Copertina
Autore Julia Lovell
Titolo La Cina contro il mondo
SottotitoloStoria della Grande Muraglia dal 1000 a.C. al 2000 d.C.
EdizioneNewton Compton, Roma, 2007, I volti della storia 202 , pag. 330, ill., cop.ril.sov., dim. 15,5x23x2,8 cm , Isbn 978-88-541-0838-7
OriginaleThe Great Wall
EdizioneAtlantic, London, 2006
TraduttoreMilvia Faccia
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe paesi: Cina , storia antica , storia medievale
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Indice


  7  Note sulla romanizzazione e sulla pronuncia
  8  Nota sui nomi
  9  Introduzione


 31  1. Perché i muri?
 49  2. Il Lungo Muro
 65  3. Le mura degli Han: Plus ça change...
 87  4. Spostamenti di frontiere e barbari decadenti
108  5. La Cina riunita
124  6. Senza muri: le frontiere cinesi si espandono
141  7. Il ritorno dei barbari
158  8. Un esempio di apertura e chiusura:
        la prima frontiera dei Ming
183  9. Nasce la Grande Muraglia
200 10. La Grande Caduta Cinese
224 11. E i barbari crearono la Grande Muraglia
252 12. Come la Grande Muraglia venne tradotta in cinese

274  Conclusione. La Grande Muraglia,
     il Grande Centro Commerciale e
     la Grande Barriera Informatica

     APPENDICI
299  1. Personaggi
305  2. Cronologia delle dinastie
306  3. Date significative nella storia cinese e
        nella costruzione della Grande Muraglia


314  Ringraziamenti
315  Bibliografia scelta
323  Indice analitico



 

 

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Pagina 9

Introduzione
Chi costruì la Grande Muraglia cinese?



Il 26 settembre 1792, il re Giorgio III inviò in Cina la prima missione commerciale inglese, un gruppo di 700 persone comprendente diplomatici, uomini d'affari, militari, scienziati, pittori, un orologiaio, un giardiniere, cinque musicisti tedeschi, due preti cinesi residenti a Napoli e un pilota di aerostati. Stipati a bordo di tre solide navi, quegli uomini portavano con sé i più straordinari prodotti del recente progresso scientifico occidentale — telescopi, orologi, barometri e, naturalmente, un pallone aerostatico — tutte cose che avrebbero dovuto stupire l'imperatore Qian-long e indurlo ad avviare commerci con l'Occidente, convincendolo che egli e i suoi 313 milioni di sudditi avevano bisogno delle meraviglie tecnologiche britanniche.

Nel decennio precedente, la Gran Bretagna aveva accumulato un grave deficit commerciale con la Cina: se da una parte i Cinesi erano ben contenti di soddisfare la passione degli inglesi per il tè, dall'altra non desideravano nulla in cambio, a parte grandi quantità di argento. I pochi commercianti britannici, dipendenti della Compagnia delle Indie orientali, ai quali veniva concesso di operare in Cina, erano confinati nella città di Canton, il più lontano possibile dalla capitale politica, Pechino, e costretti ad occupare magazzini e abitazioni infestati dai topi. Non potevano avere contatti con i Cinesi, né imparare la loro lingua, e dovevano svolgere la propria attività passando per i funzionari del posto, che si divertivano ad estorcere pesanti dazi doganali ai loro ospiti. Sembrava che ogni livello della gerarchia economica fosse impegnato a truffare gli occidentali, dal sovrintendente provinciale della Dogana marittima fino ai negozianti locali, che riempivano i marinai stranieri di liquori pericolosamente forti allo scopo di «derubarli di tutto il denaro che avevano con sé». Mentre i profitti della Compagnia delle Indie orientali in Cina non riuscivano a compensare i costi del governo dell'India e i consumatori inglesi di tè aumentavano il passivo della bilancia commerciale, l'Asia stava rapidamente diventando un pozzo senza fondo per il denaro britannico.

[...]

A parte questa breve concessione all'indagine basata sulla realtà dei fatti, la Muraglia, nella sua moderna veste di emblema nazionale, è in generale talmente distante dalla verità storica da essere ormai utilizzata come simbolo applicabile a qualsiasi aspetto della nazione e perfino dell'umanità. «La Grande Muraglia possiede il carattere della nazione cinese», ha ipotizzato uno studioso. «Possiede anche la natura comune a tutti gli esseri umani». «La Grande Muraglia», ha arguito un altro teorico dell'opera, «non va interpretata solo come una barriera, ma anche come un fiume che unisce popoli di varie origini etniche, offrendo loro un riparo e un luogo d'incontro comuni». Luo Zhewen, vicepresidente dell'Associazione cinese della Grande Muraglia, ha trasformato quest'ultima in una mascotte storica multiuso, dichiarando che essa è contemporaneamente un prodotto della società feudale e uno stimolo per «il popolo a progredire nella realizzazione di un socialismo con caratteristiche cinesi», che creò la prima nazione cinese unita e centralizzata, e ha contribuito a formare una Cina multinazionale. Per gli elastici pensatori cinesi contemporanei, l'opera è allo stesso tempo esclusivamente nazionale e chiaramente globale, promuove sia l'autosufficienza sia l'internazionalismo, sostenne il feudalesimo e attualmente favorisce il suo peggior nemico, il socialismo, respinse gli invasori e costruì l'amicizia nella steppa, definì una Cina a sé stante e monolitica, e la rese multiculturale. Non chiamatela più Grande Muraglia: Super Muraglia rende meglio l'idea. Rinunciando ad ogni pretesa di sofisticheria storica, un osservatore afferma semplicemente che essa «è un miracolo mondiale. Non sto facendo il panegirico di me stesso solo perché sono cinese. La logica e il buon senso suggeriranno ovunque a tutti che questa è la realtà dei fatti».

Fino a un certo punto, questo plauso entusiastico e confuso è perfettamente comprensibile: la Muraglia è innegabilmente un'opera straordinaria – soprattutto considerando la mancanza di moderna tecnologia dei suoi costruttori – che si estende per varie migliaia di chilometri da est verso ovest attraverso territori difficili e a volte tremendamente inospitali, superando montagne impervie, pianure desolate, colline friabili, oasi sabbiose e gelide regioni della Cina settentrionale e della Mongolia Interna. La cattiva fama storicamente attribuita agli aggressori contro i quali essa fu costruita, in particolare le orde dei Mongoli guidati da Gengis Khan, ha ulteriormente accentuato il senso drammatico di cui sono ammantate le immagini evocative della sua topografia. Ma negli ultimi cento o duecento anni, gli entusiasti della Muraglia hanno mandato giù troppa propaganda e trascurato di notare molte testimonianze di un passato meno glorioso. L'estasiata attenzione da parte di turisti, politici, patrioti e astronomi marziani non è che un recente, insignificante e fantasioso episodio in millenni di storia cinese. Per gran parte dei 2000 anni in cui è esistita in qualche forma nel nord della Cina, la Muraglia è stata di volta in volta considerata irrilevante, ignorata, criticata, disprezzata e abbandonata, sia fisicamente come costruzione difensiva, sia in senso figurato come idea.

Il primo importante mito della Grande Muraglia è la sua unicità, come se si trattasse di una singola antica struttura con un passato regolarmente documentato. In contrasto con il prestigio e la celebrità popolari di cui essa gode attualmente, nelle fonti premoderne i riferimenti al termine cinese changcheng, oggi universalmente tradotto con "Grande Muraglia", sono sparsi e discutibili. Usato originariamente nel I secolo d.C. per indicare mura costruite nei due secoli precedenti, il nome raramente affiora tra la fine della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) e l'inizio di quella Ming (1368-1644). I muri di confine erano invece menzionati con una sconcertante varietà di termini: yuan (baluardo), sai (frontiera), zhang (barriera), bian zhen o bian qiang (guarnigione di frontiera o muro di confine). L'impressionante Grande Muraglia di pietra a nord di Pechino attualmente visitata ogni anno da milioni di turisti, non è antica di migliaia di anni, ma solo di 500, e fu costruita sotto i Ming; inoltre, la maggior parte dei suoi bastioni relativamente recenti oggi è in abbandono e presenta ben poche attrattive per gli occasionali escursionisti. I pochi tratti montani accessibili ai visitatori, ad esempio il passo di Badaling, a due ore di pullman a nord della capitale, furono restaurati solo nella seconda metà del secolo scorso da operai comunisti. Anche se già nel primo millennio a.C. molti regni e dinastie costruirono muri in varie parti nel nord della Cina e in Mongolia, questi ormai sono per lo più scomparsi, lasciando poche rovine che spuntano dal terreno polveroso della Cina nord-occidentale o terrapieni ricoperti di muschio sporgenti dal suolo come cicatrici. In certi punti, nei tratti più settentrionali, dove d'inverno il deserto ghiaioso è qua e là punteggiato di chiazze d'erba gelata, la Muraglia è ormai diventata talmente bassa da essere praticamente invisibile se non la si libera dalla neve che la ricopre. In millenni di storia cinese documentata, queste barriere sono state raramente chiamate Changcheng. Pertanto, non esiste un'unica Grande Muraglia, ma una serie di muri minori.

