Copertina
Autore Lu Xun
Titolo La falsa libertà
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2006, In ottavo 14 , pag. XXXVI+396, cop.fle.sov., dim. 14,5x21x2,5 cm , Isbn 978-88-7462-145-3
CuratoreEdoarda Masi
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe paesi: Cina , narrativa cinese
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Indice


    V  «Salvate i bambini» di Edoarda Masi

  XXV  Nota biografica
 XXIX  Nota bibliografica
XXXIV  Nota sulla pronuncia
XXXVI  Tavola cronologica delle dinastie cinesi

    La falsa libertà

  3 La mia opinione sulla castità (1918)
 15 Come oggi essere padri (1919)
 29 Che cosa accade dopo che Nora se ne è andata (1923)
 36 Prima che arrivi il genio (1924)
 40 Il crollo della pagoda di Leifeng (1924)
 43 Fotografie (1924)
 52 I nemici della poesia (1925)
 57 Il proposito di sacrificarsi (1925)
 62 Note scritte sotto la lampada (1925)
 71 A proposito di «di sua madre!» (1925)
 76 Del guardar le cose a occhi aperti (1925)
 82 Lo «studio dei classici» del quattordicesimo anno (1925)
 87 Di come si debba rimandare il fair play (1925)
 97 Rose senza fiori (1926)
102 Rose senza fiori II (1926)
106 In memoria della signorina Liu Hezhen (1926)
112 Rose senza fiori III (1926)
116 Cina muta (1927)
122 Breve saggio sulla faccia dei cinesi (1927)
126 La letteratura di un'epoca rivoluzionaria (1927)
134 Qualche chiacchiera sulla lettura (1927)
141 Risposta al signor Youheng (1927)
147 Come scrivere (1927)
156 Noterelle (1927)
160 Sulla classe intellettuale (1927)
168 Sulla torre (1927)
177 Divergenza di letteratura e politica (1927)
185 Letteratura e rivoluzione (1928)
188 Scambio di lettere (1928)
197 Opinioni sulla nuova letteratura di oggi (1929)
202 La non rivoluzionaria fretta di rivoluzione (1930)
205 Opinioni sulla Lega degli scrittori di sinistra (1930)
211 Lo stato attuale del mondo letterario nell'oscura Cina (1931)
216 Compiti e destino della «letteratura nazionalista» (1931)
226 Sul soggetto nella narrativa. Lettera (1931)
229 Evviva i «lavoratori intellettuali» (1932)
231 Ricordo per dimenticare (1933)
242 Dalla satira allo humour (1933)
244 Dal piede delle donne cinesi si induce che i cinesi mancano
    al giusto mezzo. E da ciò si induce che Confucio aveva una
    malattia (1933)
250 Come cominciai a scrivere racconti (1933)
254 Ode alla notte (1933)
256 Ragazze di Shanghai (1933)
258 Passeggiata in una sera d'autunno (1933)
260 Su due o tre cose cinesi (1934)
268 Su delle fotografie di bambino (1934)
272 Che strano! (1934)
275 Che strano! II (1934)
277 Chiacchiere di un profano sulla scrittura (1934)
300 Caratteri cinesi e latinizzazione (1934)
303 Confucio nella Cina moderna (1935)
310 Su Dostoevskij (1935)
312 A proposito del nostro movimento letterario oggi (1936)
315 Risposta a Xu Mouyong e sul fronte unito antigiapponese (1936)
329 «Anche questa è vita»... (1936)
334 Morte (1936)

343 Indice storico
387 Indice dei nomi non cinesi


 

 

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Pagina VII

L'opera narrativa di Lu Xun è stata tradotta per intero da Primerose Gigliesi. Dei sedici volumi di saggi – la componente principale della sua produzione – sono state pubblicate in italiano alcune antologie, insufficienti a dare un'idea sia pure approssimativa dell'altezza dello scrittore e della sua opera. Ma anche quel poco oggi è più o meno scomparso dalle nostre librerie e dai cataloghi editoriali.

