Copertina
Autore Davide Longo
Titolo L'uomo verticale
EdizioneFandango, Roma, 2010, , pag. 400, cop.fle., dim. 14,8x21x2,2 cm , Isbn 978-88-6044-137-9
LettoreFlo Bertelli, 2010
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

Leonardo scostò la tendina e diede una lunga occhiata al cortile dov'erano posteggiate tre auto, una delle quali era la sua. Lo spiazzo era cinto da una rete metallica alta tre metri sulla cui sommità correva del filo spinato. La sera prima, accecato dalla luce che l'uomo di guardia gli puntava in viso, aveva intuito la sagoma della torretta, ma ora notò che era stata costruita con perizia assemblando vecchi pannelli pubblicitari, lamiere, pezzi di ringhiera, un box doccia e una scala antincendio. Dei due fari che la sormontavano, uno era puntato verso il cortile, l'altro rivolto al desolato niente oltre la recinzione.

Guardò i campi piatti coperti di basse sterpaglie dove la strada si allontanava curvando di tanto in tanto malgrado nessun ostacolo la obbligasse a farlo. Il cielo fin dove lo si poteva scorgere era di un grigio monotono e senza squarci, in tutto simile a quello dei giorni passati.

Un uomo comparve nel cortile.

Leonardo lo osservò dirigersi con passo lento verso le auto e girarci intorno scrutando all'interno attraverso i finestrini: portava un giubbotto di pelle e pantaloni con grosse tasche laterali. Poteva avere trent'anni e il suo fisico era compatto come quello di un rugbista.

— Perché non stanotte? — pensò vedendolo fermarsi di fronte al baule della sua Polar.

L'uomo tolse di tasca un cacciavite o un coltello e con una mossa semplice aprì il bagagliaio.

Per qualche secondo studiò le taniche cercando di capire cosa contenessero, poi svitò uno dei tappi e lo annusò. Quando ebbe chiaro di cosa si trattava rimise il tappo, afferrò una delle quattro taniche e, dopo aver chiuso il portello, se ne andò con passo identico a quello con cui era arrivato.

Leonardo lasciò cadere la tendina e andò al comodino dove aveva posato la bottiglia dell'acqua. Ne bevve un sorso e sedette sul letto. Dal corridoio arrivarono dei passi e il rumore di qualcosa con le ruote che veniva spinto in direzione delle scale.

La sera aveva esitato a lungo al momento di decidere se fosse meglio lasciare le taniche in auto o portarle in camera, ma dopo averci riflettuto a lungo concluse che in fin dei conti aveva fatto la cosa giusta, o la meno sbagliata, e che se le taniche fossero state nella stanza sarebbe stato peggio.

Andò in bagno, prese dalla mensola il beauty e lo mise nella sacca che aveva preparato sul letto. In una tasca laterale ripose la maglietta e le mutande che si era cambiato dopo la doccia, quindi infilò la giacca e uscì dalla stanza, lasciando la chiave nella porta come gli era stato detto di fare.

Percorrendo il corridoio diede un'occhiata ai quadri alle pareti: fagiani morti su tavoloni di legno, ceste di frutta e stoviglie di peltro. L'odore era quello di verdura cotta sentito la sera, ma la pioggia caduta nella notte aveva sollevato dalla moquette un afrore umido di sottobosco.

Sulla prima rampa di scale trovò una donna anziana aggrappata al corrimano. Quando le domandò se avesse bisogno di aiuto, la signora, avvolta in un tailleur di lana molto fuori stagione, lo guardò con assoluta indifferenza, come se ad attirare la sua attenzione fosse stato il rumore di una porta che sbatte, quindi voltò il viso verso la tappezzeria. Leonardo, scusandosi, le sfilò accanto e scese nell'atrio.

L'ambiente, nonostante una statua di gesso, una pianta finta e un tappeto con molte bruciature, rivelava di essere stato tutt'altro fino a poco tempo prima. Sulle pareti restavano i segni di scaffali e mensole divelti con poca cura e grossi tubi di piombo correvano lungo il soffitto. La porta che dava sul cortile era protetta da una pesante inferriata. Oltre si scorgevano le auto e il cancello di ingresso. Nelle pozzanghere si allargava qualche cerchio, ma l'aria si intuiva già pesante e afosa.

— Le hanno dato fastidio i cani? — chiese l'uomo dietro il bancone senza alzare gli occhi da alcuni foglietti che aveva allargato sulla scrivania. Non indossava più il maglione verde della sera prima, quando gli aveva chiesto il denaro in anticipo e mostrato come usare il gettone per l'acqua calda nel bagno comune.

— Ci sono branchi che la notte si avvicinano alla recinzione. Abbiamo provato ad avvelenarli, ma il problema non si è risolto.

Leonardo lo guardò firmare uno dei fogli con grafia diagonale. La sua testa era lucida, come fosse abituato a cospargerla di grasso e sfregarla con un panno di lana ogni mattina. Contro il muro alle sue spalle era poggiata la rete metallica di un letto su cui erano appuntate con mollette da bucato molte cartoline di località ormai irraggiungibili. Sul bancone restavano le impronte di oggetti che dovevano esserci stati poggiati. Una delle impronte sembrava quella di un computer. Il telefono invece c'era ancora, ma dall'apparecchio non usciva alcun cavo.

— Credo manchi qualcosa dalla mia auto — disse Leonardo.

L'uomo si voltò verso la rete metallica, staccò un paio di tessere del carburante e prese a copiarne il codice sul registro. Quando ebbe finito, tolse un pacchetto di sigarette dalla tasca della camicia e ne accese una.

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La notizia a suo tempo si era diffusa prima tra il corpo docente, poi in famiglia e nell'ambiente letterario, e solo da ultimo sui giornali e tra gli studenti.

Leonardo era stato uno degli ultimi docenti a riceverla e il primo della sua famiglia. Il telefono aveva squillato alle sei di sera e la voce composta del rettore all'altro capo del filo l'aveva pregato, malgrado l'ora insolita, di raggiungere al più presto l'ateneo per chiarire un episodio increscioso su cui lui solo avrebbe potuto far luce.

L'incontro era durato un paio d'ore e aveva visto alternarsi nell'ufficio una decina dei docenti più influenti e più anziani della facoltà. Nessuno aveva lasciato intendere di poter prendere per vero quanto stava scritto nella lettera che accompagnava il video e le fotografie, ma nessuno aveva nemmeno chiesto a Leonardo conferma circa la veridicità di quelle immagini, né tantomeno ragione dei suoi reali rapporti con la ragazza.

