Copertina
Autore Jurij Michajlovic Lotman
Titolo Tesi per una semiotica delle culture
EdizioneMeltemi, Roma, 2006, Segnature 34 , pag. 312, cop.fle., dim. 120x190x27 mm , Isbn 978-88-8353-478-2
CuratoreFranciscu Sedda
LettoreLuca Vita, 2006
Classe semiotica , linguistica , critica letteraria , paesi: Russia
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Indice

  7 Introduzione
    Imperfette traduzioni
    Franciscu Sedda

    Prima parte
    La semiotica fra scienza e arte

 71 Ricerche semiotiche
    Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

 95 Che cosa dà l'approccio semiotico?
    Jurij M. Lotman

    Seconda parte
    Nascita della semiotica della cultura

103 L'unità della cultura
    Jurij M. Lotman

107 Tesi per un'analisi semiotica delle culture
    Vjaceslav V. Ivanov, Jurij M. Lotman, Aleksandr M.
    Piatigorskij, Vladimir N. Toporov, Boris A. Uspenskij

149 Eterogeneità e omogeneità delle culture.
    Postscriptum alle tesi collettive
    Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

    Terza parte
    La semiotica e le poetiche della quotidianità

157 Il mondo del riso: oralità e comportamento quotidiano
    Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij

185 Il decabrista nella vita.
    Il gesto, l'azione, il comportamento come testo
    Jurij M. Lotman

261 Lo stile, la parte, l'intreccio.
    La poetica del comportamento quotidiano nella
    cultura russa del XVIII secolo
    Jurij M. Lotman

297 Bibliografia

303 Bibliografia dei testi di Jurij M. Lotman pubblicati
    in italiano


 

 

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Pagina 11

Questo libro

Cos'è dunque questo libro? Che percorso tratteggia? Perché esce ora? Innanzitutto va detto che l'interesse intorno a Lotman non è mai scemato in ambito italiano, e tuttavia molti dei suoi lavori, anche fra i più importanti o recenti, sono oggi introvabili. Dal canto nostro volevamo rimettere in circolazione dei testi seminali, "basilari", che erano ormai irreperibili, sparsi ad esempio in vecchie raccolte collettanee, e che ci sembra invece possano dirci qualcosa sulla semiotica della cultura futura.

Le tre parti, che potremmo indicare con i tre seguenti slogan – ricerche semiotiche, semiotica delle culture, poetiche della quotidianità – secondo noi riassumono bene, in un passaggio senza soluzione di continuità, in uno strano inscatolamento in cui ciascuna può inglobare le altre, tre zone di addensamento e focalizzazione della teoria e delle pratiche della cultura. Dunque, presentazione delle basi della semiotica della cultura, raccolta di saggi irreperibili, spaccato del percorso intellettuale di Lotman e della sua scuola, appassionata e rigorosa riflessione sulle culture. Un libro per molti lettori e molte possibili letture.

Per scendere un po' più nello specifico possiamo dire fin d'ora che la prima sezione situa le ricerche semiotiche in un mondo in cui l'incomprensione fra uomini e culture è divenuta un problema centrale e il rapporto fra scienza, tecnologia, arte e senso comune è in costante cambiamento. E invita a sperimentare il nuovo, la traduzione dell'intraducibile. La seconda, formata da testi programmatici fondamentali (ad esempio le Tesi per un'analisi semiotica delle culture), ci riporta agli inizi della semiotica della cultura e dell'avventura intellettuale della "Scuola di Tartu". Ci offre così la fertilità di un campo di studi appena aperto, denso di proposte da riscoprire, e oggi pronto a riprendere il dialogo – come cercheremo di fare anche in questa nostra introduzione – con la teoria semiotica generale e con le altre discipline interessate all'uomo e ai linguaggi: cultural studies, antropologia del linguaggio, antropologia culturale. La terza sezione, dedicata alle poetiche del quotidiano, ci aiuta a penetrare l'intimo rapporto fra rappresentazioni e pratiche, fra i sistemi di credenze e il comportamento di ogni giorno. Per capire come modelliamo e diamo senso alle nostre esistenze; come la grande storia e la vita minuta, la globalità e la località, si compenetrino e costituiscano a vicenda. Come nel saggio Il decabrista nella vita, in cui le vicende della Russia e dei singoli personaggi si illuminano reciprocamente.

