accompagnano nuovi formalismi, il cui uso è reso possibile solo dalla padronanza degli assiomi che ne stanno a fondamento. La lezione della storia, che tutti i problemi sono stati risolti, o in positivo o dimostrandone l'impossibilità sulla base della strumentazione indicata, sosteneva per Hilbert un assioma della risolubilità di tutti i problemi che egli ripeterà fino alla fine della sua vita.

Nella conferenza di Parigi, Hilbert presentò dieci problemi dei ventitré che aveva preparato e che sono stati pubblicati in "Mathematische Probleme". Alcuni davano per la prima volta una patente di matematicità a questioni di fondamenti: il primo riguardava l'ipotesi del continuo, il secondo la coerenza degli assiomi per l'aritmetica; il sesto l'assiomatizzazione delle "teorie fisiche nelle quali la matematica gioca un ruolo importante". Altri quattro problemi erano tratti dall'aritmetica e dall'algebra, gli ultimi tre dalla teoria delle funzioni.

Hilbert come matematico aveva poi le sue particolari doti, che lo distinguono da altri grandi. Così le descrive Blumenthal, nella sua biografia di Hilbert:

Nell'analisi di un talento matematico si deve distinguere tra l'abilità di creare nuovi concetti che generano nuovi tipi di strutture di pensiero e la capacità, il dono di percepire connessioni profonde e la soggiacente unità. Nel caso di Hilbert la sua grandezza consiste in un'intuizione immensamente potente che penetra nella profondità delle questioni. Tutto il suo lavoro contiene esempi di settori disparati e lontani in cui egli fu in grado di discernere una relazione e connessione con il problema in esame. Da questa intuizione veniva usualmente creata la sintesi, l'opera d'arte. Per quanto riguarda la creazione di nuove idee, metterei Minkowski un gradino più sopra, e dei grandi classici Gauss, Galois e Riemann. Ma per quel che riguarda la penetrazione, solo alcuni dei più grandi lo uguagliavano.


Bisogna ricordare che, ancora in piena attività creativa negli anni Venti, impegnato sui fondamenti, Hilbert fu colpito da una rara malattia, l'anemia perniciosa, con cui riuscì a convivere con non pochi disagi solo grazie a un farmaco nuovo prodotto negli USA e ottenuto grazie alla solidarietà internazionale.

Hilbert terminò la carriera di professore universitario andando in pensione nel 1930; continuò a tenere corsi fino all'inverno 1933-1934. Nel 1933 il ministro dell'istruzione del nuovo governo di Adolf Hitler, in visita a Göttingen, durante un banchetto d'onore chiese a Hilbert come andasse la matematica a Göttingen, ora che la stavano liberando dalla nefasta influenza giudaica; Hilbert rispose: "La matematica a Göttingen? A Göttingen non c'è più niente di matematica". Erano emigrati tra gli altri Edmund Landau (1877-1938), Richard Courant (1888-1972), Emmy Noether (1882-1935); Bernays era tornato a Zurigo.

Nel 1934 e nel 1939 usciranno i due volumi delle Grundlagen der Mathematik, che raccolgono tutto il tesoro dei nuovi risultati e concetti introdotti dalla teoria della dimostrazione nei dieci anni precedenti, incluse le funzioni ricorsive e i teoremi di Gödel, il secondo dimostrato per la prima volta, ma i due volumi furono scritti da Paul Bernays.

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Pagina 115

Münster 1925, l'infinito


Nello stesso 1925 Hilbert rispondeva con un'importante conferenza tenuta a Münster, dove il suo programma veniva meglio definito dalle radici, con una nuova giustificazione e una sintesi che merita di essere meditata con attenzione. La sensazione che Hilbert doveva avere di essere finalmente riuscito a spiegare e ad avviare il programma in modo soddisfacente traspare dal fatto che, nonostante le cattive condizioni di salute, il tono della conferenza è brillante e ricco di passi memorabili ("dal paradiso che Cantor ha creato per noi nessuno deve poter mai scacciarci", "l'analisi matematica non è che una sinfonia dell'infinito", "nessuno, per quanto parli la lingua degli angeli, impedirà alle persone di [...] usare il principio del terzo escluso"), tra cui la ripetizione dell'appello del 1900: "Ecco il problema, trova la soluzione; la puoi trovare mediante il puro pensiero; perché in matematica non c'è l' ignorabimus".

