Copertina
Autore James E. Lovelock
Titolo Omaggio a Gaia
SottotitoloLa vita di uno scienziato indipendente
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2002, Le Vite , pag. 476, dim. 150x225x35 mm , Isbn 978-88-339-1435-0
OriginaleHomage to Gaia: The Life of an Independent Scientist
EdizioneOxford Univerity Press, Oxford, 2000
TraduttoreIsabella C. Blum
LettoreCorrado Leonardo, 2003
Classe biografie , scienze naturali , ecologia , scienze della terra
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Indice

 Prefazione e ringraziamenti                  7
 Elenco delle tavole fuori testo             17
 Elenco delle sigle principali               19

 Omaggio a Gaia

 Introduzione                                23

 1. Infanzia                                 29

 2. Il lungo apprendistato

 3. Vent'anni di ricerca medica              63
    Il viaggio sulla HMS Vengeance nel 1949,118

 4. Il Mill Hill Institute                  133
    L'anno a Boston, 145
    Il mio ultimo anno al Mill Hill Institute,
    155

 5. I primi passi verso l'indipendenza      177

 6. La scienza come attività indipendente   185
    La Shell, 191
    I servizi di sicurezza, 200
    La Hewlett Packard, 212
    Invenzioni, 219

 7. Il rivelatore a cattura di elettroni    224

 8. La guerra dell'ozono                    235
    Il viaggio della Shackleton nel 1971-72,240
    Il viaggio della Meteor nel 1973, 264

 9. La ricerca di Gaia                      276

10. L'aspetto pratico della scienza
    indipendente                            321
    I computer, 331
    La Royal Society, 336
    La MBA (Marine Biological Association), 340
    Vivere in Irlanda, 345
    Coombe Mill, 356

11. Il bypass? Fatevelo da soli...          371

12. Settant'anni e comincia il bello        416

13. Epilogo                                 455

    Indice analitico                        467

 

 

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Pagina 23

INTRODUZIONE



Ci stavamo godendo il tè in un cottage a Bowerchalke, un villaggio dell'Inghilterra meridionale. La stanza, calda e con le pareti rivestite di legno di cedro, aveva una bella vista sulla valle, fino al villaggio vicino di Broadchalke. All'improvviso, e come sempre bruscamente, squillò il telefono, lanciando con insistenza il suo richiamo stridente. Nessuno si aspettava che a rispondere fosse Helen, la mia prima moglie: la sclerosi multipla l'aveva già resa invalida. Io detesto il telefono e aspetto sempre che risponda qualcun altro. Peggy Coombs -la donna del villaggio che aiutava Helen, originaria delle valli del Galles, dove la gente giustamente è solita parlare senza mezzi termini - sbottò: «Ma in questa casa nessuno risponde al telefono?» e si precipitò a zittirlo. «Pronto. Che cosa desidera?» chiese inquisitiva. «Vorrei parlare con il dottor Lovelock», rispose la voce senza corpo. Peggy replicò sprezzante: «Non è un vero dottore, comunque ora glielo passo». La persona all'altro capo del filo era un professore di una remota università che voleva invitarmi a tenere una conferenza sulla possibilità della vita su Marte. Per una volta, grazie a Peggy, ebbi il tempo di prepararmi a dire di no.

Peggy aveva ragione. Io non sono un vero dottore. Per lei, e per moltissimi di noi, un vero dottore è un medico, uno che cura i malati e che lei guarda con lo stesso rispetto che le generazioni passate tributavano al prete. Una laurea in scienze non è abbastanza per giustificare il titolo di «dottore». Oltretutto, la mia attività scientifica a Bowerchalke, attività solitaria e indipendente, si estendeva trasversalmente ad abbracciare discipline che andavano dall'astronomia alla zoologia. Come avrebbe potuto, un tipo così diviso, essere un vero dottore? Per un momento, la mia natura, incline a dubitare di se stessa, mi fece pensare ad altri impostori, come il Vicario di Unworthy nel Devon, il Reverendo Fiddle, dottore in teologia.

Quando mi decisi a diventare uno scienziato indipendente, non avevo la minima intenzione di fare il chimico e il consulente di professione. È un ottimo modo per guadagnarsi da vivere - non ho niente da eccepire su di esso - ma non faceva per me. La mia passione era, ed è rimasta, la scienza, e io volevo essere libero di dedicarmici senza dover rispondere a nessuno, libero anche dai deboli vincoli imposti da un dipartimento universitario o da un istituto scientifico. Qualsiasi artista o scrittore mi capirà - alcuni di noi non danno il meglio di sé quando sono diretti da qualcun altro. È normale pensare che l'artista, lo scrittore o il compositore conducano una vita solitaria, e che spesso lavorino a casa propria. Sebbene nelle istituzioni e nelle università esistano effettivamente alcune di queste figure creative, l'idea di una maggioranza di scrittori o artisti affermati che lavori all'«Istituto Nazionale di Pittura e Belle Arti» o presso un'università, al «Dipartimento di Scrittura Creativa», suona piuttosto buffa. E d'altra parte, l'idea che uno scienziato creativo lavori a casa è vista come una minaccia. Uno scienziato solitario è inconsueto come una termite solitaria, e nel migliore dei casi viene considerato un irresponsabile.

Al principio degli anni settanta, «New Scientist» pubblicò la recensione di un libro sulla vita di Darwin. L'autore asseriva che il libro aveva confermato la sua opinione, e cioè che il nostro più insigne biologo fosse pazzo. Costui sosteneva che chiunque avesse avuto la reputazione di Darwin, e avesse deciso di seppellirsi in un villaggio di campagna invece di godere degli stimoli intellettuali offerti da Cambridge, fosse per forza un folle. Per come la vedo io, il matto era il recensore, e non Darwin.