Questo è il percorso che abbiamo cercato di tracciare, nel tentativo di raccordare questi studi passati al nostro presente.


Nella teoria generale

Il progetto di una teoria semiotica della cultura può vantare una relazione stretta, profonda, con la nascita stessa della semiotica come metodo e disciplina. Si potrebbe dire, più in generale, che esso sembra inscritto come orizzonte all'interno dell'opera dei grandi padri della semiotica. Solo per fare pochi esempi si potrebbe pensare a Ferdinand de Saussure (1922) quando proponeva di concepire la semiologia come "una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale" o ricordare la proposta di una "metasemiotica" – una semiotica che ha come suo contenuto delle semiotiche – che chiude I fondamenti della teoria del linguaggio di Louis Hjelmslev (1961).

Non diversamente la tensione verso una semiotica come studio delle forme e delle logiche della cultura si ritrova nei maggiori protagonisti della ricerca moderna: Barthes , Eco , Greimas , Fabbri. Giusto per fare qualche esempio, vale la pena ricordare che lo studio della significazione come studio del mondo dell'uomo e come epistemologia delle scienze umane apre Semantica strutturale di Algirdas J. Greimas (1966) e ne accompagna tutta l'opera, fino allo studio delle passioni e delle forme di vita; Umberto Eco – che già nella proto-semiotica Opera aperta (1962) aveva puntualizzato di non essere né critico né studioso d'estetica, quanto piuttosto uno "storico dei 'modelli di cultura'" – nel 1969 faceva conoscere in Italia, insieme a Remo Faccani, lo "strutturalismo sovietico" e lo studio dei sistemi di segni (cfr. Faccani, Eco 1969), intitolava l'introduzione del suo Trattato (1975) Verso una logica della cultura e ancora nel 1990 introduceva la versione inglese di un importante volume di Lotman: Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture (1990).

Non stupisce dunque che, passati gli anni utili e necessari dell'affinamento degli strumenti e della discesa in apnea nelle singole analisi testuali, oggi la semiotica della cultura (o delle culture) – insieme alla sociosemiotica – ritorni a costituire il campo d'azione, o quantomeno l'orizzonte auspicato, di grande parte della ricerca. Il consenso traversale attorno a questa dicitura non può essere sottovalutato, anzi, va colto e fatto fruttare, perché la semiotica ha necessità – teorica e politica – di una sua identità. E la parola "politica" non è usata a caso: nel Trattato Umberto Eco definiva la soglia superiore del "campo" semiotico con i suoi limiti politici proprio nel punto di congiunzione fra "tipologia delle culture" e "antropologia". Ebbene, sembra che la semiotica abbia abbandonato quella frontiera – forse per falsa modestia o forse per distrazione – e oggi si ritrovi a pagarne il prezzo in termini di centralità, presenza, visibilità, legittimazione — "peso", per tagliar corto — all'interno del dibattito sociale. Non è un caso forse che questo spazio sia oggi prevalentemente occupato dall'antropologia culturale e dai cultural studies e che la semiotica – che pure aveva svolto un ruolo seminale e fecondante su temi quali i conflitti culturali, la costruzione delle identità, il senso delle storie, le traduzioni fra sfere discorsive e linguaggi diversi — non riesca a valorizzare il suo stesso patrimonio e partecipare con il suo bagaglio di categorie, concetti e modelli a un dialogo disciplinare e politico-culturale decisivo per la contemporaneità.

