Copertina
Autore Jack London
Titolo John Barleycorn
SottotitoloRicordi alcolici
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2008, Letterature , pag. 290, cop.fle., dim. 12,2x19x2,2 cm , Isbn 978-88-02-08015-4
OriginaleJohn Barleycorn [1913]
PrefazioneAndrea C. Pinketts
TraduttoreLuciano Bianciardi
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe narrativa statunitense
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Pagina IX

Prefazione

Il richiamo della taverna


I duri vanno presi con le molle. Ma devono essere molle molto molli. Quasi languide come carezze vellutate (se richieste) sul pelo sullo stomaco. E il vecchio Jack non è mai riuscito a diventare anagraficamente vecchio, essendosene andato in cerca di nuove avventure ultraterrene all'età di trentotto anni vissuti spericolatamente. Ma duro lo è stato assolutamente, perlomeno nell'accezione del termine che dà Pierre Corneille: «Un po' di durezza sta bene alle anime grandi». Il vecchio Jack aveva un'anima grande come il mondo che ha girato in lungo, in largo e di traverso. Soprattutto di traverso, essendo un trasversale della vita. Si potrebbero far sue le parole di Oscar Wilde quando sostiene di aver messo nelle sue opere il proprio talento e regalato e relegato il genio a quell'affare che chiamiamo vita. Ora, la vita di Jack è di una generosità non ricambiata dalla posterità. Contrabbandato, lui che era stato un contrabbandiere, come uno scrittore alla Zane Grey avvilito da edizioni di letteratura per ragazzi rigorosamente purgate, ha in realtà sempre incarnato l'avventuriero della parola, il cantore dell'esperienza stonata ma irresistibile. Una vita non gli bastava e una vita non gli è durata abbastanza. In un mio romanzo sostenevo che la vita è corta, non breve, ma larga. Pensavo a me ma pensavo anche a lui, anche se me ne rendo conto solo adesso. Persino l'incipit della sua vita terrestre è degno di nota. Figlio non riconosciuto di un astrologo ambulante irlandese, tale William Chaney, riconosciuto come figlio di buona donna per l'abbandono, e di Flora Wellman, una scozzese che praticava l'occultismo, il vecchio Jack non era nato sotto una buona stella. Per questo ha fatto vedere le stelle, a suon di cazzotti, a un sacco di malcapitati e altre stelle, quelle lontane, le avrebbe scoperte grazie alla scrittura e ad un autobiografismo pre-hemingwayiano. Fateci caso: il vecchio Jack giovanissimo fu ladro di perle, e le sue parole sono perle. Forse non di saggezza, ma di vitalismo. Fu cercatore d'oro e le sue parole sono pepite d'oro in mezzo ai detriti di una vita scombinata. Fu picchiatore di tipacci improvvisandosi boxeur e le sue parole sono uppercut al sorriso di compatimento dei benpensanti. Fu reporter di guerra, giornalista investigativo infiltrato nei bassifondi di Londra, forse per restituire qualcosa a London, nel senso di John, l'uomo che gli fece da padre, e le sue parole sono inchieste sugli orrori marziali e sociali. Fu vagabondo e marinaio e le sue parole sono viaggi da clandestino su treni e imbarcazioni. Ei fu, forse siccome, ma mai immobile, un Napoleone con la coazione a ripetere numerose Waterloo alternandole a schiaccianti vittorie letterarie.

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Pagina 3

Capitolo I


Mi successe tutto un giorno di elezioni. Era un caldo pomeriggio californiano, e a cavallo io avevo traversato la Valle della Luna per andare dalla fattoria al piccolo villaggio a votare Sì oppure No a un sacco di emendamenti proposti alla Costituzione della California. Data la calura della giornata, mi feci diverse bevute prima di dare il mio voto e diverse altre dopo aver votato. Poi, sempre a cavallo avevo ripreso la mia strada attraverso i vigneti e i pascoli della fattoria arrivando a casa giusto in tempo per bere ancora e cenare.

«Come hai votato sull'emendamento al suffragio?» chiese Charmian.

«Ho votato a favore».

Lei fece un'esclamazione di sorpresa. Infatti, sia ben noto, ai miei verdi anni, nonostante la mia fervida democrazia, mi ero opposto al voto alle donne. Quando gli anni mi crebbero e si fecero più tolleranti, la mia accettazione ebbe meno entusiasmo, come dinanzi a un fenomeno sociale inevitabile.