Il punto di partenza dell'esposizione del 1925 era che

non è ancora stato chiarito completamente il significato dell'"infinito" per la matematica.

Nella realtà non si trova l'infinito, secondo Hilbert; la continuità fa pensare a una divisibilità infinita, ma le teorie atomiche e dei quanti contraddicono questa intuizione ingenua; l'infinità dell'universo è ora messa in dubbio da teorie cosmologiche; in particolare, se anche la geometria euclidea non è contraddittoria, questo non significa che essa abbia validità nella realtà, nel senso dell'esistenza di rette infinite nello spazio.

Abbiamo già visto prima che l'infinito non si può mai trovare nella realtà, quali che siano le esperienze, le osservazioni e le scienze a cui si fa appello. E il pensiero sulle cose dovrebbe essere tanto diverso da ciò che avviene con le cose, e svolgersi in maniera tanto diversa, tanto lontano dalla realtà tutta? Non è vero, piuttosto, che quando crediamo di aver riconosciuto la realtà dell'infinito in un qualche senso, abbiamo potuto essere indotti a ciò solo perché di fatto nella realtà incontriamo tanto spesso dimensioni tanto immense sia nel grande sia nel piccolo?

Se l'idea dell'infinito è suscitata in noi dall'impressione delle dimensioni inavvicinabili, potrebbe darsi, anzi dovrebbe succedere che l'applicarla nello studio della natura comporti uno sfasamento tra realtà e pensiero; tale sfasamento non è invece confermato dai risultati della scienza. Allora

[...] potrebbe darsi che l'infinito occupi un posto ben giustificato nel nostro pensiero e che vi svolga il ruolo di concetto indispensabile.

Ma "ancora non è stato chiarito completamente il significato di 'infinito' per la matematica". Che il suo ruolo sia indispensabile è facile convincersene. Già le formule aritmetiche con variabili, come un'equazione dell'algebra, contengono infiniti enunciati.

Ciò costituisce chiaramente la sua caratteristica essenziale, solo in virtù della quale essa può rappresentare la soluzione di un problema aritmetico e rende necessaria una vera e propria dimostrazione, mentre le singole equazioni numeriche [...] possono essere verificate semplicemente mediante il calcolo.

Un ulteriore esempio della indispensabilità del concetto di infinito è rappresentato dal fatto che Weierstrass è riuscito a eliminare infinitesimi e infiniti dall'analisi, ma sono restate le successioni infinite; anche il sistema completo dei numeri, a cui si applicano le leggi logiche come il tertium non datur, è inevitabile. Accettata l'indispensabilità dell'infinito, altrimenti non ci sarebbe matematica, resta da provare che l'uso di questo concetto è giustificato. Il lavoro di Weierstrass deve essere completato mostrando non che l'infinito è eliminabile, perché invero è necessario, ma che è solo un modo di dire, che è necessario come modo di dire. L'infinito "è semplicemente qualcosa di apparente".

Come nei processi di passaggio al limite del calcolo infinitesimale l'infinito, nel senso dell'infinitamente piccolo e dell'infinitamente grande, si è rivelato semplicemente un modo di dire, nello stesso modo dobbiamo riconoscere che anche l'infinito, nel senso di totalità infinita, quando ancora lo incontriamo nei modi inferenziali, è semplicemente qualcosa di apparente. [...] I modi inferenziali basati sull'infinito devono essere sostituiti con processi finiti che fanno gli stessi servizi.

Qui Hilbert inseriva e ripeteva le sue idee, già espresse nel 1922, e che ora gli sembravano ben coerenti, sul pensiero contenutistico, sui segni come precondizione del pensiero e sulla costruzione dell'aritmetica elementare. La teoria finitaria dei numeri "può essere costruita mediante soltanto costruzioni numeriche attraverso argomentazioni intuitive contenutistiche. Ma la scienza matematica non si esaurisce affatto in equazioni numeriche e nemmeno è riducibile soltanto a esse".

Si può però ben asserire che la matematica è un apparato che, applicato a numeri interi, deve dare sempre equazioni numeriche vere.

In questa dichiarazione, sia pure molto sintetica, si intravedono due sviluppi. Da una parte l'idea che la matematica abbia il carattere di una scienza teorica quale Weyl chiedeva in analogia alla fisica: una scienza che non è tutta puntualmente interpretata, ma solo nella sua globalità attraverso le conseguenze verificabili. La seconda idea, solo in nuce, che sarà ulteriormente precisata, è che l'apparato teorico debba essere conservativo rispetto alle affermazioni contenutistiche controllabili.