Una seconda idea errata sulla Muraglia cinese e sulle mura in generale è che esse costituissero dei confini invalicabili tra nazioni e culture e spesso tra civiltà e barbarie. La tendenza da parte dei Romani e degli antichi Cinesi a stabilire frontiere fisse incoraggia il malinteso che in passato vi fosse un gran numero di Paesi stranieri, tutti con confini esattamente tracciati. Ma la storia cinese relativa alla costruzione di mura non giustifica l'idea di una frontiera in mattoni e malta eretta per separare la Cina dai barbari del nord. Benché esistessero notevoli differenze, ad esempio, tra i Cinesi e i nomadi mongoli al di là della Grande Muraglia, non è vero che i muri di confine servissero a dividere rigidamente una cultura del riso, della seta e della poesia da una parte, e una cultura del latte di giumenta, delle pellicce e della guerra dall'altra. Il Celeste Impero viene spesso considerato elitario ed isolazionista, forte del suo senso di superiorità e della propria autosufficienza, debole per la mancanza di apertura alle influenze esterne. Questa visione trascura del tutto l'importanza del fattore straniero nella storia cinese. In lunghi periodi del suo passato, la Cina è stata governata da imperatori e generali amanti della cultura delle steppe settentrionali, fatta di cavalli, iurte, casacche, gioco del polo, o da tribù nordiche e dai loro discendenti. La frontiera e la linea muraria variavano con ogni dinastia. Molti dei governanti non cinesi costruirono essi stessi fortificazioni per difendersi da altri popoli nordici, una volta stabilito il controllo sul Paese e dopo averne adottato i costumi.

Un terzo, e abbastanza naturale, equivoco contemporaneo riguardo alla Grande Muraglia è che essa sia, e sia sempre stata, "Grande". Tale nozione trae origine, come in molti altri casi, da un'inesattezza linguistica. I muri di confine cinesi guadagnarono senza dubbio qualcosa dalla traduzione: Changcheng, il termine solo sporadicamente usato prima del XX secolo, è stato reso con "Grande Muraglia", mentre in realtà significa letteralmente "Lungo Muro", definizione tutt'altro che spregiativa, è vero, ma priva dell'ampollosa connotazione di "Grande". Ciò ha alimentato in maniera del tutto arbitraria affermazioni nello stile di Nixon che una Grande Muraglia deve avere un Grande Passato, insieme a un Grande Popolo, un Grande Futuro e tutto il resto. In realtà, le cose stanno ben diversamente. Nei suoi 2000 anni di storia, la costruzione della Muraglia cinese non fu sempre un simbolo di forza e prestigio nazionali. Spesso venne adottata come strategia per difendere la frontiera dopo aver esaurito o scartato tutte le altre possibilità di trattare con i barbari: diplomazia, commercio, spedizioni punitive. Non di rado fu un segno di debolezza militare, incapacità diplomatica, paralisi statale e politica fallimentare che portarono alla caduta di varie dinastie un tempo prestigiose (l'espressione cinese per "essere indeciso" vuol dire letteralmente "cavalcare il muro"). Costruire barriere costituiva generalmente una scelta impopolare, perché associata alla difesa e al collasso politico, nonché a casate imperiali di breve durata come i brutali Qin (221-206 a.C.) – la prima dinastia ad erigere un bastione più o meno continuo attraverso la Cina settentrionale – o i Sui (581-618). E in fondo la Grande Muraglia non si è rivelata molto efficace per proteggere il Paese dalla rapacità dei barbari. Fin da quando vennero costruiti i primi baluardi lungo le frontiere cinesi, essi fornirono soltanto un vantaggio temporaneo contro predoni decisi ad entrare.

Quando Gengis Khan e le sue orde mongole invasero la Cina nel XIII secolo, i muri di frontiera si dimostrarono un ostacolo tutt'altro che insormontabile. La Grande Muraglia non offrì alcuna protezione ai suoi maggiori costruttori, i Ming, dai loro più pericolosi avversari, i Manciù del nord-est, che dal 1644 governarono il Paese con la dinastia Qing. Gli invasori potevano aggirare i tratti meglio difesi fino a trovare punti deboli e varchi o, con minor fatica, semplicemente corrompere ufficiali cinesi perché aprissero i forti lungo la barriera. Quando i Manciù decisero di sferrare l'attacco finale a Pechino nel 1644, furono fatti passare attraverso un'apertura della Grande Muraglia da un amareggiato generale cinese. Come disse, secondo qualcuno, lo stesso Gengis Khan: «La forza delle mura dipende dal coraggio di coloro che le sorvegliano».

Per andare oltre il mito contemporaneo e scoprire qualcosa che si avvicini alla realtà storica, ho voluto evitare l'anacronistica imprecisione dell'ampolloso termine "Grande Muraglia" che gli osservatori occidentali imposero arbitrariamente alle difese di frontiera della Cina a partire dal XVII secolo; l'uso di tale espressione in questa sede sarà perciò "sospeso" fino a quando, come vedremo in un capitolo successivo, essa verrà coniata dai primi visitatori stranieri moderni. Finora, nel descrivere e distinguere le fortificazioni di confine costruite dalle varie dinastie, ho cercato di usare i nomi forniti da fonti cinesi contemporanee o quasi. Dove Changcheng, la parola oggi tradotta con "Grande Muraglia", compare in un contesto premoderno, senza i toni retorici degli ammiratori occidentali, ho adottato la traduzione letterale e più precisa di "Lungo Muro".

Non c'è da meravigliarsi che il passato meno glorioso delle mura cinesi sia stato in seguito eclissato dal romanticismo storico. Forse perché la costruzione dei muri di frontiera era costata tanto tempo e denaro, coloro che furono poi incaricati della loro manutenzione spesso trovarono difficile denunciarne l'inutilità strategica (purché, naturalmente, non fossero associati a un'ideologia o un regime aborriti, come il Muro di Berlino). Gli apologeti della Linea Maginot, l'elaborato sistema di bunker sotterranei e gallerie lungo il confine francese che determinò uno dei più grandi fallimenti difensivi del XX secolo, sottolineano con orgoglio che nonostante l'eccessiva concentrazione di risorse sulla Linea esponesse la Francia a invasioni da altri lati, nonostante i tedeschi l'avessero aggirata facilmente, entrando in Francia attraverso il Belgio, l'Olanda e le Ardenne, nonostante la Francia fosse stata sconfitta e occupata di conseguenza, la Linea stessa non fu mai presa con la forza, e le truppe che la presidiavano si arresero volontariamente (sia pure sotto la costrizione dell'accerchiamento nazista). Anche se non fu in grado di proteggere la Francia, anche se non servì allo scopo per cui era stata realizzata, sostiene la logica riabilitante, qualcosa la Linea Maginot riuscì a difendere ottimamente: se stessa. Analogamente, il ricordo dei fallimenti storici della Grande Muraglia – i suoi corruttibili guardiani, i varchi che lasciavano entrare tranquillamente i nomadi, il fatto che alcuni tratti erano ancora in costruzione quando Pechino cadde nelle mani dei Manciù nel 1644 – è stato completamente soppresso dagli attuali panegirici che ne celebrano la lunghezza, la larghezza e la generale Grandezza. Le apparenze, a quanto sembra, contano più della sostanza.

La facilità con cui accettiamo la propaganda sulla Grande Muraglia deriva anche dal nostro contesto storico. Nell'Occidente contemporaneo, dove occupazioni e invasioni sono ormai considerate roba dei trascorsi millenni, la costruzione di muri sembra una pittoresca idea d'altri tempi, buona per usi privati e domestici, come tener fuori correnti d'aria o sostenere un terrapieno, e per pochi altri scopi. La nostra, come amiamo pensare, è un'era di globalizzazione, definita non da ostacoli o barriere, ma dal libero flusso di trasporti, commerci, finanza e informazioni attraverso permeabili confini nazionali. Raramente oggi combattiamo su qualcosa di tanto arcaico come campi di battaglia o fortificazioni. Le guerre, sembrano ritenere i nostri governi, si conducono meglio dal cielo o a distanza: bombe a guida laser e missili da crociera sono le armi preferite. Con la recente, notevole eccezione dell'invasione dell'Iraq, per le potenze occidentali impegnare truppe di terra per lunghi periodi in zone di conflitto costituisce l'ultima, impopolare risorsa. I muri e le barriere sono monumenti di un mondo perduto anteriore al 1989, quando la vita era sufficientemente lenta e statica da rendere ancora utili le difese fisse, quando vi erano abbastanza superideologie istituzionalizzate (capitalismo, comunismo, espansionismo tedesco) da richiedere l'erezione di baluardi ben definiti. La storia, in ogni caso, si è fatta beffe di quei governi o individui tanto sciocchi da costruire muri difensivi nel XX secolo; si consideri di nuovo l'umiliante aggiramento della Linea Maginot da parte dei tedeschi nel 1940 o l'entusiastica distruzione del Muro di Berlino cinquant'anni dopo.

