Copertina
Autore Beppe Lopez
Titolo La casta dei giornali
SottotitoloCosì l'editoria italiana è stata sovvenzionata e assimilata alla casta dei politici
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2007, Eretica , pag. 208, cop.fle., dim. 12x17x1,5 cm , Isbn 978-88-6222-001-9
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe media , politica , paesi: Italia: 2000
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Indice


Distorsione del mercato e della vita democratica      3

Il contesto: quotidiani poco venduti e omologati     36

Si naviga verso i mille milioni                      64

Grandi giornali, grossi contributi                   91

Il teatrino degli inganni e delle imposture         118

Non ci fu neppure un "girotondo"                    137

"Minacce" di tagli e propositi di riforma           152

Ma la casta non molla                               189

Indice dei nomi                                     204


 

 

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Distorsione del mercato e della vita democratica


Ma quanti italiani sanno che lo Stato finanzia il Corriere della Sera, rimpolpando gli utili degli azionisti della RCS con elargizioni calcolate, per un solo anno, in 23 milioni di euro?

E come commentare il fatto che gli italiani, tutti gli italiani, lavoratori e imprenditori, laici e cattolici, piemontesi e siciliani – oberati, tutti insieme e individualmente, dal più alto debito pubblico dell'Occidente (che nel 2006 ha sfondato il tetto dei 1.600 miliardi di euro) e da interessi sul debito colossali (ogni anno il 6% del PIL) – siano costretti a finanziare, fra gli altri, anche il quotidiano della Confindustria con più di 19 milioni di euro l'anno, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana con più di 10 e il quotidiano della Fiat con 7 milioni di euro?

La Mondadori, notoriamente, non ha un quotidiano. Si accontenta, diciamo così, di fare la parte del leone in edicola con i periodici e in libreria con i libri. Come la prendereste se vi dicessero che, solo sotto forma di credito d'imposta sulle spese sostenute per l'acquisto della carta in un anno, l'azienda di Silvio Berlusconi è stata da noi sostenuta con un contributo di 10 milioni di euro? E che in un solo anno risulta aver avuto dallo Stato uno sconto, per le spedizioni postali, di quasi 19 milioni di euro? Tutti conoscono Giuliano Ferrara e il suo Foglio, Vittorio Feltri e il suo Libero, Antonio Polito (poi sostituito da Paolo Franchi) e il suo Riformista. Pochi sanno che costoro possono fornire il loro esuberante apporto alla vita politica e istituzionale del Paese grazie al nostro diretto apporto economico. Insomma, ci costano complessivamente più di 12 milioni di euro. Ricordate Giuseppe Ciarrapico? Sì, il mitico brasseur des affaires della DC di Andreotti. Più recentemente, da re delle acque minerali e delle cliniche private, si è messo in testa di fare l'editore, inventandosi piccole testate locali (Nuova Viterbo Oggi, Ciociaria Oggi, Nuovo Molise, Nuova Rieti Oggi, Fiumicino, Guidonia, Ostia, Castelli Oggi... ). In breve sono diventate dodici. Le mette in vendita insieme al Giornale, col metodo del "panino", a un euro. Insomma, sotto costo. Ma non se ne preoccupa. Si è inventato infatti una cooperativa, chiedendo (e ottenendo) le provvidenze previste dalla "legge per l'editoria". Conclusione: ogni anno, più di 5 milioni di euro, fra quelli legittimamente sottratti dallo Stato alle tasche degli italiani, finiscono in quelle dell'editore Ciarrapico.

È notorio che, fra le mitiche figure dell'antica arte tipografica, la maestria dello stampatore si esaltava nel ridurre al minimo le copie di scarto, destinate al macero, prima di mettere perfettamente a fuoco la stampa e poter dare il via alla tiratura completa del giornale. Ora che sono scomparsi compositori, linotipisti e impaginatori – tranne che nelle piccole tipografie di quartiere e di paese, dove sopravvivono – lo stampatore è rimasto l'unico nei giornali a tenere alta la bandiera dell'arte tipografica. Si può immaginare, dunque, l'avvilimento dei rotativisti dell' Unità, la gloriosa testata fondata da Antonio Gramsci nel lontanissimo 12 febbraio del 1924, quando ogni notte sono costretti a produrre 16 mila copie di scarto per consentire alla Nuova Iniziativa Editoriale S.p.A. d'incassare dallo Stato, solo con esse, 250 mila euro annui di contributi, che concorrono a quelli che complessivamente le spettano (6,5 milioni di euro) per il fatto di stamparne ogni notte 120 mila, anche se potrebbe mandarne in edicola solo 80 mila, visto che se ne vendono meno di 60 mila. Una resa del 50% delle copie non si era mai vista prima dell'avvento delle provvidenze per l'editoria.