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Pagina 145

EPILOGO
IN FORMA DI CONTROFATTUALE



Se, affascinati dalla grandiosità e dalle sottigliezze del programma di Hilbert, dopo aver fatto il tifo per lui e averlo visto perdere per un goal "in zona Cesarini", ci chiedessimo: e se il programma di Hilbert fosse stato realizzato? Se non fosse arrivato dalla provincia (dall'ex capitale dell'impero) quell'imberbe giovanotto a dire no, in tono sommesso e educato, come un novello Bartleby positivo, come sarebbe cambiata la storia? Forse non sarebbe cambiata molto: la matematica avrebbe continuato a svilupparsi secondo le linee indicate da Hilbert stesso, come di fatto è successo, sia per il contenuto sia per il ricorso sistematico al metodo assiomatico.

Sarebbe cambiata molto invece la filosofia: la matematica sarebbe stata considerata una scienza senza ipotesi, per la cui fondazione non servono né Dio né facoltà speciali né l'intuizione né gli assiomi della teoria dei tipi; superflua ogni teorizzazione sull'infinito o sulla sua esistenza, e sulla natura degli oggetti matematici. Non solo, la filosofia della matematica non avrebbe più avuto pane per i suoi denti: da dove sarebbero venuti gli esempi per la discussione dei concetti astratti, su cosa si sarebbero confrontati il nominalismo e il realismo?

Chiediamoci anzitutto come mai il metodo assiomatico sia diventato quell'obbligo morale di cui parla Dieudonné nonostante l'impossibilità di garantire la sicurezza delle teorie fondamentali con le dimostrazioni di coerenza. La spiegazione è nella storia delineata nel capitolo 1: i matematici hanno capito il metodo assiomatico indipendentemente dalla preoccupazione sui fondamenti; questa ha avuto una storia parallela, con origine nella paura della punizione per la hybris di aver voluto parlare dell'infinito. I teorici del metodo si sono resi conto che la matematica che facevano poteva essere giustificata e apprezzata e rivelarsi utile come attività intellettuale solo riconoscendo il suo carattere formale: essa è un discorso che non si riferisce a enti dello spazio fisico naturale né a sostanze nascoste, ma che, strutturandosi appunto come un discorso grazie alla costruzione di linguaggi sintatticamente corretti, si presenta come una griglia da imporre, volendo, su diverse realtà. Questo è vero anche per il passato, fin da quando Aristotele ha incominciato a usare le lettere A, ... per indicare proposizioni qualunque; non c'è alcuna matematica ereditata che non si possa leggere come discorso formale, anche se chi la faceva la pensava diversamente. Č bastato, tuttavia, che s'indebolissero e perdessero la loro presa le idee che, nel tempo, ne avevano accompagnato la pratica, cioè che la matematica è lo studio delle grandezze, o la ricerca delle essenze, o il disvelamento di verità necessarie, o il miraggio di un'intuizione, perché la vera natura della matematica diventasse trasparente, perché prevalesse il senso della limitatezza umana, unitamente a quello delle sue potenzialità, su ingiustificate presunzioni o paralizzanti restrizioni. Si ricordino le posizioni di Hertz, Pasch, Beppo Levi discusse nel capitolo 1.

La pratica ha fatto il resto; anche chi diffida di un'eccessiva presenza dell'aspetto deduttivo ha inconsciamente assorbito la lezione del metodo assiomatico sul carattere formale della matematica. Recentemente Michael Harris ha attribuito la creatività di Alexandre Grothendieck (1928-2014) all'uso sistematico del principio che "conoscere un oggetto matematico non è altro che conoscere le sue relazioni con tutti gli altri oggetti della stessa specie": non si deve guardare dentro un oggetto, ma si deve studiare la rete di relazioni con gli altri della stessa categoria di appartenenza.

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Il fallimento del programma di Hilbert non è stato dovuto solo a una geniale illuminazione di Gödel; la dimostrazione ha richiesto l'entrata sulla scena di una nuova matematica. Se dunque Hilbert, oltre ad aver fatto accettare la visione assiomatica, avesse anche avuto successo nel suo programma di dimostrare la coerenza delle teorie dell'infinito, noi saremmo stati orfani solo di quella matematica che ha fatto sì che il programma fallisse: si tratta di una matematica che per la prima volta guarda entro di sé con l'autoriferimento e che, quindi, entra in un maelström dove danzano strani anelli (come sono chiamati in Hofstadter), paradossi, percorsi senza sbocchi, algoritmi che non terminano e dei quali non si sa che non terminano.