E adesso che praticamente nessuna frontiera nazionale, a parte anomalie come la Corea del Nord, impedisce la diffusione della cultura globale, della Coca-Cola e delle Nike (o Mike, come i contraffattori cinesi ne pronunciano il nome), non sembra più esistere una netta linea divisoria tra barbarie e civiltà, e non è più necessario costruire muri per separare i buoni dai cattivi. La vaga indulgenza verso la Grande Muraglia della Cina e la tendenza a ignorarne i gravi insuccessi trae origine, almeno in parte, dall'idea che i muri difensivi siano poco più che reliquie del passato, spettacoli per turisti affamati di souvenir, cose prive di qualunque importanza per noi moderni. I muri ci fanno pensare a un mondo d'altri tempi, fatto di castelli, fossati, posti di guardia e ponti levatoi; nessuno, è il tacito assunto, potrebbe oggi essere così ingenuo da sprecare denaro per costruire mura a difesa delle frontiere.

Gli esseri umani, tuttavia, non sono mai stanchi di lottare per la terra e, ovunque vi siano dispute territoriali, mostrano di amare ancora i muri. Nel corso della storia, sono stati forse i Cinesi i più attivi in questo senso, ma l'impulso a costruire barriere è universale, condiviso da tutte le antiche civiltà, come quelle romana, egizia e assira. Ed è un impulso che in realtà è sopravvissuto al XX secolo, alla fine della guerra fredda e all'ipotizzata Fine della Storia. Nel 1980, il Marocco iniziò la costruzione di un muro lungo oltre 2000 chilometri in mezzo al Sahara occidentale, nel tentativo di controllare l'ex territorio spagnolo che aveva occupato dopo la decolonizzazione seguita alla morte di Franco nel 1975. Dal 2002, Israele sta costruendo un muro "difensivo" «inteso a impedire l'ingresso di terroristi, armi ed esplosivi nello Stato» tra i Territori Occupati e l'area principale del territorio israeliano. Definirlo semplicemente un muro lo fa sembrare qualcosa di più innocuo di quanto sia in realtà. Non si tratta di una normale costruzione in pietra o mattoni, ma di una barriera che si estende per centinaia di chilometri, larga in media 70 metri, realizzata soprattutto in cemento e comprendente filo spinato, reti elettrificate, camminamenti, corsie per i carri armati di pattuglia e zone vietate da entrambi i lati.

A parte ricordarci che i muri rimangono una risorsa preferita dai costruttori di imperi in ogni dove, queste due moderne barriere chiariscono un motivo spesso dimenticato della loro realizzazione: offesa, più che difesa. I muri sono generalmente considerati una misura protettiva, in contrasto con la strategia delle campagne di conquista e delle incursioni. In misura piuttosto notevole, l'orgoglio cinese per la Grande Muraglia si basa sull'assunto che, come fattore militare strategico, essa è altamente morale, avendo uno scopo protettivo, non aggressivo, ed esprimendo la natura fondamentalmente amante della pace, non conflittuale, non imperialista e non ingorda della Cina (ancora oggi, l'immagine che i Cinesi hanno di se stessi lascia ampio spazio all'idea che la politica estera del loro Paese sia sempre stata esclusivamente difensiva, respingendo invasioni, mai attuandole; l'occupazione del Tibet indipendente nel 1950 non è che una notevole dimenticanza fra tante). «Dal momento che il nostro popolo è pacifico per temperamento», ha argomentato uno studioso cinese, «nel corso di migliaia di anni una dinastia dopo l'altra diede al mondo quel miracolo che è la Grande Muraglia».

Lo scopo dei muri, tuttavia, dipende interamente dal luogo dove vengono costruiti. Cingere in maniera stabile insediamenti come città o fattorie per tenere lontani predoni nomadi ha indubbiamente un fine difensivo. Ma né il Marocco né Israele hanno costruito le loro barriere abbastanza vicino ai rispettivi Stati per dar loro un sia pur remoto significato protettivo: il muro marocchino è in mezzo al Sahara, e il 90 per cento di quello israeliano devia considerevolmente dalla Linea Verde tra Israele e i Territori Occupati, addentrandosi in Palestina; quando sarà ultimato, si prevede che taglierà fuori il 15 per cento della Cisgiordania e 200.000 palestinesi dal complesso principale dei loro insediamenti nell'area. C'è poco da sorprendersi, quindi, che entrambe le strutture siano state denunciate dagli abitanti delle due regioni interessate e dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani come muri di «occupazione», di «vergogna e tortura». La logica delle antiche mura di confine cinesi può anche essere riconsiderata sotto questa luce: in base a recenti interpretazioni dello scopo della Grande Muraglia, essa fu concepita per proteggere i pacifici agricoltori cinesi e le loro civili città da barbari malvagi e rapaci. Ma i muri costruiti nel primo millennio a.C. penetrano per lunghi tratti nelle steppe mongole e nei deserti salati della Cina nord-occidentale, a centinaia di chilometri di distanza dalle terre coltivabili. Essi sembrano costruiti più per occupare territori che per proteggerli, allo scopo di consentire ai Cinesi di sorvegliare popolazioni con uno stile di vita diverso dal loro e controllare redditizie vie commerciali.

La zona di confine tra la parte settentrionale del Paese e ciò che è al di là – Manciuria, Mongolia, il deserto dello Xinjiang – è spesso stata teatro dell'aggressivo imperialismo cinese, e uno sguardo ai millenni di politica frontaliera della Cina compromette definitivamente l'altisonante teoria della Grande Muraglia come monumento allo spirito pacifico e conciliante del Paese. Durante la maggior parte delle dinastie e delle epoche storiche, il linguaggio della politica e del controllo messi in atto nelle zone di confine parla di un'aperta, aggressiva xenofobia e di un senso di superiorità culturale, con ufficiali di frontiera che ricevono titoli come "Generale che annienta i codardi" e i loro capisaldi fortificati che vengono battezzati "Torre per distruggere il Nord" o "Forte per sconfiggere le genti di confine". Il nome con cui era stata in origine chiamata una postazione presso un valico nel nord-ovest, "Forte dove vengono uccisi i barbari" (Shahubao), fu in seguito considerato, perfino secondo gli standard cinesi, politicamente scorretto, e l'ideogramma per barbaro, hu, venne sostituito da un omofono che significa "tigre". Anche alcune lastre di pietra trovate in siti presso la frontiera settentrionale della Cina informavano senza mezzi termini i viandanti che "tutti gli stranieri si sottomettono".

Nondimeno, benché i muri di frontiera cinesi non corrispondano storicamente a tutto ciò che oggi viene ascritto alla Grande Muraglia, e anche se la finzione moderna generalmente adulatoria a questo riguardo oscura in gran parte la complessità del passato della Cina, la costruzione e il pensiero dietro di essa non devono essere scartati come relitti antistorici. In quanto strategia sopravvissuta per oltre due millenni, la Muraglia può essere considerata una monumentale metafora per comprendere la Cina e la sua storia, per definire una cultura e una visione del mondo che è riuscita ad affascinare e assorbire quasi tutti i suoi vicini e conquistatori. Nelle pagine iniziali di Bad Elements, in cui narra la sua odissea nel movimento filodemocratico cinese, Ian Buruma non si lascia sfuggire la Grande Muraglia per spiegare il «problema della Cina»: la persistente preoccupazione dei suoi governanti di amministrare «un universo chiuso, inaccessibile, autarchico, un regno cinto da mura al centro del mondo». Per Buruma la Grande Muraglia, con la sua duplice implicazione di protezione e oppressione, simboleggia la cultura politica della segretezza e l'orgoglioso isolazionismo culturale che ha favorito millenni di autocrazia e che continua a sostenere l'attuale governo comunista e a resistere all'idea di democrazia, sulla base del fatto che un sistema aperto e democratico porterebbe caos e dissidio nella rigida tradizione cinese. La maggior parte dei Paesi, egli osserva, ha i loro moderni simboli architettonici nazionali che proiettano all'esterno l'immagine alla quale desiderano essere associati nella visione internazionale: la Francia ha la sua icona modernista, la Torre Eiffel, la Gran Bretagna il palazzo del Parlamento, un monumento alla democrazia. La Cina, non a caso, ha la Grande Muraglia, una cerchia muraria eccessivamente costosa costruita per escludere e opprimere, e oggi acclamata come una meraviglia del retaggio nazionale.