«E perché hai votato a favore?» chiese Charmian.

Risposi. Risposi a lungo. Risposi sdegnato. Più rispondevo e più mi sdegnavo. (No non ero ubriaco. Non a caso la cavalla che avevo montato si chiamava «La Fuorilegge». Avrei voluto vedere un ubriaco cavalcarla).

Eppure — come dire? — ero su di giri. Mi sentivo «bene», provavo una piacevole eccitazione.

«Se le donne ottengono il voto, votano per il proibizionismo» dissi. «Voglio dire saranno le mogli, le sorelle, le madri, e loro soltanto, che pianteranno i chiodi nella bara di John Barleycorn ...».

«Ma io credevo che tu fossi amico di John Barleycorn» intervenne Charmian. «Sono amico. Ero amico. Non sono più amico. Non lo sono mai stato. E mai sono meno amico che quando l'ho vicino e più sembro amico suo. È il re dei bugiardi. È il più franco degli uomini sinceri. È l'augusto compagno con cui si cammina in compagnia degli dei. È anche in combutta con la Senza Naso. La sua via porta alla verità nuda, e alla morte. Ti dà vista chiara, e sogni torbidi. È nemico della vita, e maestro di saggezza oltre la visione della vita. È un assassino con la mano rossa e massacra la gioventù».

E Charmian mi guardava, e si domandava — lo sapevo — dove avessi pescato questa roba.

Continuai a parlare. L'ho già detto, ero su di giri. Nel mio cervello ogni pensiero era di casa. Ogni pensiero, nella sua celletta, pronto già vestito alla porta, come un prigioniero a mezzanotte che aspetta di evadere dal carcere. E ogni pensiero era una visione, chiara, nitida, inconfondibile. Il mio pensiero era illuminato dalla luce bianca e chiara dell'alcol. John Barleycorn subiva un accesso di sincerità, dava via i più riposti segreti di sé medesimo. E io ero il suo portavoce. Erano in moto le moltitudini dei ricordi della mia vita passata, tutti ben disposti come soldati in una grande parata. Toccava a me prendere, scegliere. Ero padrone del pensiero, maestro del mio vocabolario e di tutta la mia esperienza, infallibilmente capace di scegliere i miei dati e costruire la mia esposizione. È così che John Barleycorn gioca e alletta, e affida ai capricci dell'intelletto il compito di mormorare le sue fatali intuizioni della verità, e infila brani di porpora nella monotonia dei tuoi giorni.

Tracciai la mia vita a Charmian, e le esposi la struttura della mia costituzione. Non ero un alcolista ereditario. Non ero nato con alcuna predisposizione chimica, organica all'alcol. Per questo ero normale nella mia generazione. L'alcol era un gusto acquisito. Penosamente acquisito. L'alcol era stata una cosa ripugnante, da morire, più schifosa di qualsiasi medicina. Neanche ora me ne piaceva il gusto. Lo bevevo solo perché mi teneva su. E dai cinque ai venticinque anni non mi era mai fregato niente del suo tenermi su. Venti anni di involontario apprendistato erano occorsi per rendermi desideroso dell'alcol nel profondo del cuore e delle viscere.

Accennai ai miei primi contatti con l'alcol, dissi delle mie prime ubriacature e repulsioni, e sempre feci notare la sola cosa che alla fine l'aveva avuta vinta su di me, vale a dire la disponibilità dell'alcol. Non solo era sempre stato disponibile, ma ogni interesse della mia vita nel suo crescere mi aveva accostato ad esso. Ragazzo dei giornali, marinaio, minatore, vagabondo in terre lontane, sempre dove gli uomini si ritrovano a scambiare idee, a ridere, a vantarsi, a darsi le arie, a riposare, a dimenticare l'ottusa fatica delle notti e dei giorni stancanti, sempre si ritrovano attorno all'alcol. Il saloon era il posto di ritrovo. Gli uomini vi si riunivano come i primitivi attorno al fuoco, accoccolati, o all'imbocco della caverna.

Rammentai a Charmian le case naviganti che le furono vietate nel Pacifico Meridionale, dove i cannibali dai capelli crespi sfuggivano le femmine e facevano festa e si ubriacavano da soli, nel loro sacrario, tabù alle donne sotto pena di morte. Da giovane, grazie al saloon, ero sfuggito alle strettoie dell'influenza donnesca nel vasto mondo libero degli uomini. Tutte le strade portano al saloon. Le mille strade del fascino e dell'avventura facevano centro sul saloon, e di lì portavano fuori, verso il mondo.