Alla luce della dimostrazione di Gödel, Hilbert ci appare improvvisamente uomo del passato, nonostante la sua originalità e le sue idee nuove e coraggiose. La matematica, per Hilbert, riflette il mondo, serve a descriverlo, magari spregiudicatamente anche con modelli a infinite dimensioni; non studia se stessa. Hilbert voleva in verità parlare della matematica con la matematica: questa è una delle sue idee più brillanti; e se non avesse fatto il primo timido passo facendo convergere sul tema della coerenza un groviglio di intrecci logici, forse Gödel non si sarebbe interessato alla questione della completezza.

Ma Hilbert aveva concepito per i suoi obiettivi solo l'artificio della formalizzazione, affiancandolo a una matematica speciale elementare per studiare le copie formali e pulite della matematica vera. Aveva pur sempre l'impegno morale di garantire la sicurezza alla matematica. Non andava dentro, non vedeva l'abisso, si fermava al confine. Per ironia della sorte, proprio le proposizioni universali che Hilbert prendeva come esempio di formule che comunicavano infinite equazioni, e non potevano essere trattate con il tertium non datur, se non formalizzate, nascondevano nelle loro pieghe un'altra dimensione di uno spazio superiore. Hilbert pensava a enunciati classici, come quelli di Fermat, o Goldbach; era solare, non concepiva e non costruiva patologie.

Gödel, invece, non ha usato solo la formalizzazione per esplorare i nuovi abissi, ha aggiunto le codifiche: la rappresentazione dei simboli aritmetici mediante numeri e delle operazioni sintattiche mediante funzioni numeriche realizzava come in uno specchio una riflessione del linguaggio negli oggetti studiati dal linguaggio. Le codifiche sono funzioni ricorsive primitive, rappresentate da formule con i quantificatori ristretti, cioè formule universali come quella di Fermat. E con queste costruiva frasi che parlano di frasi, che parlano di se stesse.

Per intuire la possibilità delle codifiche, occorreva essere nati dopo che le antinomie si erano installate dentro la matematica, e non vederle arrivare e cercare di difendersi da esse, come chi ha un campo da curare e si preoccupa di estirpare nuova vegetazione sconosciuta. Occorreva uno sguardo ammirato e interessato alle nuove fluorescenze, ai loro colori e intrichi esotici. Per Gödel l'antinomia di Richard era un modo di intrecciare parole e numeri in nuove tecniche, non qualcosa che riguardava solo la grammatica (diceva Peano) o la logica, e che si appoggiava a un concetto non ben definito (Zermelo).

Se il programma di Hilbert avesse avuto successo, questo nuovo mondo non sarebbe esistito. Perché il programma di Hilbert potesse aver successo, questo nuovo mondo non sarebbe dovuto esistere. Ma aveva già messo le radici. Se lo avesse ignorato, Alan Turing (1912-1954) avrebbe forse ugualmente inventato le sue macchine, per risolvere l' Entscheidungsproblem di Hilbert; o forse no, perché i problemi indecidibili si dimostrano tali con lo stesso ragionamento dell'incompletezza. Ci sarebbe mancata l'affascinante teoria della calcolabilità, più esattamente la parte riguardante l'esistenza del non computabile, ma non ci sarebbero mancati modelli astratti di computazione (i neuroni di McCulloch e Pitts [1943], gli automi cellulari di von Neumann) e i calcolatori. Ce li avrebbero regalati ugualmente le esigenze della guerra, lo sviluppo dell'EDVAC (Electronic Discrete Variable Automatic Computer), con il programma memorizzato aggiunto alla macchina analitica di Babbage, realizzata elettronicamente; Ada Lovelace vi era andata vicino; magari lo avrebbe concepito von Neumann, finalmente arrivando primo in una scoperta epocale.

La completezza dell'aritmetica sarebbe rimasta un problema aperto, oppure sarebbe anche stata dimostrata, se la matematica dell'abisso fosse rimasta nascosta nel profondo, senza emergere e interferire. Come sarebbe stato possibile?

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