Il fatto che, come dicevamo, la semiotica della cultura – quantomeno come "slogan" – stia implicitamente facendo da punto di incontro e di incrocio di molti degli autori principali dell'attuale panorama semiotico – pensiamo alle conclusioni di Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone (2001) nel secondo volume di Semiotica in nuce, ad alcune importanti note sul rapporto fra enciclopedia, senso comune e semiotica della cultura fatte da Patrizia Violi (2000), alla semiotica delle culture proposta da François Rastier (2003), o agli ultimi scritti di Jacques Fontanille (2004a; 2006) che pongono anch'essi lo studio delle pratiche e del piano dell'espressione sotto l'egida della semiotica delle culture – non può passare inosservato: dovrebbe, a nostro avviso, trovare un senso.

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Pagina 71

Ricerche semiotiche [1973]

Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij


Il XX secolo è ricco di rivoluzioni scientifiche. Il risultato naturale di questo fatto è che sono mutate non solo le nostre idee sul mondo, ma anche quelle sulla scienza stessa.

Se consideriamo l'idea che ha della scienza l'attuale coscienza di massa, si possono osservare alcuni aspetti caratteristici della metà del secolo.

La coscienza del XIX secolo, per la quale scienza e spirito critico in sostanza coincidevano, mentre, d'altro canto, le forme di vita date dal buon senso e dall'esperienza quotidiana parevano incrollabili, si costruiva essenzialmente sul dubbio. Per la coscienza di massa essere partecipe alla scienza significava dubitare e diffidare. Scienziato era chi penetrava criticamente nella sfera della fiducia.

Inoltre l'apparato della scienza era relativamente semplice e accessibile a una persona di media cultura. La misteriosità era sentita come ostile alla scienza: quest'ultima non creava il mistero, ma lo distruggeva. Tutte le sfere della coscienza opposta alla scienza, dalla cultura dei "selvaggi" alla religione del Medioevo, venivano fornite dei contrassegni della misteriosità – di ciò che non si può verificare –, mentre le cognizioni scientifiche erano sentite come ciò che è accessibile alla verifica (in via di principio a ogni essere umano).

Oggi una serie di rivolgimenti scientifici ha mutato radicalmente l'idea che la coscienza di massa ha del verosimile e dell'inverosimile. L'esperienza quotidiana è stata scacciata con infamia dalla sfera della scienza e il lettore di massa ha perso la capacità di orientarsi. Per essere più esatti, si potrebbe dire che l'esperienza quotidiana è rimasta il punto di orientamento nell'idea generale della scienza, ma col segno opposto: per così dire, quanto più una cosa è inverosimile, tanto più è attendibile, cioè tanto più è possibile e vicina alla scienza. Questo fatto è bene illustrato dall'esempio della letteratura di fantascienza.

Nel XIX secolo la letteratura fantascientifica, mentre descriveva nuove scoperte immaginarie, le sottometteva a idee già esistenti nella scienza. L'attuale letteratura fantascientifica, invece, è costruita su un principio opposto: stare il più lontano possibile dalle idee scientifiche attuali, poiché quanto meno assomiglia a ciò che sappiamo oggi, tanto più assomiglia alla scienza del futuro. S'intende da sé che ciò riflette non tanto le leggi reali di sviluppo della scienza quanto l'idea che di essi ha appunto la coscienza di massa.

Il meccanismo della scienza si è fatto più complicato. Esso è sfuggito irreparabilmente al controllo del lettore di massa. Verificare la giustezza delle tesi della fisica contemporanea, la verità di idee scientifiche paradossali e divergenti dall'esperienza quotidiana è un'impresa che il lettore non è in grado di compiere. Ma non basta: verificare ciò che per gli altri è già diventato oggetto di fede significherebbe crearsi la fama di persona arretrata, cioè non scientifica. Per il lettore di massa essere al corrente della scienza significa non stupirsi e credere. Le parole di Tertulliano "Credo quia absurdum", che tradizionalmente erano considerate la formula del pensiero opposto a quello scientifico, oggi potrebbero essere poste come epigrafe di ogni rivista di divulgazione scientifica o di ogni romanzo di fantascienza.