La biografia giovanile e la prima formazione del grande scrittore sono simili a quelle di tanti altri del suo tempo, nell'atmosfera di disfacimento fra gli ultimi anni dell'impero e i primi della repubblica, quando la cultura cinese è contaminata dagli apporti eterogenei dall'Occidente. Lo sfondo è quello del positivismo e dell'evoluzionismo, intrecciati con una forte componente di ribellione individualistica, che va dagli ultimi echi di Hφlderlin e di Schiller a Byron e a Shelley; da Kierkegaard e da Nietzsche al demonismo, all'anarchismo e al socialismo umanitario. La straordinaria capacità di lettura di Lu Xun gli consente di penetrare nel panorama culturale dei suoi confratelli europei – soprattutto, come egli sottolinea, di quelli appartenenti alle nazionalità oppresse: i popoli slavi, gli ungheresi – oltre ai non europei.

A occuparsi anche dell'antica cultura cinese Lu Xun era tornato negli anni oscuri che avevano seguito il 1911. Già nell'ultimo periodo di soggiorno in Giappone aveva abbandonato lo studio della medicina e si era dedicato interamente alla letteratura. Ora aveva ripreso le opere degli antichi poeti, ne aveva curato la pubblicazione. E si era dedicato allo studio dei classici buddhisti tradotti in cinese nel medioevo. Questa attività, che pure si è protratta per anni, viene solitamente sottovalutata, come un ripiego nella solitudine e nell'erudizione in un periodo di sfiducia. Il che è certo vero ma di una verità limitata e in gran parte solo apparente. Anche nei periodi di maggiore combattività, l'invito ragionevole a una dimensione sana, pulita e luminosa non si dissocia mai, in questo scrittore, dalla presenza di quella che allora veniva chiamata illuministicamente «l'oscurità». Si tratta di una dimensione per gran parte mutuata dall'Europa, specie dalla letteratura e dal modo di vita delle minoranze intellettuali rivoluzionarie e semirivoluzionarie dei paesi slavi.

Lu Xun ha raccontato più volte in quali circostanze e per quali motivi cominciò a scrivere delle storie: nella prefazione del 1922 a Grido d'allarme, nella prefazione del 1932 alle Opere scelte, nel breve saggio Come cominciai a scrivere racconti, del 1933. Egli confessa che a quel tempo era sfiduciato a proposito della rivoluzione, e tanto meno credeva a una «rivoluzione letteraria». Allora, si domanda, perché mi misi a scrivere? «Retrospettivamente, suppongo che fosse per simpatia verso gli entusiasti [...]. Mi unii alle grida per aumentarne la forza». «Pensavo, come una dozzina di anni prima, che avrei dovuto scrivere nella speranza di illuminare il mio popolo, per l'umanità, e per la necessità di migliorarla. Detestavo la vecchia abitudine di considerare la narrativa come "divertimento" e consideravo "l'arte per l'arte" semplicemente un altro nome per "passatempo" [...]. Il mio scopo era di esporre la malattia e attrarre l'attenzione su di essa, affinché fosse curata [...]. Non indulgevo nei dettagli irrilevanti e riducevo il dialogo al minimo [...]. Quando non trovavo nella lingua parlata espressioni adatte impiegavo la lingua classica, sperando che qualche lettore avrebbe capito. Raramente usavo espressioni inventate da me che io solo – o forse neppure io – fossi in grado di capire. Solo uno dei miei critici se ne accorse ma mi definì uno "stilista"».

Lo scrittore sottovaluta ironicamente l'importanza del suo lavoro. Ma il suo primo racconto, Il diario di un pazzo, fu accolto come una svolta storica nelle lettere cinesi. La novità non consisteva nel fatto che fosse scritto in volgare: gran parte della narrativa. inclusi alcuni dei massimi capolavori, era stata scritta in lingua parlata. E non sarebbe stato una novità neppure il carattere eterodosso, la sua opposizione alla morale e ai principi tradizionali e ufficiali: le più grandi opere della narrativa cinese sono opere di opposizione più o meno velata. La novità stava per un verso nel fatto che il racconto mutuava la struttura e il tono dalla narrativa contemporanea europea; per l'altro, che la sua posizione non era più di eterodossia all'interno del contesto globale di una civiltà, ma di rovesciamento: l' intera civiltà cinese era messa sotto accusa. Ciò che veniva chiamato civiltà era denunciato come barbarie, anzi come negazione dell'umano. L'espressione «mangiatori d'uomini» (cannibali) sarebbe divenuta in breve proverbiale, e ancora oggi è impiegata comunemente. Per aver chiaro lo scandalo di una simile posizione si deve pensare, per analogia, a qualcuno che in Europa dichiarasse banditesca e selvaggia non la civiltà borghese né la società di classe, e neppure il cristianesimo, ma l'intera civiltà dell'Occidente dalla Grecia a oggi, e tutti i valori su cui è fondata, non solo nel presente ma nel passato. E non in una invettiva polemica, ma in una scoperta dolorosa e disperata. Se lo scandalo non fu poi così grande, tranne che presso i conservatori, è perché le condizioni di una rivoluzione formidabile erano già mature nella Cina del tempo e Lu Xun dava voce a quello che molti già sentivano e pensavano.

