Copertina
Autore Michael Löwy
Titolo Kafka sognatore ribelle
EdizioneEleuthera, Milano, 2007 , pag. 136, cop.fle., dim. 12,5x19x0,9 cm , Isbn 978-88-89490-30-3
OriginaleFranz Kafka rêveur insoumis [2004]
TraduttoreGuido Lagomarsino
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe critica letteraria
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Indice


     INTRODUZIONE
     Catene di carta protocollo                                      7

I.   «Non dimenticare Kropotkin!», Kafka e il socialismo libertario 15

II.  Tirannie: dall'autocrazia paterna agli apparati impersonali    43

III. Il processo, da Mendel Beiliss, il paria ebreo, a Joseph K.,
     la vittima universale                                          67

IV.  La religione della libertà e la parabola Dinnanzi alla Legge   83

V.   Il Castello, dispotismo burocratico e servitù volontaria      101

VI.  Digressione aneddotica: Kafka era realista?                   121

VII. Una situazione kafkiana                                       129


 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE
CATENE DI CARTA PROTOCOLLO



È possibile dire qualcosa di nuovo su Kafka? È la scommessa di questo libro. Mi sembra, infatti, che sia arrivato il momento di osservare la sua opera con uno sguardo diverso per dare conto della sua affascinante forza ribelle.

Nel celebre saggio su Kafka, Walter Benjamin lanciava un ammonimento (purtroppo poco ascoltato): «All'interno dei suoi scritti si deve avanzare a tastoni, con prudenza, con circospezione, con diffidenza». Le osservazioni che seguono devono essere considerate un cauto brancolamento, un'ipotesi di lavoro da verificare, un possibile punto di partenza per future ricerche.

I saggi su di lui, una massa di documenti che aumenta in continuazione, con il tempo hanno preso la forma e le caratteristiche di una torre di Babele, per la confusione delle lingue come per la natura interminabile dell'impresa. È un caso che le letture più interessanti di Kafka siano state proposte da donne? In ogni caso, posso solo rendere omaggio ad autrici come Hannah Arendt, Marthe Robert, Rosemarie Ferenczi e Marina Cavarocchi-Arbib, i cui studi si distinguono nettamente dalla massa un po' grigia e indistinta di buona parte della «letteratura secondaria». Non sempre concordo con le loro analisi, ma ho ampiamente utilizzato alcuni loro contributi per sviluppare, in una direzione diversa, le mie personali riflessioni.

Si può suddividere la maggior parte delle opere sullo scrittore praghese in sei grandi categorie:

1. Le interpretazioni strettamente letterarie, che si limitano intenzionalmente al testo, ignorando il «contesto».

2. Le letture biografiche, psicologiche e psicoanalitiche.

3. Le letture teologiche, metafisiche e religiose.

4. Le letture dalla prospettiva dell'identità ebraica.

5. Le letture socio-politiche.

6. Le letture postmoderne, che portano in generale alla conclusione che il significato degli scritti di Kafka è «inspiegabile».


Queste interpretazioni non sono tutte dello stesso interesse: certe contengono intuizioni importanti, ma molte tentano di ridurre l'opera letteraria a un modello prestabilito, interpretando situazioni e personaggi come simboli o allegorie di un messaggio. Peraltro, a questa produzione pletorica di letteratura secondaria, ha finito per aggiungersi negli ultimi anni un nuovo ramo in piena espansione, quello dello studio delle diverse interpretazioni dell'opera del nostro. A quando una letteratura quaternaria?

In un altro passo noto del suo saggio, Benjamin osserva che ci sono due modi per fraintendere immancabilmente Kafka: l'approccio naturale e quello sovrannaturale. In altre parole, le letture psicoanalitiche e le interpretazioni teologiche. Questa osservazione mi sembra profondamente giusta. Quelle due dimensioni non mancano certamente nell'opera, ma sono aufgehoben, nel senso dialettico del termine: negate-conservate-superate. La dimensione edipica (il violento conflitto con il padre) è per esempio ben presente negli scritti di Kafka, ma tutta la sua arte consiste appunto nel superare l'aspetto psicologico in un universo immaginario nel quale si pone la questione dell'autorità in generale. Lo stesso si può dire per il giudaismo: la condizione ebraica è un punto di partenza essenziale, che però non è meno «negato-conservato» in una problematica universale. Come osserva Marthe Robert, la condizione degli ebrei praghesi, rinchiusi in «un ghetto dalle mura invisibili», nell'opera di Kafka (soprattutto nei tre romanzi postumi) diventa «lo schema di una condizione infinitamente più generale». Quanto al momento teologico, è senz'altro presente, ma in modo indiretto e «negativo», come cercherò di dimostrare.