Il giorno successivo era rimasto a casa: lezione annullata per malattia, aveva suggerito il rettore. Leonardo aveva trascorso la mattina nello studio davanti al computer spento, ascoltando le telefonate di Alessandra, che nella stanza a fianco concordava con le riviste d'arte per cui lavorava il piano mensile delle mostre da recensire, finché a pranzo, davanti a un'insalata di gamberetti e avocado aveva deciso di affrontare l'accaduto.

Alessandra da principio aveva sospettato si trattasse di un gioco per sondare le sue reazioni, per cui aveva reagito sorniona, ma, constatati il pallore di Leonardo e il tremore sulle sue labbra, aveva chiesto esplicitamente al marito se si fosse davvero fatto quella sciacquetta e in che cosa consistesse il materiale video-fotografico.

Leonardo aveva raccontato tutto con molta calma e con altrettanta calma Alessandra era rimasta chiusa per un paio d'ore nel suo studio a riflettere. Dopodiché si era scatenato il putiferio degli insulti e il lancio degli oggetti, accompagnato in serata dallo sfregio di tutti i libri disposti nella parte bassa delle librerie.

Leonardo aveva assistito avvilito e impotente a quel crescendo di violenza contro i suoi volumi, definiti "falsa merda intellettuale", poi si era ritirato nel lettino della figlia che, vista la situazione, avrebbe trascorso la notte a casa dei nonni.

Il giorno seguente, quando dalle nove del mattino il video e le fotografie erano stati disponibili in rete a chiunque avesse saputo digitare le tre parole chiave giuste, il telefono di casa non aveva mai smesso di squillare e le urla di Alessandra, della madre di Alessandra e del padre di Alessandra si erano alternate e sovrapposte fino alla decisione di Leonardo di trasferirsi per un paio di giorni, il tempo di lasciare passare la tempesta, nell'anonimo albergo fuori città dove sarebbe poi rimasto per i successivi sette mesi.

Il primo a farsi vivo, dopo che la notizia era approdata ai giornali, non era stato uno dei due o tre amici che Leonardo supponeva di avere tra gli scrittori, ma un collega dell'università: un uomo sulla cinquantina, aitante e di mediocri capacità, con cui Leonardo aveva sempre e soltanto scambiato qualche parola durante le riunioni.

La proposta di vedersi per un caffè aveva per questo insospettito Leonardo, avvertito dalla casa editrice di molte richieste avanzate da giornali seri e meno di un'intervista molto ben pagata, in cui avrebbe potuto esporre la sua versione dei fatti. Il senso di solitudine opprimente di quei giorni, tuttavia, aveva vinto ogni timore, spingendolo ad accettare l'incontro che era stato fissato in un bar a fianco di una stazione secondaria della città, in uno slargo che il Comune aveva tentato di riqualificare costruendo un'enorme fontana che spaventava i bambini e intristiva i vecchi con ricordi di guerra.

Renato, questo era il nome del docente di sociologia, lo aspettava a un tavolino d'angolo lontano dalle vetrate. Capelli corti, spalle larghe da nuotatore e viso abbronzato nonostante l'autunno, l'uomo era l'immagine della salute e della voracità. Ricordava uno di quei leoni alati con cui terminano i corrimano delle scale di alcuni palazzi dove non è stato lesinato il marmo. Si erano stretti la mano e, una volta seduti, avevano ordinato una spremuta d'arancia e un caffè d'orzo.

— Siamo entrambe persone d'intelligenza superiore aveva esordito Renato — quindi mi permetterai di saltare i "mi dispiace" e i "posso immaginare come ti senti".

Leonardo aveva annuito nella maniera più virile che la sua figura allampanata gli consentisse.

— Sono qui non solo a nome mio — aveva continuato Renato — ma di molti colleghi, la maggior parte dei quali te lo dico subito non avrà il coraggio di sostenerti pubblicamente, ma che condividono la stima nei tuoi confronti e pensano che quel che è successo non sia altro che la logica conseguenza delle cose.

Leonardo aveva atteso, ma l'uomo non sembrava intenzionato a dire altro.

Quali cose? — si era visto costretto a domandare Leonardo.

L'uomo aveva sorriso, come uno skipper esperto a cui una radio per turisti consigli di non uscire in mare per il maltempo.

— La maggior parte delle studentesse — aveva detto sono puttane e usano il corpo per arrivare dove vogliono, salvo poi gridare allo stupro se per qualche ragione non l'ottengono. Come se chi fa cultura dovesse essere un eunuco! Un castrato messo in cattedra per intrattenere un branco di idiote che si divertono a fargliela vedere, certe che, non saprà cosa farsene.

Leonardo aveva studiato il caffè nella tazza: aveva delicati riflessi verderame, del tutto impropri, ma notevoli, e sapeva di cavolo bollito. Non aveva mai bevuto caffè d'orzo, ma non aveva mai neanche passato tre notti insonni.

— Ti ringrazio per l'appoggio morale — aveva esordito — ma...

— Il nostro sostegno è incondizionato — l'aveva interrotto Renato, un resto d'arancio che gli pendeva dal labbro dandogli un'aria ancora più vitale.

— E faremo pressione all'interno dell'università perché questa faccenda venga messa a tacere. Il fatto ché tu sia anche uno scrittore non rende le cose facili, ma molti di noi ci sono passati e ti potrebbero dire che quella che la mattina sembra una bufera, alla sera si rivela quasi sempre un venticello. Quello che posso consigliarti è di non pensare di uscirne a colpi di fioretto. Devi rispondere con le stesse armi. Lei ancora non lo sa, ma ha molto più da perdere che da guadagnare in questa storia. Prima glielo fai capire, prima verrà a più miti consigli.

Leonardo aveva inteso l'inutilità di ogni spiegazione. L'uomo interpretando il silenzio di Leonardo come una tacita complicità, gli aveva poggiato una mano sulla spalla.

— Ti lascio il numero del mio cellulare — gli aveva detto — chiamami.

Leonardo aveva preso il biglietto. L'uomo si era alzato.