Ma si è visto e si vede anche di più. Europa, il quotidiano della Margherita, notoriamente vende sotto le 5 mila copie, diciamo molto sotto. Eppure, per incamerare più di 3 milioni di euro l'anno in pubblici contributi, la sua amministrazione deve farne stampare 30 mila copie. Sapendo perfettamente che fine faranno: al macero. Con quanti danni per l'erario, per la dignità professionale di tutte le persone coinvolte e persino per i boschi e per i polmoni dell'umanità, è facile immaginare.

E ancora: nel maggio 2007 SkyTv ha fatto domanda per ottenere i «rimborsi per i costi di spedizione» di SkyMagazine, la rivista con i programmi del mese inviata dall'azienda del supermiliardario Murdoch ai propri abbonati. E Palazzo Chigi confermò: in base alla normativa vigente, le spettano in effetti 25 milioni di euro l'anno di contributi pubblici.

La "legge dell'editoria" questo prevede infatti, a patto di conoscere le norme e di avere amici capaci di metterti in contatto diretto con il Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria di Palazzo Chigi: più copie stampi – anche sapendo di stampare di scarto, per il macero, per distribuirle gratuitamente o per vendite "in blocchi" (magari a un simbolico centesimo di euro per copia) – più soldi prendi.

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Il fatto. Ogni anno in Italia lo Stato elargisce ai giornali e a pezzi assimilati dell'informazione, in forme poco trasparenti, molto discutibili e spesso truffaldine, provvidenze e regalìe che sono arrivate recentemente, per un solo anno, a costarci 700 milioni di euro. Secondo alcune fonti ufficiali, qualcosa in meno. Secondo altri calcoli, come vedremo, qualcosa in più. Anzi, molto di più.

Ma prendiamo per buona quella cifra, per ora: mille e quattrocento miliardi delle vecchie lire regalati a centinaia e centinaia di gruppi, testate e personaggi, attraverso una lunga e articolata normativa, col tempo sempre più clientelare e gravosa, avviata in epoca moderna con la legge n. 416 del 5 agosto 1981 («Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l'editoria») e proseguita con la legge n. 67 del 25 febbraio 1987 (rinnovo della 416), con la n. 250 del 7 agosto 1990 («Provvidenze per l'editoria e riapertura dei termini, a favore delle imprese radiofoniche...») e con la n. 62 del 7 marzo 2001 («Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali... »).

Si era partiti, naturalmente, da alcune esigenze più o meno ragionevoli e, in una certa misura, "politicamente corrette". Comunque dalla previsione di contributi di piccola e media entità, tali da non costituire la ragione prima o addirittura esclusiva della nascita e della capacità di tenuta di testate e aziende editoriali. Si voleva dare una mano ai giornali di partito, che altrimenti, con la sola eccezione dell' Unità, non potrebbero sopravvivere nello spietato mercato dell'informazione. Si riteneva di dover aiutare in una qualche maniera le cooperative, che a fatica e generosamente, in un sistema economico altamente competitivo, cercano di promuovere la capacità dei lavoratori di produrre in condizioni di autonomia e di libertà una merce delicatissima e democraticamente sensibile come l'informazione. E non sembrava giusto, poi, costringere i giornali a costi di spedizione troppo onerosi, in considerazione del loro ruolo sociale e dello storico gap fra la diffusione dei quotidiani in Italia e quella che si registra nel resto del mondo civilizzato. Pareva poi doveroso dare una mano ad aziende in difficoltà e, in generale, a un settore in fase di travolgente trasformazione tecnologica, finanziaria e organizzativa.