«Il fatto è» dissi, come a concludere il mio sermone, «che la disponibilità dell'alcol mi ha dato il gusto dell'alcol. Non me ne importava niente. Anzi mi faceva ridere. Eppure eccomi qui, alla fine, posseduto dal desiderio del bevitore. Ci vollero venti anni a piantare quel desiderio e per dieci anni quel desiderio continuò a crescere. E il risultato della soddisfazione di quel desiderio è tutto fuor che bene. Come temperamento io sono uomo di cuore buono e lieto. Eppure quando cammino con John Barleycorn, soffro tutta la dannazione del pessimismo intellettuale.

«Però», mi affrettai ad aggiungere (sempre mi affretto ad aggiungere), «John Barleycorn deve avere il suo dovuto. Egli dice la verità. Ecco la maledizione. Le cosiddette verità della vita non sono vere. Sono le bugie vitali grazie alle quali vive la vita, e allora John Barleycorn le smentisce».

«Ciò che non giova alla vita» disse Charmian.

«Verissimo» risposi. «E questo, accidenti, è l'aspetto più perfetto di tutto quanto. John Barleycorn giova alla morte. Ecco perché oggi ho votato a favore dell'emendamento. Ho riletto la mia vita e ho rivisto come la disponibilità dell'alcol me ne ha fatto venire il gusto. Vedi, in una generazione nascono ben pochi alcolisti. E per alcolista intendo un uomo la cui chimica brama l'alcol, e lo porta irresistibilmente verso di esso. La grande maggioranza dei bevitori abituali sono venuti al mondo non soltanto senza desiderio dell'alcol, ma addirittura con una vera e propria ripugnanza all'alcol. Non il primo, non il ventesimo, non il centesimo bicchiere riesce a dargliene il gusto. Ma hanno imparato, allo stesso modo in cui altri uomini imparano a fumare, anche se è infinitamente più facile imparare a fumare che a bere. Hanno imparato perché l'alcol è così disponibile. Le donne sanno il trucco. Pagano per questo, mogli sorelle e madri. E quando si verrà al voto, voteranno per il proibizionismo. E in questo modo ecco il meglio della faccenda, non ci sarà prepotenza contro la prossima generazione. Non avendo accesso all'alcol, non essendo predisposti all'alcol, non sentiranno mai la mancanza dell'alcol. Questo significherà vita più rigogliosa per la maturità dei giovani nati e cresciuti, sì, e vita più rigogliosa per le ragazze nate e cresciute a condividere la vita dei giovani».

«Perché non scrivi queste cose a beneficio dei giovani e delle giovani di domani?» chiese Charmian. «Perché non scriverlo, al fine di aiutare le mogli e le sorelle e le madri a scegliere come votare?».

«I "Ricordi di un alcolista"» dissi con scherno, o meglio, lo disse John Barleycorn; infatti stava seduto con me al tavolo, a sentire questa chiacchierata gradevole e filantropica, ed è uno dei trucchi di John Barleycorn volgere il sorriso a scherno senza neanche darti un attimo di avviso.

«No» disse Charmian ignorando la rozzezza di John Barleycorn, come sanno fare ormai molte donne. «Ti sei dimostrato non dipsomane, non alcolista, ma solo bevitore abituale, uno che ha fatto la conoscenza di John Barleycorn molti anni or sono, e che con lui ha fatto amicizia stretta. Scrivi tutto questo, e scegli per titolo Ricordi alcolici.

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Capitolo II


Ma prima di cominciare debbo chiedere al lettore di seguirmi con piena simpatia, e siccome la simpatia è semplicemente comprensione, debbo chiedergli di cominciare da me e dalle cose di cui scrivo. In primo luogo, io sono un bevitore stagionato. Non ho una predisposizione costituzionale all'alcol. Non sono uno stupido. Non sono un maiale. Conosco il gioco del bere dall'A alla Z, e nel bere ho usato giudizio. Mai è successo che abbiano dovuto portarmi a letto. E neanche barcollo. Insomma, sono un uomo normale, medio, per quanto riguarda il bere. E questo è il punto: sto scrivendo degli effetti che ha l'alcol su di un uomo normale, medio. Non ho neanche una parola da dire circa (o a favore) il dipsomane, il quale rappresenta un eccesso, d'importanza appena microscopica.