— Non ti nascondo che ho sempre pensato fossi una mezza sega. Uno con un gran cervello, ma pochi coglioni. Devo ammettere che mi sbagliavo. Avevi fregato anche me — poi gli aveva stretto la mano e, pagato il conto, era uscito rivolgendogli un ultimo sorriso da dietro le vetrate.

Da quel giorno Leonardo non l'aveva più visto né sentito, ma un anno dopo, quando ormai aveva perso il posto all'università e la possibilità di vedere la figlia, ne aveva ritrovato la firma sulle pagine di un quotidiano su cui Renato aveva preso a commentare fatti di cronaca con l'intento di delinearne i torbidi contorni sociali.

Sei mesi dopo il quotidiano aveva chiuso. Di Renato, come degli altri colleghi dell'università, Leonardo, da che si era trasferito a M*, non aveva più avuto notizie, né buone, né cattive.

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Pagina 74

Possiamo provare alla cantina di Gallo disse Elio, mentre mettevano i piatti sporchi nell'acquaio.

Riposarono una mezz'ora distesi sul pavimento della veranda, poi caricarono le ceste dei giorni precedenti sul rimorchio e si avviarono verso il paese. Elio sedeva alla guida, mentre Leonardo e Sebastiano si erano fatti posto tra le cassette. L'aria era tiepida, la luce calante e l'odore dell'uva dava una piccola vertigine. Bauschan, tra le braccia del padrone, guardava sfilare la campagna. Leonardo pensò che avrebbe voluto viaggiare a quel modo per sempre.

— Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io — sussurrò fra le labbra — fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel, ch'ad ogni vento, per mare andasse al voler nostro e mio; sì che fortuna od altro tempo rio, non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento di stare insieme crescesse 'l disio.

Passarono la caserma dei Carabinieri. Le finestre erano sbarrate e sui gradini erano cresciuti crochi e spinaci selvatici. Gli effettivi da un anno erano stati dirottati nella Guardia Nazionale o accorpati alle caserme più grandi. Quella più vicina si trovava ad A*, ma nessuno era in grado di dire se ci fossero ancora Carabinieri, dal momento che il fuoristrada che saliva ogni due giorni e stazionava nella piazza non si era più visto.

Al bivio presero una carrozzabile che assecondando le forme della collina saliva in curve mansuete. La cantina si trovava sulla sommità del poggio e il suo ingresso era segnato da un grande cancello di ferro tinto di rosso, ai lati del quale non c'era alcuna recinzione; tutt'intorno le vigne degradavano come onde di un mare geometrico e in lontananza si scorgevano campanili e torri accesi dal sole. Dal paese arrivarono i tocchi delle cinque.

Elio portò il trattore fin nel cortile. La casa era a due piani, regolare come un biscotto; e, nel fabbricato a lato, c'erano il laboratorio e la cantina. I balconi del secondo piano avevano gerani rigogliosi e, se non fosse stato per una cinquantina di scatole di cartone ammucchiate nello spiazzo, la si sarebbe detta in perfetto ordine.

Elio spense il motore e si avviò con Leonardo verso il portico dove Cesare Gallo sedeva su di un divano di pelle bianca. Sebastiano e il cane restarono sul carro. L'uomo portava stivali di pelle e, al collo della camicia, uno di quei laccetti di cuoio che cent'anni prima i mandriani dall'altra parte del mondo mettevano per andare alla predica domenicale. Tutti in paese sapevano che teneva nella tavernetta uno di quei tori meccanici che si usavano nelle fiere.

— Volete farmi ridere? — disse, prima ancora che i due uomini mettessero piede sui gradini — Abbiamo raccolto la nostra solo perché mi piangeva il cuore a vederla marcire.

Elio e Leonardo si voltarono a guardare le scatole ingiallite al centro del cortile: dentro c'erano bottiglie che cinque annni prima non bastavano a soddisfare le suppliche che arrivavano dalla Russia e dall'Oriente. Uno sciame di rondoni girava sopra il cortile, pur non essendo la loro stagione.

— Sai di qualcuno che potrebbe volerla? — chiese Elio.

Cesare prese il bicchiere poggiato a terra e ne bevve un sorso. Il cardigan gettato sul divano si mosse e Leonardo si accorse che si trattava di un certosino.

— Se volete un consiglio ben dato — disse Cesare — andate al fiume e ce la rovesciate dentro, poi tornate a casa e vi prendete una sbronza come sto facendo io.

Restarono in silenzio, guardando ciascuno le scarpe dell'altro, finché un ragazzo non uscì dal capannone. Aveva un grosso neo sulla guancia e i capelli parevano tagliati da qualcuno che a un certo punto si fosse stufato.

— Vi presento l'ultimo dipendente della ditta Gallo — disse Cesare.

Leonardo e Elio salutarono il ragazzo che ricambiò brevemente.

— Ho acceso gli aspiratori — disse rivolto al padrone ci pensa lei a spegnerli?

Cesare annuì. Il ragazzo mise le mani in tasca e si avviò in direzione del cancello. Dopo qualche istante il verde della sua tuta divenne molto scuro, quindi si perse tra le siepi che portavano fuori dalla tenuta. Leonardo ebbe l'impressione di assistere all'ultima pagina di una saga familiare sudamericana. Una leggera brezza faceva muovere due piante di limone sotto il portico. Cesare si alzò e fece cenno di seguirlo.

Il terrazzo sul retro era ingombro di mobilio, giochi per bambini e altri oggetti gettati alla rinfusa. Pareva che alcune stanze fossero state svuotate e il contenuto selezionato con qualche criterio che aveva a che fare con le dimensioni. Oltre il parapetto, sotto di loro, la pianura si distendeva in forme geometriche regolate dai campi e dalle strade che collegavano i paesi. La vista era magnifica. In lontananza una banda di foschia nascondeva i piedi delle montagne, lasciando sgombre le vette.

— Guardate la statale per C* — disse Cesare porgendo loro un piccolo binocolo tolto dalla tasca — è così da stamattina.

Elio guardò per primo, poi/passò il binocolo a Leonardo che cercò per alcuni secondi prima di trovare la strada: era ingombra su entrambe le corsie di una fila ininterrotta di veicoli immobili.

— I miei sono partiti alle sette — disse Cesare e a mezzogiorno li potevo ancora vedere. Avevano fatto sì e no cinque chilometri.

— Sei rimasto solo tu? — chiese Elio.

Cesare annuì.