In questo libro voglio raccontarvi perché mi «seppellii» nel villaggio di campagna di Bowerchalke. Ci lavorai benissimo fino al 1977 quando purtroppo l'agribusiness causò una sorta di sterilizzazione sociale del villaggio. Fuggii allora nel Devon occidentale, in una casa circondata da alberi, distante oltre un chilometro dall'abitazione più vicina. Voglio dimostrare che l'esercizio solitario della scienza in un villaggio di campagna, e perfino in una casa isolata, è al tempo stesso piacevole e produttivo.

Subito dopo aver cominciato a lavorare a Bowerchalke, il caso volle favorirmi, mostrandomi un'immagine della Terra dallo spazio; io la vidi come una meravigliosa anomalia del sistema solare, un'anomalia da lasciar senza fiato: un pianeta tangibilmente diverso dai suoi fratelli deserti e senza vita, Marte e Venere. Vidi nella Terra molto di più che una semplice sfera di roccia lambita dagli oceani, nave spaziale messa lì da un Dio benevolo affinché il genere umano ne facesse un uso esclusivo. Piuttosto, vidi in essa un pianeta che fin dai tempi delle sue origini, quattro miliardi di anni or sono, si è mantenuto adatto a ospitare la vita che vi brulica sopra; e pensai anche che la Terra fa tutto questo attraverso l'omeostasi, la saggezza del corpo, proprio come voi e io manteniamo costante la temperatura e la chimica del nostro organismo. In questa concezione, l'evoluzione spontanea della vita non si limitò a costruire il mondo darwiniano, ma avviò un progetto di cooperazione con la Terra stessa, anch'essa in evoluzione. La vita non si limita ad adattarsi alla Terra; la modifica. L'evoluzione è un passo a due ben coordinato in cui i partner sono la vita e l'ambiente fisico - e dalla loro danza emerge l'entità che chiamiamo Gaia. Questo libro parla di Gaia, non meno che di me. La parte che riguarda me serve a preparare la scena alla nascita di quella che è ancora una teoria rivoluzionaria. Dubito che l'establishment scientifico avrebbe consentito a un vero dottore di lavorare su un argomento così poco di moda, per di più con un nome che molti scienziati considerano politicamente scorretto.

Il nome è importante. I nostri pensieri più profondi sono inconsci e per tradurli in qualcosa che risulti comprensibile a noi come al resto dell'umanità, occorrono metafore e analogie. Per ragioni che non mi riuscì mai di comprendere, molti scienziati detestano il nome di Gaia; fra di essi, spicca l'insigne biologo John Maynard Smith, che commentò: «Che nome terribile per una teoria!» Con queste parole, mise in chiaro che a causare la sua disapprovazione erano il nome, la metafora, più che gli aspetti scientifici della teoria. Come moltissimi scienziati, Maynard Smith era ben consapevole del potere della metafora. Le metafore di William Hamilton dei geni egoisti e dei geni «spiteful» si sono rivelate meravigliosamente utili per rendere comprensibili i suoi concetti scientifici; d'altra parte non dovremmo mai dimenticare che la potente metafora di Gaia fu il dono di un grande scrittore. Vorrei ricordare, a coloro che criticano il nome di Gaia, che stanno muovendo battaglia a William Golding: fu lui il primo a coniarlo. Non dovremmo voltare le spalle al nome di Gaia cedendo a obiezioni pedanti. Come mai gli scienziati - quegli stessi che oggi accettano Gaia come una teoria scientifica di cui si può cercare di dimostrare la falsità - ebbene, come mai essi continuano a obiettare sul nome? Di certo la spiegazione non può essere che sono affetti da una forma di invidia della metafora. Forse si tratta di qualcosa di più profondo, di un rifiuto, da parte degli scienziati riduzionisti, di qualsiasi cosa sappia di olismo - di qualsiasi cosa, insomma, implichi che il tutto può essere di più della somma delle sue parti. Per me, la battaglia fra Gaia e il gene egoista fa parte di una guerra, immotivata e ormai superata, fra olisti e riduzionisti. In un mondo ragionevole, ci servono entrambi.

Accettai con gioia la scelta di William Golding del nome di Gaia per la mia teoria sulla Terra, e ho dedicato al progresso di quella teoria tutta la mia vita di lavoro, a partire dal completamento del mio apprendistato. È stata una battaglia emozionante ma durissima, e questo libro da un lato racconta la storia di Gaia, dall'altro cerca di spiegare in che modo la mia vita di scienziato mi condusse ad essa.

