Copertina
Autore Michael Löwy
Titolo Segnalatore d'incendio
SottotitoloUna lettura delle tesi "Sul concetto di storia" di Walter Benjamin
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004, Temi 129 , pag. 148, cop.fle., dim. 115x195x10 mm , Isbn 978-88-339-1449-7
OriginaleWalter Benjamin: Avertissement d'incendie. Une lecture des thèses «Sur le concept d'histoire»
EdizionePresses Universitaires de France, Paris, 2001
TraduttoreMario Pezzella
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe storia
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Indice


  7    Introduzione
       Romanticismo, messianismo e marxismo
       nella filosofia della storia
       di Walter Benjamin

 29 1. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia

128 2. Apertura della storia

143    Indice dei nomi


 

 

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Pagina 16

Come si articoleranno questi fermenti messianici, utopici e romantici con il materialismo storico? Il marxismo diverrà gradualmente un elemento chiave della sua concezione della storia a partire dal 1924, quando legge Storia e coscienza di classe di Lukàcs e scopre il comunismo grazie ad Asja Lacis. Nel 1929, Benjamin parla ancora del saggio di Lukàcs come di uno dei rari libri che restano vivi e attuali: «La più organica e serrata opera filosofica della letteratura marxista. È un libro unico per la sicurezza con cui ha visto come la situazione critica della filosofia esprima la situazione critica della lotta di classe, e come l'ormai matura rivoluzione concreta sia l'assoluta premessa, anzi l'assoluta esecuzione e l'ultima parola della conoscenza teoretica».

Questo testo mostra quale fosse l'aspetto del marxismo che interessava Benjamin e che gli permetterà di illuminare di nuova luce la sua visione del processo storico: la lotta di classe. Ma il materialismo storico non sostituirà le sue intuizioni «antiprogressiste», d'ispirazione romantica e messianica: si articolerà con esse, acquistando così una qualità critica che lo distingue radicalmente dal marxismo «ufficiale» allora dominante. Per la sua posizione critica contro l'ideologia del progresso, Benjamin occupa in effetti una posizione singolare e unica nel pensiero marxista e nella sinistra europea tra le due guerre.

Questa articolazione si manifesta per la prima volta nel libro Strada a senso unico, scritto tra il 1923 e il 1926, dove si trova, sotto il titolo «Segnalatore d'incendio», questa premonizione storica sui pericoli del progresso: se il rovesciamento della borghesia da parte del proletariato «non si sarà compiuto ad un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione e guerra chimica) tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata».

Contrariamente al marxismo evoluzionistico volgare - che certo può rifarsi ad alcuni scritti di Marx ed Engels -, Benjamin non concepisce la rivoluzione come il risultato «naturale» o «inevitabile» del progresso economico e tecnico (o della «contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione»), ma come l'interruzione di una evoluzione storica che conduce alla catastrofe. Egli rivendica il pessimismo (nell'articolo sul surrealismo del 1929), proprio perché percepisce questo pericolo catastrofico - un pessimismo che non ha niente a che vedere con la rassegnazione fatalistica e ancor meno col Kulturpessimismus tedesco, conservatore, reazionario e prefascista di Carl Schmitt, Oswald Spengler o Moeller van der Bruck: il pessimismo è qui al servizio dell'emancipazione delle classi oppresse. Egli non si preoccupa per il «declino» delle élite, o della nazione, ma per le minacce che il progresso tecnico ed economico promosso dal capitalismo fa gravare sull'umanità.

Niente sembra più risibile - agli occhi di Benjamin - dell' ottimismo dei partiti borghesi e della socialdemocrazia, il cui programma politico è solo «una brutta poesia sulla primavera». Contro questo «ottimismo senza coscienza, dilettantesco», ispirato dall'ideologia del progresso lineare, egli scopre nel pessimismo il punto di convergenza effettivo tra surrealismo e comunismo. Naturalmente non si tratta di un sentimento contemplativo, ma di un pessimismo attivo, «organizzato», pratico, teso interamente verso l'obiettivo di impedire, con tutti i mezzi possibili, l'avvento del peggio.

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Pagina 29

1.

Una lettura delle tesi Sul concetto di storia


Prima di passare a un'analisi «talmudica» — parola per parola, frase per frase — del testo di Benjamin, faccio qualche breve osservazione per introdurre alla lettura delle tesi. Il testo Sul concetto di storia fu scritto all'inizio del 1940, poco prima che il suo autore tentasse di fuggire dalla Francia di Vichy, dove i rifugiati tedeschi ebrei e/o marxisti venivano consegnati dalle autorità alla Gestapo. Come è noto, questo tentativo è fallito: intercettato dalla polizia franchista alla frontiera spagnola (Port-Bou), Walter Benjamin ha scelto il suicidio, nel settembre del 1940.