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Pagina 21

Di fatto, l'intero sistema di «contributi pubblici all'editoria» ha:

a) arricchito editori già ricchi;

b) consentito la nascita e la sopravvivenza di giornali e testate al di là di qualsiasi ragione di mercato, sia del mercato editoriale sia dello stesso mercato delle opinioni politiche e degli orientamenti culturali;

c) mantenuto in piedi "voci" e finanziato "battaglie" che in molti casi hanno contribuito e contribuiscono indebitamente a influenzare la vita politica e culturale nazionale;

c) impedito la nascita o il consolidamento e determinato la chiusura, il ridimensionamento (o il declassamento a "panino" dei giornali nazionali) di testate locali, indipendenti e piccole/medie che pure avrebbero potuto vantare effettiva rappresentanza e radicamento sociale, e comunque capacità di penetrazione nel mercato. Ma esse non rientravano (e non rientrano) nei profili dei beneficiari di provvidenze disegnate su misura per le testate intime al Potere. E con la concorrenza finanziata, agevolata e artificiosa di queste ultime hanno dovuto vedersela, perlopiù non venendo nemmeno alla luce o soccombendo.

Così si è impedito e si impedisce in maniera specifica ai quotidiani italiani – già storicamente asserviti al Potere e sostanzialmente estranei alle logiche di mercato, di effettivo pluralismo e d'indipendenza – di poter svolgere il proprio ruolo, peraltro oggi teoricamente consentito dall'esistenza di un "mercato", nato e cresciuto grazie alla televisione. E di affinare le capacità per reggere alla concorrenza della stessa televisione e, più recentemente, dei new media.

Non si tratta solo delle ricadute, in una qualche misura considerate da tempo quasi "normali", di una concezione del potere pubblico che una volta si sarebbe definita "borbonica". Né solo di un problema di tipo clientelare e di malcostume. Pur limitandosi alle «provvidenze per l'editoria» della Presidenza del Consiglio, si può dire che il combinato disposto delle dimensioni assunte da questa montagna di danaro pubblico, delle sue modalità di distribuzione e dell'importanza sociale e politica acquisita dal mercato dell'informazione (e della pubblicità), costituisce un elemento di turbativa dell'intera vita democratica, sociale ed economica nazionale.

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Un discorso chiaro va fatto sul secondo equivoco/alibi: le cooperative editoriali. Un panorama particolarmente complesso ed eterogeneo. Si può dire che la grande giostra delle provvidenze sia stata nobilitata inizialmente proprio da una comprensibile, e in parte giustificabile e persino commendevole, intenzione di aiutare le società di lavoratori che si assumono in prima persona la responsabilità e il rischio di dar vita o di salvare dalla chiusura un giornale, liberandolo dai condizionamenti extra-editoriali e dai capricci e dalla prepotenza di un padrone. Estremamente significativi, in questo senso, i casi del Manifesto e, a livello locale, del Corriere Mercantile di Genova. Ma poi, aperto il varco, vi si sono inseriti tutti. Anzi, si sono confezionati prodotti, aziende e cooperative a misura degli spazi e delle risorse previste dalle norme. E, al contrario ma col medesimo fine, si sono confezionate norme a misura d'interessi imprenditoriali, sub-imprenditoriali, occupazionali, clientelari e affaristici. Sino a mettere in piedi l'enorme e costosissimo "mostro" che stiamo tentando di descrivere.

Si ricorda che fu proprio una vicenda giudiziaria legittimamente innescata dalla cooperativa del Manifesto ad accelerare di fatto, nel 1982, l'approvazione della legge n. 939, passata alla piccola storia delle provvidenze come "controriforma" (in relazione agli intenti innovativi della legge n. 416 approvata dal Parlamento l'anno prima). La cooperativa di via Tomacelli si rivolse al pretore di Roma perché intimasse all'Ente per la Cellulosa e la Carta di versarle i contributi previsti dalla 416, a prescindere dalle difficoltà e dai ritardi dell'amministrazione pubblica nel reperimento delle risorse necessarie alla pratica attuazione di quella legge. E il pretore le dette ragione, riconoscendo al Manifesto (e quindi a tutte le altre imprese editoriali nelle sue stesse condizioni) un «diritto soggettivo perfetto» all'ottenimento dei contributi sul prezzo della carta stabiliti dal legislatore. Dopo una successiva risoluzione negativa del giudice istruttore, la tesi pretorile fu definitivamente accolta dalle sezioni unite della Corte di Cassazione: trattavasi di diritto soggettivo in base alla mera approvazione della legge e alla semplice indicazione della sua copertura finanziaria. Quindi, di sovvenzioni non solo «vincolate» ma «automatiche». Di qui, le procedure precipitose e assai sbrigative con cui governo e Parlamento azzerarono la 416 e approvarono nel novembre del 1982 la 939.