— Dopo quello che è successo a C*, Rita non ha voluto sentire ragioni. Abbiamo caricato il camion stanotte. Vanno nella casa che abbiamo a Nizza.

— Cosa è successo? — domandò Leonardo.

— Non sapete? Hanno fatto ogni sorta di porcheria e prima di andarsene hanno dato fuoco al paese. Stefano Pellissero stamattina è corso a vedere come stava sua sorella. Ha detto che c'è da mettersi le mani nei capelli.. Sembra sia passata la guerra.

— Erano esterni? — chiese Elio.

— Sembra, ma dicono che qualcuno parlava italiano.

Tornati davanti alla casa trovarono il trattore incustodito. Né Sebastiano né il cane erano sul carro. Il sole tramontava trasformando il pavimento del cortile in un lago grigio e uniforme su cui il trattore e il carro parevano galleggiare.

— Lo sai che si è spretato per una donna? — disse Cesare.

Leonardo sapeva ma non disse ne sì ne no.

Sebastiano dopo il seminario aveva insegnato alla facoltà di teologia, ma dopo qualche anno aveva chiesto e ottenuto una parrocchia. Nel paese dell'entroterra ligure dov'era stato destinato aveva conosciuto una donna îl cui uomo era spesso via sulle navi. La relazione era andata avanti in segreto per oltre un anno, finche Sebastiano non aveva lasciato l'abito per andarsene con lei. A quel punto però la donna aveva deciso di restare con il compagno. A detta di tutti la delusione aveva fatto perdere a Sebastiano il senno e la parola.

— Le donne bisogna saperle maneggiare — disse Cesare — conosco Rita da trentasei anni e non c'è cosa di lei di cui possa lamentarmi, ma se un giorno mi mettesse un coltello nelle costole, non creperei con la faccia stupita. Non è questione di cattiveria o malafede. È nella loro natura svegliarsi un giorno con un'idea diversa. Se non sei preparato a questo, allora è meglio che non ti ci metti neanche. Altro che perdere la parola!

La porta dietro. loro si aprì e voltandosi videro Sebastiano sulla soglia: teneva il cane in braccio e si era cinto le spalle con una pelle di vacca fissandola al collo con un cordone delle tende.

— Ehi! — disse Cesare — Quello è il tappeto della mia camera da letto!

Sebastiano passò tra loro e si diresse al carro. Il mantello gli batteva i talloni con un suono di frusta. Era una pelle di vacca pezzata, ma in alcuni punti il pelo era così liso la lasciar vedere il cuoio dell'animale.

— Gliela può lasciare? — chiese Leonardo.

Cesare alzò le spalle, prese il bicchiere dal pavimento e bevve un sorso.

— È barbera? — chiese accennando all'uva sul rimorchio.

— Si — disse Leonardo.

Cesare si grattò la barba che quella mattina non si era fatto.

— I contanti lí ho lasciati a Rita — disse — ma se vuoi, possiamo fare un commercio.

In mezz'ora scaricarono l'uva e caricarono sul rimorchio una cassa di patate e un'altra in cui c'erano cavolfiori, carote, catalogna e una grossa zucca.

Sulla strada del ritorno Leonardo si strinse nelle braccia: un vento freddo spirava dalle montagne facendo oscillare le sommità degli alberi. Poche nubi di un nero dolente galleggiavano attorno alla luna e la campagna pareva piena di incognite. Poi, una volta a casa, scaricarono le cassette ed Elio, tornò in paese. Rimasti soli, Leonardo e Sebastiano guardarono in direzione del fiume: l'acqua riluceva come una striscia di peltro su un panno nero. Bauschan annusava la pelle di vacca. Sebastiano si chinò a accarezzarlo.

— Ciò che entra nell'uomo dal di fuori — disse — non può contaminarlo.

Leonardo lo guardò: la sua voce era passata attraverso il corpo senza lasciare traccia, come dentro un tubo cavo, eppure ora il silenzio intorno era in tutto differente.

— Significa che dobbiamo preparaci? — chiese senza ottenere risposta.

Quando l'uomo se ne andò, Leonardo scese nella stanza dei libri e cercò la pagina del Vangelo di Marco. Lesse "Ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo. Ciò che esce dall'uomo è ciò che lo contamina. Dal cuore degli uomini escono i cattivi pensieri, le fornicazioni, i furti, gli omicidi, gli adulteri, le cupidigie, le malvagità, la frode, l'impudicizia, l'invidia, la maldicenza, la superbia, la stoltezza. Queste sono le cose cattive che escono dall'interno dell'uomo e lo contaminano per intero".

Strappò la pagina, la piegò in quattro parti e la mise nel portafoglio. Era la prima volta che sentiva Sebastiano parlare. Era certo non ce ne sarebbe stata un'altra.

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Per tutto il mese di ottobre la fila di auto continuò a procedere lenta sulla fondovalle in direzione della Francia, senza mai diradarsi. Le notizie su quel che accadeva erano scarse: la radio di stato non trasmetteva da settimane e tutto ciò che gli apparecchi potevano captare erano stazioni private dove si succedevano brani musicali programmati; i telefoni erano muti e così i cellulari, mentre la rete era stata la prima a saltare. La televisione, l'ultima fonte rimasta, da parecchi giorni trasmetteva concerti di musica classica. Un giornalista, comparso in video per pochi minuti a tarda sera, aveva letto un comunicato del governo in cui si parlava di situazione stabile e si richiamavano i cittadini al senso di responsabilità. Venivano poi forniti consigli pratici riguardo agli alimenti, all'acqua, alla raccolta dell'immondizia e le precauzioni da prendere nel caso ci si volesse mettere in viaggio.

A metà mese una delegazione scese sulla fondovalle per sentire i viaggiatori incolonnati. Il quadro che ne riportò fu schizofrenico. Molti sostenevano che il nord-est fosse in mano a bande che si spostavano razziando tutto ciò che trovavano: la Guardia Nazionale controllava alcune città e vie di comunicazione, ma al di fuori di queste ogni legalità era sospesa. Altri riferivano invece di una situazione pressoché normale. Parlavano di carenza di benzina e di altri generi alimentari, ma assicuravano di non aver mai assistito o avuto notizia di assalti e altre violenze. Un tale di T* riferiva che in città il mercato era affollato, i negozi aperti e le strade ben presidiate dai militari. Alla domanda perché allora stesse portando la famiglia in Francia aveva risposto "per precauzione".