Ma la Grande Muraglia rappresenta una concezione del mondo che è allo stesso tempo più complessa e meno enfaticamente trionfale dello stridente simbolismo visivo della struttura stessa, una visione che rivela i meccanismi dei lunghi periodi di continuità della storia cinese, l'importanza delle influenze straniere nonostante i ripetuti tentativi per respingerle, e che offre anche un indizio per comprendere il senso che la Cina ha di sé e del mondo esterno (e viceversa). Una volta sollevati gli strati del mito, l'opera è, in realtà, un emblema utilissimo per capire la Cina; il male, inevitabilmente, è nel dettaglio storico.

Il presente libro guarderà oltre la moderna mitologia della Grande Muraglia e dei Cinesi costruttori di muri, svelando 3000 anni di storia di gran lunga più frammentari e meno ovviamente gloriosi di quanto oggi pensino le sue folle di visitatori. La storia dell'opera si snoda attraverso quella dello Stato cinese e della politica di frontiera che la definì, attraverso le vite di milioni di individui che la sostennero, la criticarono, la costruirono e l'attaccarono. Ora acclamata come un simbolo dell'autodefinizione cinese, della grandezza culturale, del genio tecnico e della tenacia necessari per costruirla, la Muraglia ha anche presentato una serie di connotazioni assai più negative: la desolazione della frontiera, a migliaia di chilometri dal cuore della civiltà cinese, la sofferenza e il sacrificio dei suoi costruttori, il dispendioso espansionismo coloniale e il soffocante conservatorismo culturale, il controllo e la repressione di coloro che si trovavano al suo interno. È tempo di vederla meno come è oggi, una grande attrazione turistica, un'impressionante opera d'ingegneria lungo una frontiera ormai priva di significato, e più come è stata nel corso della sua storia.

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Perché i muri?



«Muri, muri e ancora muri formano la struttura di ogni città cinese», scrisse lo storico dell'arte Osvald Sirèn negli anni Trenta del secolo scorso.

La circondano, la dividono in blocchi e recinti, contrassegnano più di ogni altra struttura le caratteristiche fondamentali delle comunità cinesi... non esiste una città senza un muro. Sarebbe una cosa inconcepibile, come una casa senza un tetto... Difficilmente si trova un villaggio di qualsiasi epoca e dimensione nella Cina settentrionale che non abbia almeno un muro di fango, o i resti di un muro.

L'amore dei Cinesi per le cinte murarie è attestato dalla loro stessa lingua. Le prime versioni (circa 1200 a.C.) degli ideogrammi per "insediamento" e "difesa" rappresentano zone recintate; entrambi i concetti erano inimmaginabili senza chiusure sui quattro lati. Nel periodo classico, si usava la stessa parola per indicare la città e le sue mura: cheng. Il carattere che significa "città capitale" (pronunciato jing) riproduceva originariamente un posto di guardia sopra una porta di accesso a una città.

Fin dall'inizio, la costruzione di muri e la lingua scritta si sono intrecciate a definire la civiltà cinese in senso sia fisico che figurativo, separando e distinguendo le popolazioni e gli insediamenti della Cina dai vicini del nord, meno stanziali ed evoluti. Per capire l'impulso millenario dei Cinesi alla costruzione di muri e comprendere il conflitto alla sua base, dobbiamo risalire alle origini di queste due culture assolutamente incompatibili, ma geograficamente attigue: da una parte la Cina agricola, sicura della propria civiltà e protetta da mura, dall'altra le tribù nomadi delle steppe mongoliche dedite alla pastorizia.


Una quindicina d'anni fa, il Partito comunista cinese, una volta portati a termine i compiti più urgenti dopo i fatti di piazza Tien An Men, liberando le strade dai cadaveri dei civili, emanando una lista dei principali ricercati e arrestando quegli attivisti che non erano riusciti a mettersi in salvo oltre confine, si concentrò sulla rieducazione politica. Dal momento che i fucili dell'Esercito popolare di liberazione, ragionarono correttamente i leader del partito, erano stati rivolti contro il Popolo stesso, i princìpi comunisti da soli non sarebbero bastati a persuadere i Cinesi della legittimità del governo autocratico socialista. Alla ricerca di una nuova religione sponsorizzata dallo Stato, escogitarono una versione vecchio stile di un concetto ormai superato: un nazionalismo esterofobo alimentato da una profonda diffidenza verso l'Occidente, deciso, come venne insistentemente ripetuto alle masse cinesi, a frenare una Cina emergente.

Per convincere i sudditi — i quali tra il 1989 e il 1991 avevano assistito al crollo degli Stati comunisti in Europa - che una democrazia aperta in stile occidentale non era adatta a una Cina socialista governata da un unico partito, i capi di quest'ultimo misero in atto un'energica campagna di educazione patriottica per dimostrare che il Paese possedeva una peculiare "condizione nazionale" (guoqing) che la rendeva impreparata per la democrazia. La storia cinese, o una particolare visione di essa, divenne ben presto una delle armi più importanti nell'arsenale della propaganda del partito, con l'affermazione che i comunisti erano semplicemente gli eredi di un modello provato e sperimentato dell'unica, autoritaria nazione cinese presumibilmente costituita 5000 anni fa; una data che grosso modo coincide con il periodo di regno attribuito all'Imperatore Giallo, il mitico capostipite fondatore della Cina che avrebbe governato all'inizio del terzo millennio a.C. (nel 1994, un membro della nomenklatura testimoniò la propria rispettosa fede nel leggendario precursore deponendo fiori e piantando un albero durante una cerimonia commemorativa in suo onore). Approfittando del tradizionale, sia pur vago, orgoglio dei Cinesi per l'antichità del loro Stato, la campagna comunista di educazione patriottica trasformò l'idea di una nazione nata già completamente formata migliaia di anni or sono in un cliché ripetuto all'infinito da agenti della nomenklatura cinese, da numerosi accademici opportunisti e da indolenti guide turistiche per far credere a chiunque fosse disposto ad ascoltare, cinese o straniero, che la Cina era stata sempre così e lo sarebbe rimasta per l'eternità (a meno che i comunisti non decidessero altrimenti).

Naturalmente, come in tutta la grande propaganda, c'era ben poco di vero, e non soltanto perché l'Imperatore Giallo fu con ogni probabilità l'invenzione di un gruppo di aristocratici bramosi di potere nel 450 a.C. In realtà vi sono basi sufficienti per arguire che la nazione cinese nacque solo 100 anni fa quando, vedendo il Paese brutalmente gettato nel moderno contesto di relazioni internazionali che l'Occidente aveva costruito a propria immagine, invaso da potenze straniere, lacerato da ribellioni interne, ostacolato da una dinastia reazionaria e decadente, e arretrato a causa di un sistema educativo e morale bimillenario che non voleva avere nulla a che fare con la scienza occidentale e il mondo moderno, pensatori e politici cinesi abbracciarono l'idea di una rinascita nazionale per salvarlo dal pericolo di un crollo imminente. Prima di allora, non esisteva nemmeno un unico termine universale per "Cina", dal momento che di volta in volta si usava il nome della dinastia al potere. Benché senza dubbio potente e duraturo attraverso i millenni, il concetto di impero cinese era assai più flessibile e vago della rigidità del moderno nazionalismo, con i suoi libri di testo, musei e progenitori in vetrina; un concetto delineato nei suoi tratti principali da lenti processi di evoluzione sociale, economica, culturale e politica iniziata circa 10.000 anni fa. L'immutabilità di una singola Cina unificata, antica di cinquemila anni, è una creazione del XX secolo.

Tuttavia, grazie alle scoperte archeologiche del secolo scorso possiamo almeno tracciare una cronologia approssimativa degli sviluppi culturali preistorici da cui alla fine sarebbe emerso un impero cinese riconoscibile. La coltivazione della terra, principale fondamento dello stile di vita cinese, iniziò nelle province settentrionali intorno all'8000 a.C. Gli odierni visitatori non potrebbero immaginare che le friabili, gialle pianure dello Shanxi e dello Shaanxi fossero un tempo un ambiente ospitale per apprendisti agricoltori, ma il terreno poco boscoso e facilmente lavorabile della Cina settentrionale, irrigato dal corso inferiore del Fiume Giallo, incoraggiava un'agricoltura primitiva già 10.000 anni fa, in un'epoca in cui il sud del Paese era ancora una giungla impraticabile.

Lo sviluppo dell'agricoltura indirizzò la società cinese lungo un percorso evolutivo più stabile. La sicurezza a lungo termine delle coltivazioni dipendeva dal controllo su vasta scala delle risorse idriche, il che a sua volta richiedeva forme sempre più sofisticate di organizzazione sociale e politica. Non c'è da sorprendersi, quindi, che uno dei più popolari tra gli antichi eroi cinesi, tutti venerati per aver apportato alla Cina preistorica fondamentali innovazioni tecniche, politiche o culturali (il fuoco, la scrittura, la medicina e così via), sia Yu, un ingegnere idraulico e costruttore di canali autodidatta che si ritiene sia vissuto verso l'inizio del secondo millennio a.C. Nel 2000 a.C. gli agricoltori della Cina settentrionale cominciavano ormai a lasciarsi dietro tracce di una civiltà via via più complessa: splendidi e fantasiosi vasi, campane e armi di bronzo, ossa usate per la divinazione, grandi opere murarie e sepolture. Si trattava di una società già altamente ritualizzata, capace di organizzare la mano d'opera per realizzare imponenti progetti pubblici, come la costruzione di edifici e l'estrazione di minerali dal sottosuolo.