Le cooperative editoriali in Italia, secondo le cifre ufficiali, sarebbero ben 650, con quattromila "addetti" e più di diecimila "collaboratori". Le cooperative editoriali finanziate – poche quelle vere, troppe quelle false, parecchie quelle truffaldine – succhiano dallo Stato un fiume di danaro che, solo per le 68 «la cui maggioranza del capitale sociale sia detenuta da cooperative», prevede una distribuzione di 90 milioni di euro. Al livello più alto, ci sono testate come Avvenire (CEI, fondazione Santi Francesco e Caterina, equiparata a coop perché senza fini di lucro: 6 milioni di euro), Italia Oggi (quotato in borsa, più di 5 milioni), Il Manifesto (4 milioni e mezzo) e il Corriere Mercantile (2 milioni e mezzo).

Al livello più basso, in provincia, ma anche a Roma, sopravvive da decenni una miriade di finte testate che nessuno compra o legge, di aziende che si identificano di fatto in una sola persona, di "editori" e spesso d'intere "famiglie editoriali" (il padre direttore, la figlia vice-direttrice, il genero art director, il cugino addetto alla distribuzione, ecc.: per fare numero, cioè per fare la "cooperativa"). Numerosi gruppi di potere clientelare sono riusciti a ottenere una volta per tutte il diritto al contributo dagli "amici" detentori pro tempore del controllo di Palazzo Chigi, campando poi di rendita, anche vendendo o affittando la beneficata testata, sfruttando e illudendo giovani aspiranti giornalisti, formando nuove leve di disoccupati, utilizzando le pagine che sono costretti a scrivere e a titolare ogni giorno per ottenere relazioni e contributi sottobanco, mettendosi al servizio di "campagne" e d'interessi specifici, acquisendo consulenze e collaborazioni, facendosi finanziare dalle Regioni "corsi di formazione professionale", ecc. Il foglio confezionato non arriva ai lettori, spesso non arriva nemmeno in edicola, ma si sa il fascino che esercita sempre un articolo o una foto stampata o comunque l'uso – anche ricattatorio – che se ne può fare. Vi si possono pubblicare encomi a questo o a quell'assessore o banca o industrialotto o affarista, o al contrario "attacchi" e corsivetti allusivi, quando non campagne diffamatorie.

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Grandi giornali, grossi contributi


«Contributi pubblici ai giornali»: per l'opinione pubblica questa espressione significa, in sostanza, "contributi ai giornali di partito". È il risultato della rara e distorta informazione in materia veicolata negli anni, in particolare dai grandi organi di stampa. In realtà la somma dei contributi ("diretti") che vanno a finire nelle casse degli organi di partito e assimilati sarebbe di 60 milioni. Meno di un decimo dell'intero esborso ufficiale. Il grosso (attraverso i "contributi indiretti") se lo assicurano proprio i grandi giornali "indipendenti".

E delle "leggi per l'editoria" che si sono susseguite negli anni si è sempre parlato e su di esse si è polemizzato e ci si è indignati, in particolare per i soldi ai giornali di partito e alle cooperative (oltre che naturalmente ai giornali-fantasma di partito, ai giornali dei partiti-fantasma, agli organi di "movimenti" inesistenti e alle cooperative fasulle). Ma quasi mai per i grandi gruppi editoriali che pure – vendendo centinaia di migliaia di copie di giornale, dovendo comprare decine di tonnellate di carta, impiegando centinaia di dipendenti e avendo consistenti esigenze in materia di spedizioni, collegamenti telefonici, elettricità, teletrasmissione, ecc. – si attribuiscono la quota maggioritaria della dotazione complessiva della legge per l'editoria: i 450 milioni di euro l'anno destinati appunto ai rimborsi per le spese telefoniche, elettriche e postali, per la carta e per la riqualificazione professionale.