Non fu certamente un isolato, partecipò intensamente alla vita politico-culturale e alla comune ricerca di una via d'uscita dalla società del dispotismo e dalla colonizzazione. Eppure si distacca da ogni altro nella singolarità dell'opera matura e per la comprensione lucida e straziata del presente cinese, e non solo cinese, in anticipo sui tempi. Anche per questo forse fu attaccato a lungo da ogni parte, in vita e dopo la morte, molto odiato anche quando la sua figura si era imposta al pubblico in misura tale da rendere sconsigliabili gli attacchi aperti. Le componenti della sua cultura – le stesse che concorrono a caratterizzare le une e le altre correnti fra i letterati del tempo – si dissolvono e riprendono corpo in un continuo paradosso ironico.

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Pagina XX

Gli esteti conservatori hanno voluto vedere una rinuncia alla vocazione di scrittore nel suo abbandono della narrativa e nell'eccesso di atteggiamenti polemici e satirici. Θ vero il contrario: Lu Xun ha via via perfezionato la qualità della scrittura, e ha conservato una totale indipendenza di giudizio. Col maturare degli anni crescono la serenità e la libertà — nell'uso degli strumenti nuovi e della tradizione, cinesi e non cinesi — a rappresentare i conflitti e l'angoscia, la lontana fiducia e la morte. Nella fredda lucidità, nel suono metallico e spoglio dei saggi degli ultimi anni — siano di polemica politica, di satira o di lirica autobiografica — ogni residuo di verismo e di decadentismo scompare, la polemica contro le forme della tradizione è già alle spalle, e il presente pienamente posseduto.

La sofferenza, e l'orrore per la sofferenza causata agli uomini dagli uomini — specialmente la sofferenza subita dagli umili, dai giovani, dagli indifesi —, sono una costante sottesa a tutta l'opera di questo scrittore. L'immagine del sangue versato è ricorrente, mai in termini simbolici o metaforici, nella intollerabile materialità fisica, sangue che soffoca e impedisce di scrivere e di respirare. Dell'orrore ha esperienza quotidiana, e anche consapevolezza della sua inevitabilità e universalità. Il presente e il passato della Cina lo fanno ben consapevole di quello che sono il passato e il presente del mondo.

Lu Xun deride i cinesi ignoranti e assoggettati, rivendicanti vuote glorie e peculiarità nazionali e superiorità morale. Con strazio senza perdono denuda sé e loro nel ridicolo e nella miseria estrema di personaggi come Ah Q e Kong Yiji. Attacca come nemici i mandarini delle classi dirigenti, vecchie e nuove e in formazione, «rinviando il fair play» e guardando in faccia, senza rimuoverla, la condizione propria di abitante della periferia. Che è poi la stessa condizione del popolo. Appartiene e parla al mondo intero perché sa riconoscersi colonizzato.

Lu Xun promuove la sfida senza cercare riparo nell'uno o nell'altro luogo del passato cinese o straniero, ma anzi spingendosi oltre i limiti della rivoluzione politica. Nonostante ogni possibile apparenza contraria, la sua opera si pone contro le correnti letterarie e fuori dalle correnti politiche, e fa tutt'uno con la società del suo paese, nella complessità di conflitti laceranti che da oltre un secolo la percorrono. Per questo agli eredi del privilegio — custodi del passato o acculturati dall'Occidente, o avanguardisti «rivoluzionari», o membri delle varie nomenklature — egli appare come un empio iconoclasta o un eretico. Traccia i limiti della sfera della letteratura, ne ridimensiona la funzione, si oppone alla pratica di sopravvalutarla attribuendole compiti estranei: perché conosce l'unificazione dispotica, dove ogni attività intellettuale è indifferentemente ricondotta al controllo del popolo dall'interno delle coscienze, prima ancora che con mezzi violenti o polizieschi. «Nei periodi di dispotismo si può permettere l'esistenza degli intellettuali [...]. Solo quando i movimenti di pensiero si trasformano in movimenti reali diventano pericolosi». Il dispotismo che ha alle spalle gli insegna il significato capovolto degli appelli «al servizio del popolo». Ma la rivendicazione di indipendenza («la conoscenza e il potere cozzano l'una contro l'altro, non possono accompagnarsi») non è per una liberale autonomia del mondo della cultura; al contrario, si identifica col riconoscimento della condizione di dipendenza del popolo: «I potenti non permettono che il popolo abbia libertà di pensiero, perché ciò decentrerebbe il potere».