Il primo riferimento al testo compare in una lettera di Benjamin a Horkheimer del 22 febbraio 1940, in lingua francese, che spiega all'amico l'obiettivo del lavoro: «stabilire una scissione irrimediabile tra il nostro modo di vedere e le sopravvivenze di positivismo», che contaminano anche le concezioni storiche della sinistra. Il positivismo appare così, agli occhi di Benjamin, come il denominatore comune delle tendenze che egli intende criticare: lo storicismo conservatore, l'evoluzionismo socialdemocratico, il marxismo volgare.

Occorre precisare che questo testo non era destinato alla pubblicazione. Benjamin l'ha dato o spedito a qualche amico intimo - Hannah Arendt, Theodor W. Adorno -, ma insisteva, nella lettera a Gretel Adorno, sul fatto che non è il caso di pubblicarlo, perché «spalancherebbe porte e finestre al fraintendimento entusiastico». Questi timori profetici si sono pienamente realizzati: una buona parte della letteratura sulle tesi rivela un'incomprensione talora entusiastica, talora scettica, ma in ogni caso incapace di cogliere la portata del testo.

Lo stimolo immediato per la scrittura delle tesi fu costituito probabilmente dal Patto tedesco-sovietico, dall'inizio della seconda guerra mondiale e dall'occupazione dell'Europa da parte delle truppe naziste. Ma esse sono anche la sintesi, l'espressione ultima e concentrata di idee che attraversano l'insieme della sua opera. In una delle sue ultime lettere, indirizzata a Gretel Adorno, Benjamin scrive: «La guerra, e la costellazione che l'ha portata con sé, mi ha condotto a mettere per iscritto alcuni pensieri che posso dire di avere tenuto per almeno vent'anni custoditi in me, anzi preservandoli pure da me stesso». Avrebbe potuto scrivere da venticinque anni, poiché, come abbiamo visto, la conferenza sulla vita degli studenti (1914) conteneva già alcune idee decisive del suo testamento spirituale del 1940.

Bisogna dunque collocare le tesi nel loro contesto storico: per usare le parole di Victor Serge, era la «mezzanotte del secolo» e questo momento terribile della storia contemporanea costituisce certamente lo sfondo immediato del testo. Non si può tuttavia considerarlo solo il prodotto di una congiuntura specifica: esso ha un significato che va al di là della costellazione tragica che l'ha fatto nascere. Se ci parla ancora oggi, se suscita tanto interesse, discussioni, polemiche, dipende dal fatto che, attraverso il prisma di un momento storico determinato, esso pone questioni che riguardano l'insieme della storia moderna e il ruolo del XX secolo nel percorso sociale dell'umanità.

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Pagina 31

Nei dibattiti che hanno seguito la pubblicazione, a partire dagli anni cinquanta, si possono distinguere tre grandi scuole interpretative:

1) La scuola materialistica: Benjamin è un marxista, un materialista conseguente. Le sue formulazioni teologiche devono essere considerate come metafore, una forma esotica che copre verità materialistiche. È la posizione già espressa da Brecht nel suo Diario.

2) La scuola teologica: Benjamin è innanzi tutto un teologo ebreo, un pensatore messianico. In lui il marxismo non è che terminologia, uso indebito di concetti come «materialismo storico». È il punto di vista del suo amico Gershom Scholem.

3) La scuola della contraddizione: Benjamin tenta di conciliare marxismo e teologia ebraica, materialismo e messianismo. Ora, come tutti sanno, le due cose sono incompatibili. Per questo il suo tentativo fallisce. E la lettura di Jürgen Habermas e di Rolf Tiedemann.