Rimane l'interpretazione esclusivamente letteraria. Non c'è dubnio che Kafka vivesse solo per la letteratura, che fosse la sua ossessione, la sua ragion d'essere, l'unica ancora di salvezza. Era la sua risposta a un mondo decaduto. Molti interpreti, partendo da questa constatazione, che salta agli occhi leggendo i Diari e le Lettere, sono caduti in trappola e hanno visto nella letteratura l'oggetto, il contenuto, la trama dei suoi scritti, trasformati così in una specie di allegoria elaborata dell'opera letteraria in sé, in un gioco di specchi che si riflettono a vicenda all'infinito. Ma questa deduzione è illusoria. Anche Musil era ossessionato dalla sua opera, ma questa non ha per oggetto la letteratura e la Cacania non è un'allegoria dei suoi scritti. Ciò che è in gioco, nei romanzi di Kafka, non è la scrittura in quanto tale, ma il rapporto tra l'individuo e il mondo. Certo, questo o quel racconto possono avere come oggetto la stessa letteratura; è il caso, con molta probabilità, della figura di «Odradek» nella famosa parabola La preoccupazione del padre di famiglia, secondo la brillante interpretazione di Marthe Robert in Solo come Kafka. Sarebbe, però, inutile cercare di applicare questa griglia di lettura ai suoi romanzi e all'insieme dei suoi scritti.

Se si considerano le dimensioni smisurate della letteratura secondaria sull'opera di Kafka, perché aggiungere un altro mattone a tale piramide ermeneutica? Il mio contributo si colloca più sul versante della «socio-politica», ma tenta anche di articolare gli altri livelli, grazie a un filo rosso che porta a collegare la rivolta contro il padre, la religione della libertà (d'ispirazione ebraica eterodossa) e la protesta (d'ispirazione libertaria) contro il potere micidiale degli apparati burocratici: l'antiautoritarismo. Nel suo articolo del 1929 sul surrealismo, Benjamin scriveva: «Dai tempi di Bakunin, l'Europa manca di una idea radicale della libertà. I surrealisti ce l'hanno». Questa frase si applica rigorosamente a Franz Kafka.

Io cercherò di seguire quel filo rosso in ordine cronologico, partendo da alcuni dati biografici spesso trascurati, soprattutto riguardo ai rapporti di Kafka con gli ambienti anarchici praghesi, per analizzare in seguito i tre grandi romanzi incompiuti e qualcuno dei racconti più importanti. Utilizzerò anche frammenti, parabole, elementi delle Lettere e dei Diari per fare luce sui grandi testi letterari, senza comunque prendere in esame la totalità dell'opera. Per questo non ho cercato d'interpretare i primi scritti (quelli anteriori al 1912), né gli ultimi, Giuseppina la cantante o il popolo dei topi, Indagini di un cane eccetera. Non sono in grado di affermare se questi testi, come un certo numero di parabole, aforismi e frammenti vari, confermi o no la mia tesi.

Non credo di peccare di presunzione quando affermo la novità di questa interpretazione di Kafka, che si fa guidare da quel «filo d'Arianna» del labirinto kafkiano che è il desiderio di libertà. In ogni caso non ho trovato niente d'analogo nella letteratura secondaria. Ho solo incontrato, in certe interpretazioni, tracce, frammenti, intuizioni, qualche passo, che io cito (talora, lo confesso, estrapolandolo dal contesto) per sostenere la mia argomentazione. Ma non ho trovato da nessuna parte un'analisi sistematica dell'opera da una prospettiva della passione antiautoritaria che l'attraversa come corrente elettrica. Grazie a questa griglia di lettura, i pezzi del puzzle sembrano trovare la propria collocazione e i principali scritti di Kafka appaiono sotto il segno di una enorme coerenza. Chiaramente non una coerenza teorica, ma di sensibilità.