Questa civiltà emerge nella documentazione scritta solo nel XIII secolo a.C. grazie a Wang Yirong, un epigrafista e funzionario civile del XIX secolo il cui occhio acuto fece una delle più sensazionali scoperte della moderna archeologia. Nel 1899, mentre nella capitale infuriava un'epidemia di malaria, una delle cure più popolari e ritenute più efficaci propinata agli abitanti atterriti e malati era una zuppa fatta con ossa di drago macinate. Data la scarsità del principale ingrediente del medicamento nella Pechino fin-de-siècle, i farmacisti ansiosi di soddisfare la richiesta cominciarono a spacciare scapole di buoi e gusci di tartaruga per ossa di drago pronte per essere polverizzate. Quando un parente portò a casa una di tali ossa, Wang Yirong si accorse che sulla sua superficie vi erano alcune misteriose scalfitture e, dopo averle esaminate più attentamente, le identificò come antichi caratteri cinesi. Senza por tempo in mezzo, comprò l'intera riserva del farmacista, salvando così dalla distruzione le prime forme note di scrittura cinese. L'analisi delle ossa permise di rintracciarne l'orogine ad Anyang, una città della Cina centrale, i cui ingegnosi abitanti le avevano dissotterrate e vendute ai farmacisti locali. Anch'essi avevano notato i segni ma, temendo che potessero diminuire il loro valore come medicina, ne avevano cancellati molti; le ossa in cui Wang si era imbattuto furono una fortunata eccezione.

Le scapole e i carapaci di Anyang, i più antichi dei quali furono datati intorno al 1200 a.C.. divennero noti come "ossa oracolari", usate per scopi divinatori dagli Shang, la prima dinastia storicamente accertabile che governò parti della Cina (all'incirca tra il 1700 e il 1025 a.C.)

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Il pragmatismo culturale di re Wuling non impedì ai singoli Stati di continuare a preferire una soluzione più tradizionalmente cinese ai problemi di frontiera: la costruzione di muri. Dalla metà del VII secolo a.C., gli Stati di Qin, Wei, Zhao, Yan, Chu e Qi iniziarono a costruire una rete di barriere in tutta la Cina, anche nel cuore del Paese, per contrastare le minacce provenienti sia da altri Stati che dalla steppa. Questo sistema divenne talmente diffuso che perfino gli stessi barbari del nord cominciarono a seguire la moda cinese. In un momento successivo al 453 a.C., gli Yiju della regione dell'Ordos eressero un duplice muro per difendersi dagli Stati cinesi più settentrionali e da Qin in particolare.

Ma i muri che più ci interessano sono quelli Qin, Zhao e Yan, tutti costruiti per proteggere la frontiera settentrionale all'incirca nello stesso periodo storico, la fine del IV secolo a.C. Il muro Qin venne realizzato in un'epoca di diplomazia a base di sesso e tradimenti. Durante il regno di Zhaoxiang (306-251 a.C.), la regina vedova Xuan sedusse il re dei barbari Yiju, al quale diede due figli. Senza lasciarsi ostacolare dal sentimento, in seguito ella «lo ingannò e lo uccise nel Palazzo delle Dolci Primavere, e alla fine radunò un esercito e lo inviò ad attaccare e devastare le terre degli Yiju». Con questa azione, lo Stato di Qin conquistò un territorio che andava da Gansu, nell'estremo nord-ovest, fino ad est della regione dell'Ordos nell'ansa del Fiume Giallo; per proteggere i suoi nuovi possedimenti, Qin «costruì lunghe mura come difesa contro il barbari».

Durante il regno di re Zhao (311-279 a.C.), lo Stato di Yan si allargò a nord-est, verso l'area che in seguito divenne nota come Manciuria, respinse gli Hu orientali di «un migliaio di li» e «costruì un lungo muro... per tenere testa ai nomadi». Sotto la guida di Wuling (325-299 a.C.), il re amante della cavalleria, il regno di Zhao eresse a sua volta una doppia serie di mura più o meno parallele: un baluardo più breve a nord-ovest di Pechino, poi un altro di lunghezza leggermente maggiore più a settentrione, nella Mongolia.

La tecnologia per la costruzione di questi primi muri non era molto cambiata rispetto a quella della terra pressata del secondo e terzo millennio a.C. Benché meno durevoli di quelle in mattoni, alcune di queste strutture sopravvivono ancor oggi in forma frammentaria: nello Henan, basse barriere di pietre strettamente unite tra loro e terra segnano la linea di confine che separava il grande Stato meridionale di Chu dai suoi vicini del nord; nello Shandong, un tratto discontinuo di rovine si snoda lungo l'aspro versante di un'altura; nello Shaanxi, del muro eretto inutilmente dai Wei per difendersi dagli aggressivi Qin rimangono solo cumuli di terra coperti di rovi e d'erba alti sei metri e larghi otto. I resti del muro Zhao che corrono lungo una strada nella Mongolia Interna sono a prima vista indistinguibili dal paesaggio locale, e solo un esame più attento rivela gli strati di terra pressata realizzati dalla mano dell'uomo. Altrettanto difficile è riuscire a individuare il muro Yan nell'odierno Hebei in mezzo alla vegetazione che cresce da entrambi i lati e che ha da tempo preso possesso della superficie dei terrapieni.

Nel costruire questi muri, si sfruttavano il più possibile gli eventuali ostacoli naturali, come dirupi, strapiombi e strette gole. Una delle ragioni per cui le rovine del muro Qin (per fare un esempio), che serpeggia per 1755 chilometri attraverso la Cina nord-occidentale fino alla Mongolia Interna, sono così frammentarie potrebbe essere che in realtà esse non formarono mai una linea continua: nelle zone montuose, che offrivano di per sé vantaggi difensivi, probabilmente tutto ciò che occorreva in fatto di strutture umane erano occasionali posti di osservazione o brevi tratti di mura per bloccare un valico.

Il percorso del muro Qin segue i rilievi della regione, con le sinuosità dettate dall'esigenza di mantenersi su posizioni elevate e più facilmente difendibili. Dove il terreno era pianeggiante e privo di ostacoli naturali, e bisognava ricorrere a mezzi artificiali per fermare gli invasori, si costruivano bastioni di terra e pietre, quando possibile su punti in pendenza in modo che il lato interno fosse più alto di quello esterno. Cumuli intervallati più o meno regolarmente — tre o quattro ogni chilometro — sono stati trovati lungo i muri superstiti, forse piattaforme, torri e posti di osservazione. Dalla parte interna, gli archeologi hanno scoperto spazi delimitati da pietre talvolta vasti anche 10.000 metri quadrati, presumibilmente cittadelle e forti, e tracce di strade nelle vicinanze, tutte cose che indicano la considerevole presenza militare e lo sforzo logistico richiesti per presidiare e rifornire le migliaia di chilometri di muri degli Stati Combattenti.

Dal momento che secondo le fonti la principale ragione della costruzione di muri era «difendersi» o «resistere contro i barbari», il fatto curioso è che la maggior parte di queste barriere settentrionali si trova assai lontano dalle terre coltivabili e molto più vicino alla steppa, in certi casi ben addentro all'odierna Mongolia (a sud del confine segnato dai muri Yan, ad esempio, gli archeologi hanno riportato alla luce manufatti di provenienza sicuramente non cinese, come finimenti per cavalli e placche ornamentali in forma di animali, che appartengono alle primitive culture nomadi dedite alla pastorizia e all'allevamento della Cina settentrionale e della Mongolia). In realtà, la posizione di questi muri fa pensare che il loro scopo non fosse difendere la Cina, ma occupare territorio straniero, cacciare gli abitanti nomadi dalle loro terre e facilitare l'installazione di avamposti militari per vigilare sui movimenti delle popolazioni in tali aree. L'uso pionieristico della cavalleria da parte di re Wuling aveva costretto i Cinesi a ricorrere ai nomadi per ottenere cavalli. Probabilmente l'unico modo per evitare un'umiliante dipendenza commerciale dai disprezzati popoli del nord era invadere e controllare le loro aree di produzione.