Esistono, grosso modo, due tipi di bevitori. C'è l'uomo che tutti conosciamo, stupido, privo di fantasia, col cervello ottusamente roso da ottuse ubbie; quello che cammina vistosamente a gambe larghe, azzardando il passo, che di frequente cade per terra, e che vede, al sommo della sua estasi, topi azzurri ed elefanti rosa. È il tipo che dà vita alle barzellette sui giornali umoristici.

L'altro tipo di bevitore ha fantasia, visione. Anche quando è piacevolmente su di giri, cammina diritto, naturale, non barcolla, non cade, sa dove si trova e quello che sta facendo. Non il suo corpo, ma il suo cervello è ubriaco. Può darsi che cianci spiritosamente, o che si lasci andare alla simpatia verso il suo prossimo. Può darsi che veda spettri e fantasmi intellettuali che sono cosmici e logici e che pigliano la forma del sillogismo. Proprio quando è in queste condizioni egli si spoglia del loglio delle più vitali illusioni della vita e considera gravemente il collare di ferro della necessità fissato al collo della sua anima. Questa è l'ora della sottile potenza di John Barleycorn. È facile a tutti rotolare per terra. Ma è una prova tremenda, per un uomo, stare diritto su due gambe senza barcollare, e decidere che in tutto l'universo egli trova per sé una libertà soltanto, e cioè l'anticipare il giorno della sua morte. Per quest'uomo questa è l'ora della logica bianca (di cui si dirà oltre), quando egli sa di poter conoscere soltanto le leggi delle cose, ma non il significato delle cose. È l'ora del pericolo, questa. I suoi piedi già fanno presa sul sentiero che conduce alla tomba.

Per lui tutto è chiaro. Tutte queste confuse chiacchiere sull'immortalità non sono altro che la paura di anime spaurite dal terrore della morte, e maledette dallo stramaledetto dono della fantasia. Non hanno l'istinto della morte, non hanno la volontà di morire quando arriva il momento della morte. Si illudono a credere che vinceranno la gara, e che vinceranno un futuro, lasciando gli altri animali all'oscurità della fossa o al calore che annienta del forno crematorio. Ma lui, voglio dire quest'uomo nell'ora della logica bianca, sa che costoro s'ingannano e si nutrono d'illusioni. Quello è il solo evento che tocca a tutti, egualmente. Non c'è cosa nuova sotto il sole, neanche questa fanfaluca che tanto bramano le anime deboli e che si chiama immortalità. Ma sa, lui sa, lui che se ne sta in piedi con le gambe che non barcollano. È composto di carne, di vino, di favilla, di festuche di sole, di polvere del mondo, fragile meccanismo fatto per correre un tratto, fatto per subire l'assillo dei dottori della divinità e dei dottori della malattia, e per essere alla fine buttato via nel mucchio.

Certo, tutto questo è schifo dell'anima, schifo della vita. È lo scotto che deve pagare l'uomo di fantasia per la sua amicizia con John Barleycorn. Lo scotto che paga l'uomo stupido è più semplice, più facile. Con il bere si riduce alla incoscienza dello stolto. Dorme un sonno drogato, e se sogna, i suoi sogni sono fiochi e inespressi. Invece all'uomo di fantasia John Barleycorn invia i sillogismi spietati e spettrali della logica bianca. Guarda la vita e le cose della vita con l'occhio invidioso di un filosofo pessimista tedesco. Vede al di là di tutte le illusioni. Trasvaluta tutti i valori. Dio è male, la verità è un inganno, e la vita uno scherzo. Dalle sue alture folli e quiete, con la certezza di un dio, tutta la vita gli appare un male. Moglie, figli, amici – nella chiara, bianca luce della logica, sono disvelati come frodi e inganni. Vede oltre, e tutto quello che vede è la loro fragilità, la loro meschinità, la loro pietosa sordidezza. Non lo ingannano più. Sono piccoli, miserabili egoismi, come ogni altra minuscola creatura umana, che vivono una loro vita da lucciola, di un'ora. Non hanno libertà. Sono pupazzi del caso. Anche lui lo è. Lui lo capisce. Ma una differenza c'è. Lui vede; lui sa. E conosce la sua unica libertà: che può anticipare il giorno della sua morte. E questo non va bene per un uomo che sia fatto per vivere e amare ed essere amato. Eppure il suicidio, repentino o lento, uno spruzzo improvviso o un lento gocciare negli anni, è il prezzo che esige John Barleycorn. Non c'è amico, fra i suoi, che sfugga alla giusta dovuta scadenza.