Questa interpretazione non ha pertanto nessuna ambizione di essere esaustiva. È un test, un tentativo di mettere in evidenza la dimensione straordinariamente critica e sovversiva dell'opera kafkiana, che tanto spesso è rimasta in ombra.

Non si tratta affatto di un'interpretazione asettica, anzi, non mancherà di suscitare controversie, discostandosi notevolmente dal canone abituale della critica letteraria sul nostro autore. Il mio tentativo è profondamente segnato dall'impronta di Walter Benjamin, non solo dal suo saggio su Kafka del 1934, ma anche e soprattutto dalle sue diciannove tesi cor Sul concetto di storia del 1940. In quest'ultimo scritto, ecco l'esortazione che rivolge allo storico: «In ogni epoca bisogna cercare di strappare nuovamente la tradizione dalle mani del conformismo, che vuole impadronirsi di lei» (Tesi VI). Questo libro vuole essere un piccolo contributo in tale direzione.

La lettura «politica» che propongo qui, evidentemente, è solo parziale; l'universo di Kafka è troppo ricco, complesso e multiforme per poterlo ridurre a una formula univoca. Quale che sia la pertinenza di un'interpretazione, la sua opera conserva tutto il suo inquietante mistero e la singolare consistenza onirica, come una specie di «sogno a occhi aperti» ispirato dalla logica del meraviglioso. Per parafrasare André Breton, la poesia contiene sempre «un inscindibile nucleo notturno»...

Il termine «politica», d'altra parte, risulta alquanto inappropriato. L'interesse di Kafka è lontano le mille miglia da ciò che normalmente si designa con quella parola, i partiti, le elezioni, le istituzioni, i regimi costituzionali e così via. Forse sarebbe più adatto un termine come «critica». La dimensione critica è spesso messa in ombra da un certo tipo d'interpretazione accademica. È tuttavia probabile che sia quello più profondamente avvertito dai milioni di lettori moderni, per i quali il nome di Kafka è diventato sinonimo d'inquietudine davanti al sistema burocratico.

Per definire la potenza oppressiva di questo sistema, Kafka ha inventato un'immagine stupefacente: «Le catene dell'umanità torturata sono di carta protocollo». Il termine tedesco, Kanzleipapiere, non è facile da tradurre; «scartoffie», la traduzione adottata da qualcuno, è debole. Meglio sarebbe allora «carta ministeriale». Kanzlei in genere si traduce «ufficio», ma la traduzione non dà la ricchezza del senso originale del termine, che deriva dal latino medioevale, cancelleria, un luogo circondato da griglie e barriere, i «cancelli» entro i quali si preparano i documenti ufficiali. È una parola che esce spesso dalla penna di Kafka, nel Processo e nel Castello, per rendere conto dei luoghi in cui siedono le istanze, luoghi sempre circondati da altissimi cancelli, visibili e invisibili, che tengono a distanza i comuni mortali. I Kanzleipapiere sono evidentemente documenti scritti e stampati: moduli ufficiali, schede di polizia, carte d'identità. atti d'accusa o sentenze di tribunali. La scrittura è dunque il mezzo con cui le istanze dirigenti esercitano il proprio potere. Kafka reagisce utilizzando lo stesso mezzo, ma rovesciando completamente la procedura: una scrittura della libertà, letteraria o poetica, che sovverte le pretese dei potenti.

L'immagine delle «catene di carta» sembra peraltro avere un duplice significato: essa allude sia al carattere oppressivo del sistema burocratico, che assoggetta gli individui con i suoi documenti ufficiali, sia il carattere precario di tali catene, che si potrebbero strappare facilmente, se solo gli umani volessero liberarsene...

Kafka è stato spesso accusato (da György Lukács, Günther Anders e altri) di predicare, con il suo pessimismo radicale, il fatalismo e la rassegnazione. Ma in una lettera al suo amico Oscar Pollak, del 27 gennaio 1904, egli spiegava così la sua concezione del ruolo della letteratura: un libro non presenta alcun interesse, scriveva, se non è «un pugno in faccia che ci risveglia [...], una scure che spezza il mare di ghiaccio dentro di noi». Non sembra proprio un invito alla rassegnazione...