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Pagina 276

CAPITOLO 9
La ricerca di Gaia



Un insigne scienziato ha recentemente parlato di me definendomi un «holy fool» - un sacro folle. Naturalmente, lui voleva dire «wholly fool» completamente folle - e tuttavia mi piace pensare che mi vedesse impegnato nella ricerca di Gaia, quasi si trattasse di un Sacro Graal. In anni recenti ho imparato ad apprezzare le opere di Wagner, soprattutto il Parsifal, e quindi per me essere chiamato «sacro folle» è un encomio, indipendentemente da ciò che realmente significassero quelle parole. Può forse esserci mai stata, in questo secolo, una visione più ispiratrice dell'immagine della Terra contemplata dallo spazio? Per la prima volta abbiamo visto su quale gemma d'un pianeta abbiamo la ventura di vivere. Gli astronauti che nel 1968 videro la Terra dall' Apollo 8 ci regalarono un'icona che finì poi per acquisire la stessa potenza della scimitarra o della croce. Negli anni che portarono a quella missione, avevo lavorato con la NASA e avevo avuto la possibilità di guardare dietro le quinte. Per me, il significato di quella sfera, azzurra di oceani e sparsa di nubi, acquisì una dimensione reale grazie alle informazioni scientifiche appena ottenute sui suoi pianeti fratelli, Venere e Marte. All'improvviso, come in una rivelazione, vidi la Terra come un pianeta vivo. Da allora, la ricerca per conoscere e comprendere il nostro pianeta - un pianeta che si comporta come una cosa viva e che ha tenuto in serbo per noi una casa nel cosmo - è stato il Graal dal quale mi sono sentito costantemente attratto. Le intuizioni non emergono in una mente vuota; perché scaturiscano, occorre raccogliere molti fatti fra loro apparentemente slegati. L'intuizione alla base di Gaia - l'idea che la Terra controlli la propria superficie e la propria atmosfera per conservare un ambiente costantemente accogliente per la vita - mi venne in California; era un pomeriggio del settembre del 1965, mi trovavo al JPL, e fu proprio laggiù che raccolsi la maggior parte di questi fatti. Voglio dire qualcosa di più su quel periodo in California, su come mi condusse alla teoria di Gaia.

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Pagina 288

Un pomeriggio del settembre 1965, mi trovavo nello Space Science Building del JPL, in un piccolo ufficio con vista sulle montagne. L'astronomo Lou Kaplan aveva portato i tracciati degli spettri infrarossi degli ultimi rilevamenti effettuati dall'osservatorio francese di Pic du Midi. Essi fornivano un'analisi dettagliata della composizione chimica dell'atmosfera di Marte e Venere e per la prima volta constatammo che l'atmosfera di entrambi i pianeti era dominata dall'anidride carbonica e conteneva solo tracce di altri gas. Come avevo sospettato, Marte - con i suoi crateri tanto simili a quelli della Luna - aveva un'atmosfera vicina all'equilibrio chimico, profondamente diversa da quella ricca e anomala della Terra. I nostri pianeti fratelli avevano atmosfere desolate e prive di vita, né più né meno del regolito della Luna, mentre da noi l'aria contiene ossigeno mescolato a metano, e l'anidride carbonica è presente solo in tracce, a una concentrazione di 300 parti per milione. Perfino l'azoto, il gas dominante dell'atmosfera terrestre, ha degli aspetti sconcertanti. La forma stabile dell'azoto elementare non è il gas così come è presente nell'atmosfera, ma lo ione nitrato disciolto nell'oceano. L'insigne chimico fisico americano G. N. Lewis lo aveva già dimostrato negli anni venti. L'azoto presente nell'aria reagisce costantemente con l'ossigeno formando acido nitrico che poi si scioglie nel mare generando nitrati stabili; questi ultimi resterebbero dove sono se non fosse per l'incessante attività dei batteri, che li restituiscono all'atmosfera. Considerata nel suo complesso, la nostra atmosfera non solo è una miscela combustibile - in un certo senso, possiamo dire che continua a bruciare. Le radiazioni solari a più breve lunghezza d'onda, come l'ultravioletto lontano che illumina la parte più alta dell'atmosfera, possono infatti innescare la combustione di gas come il metano e l'ossigeno. Si tratta di quella che i chimici chiamano una fiamma fredda, e sta bruciando ormai da centinaia di milioni di anni. La combustione dell'aria non è una mera metafora - ha luogo davvero - e insigni chimici fisici come Sir David Bates della Queen's University di Belfast e Marcel Nicolet di Bruxelles si stavano interrogando sulla sua natura e sul suo significato.

Fino a quel pomeriggio, avevo sempre pensato all'atmosfera dei pianeti come a qualcosa da analizzare per rilevare l'eventuale presenza di forme di vita, e nulla più. Adesso che sapevo che la composizione dell'atmosfera marziana era tanto diversa dalla nostra, la mia mente era piena di interrogativi sulla natura della Terra. Se nell'aria è in corso un processo di combustione, che cosa ne mantiene costante la composizione? Mi interrogavo anche sulla fonte del combustibile, come pure sulla rimozione dei prodotti della combustione. Tutt'a un tratto, proprio come in un'illuminazione, mi venne in mente che se le caratteristiche dell'atmosfera persistevano e rimanevano stabili, doveva esserci qualcosa che la regolava conservandone costante la composizione. Se la maggior parte dei gas proveniva dall'attività degli organismi viventi, allora il fattore regolatore doveva essere proprio la vita in superficie. Spiattellai la mia intuizione a Dian Hitchcock e al cosmologo Carl Sagan. Lì per lì ci furono pochi commenti. In seguito, Carl mi parlò del paradosso del Sole freddo. La nostra stella non è sempre stata luminosa come oggi, e si pensa che al principio lo fosse di meno, in misura compresa fra il venticinque e il trenta per cento. L'enigma era questo: ammettendo che le cose stessero così, come mai - se si escludono le brevi ere glaciali - la documentazione geologica indica che la Terra è sempre stata calda? Una diminuzione della luminosità solare del venticinque per cento, in presenza della nostra atmosfera attuale, porterebbe al congelamento gran parte della superficie delle terre emerse e degli oceani. Come osservarono Pasteur e altri dopo di lui, «il caso favorisce la mente preparata». La mia mente era pronta, emotivamente e scientificamente; così pensai che in qualche modo fosse la vita a regolare il clima e la chimica della Terra. All'improvviso, nella mia mente emerse l'immagine della Terra come un organismo vivente in grado di regolare la propria temperatura e la propria chimica conservando uno stato stazionario soddisfacente. In momenti come quello non è il tempo né il luogo per perdersi in finezze, cose come «naturalmente non è viva; semplicemente, si comporta come se lo fosse».