A mio parere, queste tre scuole hanno insieme ragione e torto. Vorrei proporre modestamente una quarta possibilità: Benjamin è marxista e teologo. È vero che questi due concetti sono normalmente contraddittori. Ma l'autore delle tesi non è un pensatore «normale»: egli li reinterpreta, li trasforma, li situa in un rapporto di illuminazione reciproca che permette di articolarli in modo coerente. Egli amava paragonarsi a un Giano, che con un volto guarda Mosca e con l'altro Gerusalemme. Ma ci si dimentica spesso che il dio romano aveva due volti ma una testa sola: marxismo e messianismo sono le due espressioni - Ausdrücke, uno dei termini preferiti di Benjamin - di un solo pensiero. Un pensiero innovatore, originale, inclassificabile, caratterizzato da ciò che egli chiama, in una lettera a Scholem del 29 maggio 1926, il «paradossale rovesciarsi [Umschlagen] dell'uno nell'altro» del politico nel religioso e viceversa. Per meglio comprendere il rapporto complesso e sottile tra redenzione e rivoluzione nella sua filosofia della storia, bisognerebbe parlare di affinità elettiva, cioè di mutua attrazione e rafforzamento reciproco dei due poli, a partire da alcune analogie strutturali che conducono a una specie di fusione alchemica - come l'incontro amoroso di due anime nel romanzo di Goethe Le affinità elettive, al quale Benjamin aveva dedicato uno dei suoi saggi giovanili più importanti.

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Ma soprattutto la lettura delle tesi ha scosso le mie certezze, sconvolto le mie ipotesi, rovesciato (alcuni) miei dogmi: in breve, mi ha obbligato a pensare diversamente, su una serie di questioni fondamentali: il progresso, la religione, la storia, l'utopia, la politica. Niente è uscito indenne da questo incontro capitale.

Poco a poco mi sono reso conto della portata universale delle tesi di Benjamin, del loro interesse per comprendere - «dal punto di vista dei vinti» - non solamente la storia delle classi oppresse, ma anche quella delle donne - la metà dell'umanità -, degli ebrei, degli zingari, degli indiani d'America, dei curdi, dei neri, delle minoranze sessuali: in una parola, di tutti i paria - nel senso che Hannah Arendt dava a questo termine - in ogni epoca e in ogni continente.

Nel corso degli ultimi quindici anni ho preso molte note in vista di una interpretazione delle tesi. Ho seguito i corsi e le conferenze di eminenti specialisti come Stéphane Mosès e Irving Wohlfarth. A mia volta ho tenuto un seminario di un anno sulle tesi presso l'Ecole des Hautes Études en Sciences Sociales - e più tardi, presso l'Università di San Paolo, in Brasile. Ho letto una buona parte della «letteratura secondaria», ma sono convinto non solo che c'è ancora spazio per altre interpretazioni - come quella che propongo -, ma che il testo di Benjamin appartiene a quella rara specie di scritti che hanno la vocazione di sollecitare sempre nuove letture, nuovi punti di vista, metodi ermeneutici differenti, riflessioni inedite - ad infinitum. O piuttosto, come dice lo shema israel, la preghiera millenaria degli ebrei, leolam va ed, per l'eternità dei tempi.


TESI I

È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, con un narghilè in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di specchi veniva data l'illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato. In verità c'era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l'altro non deve lasciarsi vedere.

La tesi I enuncia subito uno dei temi centrali di tutto il testo Sul concetto di storia: l'associazione paradossale tra il materialismo e la teologia. Per mostrare questo intreccio Benjamin crea una allegoria ironica. Cerchiamo di decifrare il senso degli elementi che la compongono.

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TESI V

La vera immagine del passato «guizza via». È solo come immagine che balena, per non più comparire, proprio nell'attimo della sua conoscibilità che il passato è da trattenere. «La verità non ci scapperà». Questa frase, che è di Gottfried Keller, segna, nell'immagine di storia dello storicismo, il punto esatto in cui essa è infranta dal materialismo storico. Infatti è un'immagine non rievocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che non si sia riconosciuto inteso in essa. (La lieta novella che lo storico, con il respiro ansante, reca al passato viene da una bocca che forse, già nell'attimo in cui si apre, parla nel vuoto).

Una prima versione della tesi V si trova già nel saggio su Fuchs del 1936: contro l'atteggiamento contemplativo dello storico tradizionale, Benjamin pone l'accento sull'impegno attivo del sostenitore del materialismo storico. Il suo obiettivo è scoprire la costellazione critica che un particolare frammento del passato forma specificamente con un particolare momento del presente. La dimensione politica e attiva di questo rapporto con il passato è esplicitata in una delle note preparatorie alla tesi: «Questo concetto istituisce una connessione tra storiografia e politica, che è identica a quella teologica tra rammemorazione e redenzione. Questo presente si condensa in immagini che si possono chiamare immagini dialettiche. Esse rappresentano una "trovata salvifica" [rettenden Einfall] per l'umanità». Ritroviamo l'idea paradossale - ma essenziale per il modo di procedere intellettuale di Benjamin - di una sorta di identità tra i concetti teologici e i loro equivalenti profani, rivoluzionari. D'altra parte, non bisogna perdere di vista come la «trovata salvifica» abbia per oggetto sia il passato sia il presente: storia e politica, rammemorazione e redenzione sono inseparabili.