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Pagina 13

Capitolo III


Avevo cinque anni la prima volta che mi ubriacai. Era una giornata calda, e mio padre arava nel campo. Mi avevano mandato da casa – un mezzo miglio – a portargli un secchio di birra. «E stai attento a non versarlo», fu l'ordine al mio partire.

Era, me lo rammento, un secchio da strutto, di bordo molto largo e senza coperchio. Al mio andare, la birra traboccava e mi bagnava le gambe. Camminando, riflettevo. La birra era una cosa molto preziosa. A ripensarci doveva essere meravigliosamente buona. Altrimenti, perché mi avrebbero sempre proibito di berla, in casa? Altre cose che i grandi mi vietavano erano poi parse buone. Dunque anche la birra era buona. Fidati dei grandi. Quelli sanno. In ogni modo, il secchio era troppo colmo, io me lo sbattevo sulle gambe e la versavo per terra. Perché sprecarla? E nessuno avrebbe mai saputo se l'avevo bevuta o versata.

Ero così piccolo che per maneggiare il secchio, mi misi a sedere e me lo tirai in grembo. Dapprima sorseggiai la spuma. Rimasi deluso. Non pareva poi tanto preziosa. Evidentemente la preziosità non stava nella spuma. E il gusto non era poi troppo buono. Poi ricordai che i grandi, prima di bere, spazzavano via la spuma. Ci tuffai la faccia e succhiai il liquido compatto, sottostante. Non era affatto buona. Eppure bevvi ancora. I grandi sapevano il fatto loro. Considerata la mia poca mole e la grandezza del secchio che mi tenevo in grembo, e il fatto che bevevo trattenendo il fiato con la faccia sepolta fino alle orecchie nella spuma, era piuttosto difficile valutare quanta ne bevessi. Non solo, la mandavo giù come se fosse medicina, con una fretta nauseata di por termine a quella dura prova.

Ebbi un brivido quando ripresi il cammino, e intanto pensavo che il sapore buono sarebbe venuto dopo. Provai diverse altre volte, durante quel lungo mezzo miglio. Poi sbalordito dalla quantità di birra che mancava, e rammentando che si poteva far schiumare daccapo la birra rafferma, presi uno stecco e l'agitai fino a che la schiuma arrivò all'orlo.

E mio padre non si accorse di nulla. Vuotò il secchio con la vasta sete dell'aratore accaldato, mi rese il secchio e ricominciò ad arare. Io faticavo a camminare accanto ai cavalli. Rammento d'aver inciampato nei loro zoccoli, e che mio padre tirò le briglie con tanta forza che per poco i cavalli non mi caddero addosso. Mi disse che era solo per una faccenda di centimetri se non ci avevo rimesso le budella. Ricordo anche, vagamente, che mio padre mi portò in braccio fino agli alberi, sul ciglio del prato, mentre tutto il mondo mi ruotava attorno, e io avvertivo una nausea mortale, che s'accompagnava a una tremenda ammissione di peccato.

Dormii tutto il pomeriggio sotto gli alberi, e quando mio padre mi svegliò al tramonto, fu un ragazzino davvero malridotto quello che si alzò e stancamente si trascinò fino a casa. Ero esausto, oppresso dal peso delle mie membra, e avevo nello stomaco come una vibrazione d'arpa che mi arrivava alla gola e al cervello. La mia era la condizione di chi ha combattuto con il veleno. E in verità, ero rimasto avvelenato.

Nelle settimane e nei mesi che seguirono mi tenni lontano dalla birra come mi tenevo lontano dalla stufa dopo che mi ci ero scottato. I grandi avevano ragione. La birra non era roba da bambini. I grandi se la potevano permettere, allo stesso modo in cui si potevano permettere di prendere le pillole e l'olio di ricino. In quanto a me, potevo cavarmela benissimo anche senza la birra. Sì, e fino al giorno della mia morte avrei potuto cavarmela, senza. Ma le circostanze decisero altrimenti. A ogni mia svolta del mondo in cui vivevo c'era John Barleycorn, che ammiccava. Non c'era verso di sfuggirgli. Tutte le strade portavano da lui. E ci vollero vent'anni di contatto, di reciproche cortesie, di segreti accenni, a far sorgere in me una abietta simpatia per questo manigoldo.

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