Il risultato fu in ogni caso che il paese prese a svuotarsi. I primi ad abbandonarlo furono quelli che avevano parenti o amici oltre confine e famiglie con bambini. Restarono gli anziani, quelli che aspettavano qualcuno e chi, come Cesare Gallo, sarebbe rimasto anche sotto le bombe.

Leonardo per tutto il mese trascorse le giornate leggendo sulla veranda o nella stanza dei libri. Elio aveva chiuso il negozio e passava quasi ogni giorno a discorrere aggiornandolo sulle partenze e sullo stato delle cose. Quando la giornata era limpida, facevano una passeggiata fino alla collina di Sant'Egidio, sulla cui sommità c'era una chiesetta romanica circondata da un cimitero all'inglese dove la tomba più recente portava la data sbiadita di un secolo prima. Era un tragitto che Bauschan amava per via del fiume, del tratto di bosco e di alcuni cespugli da cui gli piaceva far alzare i tordi.

Quando le provviste si esaurirono, Leonardo fu costretto a scendere in paese dove non andava dalla notte dell'incendio. Trovò aperti soltanto l'alimentari di Norina, il bar, il panettiere, la farmacia e il macellaio. Gli altri negozi avevano le serrande calate e nessun cartello dava notizie delle ragioni e della durata della chiusura. La piazza, fatta eccezione per un crocchio di anziani appoggiati alla balaustra del belvedere e intenti a commentare la colonna di auto sulla fondovalle, era deserta. Nelle vie strette si respirava il lezzo dell'uva in decomposizione che proveniva dalle vigne.

Mentre aspettava il suo turno nell'alimentari, Leonardo si rese conto che i soli argomenti di conversazione tra chi era rimasto erano i medicinali, la benzina e le sigarette che nessuno sapeva se e quando sarebbero arrivati. Quando, dopo aver comprato una pagnotta, disse che sarebbe sceso ad A* per faccende sue e intanto si sarebbe informato circa la reperibilità di questi beni, le tre donne nel negozio lo guardarono come giovane volontario biondo che sporge la testa dal finestrino di un treno diretto al fronte.

L'indomani fece accomodare Bauschan sul sedile posteriore e, messa in moto l'auto, attraversò il paese sotto lo sguardo scettico dei vecchi appollaiati sul belvedere. Lungo i diciotto chilometri che lo dividevano da A* incrociò due sole auto e un camioncino che procedevano in senso inverso. Molte case sulla strada avevano le finestre sbarrate e i campi apparivano trascurati, ma a parte questo, le colline avevano un aspetto mite e autunnale: le viti di dolcetto erano già di un giallo acceso, mentre quelle di barbera stavano prendendo un rosso vinaccia. Il nebbiolo conservava il verde.

Le cose cambiarono man mano che si avvicinava alla città.

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Novembre fu piovoso e battuto da un vento freddo che depositava sabbia bianca sui davanzali. Una cosa che solitamente accadeva nei mesi estivi.

Con il vento comparvero anche grandi stormi di uccelli che per tutta la giornata dividevano il cielo da nord a ovest disegnando macchie dai contorni cangianti. Anche di notte si poteva avvertire il loro passaggio, come una tenda che oscilla incessantemente in una stanza buia.

A metà mese vennero affissi alcuni manifesti scritti a mano che invitavano i residenti a presentarsi nella palestra della scuola elementare la sera del 22. I fogli erano firmati dal vice-sindaco e dall'unico assessore rimasto.

La sera della riunione duecento persone si ritrovarono nell'edificio. Qualcuno portava i saluti o la delega a votare di un parente che non se l'era sentita di uscire, ma l'impressione fu comunque di grande desolazione, dal momento che il paese un anno prima contava oltre mille abitanti.

Ciò che colpiva di più erano tuttavia le facce avvilite e grigie di chi era rimasto. Ciascuno sembrò specchiare la propria desolazione in quella degli altri e dopo un timido brusio iniziale la sala precipitò in un silenzio assordante. Il vicesindaco prese la parola e, utilizzando l'impianto di amplificazione della Pro Loco, lesse l'ordine del giorno.

Al primo punto c'erano la benzina, i medicinali e il problema del riscaldamento. La cosa venne sbrigata in fretta, perché nessuno aveva notizie diverse da quelle che circolavano da tempo: ci si limitò a ribadire che la benzina era esaurita, mentre per i medicinali l'unica possibilità era rivolgersi agli ospedali, dove venivano presi in considerazione solo i casi più gravi. Quanto al riscaldamento, allo stato dei fatti, era inutile sperare in un rifornimento di gasolio o di metano. Chi disponeva di una stufa a legna avrebbe superato l'inverno con tranquillità; agli altri fu concesso di prelevare dalle case abbandonate cucine a legna e stufe. Il vicesindaco, un uomo basso con il riporto che gli faceva andata e ritorno, dichiarò che le norme riguardanti l'uscita dei fumi dai tetti tramite comignolo di almeno un metro d'altezza venivano sospese e ciascuno poteva arrangiare una canna fumaria come meglio poteva.

Il secondo punto all'ordine del giorno aveva a che fare con la presenza di estranei sul territorio comunale.

Erano in molti ad avere visto persone non conosciute aggirarsi nel bosco o sulla riva del fiume e ogni giorno dalle colline si alzavano linee di fumo che testimoniavano il moltiplicarsi degli accampati. A ciò si aggiungevano i furti negli orti e nei frutteti. Il pericolo era che gli intrusi, esterni o meno che fossero, aumentassero a tal punto da trovare il coraggio di avvicinarsi all'abitato. Qualcuno accennò a quel che era avvenuto ad A*, dove i supermercati erano stati presi d'assalto, e ad A*, dove i detenuti erano fuggiti dal carcere. A notizie certe si fusero voci, illazioni e previsioni nefaste. La conclusione fu che l'indomani mattina alcuni volontari avrebbero perlustrato i dintorni e allontanato chi si fosse trovato nel comune senza motivazione precisa. Vennero formate due squadre, ciascuna di una decina d'uomini, quasi tutti cacciatori che disponevano di un fucile. Una terza squadra sarebbe rimasta in paese, per garantire la sicurezza, visto che né vigili né Carabinieri erano più in grado di farlo.