La bibbia del libero mercato in Italia è – o dovrebbe essere – il nostro più grande quotidiano economico, Il Sole 24 Ore. Uno splendido prodotto editoriale e un'impresa che fa utili. Fondato nel 1865, è tra i nostri quotidiani più diffusi (347 mila copie al giorno nel marzo 2007). Per l'esattezza il terzo, dopo il Corriere della Sera (660 mila) e La Repubblica (629 mila), quasi a pari quota con la Gazzetta dello Sport (343 mila). Ha fama di testata autorevole e rigorosa, non solo per le ricche e impeccabili informazioni di servizio che quotidianamente fornisce alle imprese e agli imprenditori. Quotidianamente dalle sue colonne si documentano le interferenze dello Stato nel mercato, le politiche assistenziali e le numerose anomalie che si registrano in Italia nel rapporto fra istituzioni pubbliche ed economia. Ma c'è una notizia – una cosa, diciamo così, abbastanza rilevante e certamente anomala nel panorama internazionale dell'informazione, dell'economia e della politica – che Il Sole 24 Ore non ha mai fornito ai propri lettori: i contributi erogati dallo Stato al Sole 24 Ore.

Trattasi di un apporto annuo agli utili degli azionisti di questo giornale, in definitiva alla Confindustria – sotto forma d'integrazioni per l'acquisto della carta e di agevolazioni tariffarie – che ha raggiunto, come si è scoperto nel 2006, la bella cifra di oltre 19.222.787 euro (di un contributo pubblico di 257.448 euro gode anche Radio 24 - Il Sole 24 Ore). Solo con le agevolazioni per la spedizione postale, Il Sole 24 Ore, il giornale italiano che in assoluto ha più abbonati, "risparmia" 11 milioni e mezzo di euro l'anno. Per ogni copia spedita ai propri abbonati, invece di 26 centesimi, ne sborsa 11. Il resto ce lo mette lo Stato.

«Da liberista», lo stimato e bravo direttore del Sole 24 Ore, Ferruccio De Bortoli, si dichiara «contrario agli incentivi pubblici». E allora? «In linea di principio, credo che se ci fossero le condizioni di competizione più aperta ed anche condizioni di distribuzione più capillare, credo che naturalmente si potrebbe discutere in termini di mercato».

Nel frattempo, evidentemente, se ne può fare a meno. Una cosa sono i principi, un'altra sono i dané.

A onor del vero, De Bortoli non è, fra i grandi direttori di giornali, il solo liberista o liberale costretto, dalle vigenti «condizioni di competizione e di distribuzione», a lavorare per un'azienda editoriale finanziata dallo Stato. Anche Paolo Mieli, che sul Corriere della Sera (proprietà del "salotto buono" della finanza italiana) pubblica sempre più frequentemente bellissime inchieste e severi interventi sui "costi della politica", sa che gli utili della RCS vengono rimpolpati dallo Stato, con provvidenze annue che hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 23.507.613 euro, la più alta in assoluto nella classifica delle aziende editoriali assistite.

Né lo Stato poteva dimenticare di prestare soccorso alle encomiabili intraprese editoriali del "re della finanza" Carlo De Benedetti. Così, in un anno, 16.186.244 euro fra quelli prelevati dalle tasche degli italiani finiscono nelle casse dell'Espresso-La Repubblica, gruppo già ricco di suo, come il Corrierone-RCS, di entrate da vendita di copie, da raccolta pubblicitaria e da "prodotti collaterali" (libri, dvd, ecc.). Il quotidiano fondato da Scalfari e dal principe Carlo Caracciolo viene anche teletrasmesso in America e in Australia a nostre spese (1.351.640 euro l'anno), mentre sotto la stessa voce al Corrierone vanno "solo" 714.186 euro. Come se non bastasse, vengono erogati contributi anche alle due testate estere distribuite insieme alla teletrasmessa Repubblica: 2 milioni e mezzo al Corriere Canadese e 143 mila all'australiana Fiamma.

L' Avvenire, proprietà della Conferenza Episcopale Italiana, si deve "accontentare" di 10.293.832 euro. La Stampa, proprietà della Fiat, di 6.975.549 euro...

Insomma lo Stato italiano – costretto peraltro a una pressione fiscale sui cittadini, a cominciare da quelli a reddito medio-basso, fra le più alte nel mondo occidentale – è assai generoso con i più ricchi e potenti gruppi editoriali italiani.

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