Tutto ciò non intende elevare i nomadi allo status di martiri innocenti nel millenario conflitto tra la Cina e la steppa, ma almeno suggerire che dovremmo in parte riconsiderare il modo in cui essi sono stati demonizzati per migliaia di anni sia in Oriente che in Occidente. Per tradizione i Cinesi sono sempre vittime di violenza da parte di altri, terrorizzati dai feroci Unni a nord della Grande Muraglia. Ma se i primi baluardi di frontiera, precursori di oltre 2000 anni di ostilità e di costruzione di muri tra la Cina e la steppa, furono realizzati a scopo di espansione e non di difesa, essi illuminano un fattore precedentemente ignorato nella loro storia: l'avido, aggressivo imperialismo cinese. Questo non significa, naturalmente, che si possano giustificare i successivi due millenni di scorrerie come una reazione dei nomadi ai soprusi dei colonizzatori né rende Gengis Khan storicamente più accettabile o desiderabile come vicino, ma riconfigura l'immagine semplicistica della propaganda cinese — diffusa a partire dal primo millennio a.C. — degli innocenti contadini costretti a difendersi contro i voraci predoni del nord. Inoltre, ciò dimostra che i muri non sempre hanno una funzione protettiva: costruiteli in mezzo a territori appena occupati, e diventano un punto di forza per l'espansionismo colonialista.

Qualunque fossero le vere ragioni politiche e militari che spinsero gli Stati Combattenti a costruire muri, nella maggior parte dei casi la strategia si rivelò ben presto controproducente. Se, da una parte, il motivo va ricercato nell'imperialismo della Cina e non nella sua necessità di difendersi, il risultato finale fu l'unificazione delle diverse tribù nomadi in una forza di opposizione compatta, gli Xiongnu, che avrebbe tormentato le frontiere settentrionali per i successivi cinque o sei secoli; se, d'altra parte, i muri avevano uno scopo puramente difensivo, il loro fallimento fu ancora più grave. Come i secoli a venire avrebbero ripetutamente dimostrato, i muri di frontiera si rivelarono un ostacolo trascurabile per le orde dei conquistatori semibarbari provenienti dal nord e in particolare, in questo momento storico, per gli eserciti dello Stato nord-occidentale di Qin, che assalirono, aggirarono o travolsero tutte le difese erette tra uno Stato e l'altro nella loro avanzata conclusasi nel 221 a.C. con l'unificazione della Cina sotto il governo di Qin Shi Huangdi, il Primo Imperatore (259-210 a.C.). Ma il confine stabilito da queste barriere definì le aree di conflitto dove sarebbero stati costruiti muri e combattute battaglie di frontiera per altri due millenni.

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[...] Benché la guarnigione della capitale, secondo i registri ufficiali, comprendesse 140.000 uomini, assai meno della metà era assegnata a compiti militari, mentre il resto veniva utilizzato in opere di costruzione (non necessariamente per lo Stato, dal momento che spesso i soldati erano requisiti d'autorità da nobili ed eunuchi d'alto rango per scopi privati). Quelli messi insieme per combattere nel 1550 erano un gruppo patetico: la Storia dei Ming riferisce che i 50-60.000 uomini condotti contro il nemico «cominciarono a piangere e a lamentarsi appena videro i Mongoli, rifiutandosi di affrontarli. Gli ufficiali impallidirono, senza poter fare altro che guardarsi l'un l'altro in preda al terrore». Anche se arrivarono i rinforzi, la città non aveva provviste per loro, e gli affamati ausiliari non fecero che imitare i predoni, razziando tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani.

Jiajing fu implacabile nell'attribuire la colpa dell'accaduto. Il 2 ottobre, fece annunciare dalla porta meridionale della città Proibita (sul lato che oggi si affaccia sull'immensa piazza Tien An Men) che tutti i funzionari erano irresponsabili e negligenti. Il 6 ottobre, il ministro della Guerra che si era mostrato restio a combattere venne giustiziato e sostituito con il pragmatico governatore di Datong che aveva comprato i Mongoli perché non attaccassero la fortezza sotto il suo comando. Forse fu solo una disgrazia personale a evitare che la testa di Weng Wanda, il sovrintendente ai nuovi muri intorno a Datong, rotolasse a causa delle ritorsioni dell'imperatore: in seguito alla morte di suo padre, egli aveva lasciato la corte e il suo incarico ufficiale nel 1549, tornando nella natia provincia di Guangdong, nel sud, per piangere la scomparsa del genitore.

Altan inviò un prigioniero cinese con un messaggio per l'imperatore, chiedendo ancora una volta il permesso di presentare tributi (in realtà, di commerciare). Contraria come sempre ad autorizzare rapporti con i barbari, la corte guadagnò tempo ricorrendo a un trucco diplomatico. Dapprima eluse la richiesta contenuta nella lettera dubitando della sua autenticità sulla base del fatto che non era scritta in mongolo, poi invitò Altan a tornare in Mongolia per presentare la domanda per il commercio tramite gli appropriati canali burocratici, ovvero al governatore della città di frontiera Xuanfu.

Nonostante avesse messo la Cina settentrionale in ginocchio, incredibilmente Altan Khan accettò l'invito, ritirandosi docilmente dalla capitale. Com'era prevedibile, l'imperatore non concesse mai l'ambita autorizzazione. Soccombendo a un breve attacco di realismo diplomatico dopo il raid contro Pechino, Jiajing permise l'apertura dei mercati nel 1551 e nel 1552, ma già il secondo anno, nauseato dall'umiliazione di dover trattare con dei barbari, ci ripensò e fece giustiziare il funzionario responsabile di aver aperto i mercati, proibendo da quel momento in poi perfino di accennare alla possibilità di commerciare con le orde mongole e decretando che qualunque funzionario avesse permesso scambi sarebbe stato punito con la morte. Le incursioni continuarono a ritmo serrato, mentre i realistici funzionari di frontiera, che dovevano affrontare le conseguenze dell'ostinazione imperiale e contestavano questa politica priva di compromessi, vivevano temendo per la propria vita. Yang Shou-qian, un ufficiale dell'esercito che operava nel nord-est, scrisse che «il governatore di Datong è stato severamente punito per aver permesso contatti con i barbari stranieri... coloro che occupano posizioni di responsabilità hanno paura». Anche i funzionari relativamente moderati e favorevoli alle relazioni commerciali erano imbevuti della cultura contemporanea di disprezzo razzista e definivano i Mongoli avidi «cani e pecore» che nutrivano «brame animalesche profonde come abissi».

L'esito di questa politica, a parte lo spargimento di sangue (solo nel 1567, decine di migliaia di Cinesi furono uccisi in incursioni di nomadi nello Shanxi, nello Hebei e nell'area di Pechino), fu il completamento delle difese di confine della Cina attraverso la sguarnita regione a est della capitale da dove erano penetrati i Mongoli nel 1550, una frontiera di circa 1200 chilometri. E mentre questo vuoto veniva colmato con bastioni in pietra e 1200 torri, i forti già esistenti a ovest erano rafforzati con materiali duri quanto la linea politica del governo: la Grande Muraglia nella forma in pietra e mattoni, invece che in terra battuta, come è oggi conosciuta venne finalmente eretta tra la metà e la fine del XVI secolo. Ciò nonostante, i suoi costruttori rimasero assai meno impressionati dalla propria opera dei turisti moderni. Come Yu Zijun prima di loro, i contemporanei chiamarono la linea difensiva Ming ormai ultimata non "Grande" o "Lunga", ma semplicemente "Muro di frontiera" o "Nove Guarnigioni di Frontiera", riferendosi ai nove capisaldi situati tra il Liaodong e lo Hebei a est e il Gansu a ovest, collegati tra loro da muri.

Le ultime aggiunte nord-orientali rimangono tra le parti migliori dei 6000 chilometri dell'intera struttura, offrendo le immagini famose in tutto il mondo della Muraglia in pietra e mattoni che si snoda sui crinali di montagne sterpose. Nello stesso tempo, furono ordinate lunghe e dispendiose riparazioni per i muri più a occidente: tre anni di lavoro al costo di 470 once d'argento per chilometro nello Xuanfu, cinque anni per un totale di 487.500 once d'argento intorno a Datong. Nel 1576, venne giudicato necessario il restauro del muro nel nord-est. Da questo momento fino alla caduta della dinastia Ming nel 1644, furono realizzati in mattoni alcuni degli elementi più grandi e spettacolari tuttora esistenti: nel 1608, la Torre per distruggere il Nord alta trenta metri, vicino a Yulin, nel nord-est; nel 1574, la "Grande Porta del nord verso la capitale", l'arco alto dodici metri sopra Zhangjiakou – a metà strada tra Hohhot e Pechino, ovvero tra la Mongolia e la Cina – nella linea difensiva esterna; lo stesso anno, la porta meridionale del Forte per ottenere la Vittoria nei pressi di Datong, anch'essa alta dodici metri, con i caratteri che significano "Sicurezza" incisi sulla parete esterna e quelli per "Vittoria" ottimisticamente scolpiti all'interno.


Dall'estremità occidentale, tra le oasi di Jiayuguan, a quella orientale sulla costa a Shanhaiguan, ogni bastione, forte, merlatura e targa della muraglia Ming sembra studiato per affermare concretamente qualcosa riguardo al Paese su cui sorge la linea difensiva e sul governo Ming che ne diresse la costruzione, definendo, racchiudendo ed escludendo.