La faccenda più controversa fu tuttavia l'ultima: ossia il passaggio dall'ora solare a quella legale. Essendo la radio e la televisione mute, nessuno poteva garantire che la cosa fosse avvenuta e in alcuni comuni limitrofi gli orologi non erano stati spostati. Quando la diatriba arrivò al muro contro muro, Don Piero, che era stato in silenzio fino ad allora, perorò la causa dell'ora solare Ut natura fecit e disse che nel caso fosse stato deciso diversamente, avrebbe fermato il meccanismo che regolava le campane della chiesa.

Sciolta l'assemblea, sulla piazza priva di illuminazione si formarono alcuni crocchi dove la discussione proseguì per qualche minuto, poi la pioggia sottile e fredda disperse anche i più accalorati.

Leonardo ed Elio aspettarono che la piazza si svuotasse, poi camminarono fino al belvedere e guardarono la pianura sotto di loro: sulla strada si muovevano pochi fanali. Si trattava di carichi scortati dalla Guardia Nazionale. La coda di auto si era dissolta pochi giorni dopo la chiusura della frontiera.

— Tra due giorni partiamo — disse Elio — la sorella di Gabri ci ha procurato i lasciapassare. Faremo la costa. Sui valichi pare ci sia gente con i documenti in regola che aspetta da giorni.

Due ombre passarono nella strada: una coppia che abitava oltre il distributore. Lei voltò la testa e li vide, ma non salutò. Sfilarono sotto l'unico lampione e il loro fiato formò un'aureola fluorescente. Leonardo pensò all'anima.

— Tu e i ragazzi potreste venire con noi — disse Elio quando furono lontani — diventerà sempre più difficile uscire.

Leonardo annuì, ma poi rispose che a primavera le cose sarebbero migliorate.

Elio accese una sigaretta. Il padre era stato un grande fumatore, ma a lui capitava di rado. Fece alcuni tiri in silenzio. In tutto l'abitato c'erano tre finestre accese, tutte le altre erano buie o sprangate.

Nella Guardia di Frontiera — disse eravamo divisi in due squadre. Una controllava il confine, l'altra operava qualche chilometro più a valle.

Si fermò, come cercando con la lingua qualcosa di piccolo tra i denti. La pioggia toccava debolmente l'ombrello sopra le loro teste.

— Quando arrivavano i clandestini, la prima squadra si faceva pagare per lasciarli passare e, se non avevano niente, chiedeva se volevano dare le loro donne per qualche ora. Se rifiutavano, li rispediva indietro, altrimenti li faceva passare. L'altra squadra li intercettava più sotto, li caricava sui camion e li riportava oltre frontiera. Le squadre si scambiavano ogni settimana. Io ho sempre voluto restare a valle. Un giorno, mentre li caricavamo sul camion, uno che aveva pagato si è messo a sparare. È lì che mi sono preso la pallottola nel polmone.

Leonardo studiò il profilo dell'amico, poi tornò a guardare la pianura: un mare dove oscillavano poche lampare. Ora che non passava alcun mezzo, la strada sembrava non esserci mai stata.

— Non dici niente?

Leonardo appoggiò una mano sul parapetto.

— Quando si è giovani si possono fare cose belle o cose terribili. Basta poco perché accada una cosa o l'altra.

Elio chiuse le labbra attorno al filtro.

— Ci faranno pagare tutto quello che gli abbiamo fatto — disse.

Quattro persone passarono per la piazza riparandosi sotto due giacche e un ombrello. Una era Don Piero. Le giacche sparirono in una delle porte che davano sullo slargo. L'ombrello accompagnò Don Piero fino alla sacrestia, poi proseguì solo.

— Il mese scorso un gruppo di ragazzi stava per linciarmi — disse Leonardo.

Elio lo guardò.

— Perché?

Leonardo scosse la testa che non sapeva. Tutto quello che esisteva in quel momento erano una piazza, la chiesa, il campanile, le case e una strada bagnata che non portava da nessuna parte.

— Forse abbiamo sbagliato molto prima di quanto pensiamo — disse.

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21 gennaio

Sembra che sul paese si sia abbattuto un esercito in ritirata, accecato dalla fame e dalla sconfitta. Nelle case tutto ciò che non poteva essere portato via è stato fracassato o dato alle fiamme. Molti mobili sono stati gettati in strada attraverso le finestre e sui muri esterni si leggono scritte fatte con lo spray o con pezzi di carbone. "Siamo noi / quelli che non puoi / nemmeno se lo vuoi / altrimenti sono guai." "Non dormo, non dormo, non dormo e mi frastorno." "Ali, aghi, ideali e roghi." "La supremazia." "Niente prolifera il niente." Sembrano versi scritti da qualcuno che ha dato una scorsa a Nietzsche, ma poi ha giudicato fosse troppo impegnativo. Le lettere sono grandi e tracciate in stampatello, la grafia è incerta, ci sono errori grammaticali e di sintassi. Alcune sono in un inglese rudimentale: fanno, pensare ad una gita scolastica sfuggita di mano. In un paio di case mi sono imbattuto in siringhe, bottiglie di alcolici svuotate, sacchetti di nylon in cui è stato versato qualcosa che pare colla. In chiesa le panche sono state ammucchiate e incendiate, le vetrate sono state rotte.

Degli abitanti non c'è traccia e nemmeno dei loro corpi. Ho trovato soltanto una gatta che stava allattando quattro piccoli. Li ho sentiti miagolare dalla strada e sono entrato in quello che un tempo era il negozio della parrucchiera. C'erano barattoli di cosmetici rovesciati e un enorme pene disegnato sullo specchio. La gatta era seduta sulla poltrona dove un tempo le clienti attendevano il loro turno. Quando ha visto Bauschan ha soffiato, ma senza alzarsi, perché i piccoli non smettessero di poppare. Bauschan si è appoggiato con un fianco alla mia gamba. Pareva dispiaciuto di recare disturbo. Ho raccolto un flacone che mi sembrava shampoo e siamo usciti.

A casa del farmacista ho trovato il collirio, ma niente cibo. Chi aveva messo a soqquadro la casa non doveva essere interessato ai farmaci, perché ce n'erano molti, in cantina e in soffitta. Ho preso degli antinfluenzali, degli antinfiammatori e delle vitamine. Nell'auto in garage ho scovato una cartina della Costa Azzurra che comprende anche questa parte d'Italia.