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Pagina 291

Fu lo scrittore William Golding a suggerirmi il nome di Gaia per le mie idee su una Terra capace di autoregolarsi. Lui e sua moglie Ann erano nostri amici e vivevano in una grande casa col tetto di paglia vicino al punto in cui il fiume Ebble sgorgava dal gesso nella parte più bassa del villaggio di Bowerchalke. Bill aveva insegnato alla Bishop Wordsworth School di Salisbury, ma il successo del suo romanzo Lord of the Flies gli aveva consentito di condurre una vita indipendente. Aveva quell'aria alla buona e quel modo di vestire informale che gli avevano giustamente guadagnato, quando insegnava, il soprannome di Scruffy. Spesso ci incontravamo al pub del villaggio, The Bell, e ci scambiavamo delle visite per parlare di argomenti di comune interesse, come la fantascienza o la ricerca spaziale. Una mattina, mentre salivo lungo la strada del villaggio, raggiunsi Bill che stava andando all'ufficio postale. Cominciammo a parlare e lui mi chiese del mio ultimo viaggio al JPL. Bill aveva avuto una formazione scientifica oltre che classica, e ascoltò con entusiasmo il mio racconto di un pianeta capace di autoregolarsi. Dopo aver camminato e parlato spingendoci ben oltre l'ufficio postale, Bill si voltò verso di me e mi fece: «Se vuoi divulgare una teoria di vasta portata sulla Terra, faresti bene a darle un nome come si deve. Io suggerirei di chiamarla Gaia». Continuammo a camminare e a parlare per un po', ma ci stavamo fraintendendo: io pensavo che mi avesse suggerito di chiamare la mia teoria «Gyre», da uno dei grandi vortici che muovono l'atmosfera e gli oceani. Quando lui mi corresse, spiegandomi che intendeva la Gaia della mitologia - la divinità greca della Terra - gli fui profondamente grato. Pochi scienziati hanno avuto un artista della parola altrettanto competente che tenesse a battesimo le loro teorie.

I biologi si sono scagliati sul nome Gaia e sulla metafora di una Terra vivente come se io avessi inteso presentarli come dati di fatto. Ora penso che lo abbiano fatto per un'istintiva antipatia verso gli approcci olistici, e non perché fossero bramosi di metafore. Io non li ho mai invidiati per espressioni come «il gene egoista», «la Regina Rossa» o «l'orologiaio cieco». Né ho pedantemente fatto loro notare che per essere davvero egoista un gene dovrebbe avere pensieri e scopi suoi. Il loro avventarsi sulla metafora di Gaia - la Terra vivente - non era una critica scientifica corretta, ma una reazione viscerale a una teoria male accetta. Non tutti i biologi furono ostili. Ci fu l'amichevole scetticismo di quel grande scienziato che è E. O. Wilson, che nel suo recente libro, Consilience, ha espresso tutta l'ampiezza del suo orizzonte di pensiero. Il premio Nobel Christian de Duve, nel suo Vital Dust, diede a Gaia il suo benevolo ascolto e Norman Myers, curando il famoso Gaia Atlas of Planetary Management, rese omaggio al nome Gaia.

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I profani ben disposti verso la scienza sembrano pensare che essa si basi su misurazioni impeccabili e sia fondata sulla certezza. A volte gli scienziati fanno leva su questo mito e diventano dogmatici come fossero uomini di religione invece che di scienza. Ricorderete, a tal proposito, la famosa uscita di Einstein, con la quale egli denigrò la teoria dei quanti in una lettera personale scritta a Max Born; la frase viene spesso citata così: «Dio non gioca a dadi con l'Universo». Il filosofo francese radicale Michel Foucault disse: «La verità non viene scoperta: si tratta piuttosto di qualcosa che è prodotto dall'élite». Sebbene si stesse riferendo alla politica, la sua osservazione vale anche per la scienza. In ogni momento, la verità sgorga dalle vette dell'eccellenza. Se i biologi più esperti e rispettati dai loro colleghi affermano che la vita si adatta al suo ambiente - questo diventerà il dogma della biologia. Se i geologi più anziani, ugualmente rispettati, affermano che la presenza di vita non è necessaria per spiegare l'evoluzione delle rocce, anche questo diventa un dogma. Nel loro insieme, queste credenze dogmatiche assumono, per la scienza, il ruolo di saggezza tradizionale. È insito nella nostra natura umana di cercare la certezza. A causa della sua «fede» nella saggezza tradizionale, la maggior parte degli scienziati negò la validità dei nostri esperimenti per il rilevamento delle forme di vita, come pure la teoria di Gaia, quando glieli proponemmo la prima volta. Lo fecero con la stessa sicurezza esibita dai religiosi quando respingono le opinioni di un ateo razionalista. Sebbene non potessero dimostrare che avevamo torto, erano tuttavia più che certi, in cuor loro, che sbagliassimo. Lynn e io eravamo sbalorditi di fronte a quello che ci sembrava un atteggiamento terribilmente poco scientifico da parte dei nostri colleghi, come pure per il disprezzo di cui erano impregnati i loro rifiuti. Ero un ingenuo ad aspettarmi che accettassero la teoria di Gaia, e davvero uno stupido a immaginare che una teoria così radicale potesse aver successo in un ambiente simile. Avevo le stesse irrisorie possibilità di successo di uno che avesse sostenuto il capitalismo nella Russia di Lenin.