Le due fortezze all'inizio e alla fine della struttura furono originariamente definite da due iscrizioni quasi identiche rispecchianti un inequivocabile senso di sicurezza culturale tra le migliaia di chilometri di frontiera che le separano. A ovest, sulla porta di Jiayuguan, una targa (distrutta nel secolo scorso) un tempo annunciava a chi giungeva: "Primo Passo Fortificato sotto il Cielo", mentre a Shanhaiguan una scritta ancora esistente rivolta verso il mare proclama alle onde e agli scogli che quello è il "Primo Passo sotto il Cielo". Gli architetti progettarono la loro opera per inviare un chiaro messaggio: porre i limiti del mondo (civile e cinese). Con i loro tetti ricurvi e i muri uniformi, sia Jiayuguan che Shanhaiguan segnano ufficialmente i punti terminali della barriera con un'ostentazione tipicamente cinese. Infatti, anche se le fortificazioni continuano oltre i due passi, scomparendo gradatamente nel deserto a occidente e snodandosi in direzione della Manciuria a nord-est, sono questi i limiti che rimangono fortemente impressi nella memoria. Si tratta di due elaborati complessi fortificati, quello a ovest di 2,5 chilometri quadrati, l'altro di quasi 1,5, comprendenti porte, torri, uffici governativi e perfino, nel caso di Shanhaiguan, templi. Jiayuguan, con le sue triplici torri dalle gronde scolpite all'interno di mura quadrate perfettamente regolari e munite di merli, sorge in modo quasi incongruo dal deserto, come un castello di sabbia vincitore di qualche premio, lontano dalla fitta rete di campi coltivati della Cina vera e propria. A est, la fortezza principale di Shanhaiguan rivestita con mattoni bruno-grigiastri, il caratteristico colore derivante dal processo cinese di cottura, sorveglia la costa e le montagne a settentrione, con i suoi tetri muri privi di finestre simili a quelli di un penitenziario, sormontati piuttosto assurdamente dalle vivaci grondaie scolpite caratteristiche dell'architettura cinese. A Jiayuguan, una porta rivolta a oriente reca l'iscrizione "Porta verso la Gloriosa Civiltà"; un'altra targa su una porta che guarda a occidente recita, con paternalistico imperialismo "Tratta gentilmente le terre lontane'. Con i suoi 6000 chilometri di lunghezza, la sua architettura e i suoi forti, la muraglia di frontiera dei Ming è un monumento al concetto di sé del Paese che l'ha costruita, all'unitarietà psicologica culturale che, almeno in teoria, teneva insieme una terra di forti contrasti naturali, di oasi e deserti a ovest, e di montagne coperte di foreste a est.

Ma non bisogna pensare che la Muraglia, ora coperta di vegetazione e spesso in rovina (gli austeri muri privi di finestre dell'enorme Torre per distruggere il Nord esibiscono oggi ammassi d'erba e perfino strani alberi contorti) si sia mai snodata su questo terreno in maniera uniforme o completa. Il termine "Grande Muraglia", raramente o mai usato dai costruttori Ming, evoca una monolitica barriera merlata estendentesi da ovest a est, nello stile delle più note sezioni nord-orientali. Ma, come indica uno dei nomi dell'epoca – Nove Guarnigioni di Frontiera – le difese lungo il percorso della linea fortificata furono organizzate intorno a punti chiave regionali per mezzo di muri singoli, doppi o tripli che a volte prendono direzioni inattese, con vuoti e punti deboli colmati da torri, forti e capisaldi, alcuni dei quali sorgono a nord o a sud del tracciato generale.

Dirigendosi verso oriente dalle sabbie di Jiayuguan, la Muraglia protegge migliaia di chilometri di confine, la zona di contatto tra Cinesi e non Cinesi. Nello Shaanxi e nello Shanxi, le province che sopportavano l'impatto del commercio e delle incursioni nomadi, intorno al muro si ergono torri e posti di guardia da cui venivano controllati i traffici con i barbari del nord, nel migliore dei casi tollerati malvolentieri dall'autorità centrale. Costruita per vigilare sulle transazioni tra Mongoli e Cinesi per la compravendita dei cavalli, la Torre per distruggere il Nord, con la sua struttura oppressivamente alta e disadorna costituisce un appropriato monumento al sospetto ufficiale nei riguardi di simili attività commerciali. Questo tratto centro-occidentale presenta spesso le caratteristiche tipiche dell'inospitale territorio di frontiera, con il terreno privo di vegetazione che si apre improvvisamente in crepacci impressionanti, contrassegnato dalle vestigia di un muro abbandonato da tempo, le rovine di un sistema ormai scomparso di relazioni tra popoli.

Se nelle sue sezioni occidentali la Muraglia appare talvolta una costruzione piuttosto mediocre, mentre attraversa le pianure e gli altipiani con la terra dei quali venne costruito, a nord e ad est di Pechino soccombe a un ostentato esibizionismo, come se fosse incapace di resistere alla tentazione di esibire l'abilità degli architetti e degli ingegneri cinesi. Qui, i muri merlati in mattoni e pietra alti anche quattordici metri e larghi quasi sei nella parte superiore, dove corrono camminamenti con feritoie per le frecce e fori di osservazione, interrotti da torri e forti, salgono e scendono aggrappandosi, per così dire, alle creste delle alture che increspano il paesaggio, serpeggiando verso est e il mare, sempre incombendo su conche e vallate, ogni tanto allontanandosi dalla direzione della costa con sinuosi bastioni ausiliari di rinforzo alla linea principale. Sono queste le immagini più note e ammirate della Grande Muraglia, i tratti maggiormente visitati dai turisti come quelli di Badaling e Mutianyu, poche decine di chilometri a nord di Pechino.

Una deviazione verso settori meno ben conservati – a Jinshanling o Simatai, ad esempio – permette di farsi un'idea più precisa dell'ingegnosità dei costruttori. Qui, dove il passaggio in cima alla Muraglia non è stato sistemato con gradini regolari dagli operai dell'Ufficio turistico di Stato, dove le merlature non presentano chiazze fresche di cemento comunista, dove i cespugli e gli alberi locali si stanno impadronendo della struttura, dove il camminamento che percorrete non sempre è fornito di rassicuranti parapetti da entrambi i lati, ma in certi punti si sgretola verso scoscesi pendii, potete comprendere meglio la portata degli ostacoli posti dal terreno, la tenacia dell'ispida vegetazione che penetra fra le pietre, la natura degli stretti e ripidi crinali su cui la Muraglia si snoda. Qui, dove non vi sono funivie, siete costretti a inerpicarvi come facevano gli antichi costruttori, soldati e contadini che adempivano i loro obblighi di corvée, oppure detenuti. Per capire in minima parte quanto faticoso fosse il loro lavoro, vi basterà sollevare una lastra di pietra del peso di venti chili. Se vi fermate a riprendere fiato in una delle torri che si elevano ogni 60-200 metri e guardate attraverso le frastagliate finestre ad arco ormai in rovina, vi sarà facile percepire l'isolamento in cui venne realizzata l'opera, la solitudine di chi vigilava da queste mura, il silenzio che poteva precedere la carneficina, mentre immaginate che bande di predoni si annidino tra la fitta vegetazione che ricopre i pendii.

Come fu possihile una simile impresa?

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La serie era intitolata Elegia del Fiume Giallo e il suo scopo era nel complesso piuttosto innocuo: addossare la colpa degli attuali problemi della Cina alla sua storica mancanza di sbocchi geografici e al fatto di non aver adottato una politica di esplorazioni marittime e di apertura al mondo esterno. Il documentario condannava la tirannia del Fiume Giallo, che con il suo corso mutevole, le inondazioni e il materiale argilloso depositato esauriva le energie e l'ingegnosità dei Cinesi, costringendoli ad anteporre la difesa della loro terra a tutto il resto. L'enorme impresa collettiva di gestire il fiume e la terra li aveva sempre obbligati a scegliere forme di organizzazione politica rigide e autoritarie, concentrate sugli interessi agricoli interni. Come risultato, essi non avevano mai guardato all'esterno, né pensato a varcare i mari per allargare i loro orizzonti e farla finita con millenni di dispotismo feudale. Il monumento più significativo dei fallimenti politici della Cina, affermava il commentatore di Elegia del Fiume Giallo, era la Grande Muraglia, costruita per chiudere l'unica frontiera aperta del Paese, la sola che non isolasse i suoi confini con le montagne o l'oceano.