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Pagina 15

I
«NON DIMENTICARE KROPOTKIN!»,
KAFKA E IL SOCIALISMO LIBERTARIO



È evidente che non si può ridurre l'opera di Kafka a una dottrina politica, quale che sia. Kafka non presenta discorsi, ma crea personaggi e situazioni, esprime nelle sue pagine sentimenti, atteggiamenti, una Stimmung. Il mondo simbolico della letteratura non è riducibile a quello discorsivo delle ideologie, l'opera letteraria non è un sistema concettuale astratto, sulla falsariga delle dottrine filosofiche e politiche, ma è creazione di un universo immaginario concreto, fatto di personaggi e di cose.

Questo, però, non c'impedisce di ricercare i passaggi, i punti di collegamento, i legami sotterranei tra il suo spirito antiautoritario, i sentimenti libertari, le simpatie socialiste, da un lato, e i suoi scritti principali dall'altro. Sono vie privilegiate per accedere a quello che potemmo chiamare il suo paesaggio interiore.


Le inclinazioni socialiste di Kafka si erano manilestate assai presto: secondo il suo amico d'infanzia e compagno di liceo Hugo Bergmann, il giovane Kafka, per manifestare le proprie opinioni, portava un nastrino rosso all'occhiello della giacca. L'amicizia tra i due s'era un po' raffreddata nell'ultimo anno di scuola (1900-1901) perché «il suo socialismo e il mio sionismo erano troppo forti». Quel dissidio non impedì a entrambi di reagire nello stesso modo davanti al nazionalismo tedesco. Quando, a un incontro dell'Unione degli studenti tedeschi di Praga, cui appartenevano tutti e due, fu intonato il rituale Wacht am Rhein, i due amici rimasero seduti e per conseguenza furono messi immediatamente alla porta...

Di quale socialismo si tratta? Non esistono testimonianze che attestino rapporti del giovane Kafka con la socialdemocrazia ceca o austriaca. Come non ce ne sono, d'altronde, su eventuali rapporti con il partito comunista della nuova Repubblica cecoslovacca negli anni del primo dopoguerra, anche se uno dei fondatori di quel partito, Stanislav K. Neumann, conosceva lo scrittore e aveva pubblicato Il fuochista su una rivista letteraria ceca nel 1920. In ogni caso, l'adesione al socialismo di Kafka, di cui parla Bergmann, è di molto anteriore all'ottobre 1917.

È vero che Kafka aveva manifestato un interesse per la rivoluzione russa: in una lettera del settembre 1920 a Milena, fa riferimento a un articolo sul bolscevismo che aveva prodotto una forte impressione, come rileva, nel «mio corpo, i miei nervi, il mio sangue». Secondo i curatori della nuova edizione tedesca delle lettere a Milena, si trattava di un articolo di Bertrand Russell, intitolato Sulla Russia bolscevica, apparso sul «Prager Tagblatt» del 25 agosto 1920. Ma Kafka aggiunge questa frase, che mi sembra molto importante: «A dire il vero, non l'ho preso esattamente così com'è, ma ho cominciato a farne una trasposizione per la mia orchestra». Questa osservazione si applica in modo generalizzato a tutte le cose che lo hanno «influenzato»: non si tratta mai di una ricezione passiva, ma di una rielaborazione selettiva, di una singolare «messa in musica». Vediamo qual è il contenuto dell'articolo di Bertrand Russell, per meglio capire la presa di posizione di Kafka. Quel testo, il primo di una serie di cinque pubblicati sul periodico londinese «The Nation» nel luglio e agosto 1920, tenta di tratteggiare un giudizio equilibrato del potere sovietico, mettendo in luce tanto la dedizione alla causa dei bolscevichi (che Russell paragona ai puritani di Cromwell per la loro «combinazione di democrazia e fede religiosa [e] l'inflessibile obiettivo politico e morale»), quanto le loro tendenze dittatoriali e la loro intolleranza. Nella lettera a Milena Kafka spiega che ha eliminato la fine dell'articolo, perché contiene critiche che non gli sembrano giustificate. Quali? Russell criticava, nell'ultimo paragrafo di quell'articolo, quelle che egli definiva le tendenze imperialiste dei bolscevichi nella riconquista della Russia asiatica, e prevedeva che in breve tempo il loro potere sarebbe stato simile a quello «di qualunque altro governo asiatico». Questa osservazione era parsa fuori argomento a Kafka: sono accuse «che non sono al loro posto nell'insieme».