I primi anni settanta furono pieni di emozioni, sebbene frustranti. In un libro sul sistema solare, lessi lo splendido capitolo di G. E. Hutchinson intitolato «The Biochemistry of the Earth», e scoprii che le opinioni dell'autore sulla Terra erano molto vicine alle mie. Egli sembrava però trattenersi dal considerarla capace di autoregolazione e la descriveva come un'interessante anomalia chimica, senza spingersi oltre. In quel periodo, cercai di avere un colloquio con lui durante una mia breve visita alla Yale University. All'incontro era presente anche il geochimico Jim Walker, il quale dissentiva energicamente, seppure in modo amichevole, dalle mie idee, e non esitò a esprimersi esplicitamente contro di esse. Sia Hutchinson che io eravamo, in un certo senso, degli oratori pacifici, e avevamo bisogno di tempo per metabolizzare i nostri scambi. Come terzetto non funzionavamo, e infatti non realizzammo gran che. Purtroppo non avrei avuto altre opportunità di incontrare Hutchinson prima che lui morisse. Rimpiango di non aver letto, a quell'epoca, gli articoli di Eugene Odum, giacché egli era il solo a comprendere che un ecosistema è un sistema a feedback deterministico - esattamente il modo in cui io oggi considero Gaia: per molti aspetti, Gaia è l'ecosistema della Terra.

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Pagina 309

L'evento che avrebbe sollevato la teoria di Gaia da quel limbo di stasi si presentò del tutto inaspettato. Nel 1986, il dottor Murray, oceanologo della Washington University di Seattle, mi invitò da lui come «Walker Ames» visiting professor. Questo implicava la visita di un mese in qualità di lettore, oltre a un'interazione con gli studenti e gli scienziati dell'Università. In seguito a una conferenza tenuta al dipartimento di chimica, ebbi una feconda discussione con Robert Charlson, un insigne scienziato che si occupava di problemi dell'atmosfera, in particolare delle nubi. Bob Charlson smentiva le aspettative alimentate dai suoi interessi professionali, giacché non era assolutamente un tipo etereo, ma una persona con i piedi fermamente ancorati al suolo. Bob è un uomo robusto con i capelli scuri e l'aspetto da marinaio, e sarebbe stato alla perfezione sul molo del villaggio di pescatori più vicino a casa mia, Port Isaac. Sono orgoglioso di averlo fra i miei amici.

Bob mi spiegò che le nubi sovrastanti l'oceano erano al centro di un problema irrisolto. Qual era la fonte delle minuscole particelle, nuclei di sostanze idrosolubili, dalle quali si formano le nubi? Senza di esse, senza questi nuclei, non possono esistere nubi. Quando Bob mi disse questo, rimasi sorpreso. Senza dubbio, pensavo io, l'acqua che evapora dal mare tiepido condenserà in goccioline mentre, salendo, attraverserà strati di aria più fredda. «Sì - ammise Bob, - salirà. Ma se ci saranno pochi nuclei sui quali condensare, si tratterà di gocce grandi. Non saranno goccioline foriere di nubi, così piccole da galleggiare quasi sospese nell'aria. Invece, saranno grosse gocce che precipiteranno da un limpido cielo azzurro». Bob proseguì raccontandomi che sulle terre emerse ci sono sempre particelle intorno alle quali si possono formare le nubi - per esempio le goccioline solforiche derivanti dall'inquinamento dell'aria; sull'oceano invece, a parte qualche isola vulcanica, non ci sono fonti di questi nuclei. Si pensava che i cristalli di sale strappati al mare e asciugati dal vento potessero funzionare come nuclei di condensazione. Abbiamo campionato l'aria sull'Oceano Pacifico, lontano dalle terre emerse, e abbiamo sì trovato qualche cristallo di sale - ma sempre anche nuclei abbondanti sotto forma di goccioline di acido solforico e solfato d'ammonio. Bob venne al dunque, formulando la domanda cruciale: «Da dove provengono l'acido solforico e il solfato d'ammonio?» Quello fu un momento importante per la scienza. Il giorno prima avevo tenuto una lezione sulla regolazione del ciclo dello zolfo e di altre sostanze chimiche attraverso l'emissione del dimetilsolfuro da parte delle alghe dell'oceano, e improvvisamente venne in mente a entrambi che le goccioline di acido solforico - quelle che fungevano da nuclei per la formazione delle nubi - potessero derivare proprio dall'ossidazione del dimetilsolfuro. Ci spingemmo poi oltre, domandandoci se questo fenomeno non potesse far parte di un processo di autoregolazione del clima su vasta scala. Trovandoci a Seattle e discutendo di Gaia, Bob e io avevamo potuto condividere due informazioni essenziali che servirono a risolvere l'enigma - da dove vengono le nubi che si formano sopra l'oceano? Questa, forse, fu la più importante scoperta scientifica compiuta da entrambi. Senza le nubi che sovrastano l'oceano, la vita come noi la conosciamo non potrebbe esistere. L'oceano infatti - con la sua massa scura che assorbe fortemente la luce solare - copre il 70 per cento della superficie del pianeta; le nubi invece sono bianche e riflettono le radiazioni. Bob mi disse che senza nubi la Terra sarebbe stata di circa venti gradi più calda; una Terra senza nubi avrebbe avuto una temperatura superficiale di circa 35°C, e pertanto sarebbe stata inospitale per il nostro tipo di vita. Esistono anche altre fonti di nuclei per la formazione delle nubi; noi però pensammo che fosse ragionevole riflettere sul legame fra clima, nubi, DMS e alghe considerandolo quale parte del sistema di autoregolazione di Gaia. C'erano ben pochi dubbi sul fatto che la principale fonte di DMS fosse rappresentata dalle alghe microscopiche sospese negli oceani.