Ed è proprio questa la ragione per cui fiorisce rigogliosamente la divulgazione scientifica e si moltiplicano le riviste e i libri in cui la scienza è mitologizzata: da un lato da tutte le cognizioni scientifiche si estraggono quelle più "sorprendenti" e, dall'altro, non si dà la possibilità di verificarle. Il lettore di massa, che ancora ieri non aveva sentito la parola "semiotica" e l'aveva accolta con sfiducia e persino irritazione, adesso l'ha già trasformata in un mito scientifico.

Tuttavia, il punto di vista semiotico è organicamente intrinseco alla coscienza umana e in questo senso costituisce un fenomeno non solo vecchio, ma anche ben noto a tutti. Se tutte le idee scientifiche, dal punto di vista della coscienza ingenua e inesperta, possono dividersi in due gruppi – quello del quale si dice "Non ci avrei mai pensato", e l'altro che suscita la reazione "L'ho sempre saputo" –, la semiotica appartiene piuttosto al secondo gruppo d'idee.

Implicitamente il punto di vista semiotico è sempre presente nelle azioni e nella coscienza dell'uomo. La peculiarità della scienza è che essa sottopone ad analisi ciò che non era mai stato analizzato proprio perché sembrava semplice ed evidente. Sotto questo aspetto la semiotica è unita alla caratteristica della scienza del XX secolo che aspira non tanto a conoscere qualcosa di nuovo quanto al contenuto, bensì piuttosto ad ampliare la stessa conoscenza della conoscenza.

In particolare, il legame evidente tra i risultati della semiotica e lo sviluppo della cibernetica è condizionato, tra l'altro, anche dal fatto che il problema tecnico della comunicazione dell'uomo con gli automi ha convinto in modo palmare che le nostre idee sulla naturalità sono estremamente relative. Agli occhi del profano di solito suscita stupore la capacità che un automa ha di "capire". Per la scienza più valore ha ciò che l'automa "non capisce", e così manifesta un oggetto di ricerca là dove per il buon senso sembrerebbe non esserci motivo di riflessione.

In altre parole, il punto di riferimento nella descrizione diventa, se così si può dire, il punto di vista dell'"imbecille" coi suoi limiti caratteristici nelle possibilità di comunicazione effettiva e multiforme e, quindi, in primo piano emerge il "problema della stupidità".

La scienza del XIX secolo identificava il punto di vista consueto dello scienziato con la verità e quindi presupponeva possibile la descrizione soltanto dal "mio" (dello scienziato, della scienza) punto di vista, il che si esprimeva, ad esempio, nell'assolutizzazione del punto di vista europeo nell'antropologia e della linguistica indoeuropea o della grammatica latina nella linguistica. Ogni altra descrizione – cioè la descrizione fatta in altri termini – era considerata sbagliata (non civilizzata, barbara) e in ultima analisi inesistente per la scienza. La scienza del XX secolo, al contrario, parte dall'esistenza di vari sistemi di descrizione e s'interessa quindi molto di più del punto di vista dell'"altro" (l'"io" dall'angolo visuale dell'"altro", l'"altro" dal suo proprio punto di vista). L'interesse per la coscienza primitiva incapace di comprendere interviene soltanto come parte dell'interesse per l'angolo visuale dell'"altro".