«Oppressi dal pesante fardello della tradizione, sfondiamo con una spallata la porta delle tenebre, affinché essi [i figli] giungano a un luogo aperto e chiaro», scriveva nel 1919. Negli anni successivi non venne meno al progetto di educazione e di rischiaramento né alla fiducia nella ragione: per intima solidarietà col popolo nella condizione oscura e perché sapeva collegarla con le zone d'ombra della coscienza, irrecuperabili dalla ragione unificante del potere. Θ assente in Lu Xun l'attesa di soluzioni definitive ai mali della società e alle contraddizioni fra gli uomini, di conciliazioni celesti trasferite sulla terra — e forse è questo il suo materialismo di cinese e certamente la sua grandezza. Il sacrificio, l'oppressione e il sangue versato sono senza recupero e senza perdono. «Lasciate che seguitino a odiarmi, io non ne perdono neanche uno», scrive dei suoi nemici, poco prima della morte. La capacità di lotta, di amore e di odio e la forza nel rappresentarli si fondano sull'assunzione dell'irrecuperabile e sulla volontà ragionevole, interamente nella dimensione biologica e terrestre.

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Pagina 3

La mia opinione sulla castità (1918)


«La società affonda, la morale decade ogni giorno, il paese va in rovina»: sono lamenti di sempre in Cina. Col mutare dei tempi, muta anche ciò che «decade»: si prendeva di mira a, e ora si sospira su b. Se si escludono le memorie «sottoposte all'attenzione dell'imperatore», nelle quali non si osavano affermazioni gratuite, in tutti gli altri saggi e discussioni si trovano sempre discorsi di questa sorta. Infatti, sospirando così non solo si rimprovera la gente, ma dalla «decadenza» si esclude se stessi. Perciò le persone perbene reciprocamente sospirano; ma anche gli assassini, gli incendiari, i ruffiani, i truffatori e ogni specie di scioperati impiegano il tempo libero dalle loro male azioni per dire scuotendo il capo: «La loro morale decade ogni giorno».

Una cosa come la morale può «decadere» non solo ad opera di chi incita al male ma anche di chi, pur senza incitarvi, sta da parte a guardare, se ne diverte, ne sospira. Perciò quest'anno son venuti fuori alcuni che, insoddisfatti delle vuote chiacchiere, dopo una tornata di sospiri hanno deciso di cercare il modo di salvare la situazione.

Primo è stato Kang Youwei, che agitandosi a più non posso ha affermato che il solo rimedio è la «monarchia costituzionale»: Chen Duxiu l'ha refutato provandone l'insensatezza; poi c'è stato un gruppo di spiritualisti, che in qualche modo ripropongono un pensiero della più oscura antichità: come invitare l'anima di Mencio a tracciare una politica. Chen Bainian, Qian Xuantong, Liu Bannong hanno spiegato che essi dicono sciocchezze.

Queste polemiche su «Xin Qingnian» sono assai deludenti. Siamo nel XX secolo: davanti all'umanità è già balenata la luce dell'aurora. Se in un articolo in «Xin Qingnian» si discutesse se la terra sia quadrata o rotonda, molto probabilmente i lettori resterebbero sbalorditi. Eppure quel che si discute ora è pressappoco lo stesso che affermare che la terra non è quadrata. Se ciò si raffronta con l'epoca e con la realtà, non è deludente e pauroso?

Negli ultimi tempi non si parla più di monarchia costituzionale, ma gli spiritualisti sono ancora lì a intrigare. Ora c'è un altro gruppo di insoddisfatti: continuano a dire scuotendo la testa che «la morale decade ogni giorno». Ma hanno poi escogitato un nuovo modo di salvare la situazione: lo chiamano «esaltazione della castità»!