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TESI VI

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l'importante è trattenere un'immagine del passato nel modo in cui si impone imprevista nell'attimo del pericolo, che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari. Per entrambi il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l'Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in «quello» storico che è compenetrato dall'idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.

La tesi inizia rifiutando la concezione storicistico-positivistica della storia esemplificata dalla celebre frase di Ranke, lo storico prussiano conformista e conservatore: il compito dello storico consisterebbe, semplicemente, nel rappresentare il passato «proprio come è stato davvero». Il preteso storico neutrale, che accede direttamente ai fatti «reali», in realtà si limita a confermare la visione dei vincitori, i re, i papi e gli imperatori di tutte le epoche, oggetto privilegiato della storiografia di Ranke.

Il momento del pericolo per il soggetto storico – e cioè le classi oppresse (e lo storico che si è schierato con esse) – è quello in cui sorge l'immagine autentica del passato. Perché? Probabilmente perché in quell'istante si dissolve la visione comoda e pigra della storia come «progresso» ininterrotto. Il pericolo di una disfatta attuale acuisce la sensibilità per le sconfitte precedenti, suscita interesse per la lotta dei vinti, incoraggia uno sguardo critico sulla storia. Forse Benjamin pensa alla sua stessa situazione: non è forse il pericolo imminente in cui si trova nel 1939-40 - arresto, internamento nei campi, consegna alla Gestapo da parte delle autorità di Vichy - ad aver provocato la visione singolare e unica del passato che emerge dalle tesi Sul concetto di storia?

Nell'istante del pericolo, quando l'immagine dialettica «brilla come un lampo», lo storico - o il rivoluzionario - deve dar prova di «presenza di spirito» (Geistesgegenwart) per cogliere quest'attimo unico, questa occasione fuggevole e precaria di «salvazione» (Rettung), prima che sia troppo tardi. Poiché, come sottolinea la versione francese di Benjamin, il ricordo che si presenta nell'attimo di un pericolo improvviso può essere proprio ciò che «lo salva» (le sauve).

Il pericolo è duplice: quello di trasformare sia la storia del passato - la tradizione degli oppressi - sia il soggetto storico attuale - le classi dominate, «nuove depositarie» di questa tradizione - in strumento nelle mani delle classi dominanti. Strappare la tradizione al conformismo che vuole impadronirsene significa restituire alla storia - per esempio a quella della Rivoluzione francese o a quella del 1848 - la sua dimensione sovversiva dell'ordine costituito, edulcorata, dimenticata o negata dagli storici «ufficiali». Solo così il sostenitore del materialismo storico può «riattizzare nel passato la scintilla della speranza» - una scintilla che può dar fuoco alle polveri oggi.

Lo storico rivoluzionario sa che la vittoria del nemico attuale minaccia perfino i morti - non necessariamente nella forma primitiva e rozza della restaurazione monarchica degli Stuart che oltraggiano i resti di Cromwell, ma attraverso la falsificazione o l'oblio delle loro lotte. «Questo nemico non ha smesso di vincere»: il passato, dal punto di vista degli oppressi, non è un accumulo graduale di conquiste, come nella storiografia «progressista», ma piuttosto una serie interminabile di sconfitte catastrofiche: disfatta della rivolta degli schiavi contro Roma, della rivolta dei contadini anabattisti del XVI secolo, del giugno 1848, della Comune di Parigi e dell'insurrezione spartachista a Berlino nel 1919.

Ma non si tratta solo del passato: nella sua traduzione francese, Benjamin scrive: «nel momento attuale, il nemico continua a trionfare». Quel momento era «la mezzanotte del secolo», per riprendere la bella espressione di Victor Serge. Le vittorie del nemico erano enormi: sconfitta della Spagna repubblicana, Patto tedesco-sovietico, occupazione dell'Europa da parte del Terzo Reich.

Questo nemico attuale Benjamin lo conosceva bene: il fascismo. Esso rappresenta per gli oppressi un pericolo supremo, il più grande che si sia mai presentato nella storia: la seconda morte delle vittime del passato e il massacro di tutti gli avversari del regime. La falsificazione, su scala prima inimmaginabile, del passato, e la trasformazione delle masse popolari in strumento delle classi dominanti. Certo, nonostante la sua vocazione di Cassandra e il suo pessimismo radicale, Benjamin non poteva prevedere Auschwitz...

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