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Pagina 318

Mentre leggete queste pagine, sono ormai ben pochi gli scienziati scettici sul fatto che il clima e la composizione chimica della superficie terrestre siano legati al metabolismo degli organismi che la abitano; in un articolo pubblicato da «Nature», John Schellnhuber, lo scienziato dei sistemi tedesco, ha definito questo cambiamento di prospettiva una nuova rivoluzione copernicana. Oggi nessuno pensa più all'ossigeno come a qualcosa di diverso da un prodotto della fotosintesi effettuata dalle piante e dalle alghe. È facile dimenticare, però, che venti o trent'anni fa circolavano serissimi articoli scientifici nei quali si ipotizzava che esso provenisse principalmente dalla fotodissociazione del vapore acqueo negli strati superiori dell'atmosfera terrestre; Frank Press e Raymond Siever non fecero alcuna menzione, nel loro splendido libro Earth, scritto nel 1973, dell'interazione fra vita e composizione chimica superficiale del pianeta. Essi condividevano l'opinione generale espressa a pagina 489 dell'edizione originale del libro: «La vita dipende dall'ambiente in cui si evolse e al quale si è adattata».

A quei tempi, essi non avevano la benché minima idea del fatto che in assenza della vita il nostro pianeta sarebbe stato un immenso deserto come Marte o Venere. Sapevano che la vita aveva bisogno di acqua, ma non riuscivano a capire che essa la conservava attivamente. Allo stesso modo, i centri internazionali per la ricerca sul clima, che un tempo disprezzavano l'idea che la vita influenzasse il clima, oggi sono consapevoli della necessità di includere nei modelli gli organismi che vivono sulle terre emerse e negli oceani. Oggi i geologi accettano che la disgregazione delle rocce continentali sia un processo implicante anche la digestione da parte dei batteri e dei vegetali, oltre a eventi di natura fisica e chimica. Nei trentacinque anni dell'esistenza di Gaia come teoria, la nostra concezione della Terra è cambiata profondamente. Ciò nondimeno, finora solo una piccolissima minoranza di scienziati si rende conto di quanto la teoria di Gaia abbia contribuito a modificare le loro opinioni. Hanno adottato la mia visione radicale della Terra senza riconoscerne la provenienza, dimenticando il disprezzo riservato dalla maggior parte di essi all'idea di una Terra capace di autoregolazione.

Dal principio alla fine, la ricerca su Gaia è stata una battaglia. Oggi i nostri critici cominciano ad ammettere che potrebbero aver sbagliato; ciònondimeno, continuano a trovare oscuro il concetto di autoregolazione e il fenomeno dell'emergenza, entrambi essenziali per una reale comprensione di Gaia. Può darsi che tutti costoro non comprendano Gaia, ma ciò non gli impedisce di attingere da The Ages if Gaia l'ispirazione per progetti di ricerca nel campo della biogeochimica o della climatologia. Hanno ragione di insistere sul fatto che rimane ancora un grande interrogativo senza risposta: se effettivamente la Terra si autoregola grazie a un feedback biologico, in che modo quest'ultimo è venuto in essere attraverso la selezione naturale? Mi piace paragonare la nostra impotenza di fronte a tale quesito a quella dello stesso Darwin, quando avrebbe voluto soddisfare i critici che vedevano nella sbalorditiva perfezione dell'occhio qualcosa che - anch'essa! - non avrebbe mai potuto emergere attraverso i meccanismi casuali della selezione naturale.

Prendiamo ora la prova più affascinante a favore di Gaia - l'associazione fra le alghe che vivono nell'oceano e il clima. Ancora non sappiamo in che modo i legami fra clima, nubi e organismi si siano evoluti per selezione naturale. Quando finalmente lo capiremo, quasi di sicuro troveremo un meccanismo implicante una serie di piccoli passaggi e non un grande, improvviso, balzo evolutivo. Recentemente, William D. Hamilton e Tim Lenton hanno ipotizzato che le alghe - come la maggior parte degli organismi viventi - debbano diffondere le proprie spore da aree ormai depauperate di nutrienti a zone più ricche. Forse l'emissione di DMS ha la funzione di sollevare il vento. I marinai sanno che la corrente d'aria ascensionale generata dalla condensazione in una nube può innescare un vento di superficie. Forse le alghe si sono servite di questi venti per disperdere le proprie spore. Il dente di leone ha evoluto complesse strutture miniaturizzate per la dispersione aerea dei semi. E allora perché le alghe non dovrebbero poter inviare le proprie spore in luoghi più ricchi di nutrienti? Hamilton e Lenton hanno pubblicato queste idee in un articolo intitolato Spora and Gaia, uscito nel 1998. Esso contribuì a convincermi che ormai potevo ritirarmi dalla partecipazione attiva alla scienza di Gaia. La mia decisione fu rafforzata dall'articolo di Oliver Morton, comparso su «Discover», nel quale l'autore constatava come infine anche gli scettici fossero disposti ad ascoltare - e questo era esattamente quello che avevo sempre desiderato che facessero: né più né meno.

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Quando parlo di scienza, non penso alla tecnologia. Mi riferisco al nostro intero patrimonio di conoscenze e interpretazioni della vita e dell'universo. Si tratta della cosa più preziosa in nostro possesso, ma se si escludono i suoi sacerdoti, per tutti gli altri gran parte della scienza non è più emozionante di una biblioteca contenente volumi scritti in una lingua straniera. Scienza e tecnologia non sono sinonimi; la scienza ispira le imprese creative della tecnologia - la piacevole perfezione della campata di un ponte, l'eleganza di un aeroplano come il Concorde, le immagini dei pianeti inviate dallo spazio ci colpiscono tutte proprio come opere d'arte. Quando contempliamo queste cose proviamo un'emozione simile a quella che ci invade alla vista di una cattedrale o di un dipinto di Vermeer.