D'altro lato, il problema stesso della comprensione-incomprensione, e il problema, che immediatamente gli è connesso, dell'intelligenza-stupidità, diventa in notevole grado un problema scientifico proprio nel XX secolo, a differenza della tradizionale scienza illuministica del XIX secolo. Per il XIX secolo il problema della stupidità si situa fuori della scienza, come, in particolare, il problema della mutezza e della patologia del linguaggio si situa fuori della linguistica. Come il linguista presupponeva che per lui esistessero soltanto persone in grado di servirsi in modo giusto e corretto del linguaggio (e, di conseguenza, studiava essenzialmente il modo in cui si deve parlare, e non il modo in cui si parla in realtà, cioè la norma linguistica, e non i dialetti e gli idioletti reali), così il teorico della scienza prendeva le mosse dal fatto che la stupidità è patologia, che può essere oggetto di considerazione (di una stretta cerchia di specialisti), ma non può avere alcun rapporto con i principi stessi della descrizione.

La scienza del XX secolo considera le cose in un altro modo. Si può dire che se il XIX secolo guardava l'"imbecille" con gli occhi dell'"intelligente", per una serie di problemi scientifici di oggi, tra cui alcuni puramente pratici (come, ad esempio, l'elaborazione dei programmi per i calcolatori), l'unica soluzione possibile è la descrizione dei fenomeni complessi dal punto di vista dell'incomprensione, cioè della "stupidità", mentre l'incomprensione, il primitivo, la "stupidità" da anomalia culturale si trasforma in problema culturale.

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Pagina 103

L'unità della cultura [1970]

Jurij M. Lotman


Il Comitato organizzatore della "IV Scuola estiva sui sistemi modellizzanti secondari" propone di mettere al centro dei lavori di quest'anno il problema dell' unità della cultura. L'argomento va esaminato da più angolazioni:

1. Occorre muovere dalla premessa che tutta l'attività dell'uomo diretta a elaborare, scambiare e conservare informazione con l'aiuto di segni, possiede una precisa unità. I diversi sistemi di segni pur presentando strutture a organizzazione immanente, funzionano solo in unità, con l'appoggiarsi l'uno all'altro. Nessun sistema segnico dispone di un meccanismo che gli assicuri un funzionamento isolato. Da questo segue che, accanto a un'impostazione dell'indagine che permetta di costruire una serie di scienze del ciclo semiotico, tra loro relativamente autonome, è anche ammissibile un'altra impostazione nella cui prospettiva tutte queste scienze analizzino singoli aspetti di una semiotica della cultura, scienza della correlazione funzionale dei differenti sistemi segnici.

2. Da questo punto di vista, acquistano un senso tutto particolare i problemi che riguardano la struttura gerarchica dei linguaggi della cultura, la ripartizione dei relativi ambiti, i casi in cui tali ambiti si intersecano o, semplicemente, confinano. È necessario prendere in esame anche quelle condizioni extrasistemiche, a prescindere dalle quali il sistema non è in grado di funzionare (cfr., ad esempio, l'incomprensibilità del linguaggio orale quando lo si trasferisca meccanicamente in una forma grafica).

3. Sarebbe interessante definire l'assortimento minimo di sistemi segnici (di linguaggi culturali) necessari al funzionamento di una cultura nella sua totalità, e costruire il modello delle relazioni più elementari che intercorrono tra essi, il modello della cultura.

4. Andrebbe sottoposto a un'analisi specifica il problema della correlazione tra linguaggi primari e secondari. È davvero obbligatorio tale doppio livello, per la costruzione della cultura, e in che consiste la sua necessità funzionale? È sistema primario soltanto la lingua naturale? Quali proprietà deve possedere un sistema perché sia in grado di intervenire come sistema primario, e quali per assolvere la funzione di sistema secondario?