Il suo punto di vista è chiarito in un'altra lettera a Milena, successiva di qualche settimana: «Io non so se hai capito la mia osservazione sul bolscevismo. Ciò che gli viene rimproverato dall'autore, giustifica ai miei occhi i più alti elogi possibili qui sulla terra (höchste auf Erden mögliche Lob)». A quale critica di Russell fa riferimento? Non a quella del paragrafo eliminato, perché Milena non poteva conoscerlo, ma a un'argomentazione più generale di quell'articolo. Il filosofo inglese trovava molte cose da rimproverare ai comunisti russi, ma quella che gli sembrava più pericolosa era l'idea di estendere la rivoluzione su scala mondiale, il loro internazionalismo fanatico: «Il vero comunista è completamente internazionale. Lenin, per esempio, [...] non è più attento agli interessi della Russia che a quelli di altri paesi; la Russia è, in questo momento, la protagonista di una rivoluzione sociale e, in quanto tale, ha un valore per il mondo, ma Lenin sarebbe pronto a sacrificare la Russia piuttosto che la rivoluzione, se dovesse presentarsi questa scelta alternativa». In altri termini, quello che a Kafka sembra degno di lode nei rivoluzionari russi è appunto ciò che Russell contesta loro, ovvero un impegno radicalmente internazionalista. Vedremo come quella sensibilità da «socialista cosmopolita» di Kafka sia confermata da certe testimonianze.

Gustav Janouch gli attribuisce questo commento, in una conversazione del 1920: «In Russia stanno tentando di costruire un mondo perfettamente giusto. È una vicenda religiosa». Kafka vede nel bolscevismo una specie di religione; e il blocco economico e gli interventi contro la Russia gli sembra che annuncino «grandi e terribili guerre di religione che infurieranno sul mondo». Queste frasi attestano un interesse (critico) per l'esperienza sovietica, ma allo stato attuale della docùmentazione nulla fa pensare a un rapporto qualunque tra lo scrittore e il movimento comunista. Nessun testimone l'ha mai incontrato a una riunione di comunisti cechi e nei suoi scritti personali (lettere e diari) non si fa cenno ad autori rappresentativi di questa corrente politica.

Invece molte testimonianze di contemporanei parlano della simpatia che egli nutriva per i socialisti libertari cechi e della sua partecipazione ad alcune loro iniziative. Dunque, bisogna orientare in questa direzione le ricerche, se si vuole sapere quale sia il socialismo «troppo forte» (come dice Bergmann) del giovane Kafka.

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Pagina 129

VII
UNA SITUAZIONE KAFKIANA



La forza di «illuminazione profana» dell'opera di Kafka è indubbiamente una delle ragioni del suo straordinario impatto sulla cultura del Novecento. Come osservava George Steiner, con il suo solito acume, in un commento al Processo (ma che vale anche per altri scritti di Kafka): «Questo breve romanzo ha acquistato una statura che non ha niente in comune con quella di un classico della letteratura. Nel corso del secolo ci si è riconosciuti in esso, per tanti è stato un riferimento spontaneo. Sono moltissimi coloro che non l'hanno letto, che magari non ne hanno nemmeno visto una versione teatrale, cinematografica o televisiva, ma che ne conoscono le grandi linee e le situazioni. [...] Kafka è diventato un aggettivo. In più di cento lingue l'epiteto 'kafkiano' si applica ad immagini centrali, alle costanti di disumanità e di assurdità dei nostri tempi».