Come in un romanzo giallo, i fatti - svelati accumulando a poco a poco i dati che emergono dall'interrogazione paziente e onesta della Natura - ci parlano delle nostre origini. Essi ci forniscono una descrizione convincente della nostra evoluzione, come pure di quella della Terra e del cosmo. Al confronto, come fonti di conoscenza oggettiva, i testi sacri delle varie religioni sono, nella migliore delle ipotesi, poesia ispirata e nel caso peggiore, creazioni confuse prodotte da popolazioni primitive. La scienza ha giustamente sottratto alle religioni la loro autorità quali fonti di conoscenze sulla vita e sull'universo; tuttavia, la religione non è solo pseudoscienza: essa dà una guida morale e offre certezze.

Noi esseri umani non abbiamo bisogno solo di generiche certezze: sembriamo bramare anche una certezza di natura trascendentale. La scienza moderna non potrà mai darci questo. Essa è troppo fredda e troppo razionale - e spesso sembra andare contro il buon senso comune. Noi non siamo evoluti per agire razionalmente; raggiungiamo il massimo dell'efficacia quando agiamo affidandoci all'inconscio e all'intuito. Perfino quando facciamo una scoperta scientifica, molto spesso i suoi elementi essenziali si insinuano nella nostra mente per intuizione, come intrusi nella notte. La parte razionale interviene dopo, al momento della dimostrazione. È proprio della nostra natura aver bisogno di una certezza da seguire e alla quale sacrificare la nostra vita - una certezza che ci ispiri a costruire cattedrali dove poterla poi celebrare con le grandiose espressioni della musica o dell'arte. Finora, la scienza ha miseramente fallito l'obiettivo di offrirei una simile ispirazione.

Nel suo libro The Unnatural Nature cf Science, Lewis Wolpert ha riconosciuto il carattere innaturale della scienza. La scienza che ha portato ai trionfi della fisica delle particelle e della biologia molecolare neodarwinista -la scienza distaccata, specialistica e priva di emozioni - è lontana dalle forti pulsioni interne capaci di scuoterci, ed è per questo che ci sembra innaturale. Mentre la struttura a doppia elica del DNA emergeva nella loro mente, Watson e Crick dovettero provare una sorta di stupefatta ammirazione; d'altra parte, gli aspetti scientifici della loro scoperta scaturirono da una lunga serie di meticolose ricerche, in cui i desideri fin troppo umani di tirare a indovinare e imboccare scorciatoie erano stati tutti soffocati dalla disciplina alla quale l'attività scientifica è subordinata. I nostri sentimenti e le nostre esigenze hanno probabilmente una spiegazione scientifica, ma quando sono all'opera le emozioni, la scienza ha ben poca influenza sul nostro cuore.

Noi siamo carnivori tribali, animali che si stanno ancora evolvendo. Il pensiero distaccato e l'immaginazione hanno luogo in superficie, ma a muoverci davvero sono sentimenti e sensazioni come la fame, l'amore, l'odio, la paura - e spesso i messaggi dei nostri sensi hanno la priorità. Può darsi che la realtà non giustifichi il pessimismo di Bertrand Russell quando osservava che «l'uomo medio preferirebbe affrontare la morte, piuttosto che pensare»; comunque i sentimenti hanno la priorità. Poiché siamo animali tribali, rispettiamo le gerarchie e seguiamo i nostri leader. Abbiamo un bisogno istintivo, forse genetico, di un leader - qualcuno da temere, venerare e adorare; qualcuno da seguire senza discutere e, se necessario, qualcuno per cui morire. Poca meraviglia quindi che il capo tribù e Dio costituissero una sorta di sistema risonante e che in genere la religione abbia la sua parte nei conflitti tribali. È come se avessimo bisogno di codificare nella leggenda le nostre credenze politiche, religiose e perfino scientifiche. Immediatamente, il mito diventa per noi la verità a proposito del nostro leader e della nostra tribù. Quel che rende peculiare il mito della scienza è la sua capacità di autocorreggersi: tutti gli altri miti, invece, vanno lentamente perdendo il contatto con la realtà, finché non vengono rovesciati da un violento cambiamento.

Secondo me, noi esseri umani abbiamo una comprensione limitata, e siamo così impregnati di arroganza a proposito delle nostre scoperte da non riuscire nemmeno a immaginare l'immensità di ciò che non conosciamo. Fra i pochi scienziati che ebbero tale percezione ci fu J. B. S. Haldane, il quale scrisse: «Ho il sospetto che l'Universo sia più bizzarro non solo di quanto noi supponiamo, ma anche di quanto possiamo supporre». Prendiamo un cane o un gatto. A modo loro, questi animali sono coscienti e conoscono il mondo. Per certi versi - per esempio se si considera l'universo olfattivo - essi hanno una conoscenza della realtà superiore alla nostra; d'altra parte, sulla vita e sull'Universo, noi sappiamo molto di più di quanto potranno mai sapere un cane o un gatto. Ora, proviamo a immaginare un animale molto più intelligente e saggio di noi. Come considererebbe i nostri tentativi di cimentarci con la cosmologia e la teologia? Quando trasmettiamo le nostre conoscenze scientifiche noi siamo capacissimi di tessere le lodi di Dio - ma poi non esitiamo a pretendere che lo scienziato faccia la sua parte nel progettare fucili e proiettili migliori. La peculiare capacità della scienza, di contribuire a vincere le guerre, l'ha aiutata a sostituirsi alla religione; stranamente, però, la scienza non riconosce frontiere, tribali o nazionali che siano. Essa parla a tutti i popoli della Terra esprimendosi in un unico linguaggio ed è l'oracolo in cui riponiamo la nostra fiducia. Ciò nondimeno, essa è fredda e priva di sentimento e non è ancora diventata qualcosa che noi si possa venerare: nel momento in cui abbiamo abbracciato la scienza, abbiamo perso il conforto della fede religiosa. E tuttavia, può darsi che questa sia una prospettiva ingannevole: forse è solo che la scienza moderna deve ancora evolvere, accanto alla capacità di informare, quella di confortare. La debolezza della scienza odierna dipende dal suo amore per il riduzionismo, ma d'altra parte le cose non sono sempre state così. James Hutton - vissuto nel XVIII secolo e giustamente considerato il padre della geologia - fu il primo a capire che la Terra è molto più antica della specie umana, e percepì la possibilità che fosse simile a un organismo vivente e andasse pertanto studiata con i metodi della fisiologia. La scienza di James Hutton era al tempo stesso riduzionista e olista; a quei tempi, a dispetto di Cartesio, le due prospettive - dall'alto in basso e dal basso in alto: top-down e bottom-up - coesistevano nella mente di molti scienziati.