5. Indagini più particolari potrebbero venir condotte nelle direzioni seguenti:

a) Descrizione del luogo dell'uno o dell'altro sistema semiotico nel complesso generale dei sistemi. Ci si potrebbe benissimo immaginare ricerche del tipo: "Il posto della musica come sistema semiotico nel sistema generale della cultura"; "Il posto della matematica nella cultura intesa come totalità semiotica".

b) Descrizione dell' influenza dell'uno o dell'altro particolare sistema semiotico sugli altri (per esempio, "Il ruolo della pittura nella semiotica della poesia di una data epoca"; "Il ruolo del cinema nella struttura linguistica della cultura coeva").

c) Studio della difformità nell'organizzazione interna della cultura. L'esistenza della cultura in quanto organismo unitario sembra sottintendere la presenza di una diversificazione strutturale interna. Il fenomeno del plurilinguismo interno alla cultura e le cause della sua necessità.

6. Il posto dell'arte nel sistema generale della cultura. Il problema della necessità dell'arte. Il tratto dominante dei diversi tipi di arte.

7. Che cosa determina la necessità di una contrapposizione tra segni figurativi e segni convenzionali nel sistema generale della cultura? È possibile l'esistenza di una cultura senza un bilinguismo di questo tipo? Qual è la motivazione semiotica degli altri tipi di bilinguismo culturale (poesia-prosa, letteratura orale-letteratura scritta ecc.)? È possibile una cultura multilingue?

8. Il problema della tipologia della cultura. Metodi delle descrizioni tipologiche. L'atteggiamento della cultura verso il segno, il testo e la semiosi, visto come base di una caratterizzazione tipologica. Culture paradigmatiche e sintagmatiche. Assortimento minimo di testi e assortimento minimo di funzioni nel concetto di cultura.

9. Cultura e non-cultura. La lotta contro la cultura come problema culturale (caso analogo: il problema della dimenticanza come componente del meccanismo della memoria). Culturoclasi e acculturazione nella storia della cultura. Il problema della riserva strutturale nella cultura (i barbari per l'antichità, i pagani per il cristianesimo, gli ignoranti per i razionalisti, il popolo per l'Illuminismo: la sfera di espansione della cultura).

10. La cultura è memoria della collettività. La continuità culturale assicura al gruppo sociale la coscienza di esistere. Possibilità di uno studio della cultura in quanto memoria organizzata.

11. Il problema dell'evoluzione della cultura. Che cosa provoca la necessità di una sostituzione dei linguaggi culturali? La questione dei cambiamenti immotivati dei sistemi semiotici (cambiamenti nei sistemi fonologici delle lingue, moda ecc.). Costruzione di un modello della dinamica di un sistema semiotico. Modelli con sviluppo a cicli e "a valanga".

12. La cultura come categoria storica. Limiti territoriali, areali e cronologici delle singole culture. Il problema dell'autovalutazione nello spazio e nel tempo (aspirazione all'universalità e all'eternità).

13. La cultura come ambito di conflitti sociali. La lotta per, la memoria della collettività. Norme socialmente prescritte di memoria e dimenticanza.

14. Tratti distintivi di una cultura arcaica. Tipologia storica delle culture. Il problema della metacultura. Correlazione tra componente materiale e componente spirituale nelle culture arcaiche e nelle nuove. Tipologia dell'autovalutazione nelle culture delle diverse epoche.

15. Il concetto di "norma" e di "regola" nella cultura. L'osservanza delle regole e la lotta contro le regole che diventa a sua volta regola (il gioco delle regole che mutano in continuazione).

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Pagina 157

Il mondo del riso: oralità e comportamento quotidiano [1977]

Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij


[...]


Secondo una tradizione profondamente radicata, gli storici equiparano la somma delle fonti scritte alla cultura in quanto tale. Tutto ciò che riguarda l'ambito non direttamente riflesso nei testi – la sfera della comunicazione orale, del comportamento delle persone nelle varie situazioni non prefissate, della gestica e della mimica, del rituale domestico —, viene categoricamente escluso dal campo di analisi. Invece di affrontare le difficoltà legate alla definizione stessa di questo oggetto di studio, si afferma a priori la sua irrilevanza. In egual misura non ci si pone il problema di come influisca sulla natura degli stessi testi scritti il fatto che essi rappresentino soltanto una parte della cultura e non la sua totalità. È invece noto che, rimanendo nei limiti del testo, non è possibile afferrare il suo senso profondo, ma anzi si perde completamente la possibilità di definire la sua funzione nel sistema complessivo della cultura, di definire cioè se si tratti di uno testo autentico o falso, sacrale o sacrilego, alto o basso.