Una volta che il Primo Imperatore dei Qin ebbe eretto la Grande Muraglia, «divenne possibile resistere agli attacchi delle popolazioni nomadi dall'esterno, e allo stesso tempo si creò una sorta di forza di coesione all'interno, costringendo quelli che erano al di qua dei muri a raccogliersi intorno al centro del potere. Pertanto, costruire la Grande Muraglia significò avere il controllo della terra e di quanti vivevano all'interno di essa». Ma pur intesa a rafforzare il dispotismo, proseguiva Elegia del Fiume Giallo, in realtà la Muraglia non si dimostrò mai un mezzo difensivo efficace:

Quando i feroci cavalieri di Gengis Khan calarono a sud come una marea, nessuna barriera naturale come il Fiume Giallo e lo Yangzi, per non parlare della Grande Muraglia, poté fermarli... E il popolo cinese, nonostante l'alto livello di civiltà, non era in grado di opporsi al proprio destino... Quante tragicommedie della storia sono state recitate sullo sfondo della Grande Muraglia!.

Secondo gli autori di Elegia del Fiume Giallo, l'ultima di queste farse era la venerazione della Muraglia da parte dei Cinesi contemporanei:

Il popolo è orgoglioso del fatto che essa sia l'unica opera dell'ingegneria umana visibile dalla luna agli astronauti. Vorrebbe perfino adottarla come simbolo della potenza della Cina. Ma se la Grande Muraglia potesse parlare, confesserebbe molto sinceramente ai suoi pronipoti di essere una grande e tragica pietra tombale scolpita dal destino storico... essa può solo rappresentare una difesa isolazionistica, conservatrice e inadeguata, e una vile mancanza di combattività... Ahimé, o Grande Muraglia, perché dovremmo continuare a lodarti?.

Lo sconcertante attacco di Elegia del Fiume Giallo alla Grande Muraglia – questo «simbolo di fallimento e di rinuncia» – era accentuato da immagini che mostravano le desolate rovine giallo-brune dell'antica linea difensiva attraverso i deserti settentrionali. L'antidoto all'opprimente isolazionismo della storia cinese era l'azzurra, pura «onda progressista» dell'oceano, «per spazzare via i sedimenti del feudalesimo accumulatisi nei secoli» con il commercio, l'apertura, lo sviluppo, la libertà, il benessere capitalista, la scienza e la democrazia. «È possibile che non riusciamo a sentire la meravigliosa melodia del destino umano?», chiedeva il commentatore, mentre la domanda veniva sottolineata dal gaio suono dei cembali e da immagini che mostravano marinai festosi e paradisiache spiagge bianche incorniciate da palme.

Anche se il programma conteneva pochi riferimenti diretti allo spiacevole presente della Cina, nessun Cinese istruito poteva mancare di percepire l'intento allegorico dietro la presa di posizione contro la Grande Muraglia e il Fiume Giallo: permettere agli autori del documentario di criticare l'attuale governo e la sua decennale incertezza tra liberalizzazione economica e repressione politica. Appariva evidente che la critica verso il Primo Imperatore dei Qin e il suo muro di terra non era altro che un attacco a Mao e al suo chiuso sistema socialista, e che l'elogio delle chiare acque azzurre dell'oceano era una scusa per sostenere l'apertura ai valori politici dell'Occidente liberale e democratico. «Stiamo ora passando dall'opacità alla trasparenza», profetizzava ottimisticamente il documentario. «Questa distesa di terra giallastra non può insegnarci il vero spirito della scienza. L'indocile Fiume Giallo non può darci una vera coscienza democratica... Solo quando la brezza marina dell'oceano porterà finalmente pioggia, inumidendo il suolo riarso, solo allora questa tremenda energia... potrà portare nuova vita al vasto pianoro inaridito».

A rivederla oggi, la serie Elegia del Fiume Giallo suona alquanto enfatica e pretenziosa, un po' troppo presa dalla sua allegoria e certamente piuttosto ingenua riguardo all'Occidente (nella Cina degli anni Ottanta, perfino le persone colte consideravano gli episodi della serie Dallas come autorevoli fonti documentaristiche dell'America contemporanea). Ma il programma presenta tuttora molti aspetti notevoli. In una cultura socialista che non ha alcun interesse a incoraggiare il popolo ad esaminare in maniera critica o creativa il proprio passato, che vuole che la gente guardi fiduciosa al domani senza farsi domande su ciò che è avvenuto ieri, la volontà degli autori di affrontare la storia — malgrado alcune distorsioni fattuali a scopo polemico — e il loro desiderio di attaccare simboli del nazionalismo cinese come la Grande Muraglia sono ancora tonificanti. Una rapida occhiata ai canali televisivi controllati dal Partito comunista all'inizio del terzo millennio, in cui spettacoli strappalacrime si alternano a insipide telenovelas che predicano la morale socialista, fa sembrare Elegia del Fiume Giallo parte di un mondo culturale diverso, più serio e stimolante.

Quando gli studenti cominciarono a scendere nelle strade nella primavera del 1989, apparve chiaro il legame tra le loro richieste di maggiore libertà d'espressione e di trasparenza politica, ed Elegia del Fiume Giallo, il successo televisivo dell'anno prima. Nella puntata conclusiva del documentario, gli intellettuali cinesi erano salutati come i salvatori della nazione: «Essi hanno nelle loro mani l'arma per distruggere l'ignoranza e la superstizione... Sono loro che possono incanalare le dolci acque azzurre della scienza e della democrazia nella nostra terra ingiallita!». Quando gli studenti insorsero per rivendicare il nobile destino storico indicato da Elegia del Fiume Giallo, Su Xiaokang si affrettò a prendere parte alle proteste, percorrendo piazza Tien An Men con appesi al collo dei cartelli che lo identificavano come l'autore del documentario e rivolgendosi alla folla con un megafono. «Complimenti!», sbottò sua moglie quando egli tornò a casa. «Hai avuto il tuo momento di gloria. Tutto filmato dalla polizia».

Alle dieci di sera del 3 giugno 1989, diciotto giorni dopo la visita di Mikhail Gorbaciov, durante la quale Deng Xiaoping aveva fatto in modo che il leader sovietico non assistesse alle imbarazzanti dimostrazioni in piazza Tien An Men trascinandolo a godersi la fresca aria primaverile sulla Grande Muraglia a Badaling, la leadership comunista ordinò alle truppe dell'Esercito popolare di liberazione ammassate alla periferia della capitale di sgomberare la piazza. Mezz'ora più tardi, quando una folla di dimostranti sbarrò pacificamente il passo all'esercito qualche chilometro prima della sua meta, i soldati cominciarono a sparare sui civili. Ci vollero giorni perché le armi finalmente tacessero. Nel giro di una settimana dopo la repressione, il governo pubblicò un elenco delle persone «maggiormente ricercate» comprendente i nomi di leader studenteschi, attivisti per i diritti civili, pensatori indipendenti e anche quello di Su Xiaokang, l'autore di Elegia del Fiume Giallo. Insieme a Chai Ling e Wu'er Kaixi, due dei più noti organizzatori della protesta studentesca. Su fu uno dei fortunati che riuscì a fuggire, raggiungendo l'America via Hong Kong e Parigi.

Non riuscendo a mettere le mani su di lui, il governo si consolò prendendosela con la sua realizzazione televisiva. L'11 settembre 1989, un gruppo di professori di storia si riunì a Pechino per denunciare Elegia del Fiume Giallo e il suo messaggio filo-occidentale contro il Fiume Giallo e la Grande Muraglia come «sedizione controrivoluzionaria», accusandolo di «aver manipolato e ingannato il cuore del popolo», di aver indirizzato «l'opinione pubblica verso il marasma politico esploso ovunque quest'anno e sfociato nella ribellione controrivoluzionaria nella capitale» e di aver manifestato un'attitudine intollerabilmente «sconsiderata e superficiale nei confronti degli eroi nazionali, dei patrioti e dei capi rivoluzionari».

Mentre in Europa orientale gli eventi portavano alla caduta della Cortina di Ferro, i governanti della Cina riesaminavano le esperienze degli ultimi dieci anni sulla scia del massacro di Pechino. Tornare a un isolazionismo totale non costituiva un'alternativa. Nel bene o nel male, la Cina di Deng Xiaoping era ormai impegnata in una certa apertura: l'aumento degli investimenti stranieri e del commercio con l'estero costituiva uno dei grandi successi economici degli anni Ottanta. Anche in campo culturale, nessuno desiderava rimettere indietro l'orologio riesumando il maoismo. I burocrati della cultura governativa dovevano essere in grave difficoltà per dichiarare che la letteratura di quel periodo, stimolata dalla lettura di classici occidentali di nuovo disponibili in cinese, era inferiore a quella prodotta sotto Mao, quando il controllo politico aveva soffocato a tal punto la creatività che, tra il 1949 e il 1966, nella Repubblica Popolare venivano pubblicati in media appena otto romanzi l'anno. La tendenza fondamentale del governo rimaneva invariata rispetto agli ultimi anni Settanta: accettare i frutti economici dell'apertura per accontentare la popolazione e mantenere la stabilità, respingendo allo stesso tempo le mosche e i moscerini destabilizzanti e antitotalitaristici della libertà e della democrazia; in altre parole, continuare a controllare attentamente le transazioni alle frontiere della Cina.

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