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Gaia ha implicazioni etiche che scaturiscono dalle sue due leggi: secondo la prima, la stabilità e la resilienza degli ecosistemi in particolare e dell'intero pianeta più in generale, richiedono la presenza di un ambiente che imponga limiti o vincoli precisi. La seconda legge stabilisce che gli organismi in grado di convivere bene con il loro ambiente favoriscano la selezione della propria progenie. Immaginate dei sermoni basati su queste regole. Consideriamo dapprima l'orientamento rappresentato dal vincolo. Già immagino i cenni di approvazione tra i fedeli. La loro esperienza personale - della necessità di una mano ferma per la positiva evoluzione delle loro famiglie e della società - coincide con l'esperienza evolutiva della Terra stessa. La seconda legge - l'esigenza di prendersi cura dell'ambiente - mi fa venire in mente un sermone sull'abominevole trasgressione del cosiddetto terraforming, ossia la conversione, mediante la tecnologia, di un altro pianeta in un habitat adatto all'uomo. La cosa davvero negativa del terraforming è quel suo obiettivo di preparare una seconda casa all'umanità dopo che essa ha distrutto il suo pianeta applicando in modo improprio, e con ingordigia, la scienza e la tecnologia. È una follia pensare di convertire Marte - il pianeta deserto - in una vaga sembianza della Terra a suon di ruspe e di agribusiness; dovremmo invece cercare di migliorare la nostra capacità di convivere con il nostro pianeta. La seconda legge ci mette anche in guardia dalle conseguenze di un umanesimo senza freni. Molto presto, nella storia della civiltà, ci rendemmo conto che l'esagerata adorazione di sé finisce per trasformare l'autostima in narcisismo. Abbiamo dovuto spingerci fin quasi ai giorni nostri per riconoscere che l'esclusivo amore per la nostra stirpe e la nostra nazione sfigura il patriottismo, stravolgendolo in un nazionalismo xenofobo. Oggi cominciamo a intravedere la possibilità che la venerazione dell'umanità possa anch'essa trasformarsi in una filosofia squallida che esclude gli altri esseri viventi - le creature che vivono insieme a noi sulla Terra. L'ape non è completa senza il suo alveare; tutti gli esseri viventi hanno bisogno dell'ambiente fisico che la Terra offre loro. Insieme alla Terra, tutti noi costituiamo un'unità in Gaia.

Il nostro pianeta è un luogo di squisita bellezza, fatto materialmente con il respiro, il sangue e le ossa dei nostri avi. Dobbiamo riprendere la nostra antica percezione della Terra come organismo, e tornare a rispettarla. Da quando esiste la vita, Gaia ne è stata la custode; se rifiuteremo le sue attenzioni, lo faremo a nostro rischio e pericolo. D'altra parte, se riporremo la nostra fiducia in Gaia, il nostro potrà essere un impegno forte, fonte di gioia - proprio come in un buon matrimonio, quando c'è fiducia reciproca. Il fatto che, proprio come noi, anche Gaia sia mortale, rende ancor più preziosa quella fiducia. Gaia non dovrebbe mai diventare una religione, perché in tal caso sarebbero necessarie una chiesa e una gerarchia. Le religioni, tutte le religioni, sono troppo umane, fallibili e sempre a rischio di sprofondare sotto il peso del proprio dogmatismo: una religione gaiana non farebbe eccezione. Gaia fa parte della scienza, e pertanto sarà sempre provvisoria; la Terra, che è la sua incarnazione, è invece qualcosa di reale, che possiamo rispettare e venerare - qualcosa di molto più grande di noi e che, a differenza delle divinità immaginarie, può davvero ricompensarci o punirci. Ciò che Gaia ha da offrire è la concezione, a uso degli agnostici, di un mondo in evoluzione; questo ci imporrà di avere in essa una fiducia interattiva, e non una fede cieca; una fiducia nel cui contesto accettare il fatto che Gaia, proprio come noi, abbia una vita finita e sia un'entità provvisoria. Gaia non è un'alternativa alla religione, ne è piuttosto un complemento. Nelle loro parabole, le grandi religioni ci hanno già dato delle regole per vivere gli uni con gli altri. Le parabole di Gaia, come Daisyworld, riguardano la Terra. Daisyworld dimostra la mortalità di Gaia e spiega che a ogni cambiamento da noi apportato all'ambiente corrispondono delle conseguenze.

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