Taluni personaggi dei romanzi sono entrati nel linguaggio quotidiano sotto forma di aggettivi: un individuo alle prese con i mulini a vento è «donchisciottesco», un altro in preda al dubbio è «amletico». Più raramente si richiama il nome di un autore: «dantesco», per una scena infernale, «orwelliano» per un linguaggio che maschera la verità. Questo è avvenuto anche per Franz Kafka: dopo la seconda guerra mondiale, nella maggior parte delle lingue si è affermato un nuovo aggettivo ispirato alle sue opere: kafkaïen in francese, kafkaesk in tedesco, kafkaesque in inglese, kafkiano in portoghese e italiano. Pare che Malcolm Lowry sia stato il primo a parlare, nel 1936, di una «perfect Kafka situation», ma l'aggettivo compare solo nel 1947, sulla rivista «New Yorker», che parla di «un incubo kafkiano di vicoli ciechi» (a kafkaesque nightmare of blind alleys).

Non è facile definire questo termine che è entrato nei dizionari e nelle enciclopedie: si riferisce a una «atmosfera oppressiva» (Robert), a un «mondo da incubo» nel quale «sinistre forze impersonali controllano le vicende umane» (Twentieth Century Words, Oxford 1999), a una situazione «misteriosa, inquietante (unheimlich) e minacciosa» (Duden), a «un'organizzazione assurda e schizofrenicamente razionale, con tortuose procedure totalitarie e burocratiche», in forma labirintica, dove «l'individuo è sconcertato e smarrito» (Penguin Encyclopedia, 2003). La maggior parte dei dizionari mette l'accento sull'aspetto sinistro, trascurando la dimensione ironica, che pure è essenziale nell'impiego comune dell'aggettivo. In realtà la situazione kafkiana descrive una gamma di esperienze che va dalla grottesca assurdità nel funzionamento quotidiano delle istituzioni burocratiche alle manifestazioni più micidiali del potere «amministrativo». La diffusione massiccia di questa espressione nel linguaggio corrente conferma che la maggior parte dei lettori di Kafka non si è sbagliata e ha intuitivamente colto la portata universale e critica della sua opera: la protesta contro l' incubo burocratico, la sovversione attraverso lo humour nero, nel senso definito da André Breton, una suprema rivolta dello spirito.

Non è un caso che l'aggettivo sia entrato nel linguaggio corrente: esso designa un aspetto della realtà che le scienze sociali tendono a ignorare e per il quale non dispongono di alcun concetto pertinente: l'oppressione e l'assurdità della reificazione burocratica così come sono vissute dalla gente comune. In effetti la sociologia e le scienze giuridiche si sono generalmente limitate a esaminare la macchina burocratica e legale «dall interno» o in relazione alle élite (dello Stato, del capitale), soffermandosi sul suo carattere «funzionale» o «disfunzionale», sulla «razionalità strumentale», eccetera.

Come rileva con acume l'ex surrealista Michel Carrouges, «Kafka abbandona il punto di vista corporativo degli uomini di legge, di quelle persone colte e istruite che pensano di conoscere il perché delle cose di legge. Egli le considera invece (e considera costoro) dal punto di vista della massa degli umili assoggettati, che subiscono senza comprendere. Ma essendo Kafka, eleva quell'ignoranza ordinariamente ingenua all'altezza di una somma ironia, che trabocca di sofferenza e di humour, di mistero e di lucidità. Smaschera tutto ciò che vi è di umana ignoranza nel sapere giuridico e mette in luce il sapere umano presente nell'ignoranza degli umili». Il giudizio vale non solo per le istituzioni giuridiche, ma per l'insieme delle macchine gerarchiche e burocratiche che, nell'universo kafkiano, s'impossessano della «massa degli umili».

Una delle migliori discussioni sul significato del termine «kafkiano» si trova in un saggio pubblicato nel 1986 dallo scrittore ceco Milan Kundera. Secondo lui, questo termine definisce situazioni «che nessun'altra parola permette di cogliere e per le quali non offrono una chiave né la sociologia né la psicologia». Le sue caratteristiche principali sarebbero:

1. Un mondo che è solo un'unica e immensa istituzione labirintica, alla quale gli individui non possono sottrarsi e che non possono capire.

2. In questo mondo kafkiano, il fascicolo burocratico rappresenta la vera realtà, mentre l'esistenza fisica dell'essere umano è solo un riflesso del suo dossier personale.

3. Siccome l'accusato non sa di che cosa lo si accusi, si mette in moto un meccanismo di «autocolpevolizzazione».

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