Ripassando per la piazza, Bauschan si è fermato davanti alla porta di casa di Elio e mi ha guardato. Sul battente c'era, ancora il biglietto dove avevamo scritto che partivamo per Basilea. Vedendolo mi sono impietosito, come appartenesse alla mia infanzia. Ho accarezzato Bauschan dicendogli che quella non sarebbe più stata casa nostra, poi mi sono diretto dove volevo andare fin dall'inizio.

Il cancello era divelto e a uno dei montanti restava legata la catena con cui era stato sradicato. Stessa sorte aveva subito la porta di casa.

— Hanno fatto fatica — ho pensato.

Il tavolo dove avevamo preso il tè parlando di Gould, Marin Marais e di pittura del primo Ottocento giaceva segato in due tra libri, pentolame e pezzi di gommapiuma. Per terra era sparsa della farina, ma l'aria odorava di selvatico, come se la stanza fosse stata abitata da un grosso cinghiale. Due cuscini penzolavano squarciati dal lampadario.

Mentre salivo al piano di sopra, mi sono accorto che il cuore batteva colpi potenti e ravvicinati e ho realizzato di non averlo mai ascoltato davvero. Le camere da letto erano in disordine e nella vasca da bagno era stato bruciato un vestito o una tenda; ma, come avevo sperato mettendo piede in casa, di Elvira e della madre nessuna traccia.

Ho raccolto da terra un libro di Bernhard poi, prima di andarmene, sono entrato nel garage, mi sono seduto nell'auto rossa, ho abbassato il sedile e chiuso gli occhi. Sul sedile posteriore c'era la cintura di un accappatoio. Ho dormito qualche minuto e sognato di accarezzare la schiena nuda di Elvira. Le vertebre in rilievo. Nel sogno la mia mano si muoveva sgraziata, come non stesse sfiorando una donna, ma carteggiando una cancellata. Eppure trovavo molto piacere nel compiere quel gesto e sapevo che lo stesso era per lei. Vedevo la sua nuca muoversi piano. Ho provato eccitazione. Qualcosa che da tempo non chiedevo al mio corpo.

Poi ho passeggiato per le vie del borgo. I ragazzi e Sebastiano mi aspettavano, ma tutto quello che mi andava di fare era camminare sentendo contro il fianco il peso del libro di Bernhard.

Nella vecchia casa passavo molte ore in una stanza che chiamavo "stanza dei libri". Lì avevo raccolto migliaia di romanzi, saggi, trattati e libri d'arte. Molti li avevo letti più volte, sottolineati, chiosati e dissezionati per ricavarne qualche insegnamento per me e per i miei studenti. Alcuni li avevo scelti come bastioni delle mie mura. Altri come passaporti per le mie terre. Sillogi di ciò che la vita era o avrebbe dovuto essere. Non ho alcun desiderio di sapere cosa è stato di loro. A meno che qualcuno non abbia incendiato la casa suppongo siano ancora là a farsi divorare dalla muffa e dai topi. Amo infinitamente quelle storie, eppure le so responsabili di quello che sonò. Un uomo mancante.

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— Evelina?

— Sì?

— Dormi?

— No.

— Vorrei che tu facessi una cosa per me.

— Se posso.

— Vorrei mi dicessi come sono.

— In che senso?

— Che mi raccontassi come sono la mia faccia e il mio corpo.

— Ora è buio.

— Raccontami quello che hai visto finché è stato giorno.

— Da dove vuoi che cominci?

— Dalla faccia.

— Ok, è magra, scavata e dove non è coperta dalla barba è bruciata dal freddo. Hai una cicatrice sulla fronte e una più piccola su uno zigomo. Credo che ti manchino dei denti, non so quanti, e hai gli occhi di un bellissimo verde scuro. Il bianco intorno però è giallo, forse per quello che mangi. Il naso è storto, non mi ricordo se a sinistra o a destra. Hai i capelli grigi molto lunghi che hanno formato delle specie di trecce. La barba invece è grigio scuro, con qualche pelo bianco. Non saprei che altro dire.

— Sei molto brava. Adesso il corpo.

— Sei alto, hai le gambe lunghe e la schiena molto rigida. Quando ti sei messo sopra di me ho sentito che sei leggero per la tua altezza. Ho sentito anche che hai una spalla legata e dopo ho visto che quando cammini la tieni più in alto dell'altra. Una cosa molto bella di te sono le mani. Nel mio lavoro ho sempre fatto molta attenzione alle mani e posso dirti che le tue, anche se ridotte male, sono molto eleganti. La prima cosa che ho notato però sono i tuoi piedi. All'inizio ho creduto fossero avvolti negli stracci, ma quando mi sono accorta che erano nudi, mi è venuto da piangere. Mentre ballavi mi sono chiesta come potevi riuscirci.

— Lo faccio solo per paura.

— Non lo penso.

— Adesso parlami del mio odore.

— Pensi sia sgradevole?

Penso di sì, sono mesi che non mi lavo.

— Quando restiamo soli per molto tempo, senza che nessuno ci tocchi, il nostro odore torna quello di quando siamo venuti al mondo. Sembra quello di un pezzo di cartone bagnato nel latte. Non è sgradevole: l'ho sentito tante volte in sala parto, ma è stato mio marito a farmelo notare. Mi piacerebbe parlarti di lui, è molto tempo che non ho nessuno con cui farlo.

— Era un medico?

— Uno storico dell'Illuminismo. Quando ci siamo conosciuti, insegnava all'università di Anversa. Era in ospedale per far visita alla figlia che aveva appena partorito. Anche la figlia viveva all'estero, in Inghilterra, ma durante un convegno di antiquari le si erano rotte le acque con due mesi di anticipo. Gianni arrivò il giorno dopo dalla Germania. Era un uomo minuto di quasi settant'anni, io allora ne avevo quaranta. Volle parlarmi per sapere del parto; scambiammo qualche battuta davanti alla macchina del caffè; pochi minuti. A parte la gentilezza non ci fu nulla di quell'uomo gracile e con molti capelli che mi avesse colpita. Io del resto, visto il mio aspetto, non credevo di poter suscitare alcun interesse in un uomo, nemmeno se molto più vecchio.