Da anni, trucchi di questo genere vengono decantati da ogni parte, a cominciare dal periodo del «ritorno al passato»; oggi è solo il momento in cui se ne innalzano le bandiere. In articoli e in saggi ecco il grido incessante: «Esaltiamo la castità!» Se non si dice così, non è possibile distinguersi da quelli la cui «morale decade ogni giorno».

La parola castità dapprima designava una virtù anche maschile; infatti esisteva l'espressione «casto gentiluomo». Pure, la castità che oggi viene esaltata riguarda solo le donne, e per nulla gli uomini. A voler dare una definizione secondo i moralisti contemporanei, è casta colei che, morto il marito, non si rimarita e non intrattiene altri rapporti sessuali; quanto più il marito muore presto, e più la famiglia è povera, tanto più ella può esser casta. Ci sono, poi, due specie di donne martiri della castità: quelle che, sposate o fidanzate, si uccidono se lo sposo muore; e quelle che, se vogliono prenderle con la violenza, si suicidano o vengono uccise per aver resistito. Anche di queste, quanto più crudele e dolorosa è la morte, tanto maggiore è la castità. Se una non fa a tempo a resistere, e si uccide dopo aver subito violenza, non sfugge alle critiche. Una volta su diecimila ha la fortuna di incontrare un moralista generoso, che infine può scusarla e concederle l'attributo di casta. Però letterati e studiosi non ameranno scriverne la biografia; e se pure costretti a prendere la penna, alla fine non mancheranno di aggiungere qualche: «Peccato, peccato!».

Insomma: morto il marito, una donna resti sola, o muoia; se le usano violenza, muoia. Se si cantano le lodi di simili persone, la morale sociale è solida, e la Cina si salverà. Pressappoco si tratta di questo.

Kang Youwei si serve del vuoto nome dell'imperatore, gli spiritualisti si basano su imposture. Questa esaltazione della castità invece dà i pieni poteri al popolo, e significa che a poco a poco esso acquista autonomia. Eppure, ho ancora alcune domande da porre. E ad esse risponderò pure secondo le mie opinioni. Dò anche per certo che questa idea, che la castità salvi la società, è della maggioranza del popolo; quelli che la sostengono ne sono solo i banditori. La voce è loro, ma implica quel che si cela nell'intero corpo. Perciò propongo domande e risposte alla maggioranza del popolo.

La prima domanda: in che modo una donna non casta reca danno al paese? Non c'è dubbio che oggi «il paese va in rovina»: sempre più si va perdendo la coscienza; guerre, banditismo, inondazioni, siccità, fame si susseguono senza interruzione. Ma la causa di simili fenomeni è che non abbiamo una nuova morale né una nuova scienza, e i nostri comportamenti e i nostri pensieri si regolano tutti secondo vecchi conti: perciò tutto è tenebra, come nei tempi d'anarchia dell'antichità; per di più, le faccende politiche, militari, culturali sono tutte in mano agli uomini, e le donne non caste non c'entrano per nulla. E non è probabile che gli uomini, i quali detengono il potere, abbiano perduto la coscienza e si diano liberamente a commettere il male solo perché da esse corrotti. Quanto a inondazioni e siccità e fame, sono il risultato del culto di dragoni e di spiriti, dell'eccessiva distruzione delle foreste, della disgraziata incuria nella regolazione delle acque, della mancanza di conoscenze moderne: ma ancor meno hanno che fare con le donne. Θ vero che guerre e banditismo sono causa di non castita, ma non che la mancanza di castità produca guerre e banditismo.

La seconda domanda: perché la responsabilità di salvare la società graverebbe tutta sulle donne? Secondo le antiche dottrine, le donne appartengono allo yin, dominano all'interno della casa, sono un'appendice degli uomini. Di conseguenza la responsabilità di governare la società e di salvare il paese deve essere di chi appartiene allo yang, e pesare interamente su chi domina fuori della casa, cui tocca principalmente la funzione di soggetto. Non si può assolutamente caricare un compito così grave sulle spalle di chi appartiene allo yin. Secondo le teorie moderne, le donne sono uguali agli uomini, ed hanno in comune i doveri. Per quanto debbano assumersi le responsabilità, il fardello va diviso. Gli uomini devono adempiere il loro dovere per la loro parte. Non basta che combattano la violenza, ma devono sviluppare le loro proprie virtù. Non si può pretendere di avere adempiuto il proprio dovere morale solo con le punizioni e le esortazioni alle donne.