Immaginiamoci uno studioso che prenda in esame in un lontano futuro una qualsiasi epoca vicina alla nostra, e supponiamo che egli abbia a sua disposizione soltanto le fonti letterarie conservatesi sotto aspetto di libri. Estendendo le leggi dei testi a lui accessibili a tutta la cultura nella sua totalità, egli inevitabilmente otterrà un quadro confuso, o meglio, del tutto travisato. Si può con sicurezza affermare che gli risulterà del tutto inaccessibile quello strato che per i portatori della cultura data non è soltanto di per sé evidente, ma anche profondamente importante. Ed è infatti lo strato orale, non fissato, della cultura che in definitiva costituisce la chiave di lettura dei testi scritti permettendo di decifrare il loro reale contenuto.

Persino per quanto riguarda una sfera della cultura così adeguatamente riflessa nei testi come la lingua, lo studioso otterrebbe un quadro del tutto svisato: ovviamente egli dovrebbe supporre che le persone del periodo preso in esame parlavano nella vita di ogni giorno così come risulta dai documenti scritti (ad esempio, nel campo della fonetica egli dovrebbe concludere che nella pronuncia reale dominava lo okan'e, in quanto esso determina le norme della attuale grafia). Ancora più rilevanti sarebbero le perdite e le deformazioni nella ricostruzione di altre sfere più complesse della cultura, le quali sottintendono la suddivisione in sfere per principio appartenenti alla tradizione scritta e in sfere egualmente per principio da essa escluse, in sfere dei testi da un lato, e del comportamento e delle azioni dall'altro, in ambiti regolati da precisi canoni culturali e in ambiti che ammettono anomalie, vale a dire eccezioni alla regola. Se a ciò si aggiunge che la sfera della tradizione propriamente scritta della cultura è sempre gerarchica in relazione al valore e al prestigio, e che non è possibile determinare la collocazione di questo o quel testo in questa gerarchia se non ci si trasferisce dal mondo dei testi all'ambito circostante della vita extratestuale, risulterà allora chiaro quanto angusto e inadeguato sia il mondo dei "testi traditi" in relazione all'intero "mondo della cultura" di questa o quell'epoca.

In pratica, lo studioso non esamina mai – sarebbe semplicemente impossibile – il "mondo dei testi" in maniera isolata, al di fuori delle correlazioni con le idee extratestuali, con il buonsenso della vita di ogni giorno, con tutto il complesso di associazioni che intercorrono con la vita reale. Tuttavia, molto spesso lo studioso delle culture passate si comporta semplicemente così: egli immerge i testi di epoche storicamente passate nel proprio sistema di concezioni della vita quotidiana servendosi di quest'ultimo come della chiave per la decifrazione di quelli. La non correttezza di questa metodica è tanto evidente, quanto ne è ampia la sua diffusione.