Una settimana dopo invece arrivò in ospedale una lettera indirizzata a me. Poche righe in cui mi raccontava un breve viaggio in barca fatto la domenica precedente con un collega dell'università e la sua famiglia. Non sapevo se e cosa rispondere. Non lo feci. Una settimana dopo arrivò una seconda lettera dove mi parlava di un episodio curioso avvenuto il secolo prima all'architetto che aveva costruito la sala concerti di Anversa. Mi domandavo cosa potesse volere da me quel professore universitario non bello, non giovane, ma certamente in grado di ambire a donne più avvenenti. Ero confusa. Non avevo mai avuto una relazione e in passato ero stata infastidita da un paio di uomini sessualmente attratti dalla mia obesità. Ciò mi aveva resa diffidente e pessimista. Pensai che fosse quel genere d'uomo, ma quando feci leggere le lettere a un'amica disse che non le pareva.

Gli scrissi una cartolina. Lui mi rispose e per un anno continuammo a scriverci una o due volte a settimana senza che lui proponesse mai di incontrarci, sebbene fosse divorziato da molti anni e vivesse solo in una casa vicina all'università.

Aveva una scrittura molto sobria, senza svolazzi, ma illuminata da una perenne sorpresa. Non usava parole difficili, ma prendeva quelle semplici e le spostava dal posto dove la maggior parte delle persone le avrebbe usate. Scriveva in stampatello minuscolo, come chi arriva da una famiglia di persone incolte e per primo ha la possibilità di andare avanti negli studi. In effetti era così: il padre e la madre avevano gestito un negozio di alimentari in Lomellina.

Comprai un comodino con tre cassetti e lo misi accanto al letto per conservarci le sue lettere. In cucina avevo appeso un foglio dove annotavo i titoli dei libri di cui mi parlava per andare in libreria e comprarli. Un giorno, parlando con un collega in ospedale, mi accorsi che in tutta la giornata non avevo pensato nemmeno una volta a quanto fosse sgradevole il mio aspetto. La sera scrissi a Gianni che avrei avuto piacere di incontrarlo. Dormi, Leonardo?

— No. Ti ascolto. Dove vi siete incontrati?

— A Saarbrucken, una piccola città tedesca non lontana dal confine francese. Non so perché scelse quel posto, non glielo domandai. Era passato oltre un anno dalla prima volta in cui ci eravamo visti. Pensavo che ci saremmo seduti in un caffè e avremmo passeggiato lungo il fiume parlando di noi come si conviene in un'affettuosa relazione tra un uomo ormai distaccato dai bisogni del corpo e una donna che da tempo ha capito che il proprio aspetto non può suscitarne. Un patto tra mancanti. Invece quel che accadde fu che, dopo aver bevuto in silenzio un tè nel bar della stazione, andammo in una delle due stanze che aveva prenotato nel piccolo ostello della città e ci restammo per due giorni a fare l'amore in ogni maniera possibile.

Nei mesi successivi tornammo a scriverci senza fare cenno a quanto era successo in quella camera. Le sue lettere erano piene di leggerezza e affetto, ma non celavano alcun desiderio di rivedermi o di rifare ciò che avevamo fatto. Finché in aprile non arrivarono poche righe con cui mi chiedeva di sposarlo. Gli risposi qualche giorno dopo con una cartolina e tre mesi più tardi ci incontrammo di fronte al sindaco. Era la terza volta che ci vedevamo: io nel frattempo avevo provveduto a comprare una casa per noi e lui aveva fatto domanda per la pensione.

Nei cinque anni che abbiamo vissuto insieme ha continuato a parlarmi con la stessa dolcezza e a prendersi cura del mio corpo come fosse ogni volta qualcosa di nuovò. Lui era così con tutto ciò che gli stava intorno: era come se nascesse ogni mattina e ogni sera mettendo il pigiama si vestisse per il sepolcro. Quando lo sentivo scendere per la colazione, i suoi passi sulle scale erano quelli di un ragazzo che non ha ancora visto niente. Questo mi dava una gioia e una sicurezza infinite e la voglia di averlo sempre dentro di me.

Quando Evelina tacque, Leonardo restò ad ascoltare i rumori che la notte avrebbe dovuto produrre, ma che il freddo aveva imprigionato in un blocco compatto di silenzio. Il vento passava muto sui corpi dei ragazzi distesi nel cortile arrossando le braci del falò. Al di fuori di quei frammenti di luce vermiglia e dell'eco delle parole della donna, il mondo era un'ombra fredda e priva di domani.

— Che ne è stato di lui?

Ebbe l'impressione che lei alzasse le spalle.

— Quei ragazzi hanno capito subito che sarebbe stato un peso portarselo dietro. Da qualche mese aveva problemi all'anca. Così l'hanno legato al tavolo della cucina e gettato nel fiume vicino a casa. Credo che l'abbiano fatto perché uno di loro l'aveva visto in un film. Mentre la corrente lo portava via, Gianni fissava il cielo con lo stupore che aveva per tutte le cose. Era una bellissima giornata di sole. Penserai che è una cosa morbosa ma, mentre lo guardavo allontanarsi, non desideravo altro che di essere ancora una volta nuda nel letto con lui.

Leonardo appoggiò la guancia contro il fianco rugoso di David e guardò il punto nel nero dove sapeva esserci la roulotte. Il vento portava qualcosa di minimo e di freddo. Oltre le sbarre forse era cominciato a nevicare, ma oltre le sbarre era un luogo enormemente lontano. Nel ventre di David si muovevano grosse masse d'aria e di cibo.

— Vorrei sapere quel che è peggio — disse Evelina — se essere violata cento volte dai pirati negri, aver tagliata una natica, essere passata per le verghe dei Bulgari, fustigata e impiccata in un autodafé, remare in galera, e provare insomma tutti i mali che abbiamo provato, oppure restare qui senza far nulla.

Rimasero in silenzio, poi la sentì alzarsi, bere dal secchio e rimettersi a sedere.

— Lo sai tutto a memoria? — chiese Leonardo.

— Solo questo pezzo. Mi ha sempre fatto ridere quando la vecchia dopo tutto quello che hanno passato, dice così. Gianni andava matto per Voltaire. Diceva che Candide era la cosa più crudele che avessero mai scritto ridendo.

Uno dei ragazzi nell'aia si mise in piedi e camminò per qualche metro, poi sentirono il tonfo sordo del suo corpo sul cemento.

— Pensi che moriremo? — le chiese.

Evelina si grattò una gamba.

— Qualcosa del genere.

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