La terza domanda: che si ottiene a esaltare la castità? Se classifichiamo tutte le donne viventi secondo il criterio della castità, non dovrebbero appartenere a più di tre categorie: quelle che sono già caste, e debbono essere esaltate (per le martiri della castità occorre esser morte, perciò le escludiamo); quelle che non sono caste; quelle che ancora non sono sposate, o hanno il marito vivo, o non hanno ancora incontrato chi voglia usar loro violenza: donne della cui castità ancora non si può sapere. Le prime sono bravissime, vengono giustamente esaltate, né occorre parlarne. Le seconde sono già condannate: in Cina non è mai stato concesso di pentirsi, e le donne, una volta commesso lo sbaglio, non sono più in tempo per emendarsi. Non resta loro che morire di vergogna – e anche di loro non vale la pena di parlare. Le più importanti restano quelle del terzo tipo: ora sono state convertite al bene, e si sono dette con decisione: «Se mio marito morirà, di certo non mi risposerò; se volessero farmi violenza, mi ucciderò immediatamente!». Di grazia, che rapporto ha una simile decisione coi pubblici costumi, che in Cina sono dominio del sesso maschile? L'ho già spiegato sopra. Ma ne seguono altre questioni: le donne caste, che vengono esaltate, naturalmente son dotate di carattere eccellente. Ma benché tutti desiderino imparare a divenir santi, ci son quelle per cui la cosa è impossibile. Supponiamo che una donna del terzo tipo abbia i più nobili propositi; ma se il marito vive a lungo e il paese è in pace, sarà costretta a rammaricarsi in silenzio, e a restar tutta la vita una personalità di second'ordine.

Finora abbiamo fatto un'analisi in generale, basata solo sul senso comune dei vecchi tempi, e abbiamo già trovato diverse contraddizioni. Ma se appena entriamo nell'atmosfera del XX secolo, ecco ancora due punti:

Primo, la castità è o no una virtù? Le virtù devono essere generali, richieste a tutti e possibili per tutti, profittevoli per sé e per gli altri: solo così hanno un senso. Ora dalla cosiddetta castità non solo sono esclusi in modo assoluto gli uomini, ma anche fra le donne non a tutte è data la possibilità di questa gloria. Perciò non può essere considerata una virtù, non fa legge. Se ne è già spiegata la ragione nelle Considerazioni sulla fedeltà pubblicate in «Xin qingnian». Mentre la fedeltà si ha quando il marito è in vita, la castità se ne differenzia in quanto il marito è morto, ma si può procedere per analogia. Però il martirio per la castità è una cosa ancora più strana, e merita un'indagine a parte.

Secondo la classificazione fatta sopra, il primo genere di martirio per la castità consiste sempre nella castità dopo morto il marito; con la differenza che c'è tra il vivere e il morire. Poiché la classificazione dei moralisti si basa sul vivere e sul morire, il martirio per la castità resta differenziato. Il carattere del tutto straordinario si ha con la seconda sottoclasse di questo tipo. Una donna di questa sorta, che appartiene al sesso debole (nelle condizioni attuali le donne sono ancora deboli), trovandosi all'improvviso di fronte a un violento di sesso maschile, se padre, fratelli e marito non sono in grado di aiutarla, e neppure i vicini, non ha che morire; o morire dopo essere stata sforzata; o infine non morire affatto. Poi, per un pezzo, padre, fratelli, marito a poco a poco si riuniranno con letterati, dotti e moralisti, e senza vergognarsi della propria vigliaccheria e impotenza, né preoccuparsi di come punire il delinquente, daranno sfogo alle chiacchiere: è morta o no? sarà il problema; è stata sforzata o no? e com'è brava se è morta, e com'è spregevole se è viva. Così si è fabbricata la gloria di molte donne caste, e l'infamia a parole e negli scritti di molte donne non caste. Basta rifletterci a mente fredda per accorgersi che è cosa inumana. Altro che virtù!