La novità del libro di Lichacëv e Pancenko consiste quindi nel porre al centro della propria analisi non i testi in quanto tali, ma i testi come parte dell'insieme onniculturale, direttamente legati al comportamento. Lo stesso comportamento viene esaminato in relazione a un contesto più ampio come fenomeno in possesso di una sua grammatica, di una sua stilistica e dei suoi generi. In questo modo, oggetto dello studio diviene la cultura in quanto tale, costituita dalla letteratura scritta, dal comportamento orale, dal gesto, dalla vita di ogni giorno ecc. Tutto ciò si ricollega ai più generali problemi della concezione del mondo, giungendo così a delineare un cosmo ideologico-culturale onnicomprensivo. Il testo è incomprensibile senza un più vasto confronto con la cultura e, in particolare, con il comportamento delle persone dell'epoca data, e in egual modo il comportamento di queste può essere a sua volta ricostruito soltanto mediante il contributo di un ampio numero di testi. I testi interpretano il reale comportamento delle persone persino nelle sue manifestazioni a prima vista più strane e anormali dal punto di vista della coscienza illuministica dell'epoca moderna, permettendo così di scoprirne il senso, il sistema, la rigorosa etica e l'originale bellezza. Così preso in esame, il mondo della cultura antico-russa cessa di essere sentito dal ricercatore come estraneo e lontano, quasi fosse posto sotto la lente del microscopio. Esso si trasforma in un quadro vivo e in movimento. Il ricercatore cessa di essere un osservatore esterno, egli penetra in questo mondo, libero da ogni degnazione o prevenzione, pronto a comprenderne la logica lontana da quella dei nostri tempi, scoprendo là, ove la storia tradizionale della letteratura non ha trovato nulla di veramente degno di nota, i complessi fenomeni della vita spirituale nelle loro manifestazioni più vicine al popolo.

Oggetto del libro di Lichacëv e Pancenko è un ricco complesso di fenomeni della cultura antico-russa che gli autori definiscono come "mondo del riso" dell'antica Rus'. A esso sono riconducibili le varie manifestazioni del parodiare letterario, del "teatro della vita", dei travestimenti linguistici e comportamentali, a esso è riferibile la penetrazione del gioco nel comportamento "serio" dell'uomo medievale. Nell'ampia cornice di questo quadro gli autori includono fatti diversi della storia della cultura russa: dal comportamento dello jurodivyj sulla piazza della città antico-russa alle forme teatralizzate della "riforma" della opricnina realizzata da Ivan il Terribile.

Come abbiamo detto, lo "Smechovoj mir" Drevnej Rusi è un libro che suscita nei lettori il desiderio di sviluppare, discutere e talvolta anche contestare il pensiero degli autori. Esso certo non si presta molto a una lettura non partecipe e superficiale.

In questo senso, risulterebbe assai opportuno discutere i possibili cammini futuri che potrebbero intraprendere quegli studiosi che, concordando con Lichacëv e Pancenko nei fondamenti della concezione da questi proposta, si pongano il fine di proseguire nella direzione da questi ultimi indicata nelle sue linee fondamentali. Un primo passo in questa direzione sembrerebbe dover essere la precisazione del concetto stesso di "mondo del riso" e di "cultura del riso". Questo concetto fu introdotto in ambito scientifico da Michail Bachtin (1965; 1975) e ha ottenuto un'ampia risonanza, mostrando subito la propria utilità nell'interpretazione teorica della storia della letteratura. L'uso di questo termine da parte degli autori del libro preso in esame non soltanto è giustificato, ma è anche ricco di prospettive, in quanto ha permesso di distinguere e raggruppare un'ampia serie di fenomeni culturali in precedenza non ben definiti o, peggio ancora, nemmeno notati. Tuttavia, giacché il lettore ricollega a questo termine, come è naturale, le concezioni contenutistiche di Bachtin già da tempo affermatesi, si sarebbe dovuto distinguere il concetto di "cultura del riso", quale si è venuto delineando sulla base del materiale europeo occidentale, dai fenomeni prettamente russi descritti dagli autori.

Il riso, nella concezione della cultura medievale costruita da Michail Bachtin, è un principio che rimane fuori delle severe limitazioni etiche e religiose poste a fondamento del comportamento dell'uomo dell'epoca. Con la sua natura popolare, ribelle e dissacrante il riso, secondo Bachtin, elimina le gerarchie etico-sociali del Medioevo, esso è areligioso e senza stato per sua natura. Il riso trasferisce l'uomo medievale nel mondo dell'utopia popolare del carnevale, strappandolo al potere dei coevi istituti sociali.

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