Secondo, gli uomini poligami sono qualificati a esaltare la castità? Per i vecchi moralisti, naturalmente lo sono. Infatti per il solo fatto di esser maschi hanno qualcosa di particolare e nella società solo la loro opinione ha diritto di esistere. Fondandosi sulle citazioni dei classici circa lo yin e lo yang, il principio interno e il principio esterno, vantano la loro potenza di fronte alle donne. Ma oggi, gli occhi dell'umanità sono arrivati a veder chiaro, e si sa che i discorsi su yin e yang, principio interno e principio esterno, sono assurdità senza pari: anche se esistessero, non si potrebbe provare che lo yang sia più nobile dello yin, il principio esterno superiore al principio interno. Inoltre, società e nazione non sono creati solo dai maschi. Perciò non resta che riconoscere la verità, affermare l'uguaglianza. Ma giacché sono uguali, per uomini e donne c'è un identico contratto da rispettare. Gli uomini non possono esigere in alcun modo dalle sole donne cosa alla quale essi stessi non siano tenuti. E se si tratta di matrimonio-compravendita, truffa o tributo, tanto più irragionevole è pretendere la fedeltà per tutta la vita. Come può un maschio poligamo esaltare la castità delle donne!

Con ciò, domande e risposte sono finite. Chi penserebbe che ancora oggi possano durare ragioni così incoerenti? Per rispondere, è necessario vedere come l'idea della castità sia nata, si sia generalizzata, sia rimasta immutata.

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Pagina 122

Breve saggio sulla faccia dei cinesi (1927)


In genere gli uomini, quando incontrano qualcosa che non sono abituati a vedere, non mancano di trovarla strana. Ricordo che quando vidi la prima volta un occidentale, il suo viso mi sembrò troppo pallido, i capelli troppo chiari, la pupilla troppo smorta, la radice del naso troppo alta. Non avrei saputo dirne chiaramente la ragione, ma insomma: era un aspetto diverso da come avrebbe dovuto. Quanto al viso dei cinesi, non ci sono obiezioni: anche se è molto brutto, va sempre bene.

I nostri antichi invece non erano così indulgenti verso il loro aspetto di cinesi. Dalle pupille Mencio giudicava della rettitudine interiore; e della dinastia Han ci sono i ventiquattro capitoli del Xiang ren. In seguito, moltissimi si sono occupati di questo giochetto; a voler distinguere, si può dire che ci siano due scuole: la prima dal viso deduce l'intelligenza e la stupidità, la virtù e il vizio; l'altra, deduce dal viso la fortuna e la disgrazia passate, presenti e future. Allora a gara, tutti preoccupati, in tanti pieni di paura si sono messi a studiare il proprio viso. Penso che all'invenzione dello specchio avranno contribuito soprattutto queste persone e le signorine. Però di recente la prima scuola non ha più molti cultori. Quelli che a Pechino e a Shanghai fanno diavolerie sono tutti della seconda scuola.

Dapprima avevo fatto attenzione solo agli occidentali. Come risultato, la loro pelle mi pareva troppo grossolana; i capelli erano chiari, cosa che pure stava male. Sulla pelle c'erano dei puntolini rossi, a causa del colorito troppo pallido, senza la bellezza del nostro giallo. Specialmente brutto era il naso rosso, qualche volta simile semplicemente a una candela che sta per liquefarsi, lì lì per gocciare, che faceva sembrar la gente tremante dalla paura, e non consentiva quel nascondersi che è piuttosto proprio dei gialli, e li fa apparire al confronto più sicuri. Insomma: era un aspetto diverso da come avrebbe dovuto.

Solo quando in seguito ho visto dei cinesi disegnati dagli occidentali ho saputo che anch'essi sono molto irriguardosi verso il nostro aspetto. Mi sembra che fossero illustrazioni delle Mille e una notte o delle Favole di Andersen, ora non ricordo bene. Portavano in testa un berretto rosso dal pennacchio di piume di pavone, con un codino che ondeggiava per l'aria, ai piedi stivaletti con la suola molto spessa. Ma queste sono tutte cose in cui ci hanno implicati i manchu. Solo gli occhi obliqui, la bocca aperta coi denti in mostra appartenevano al nostro aspetto originario. Però allora pensai che la realtà non era proprio quella, che gli stranieri si facevano intenzionalmente gioco di noi, e che la stranezza dell'aspetto era esagerata.

Ma da quel momento a poco a poco ho provato una specie di insoddisfazione per l'aspetto di una parte dei cinesi, e precisamente per il fatto che alla vista di qualcosa di insolito o di una bella donna, o quando sentono un discorso un po' eccitante, piano piano lasciano pender giù il mento e spalancano la bocca. Questo in realtà non è molto gradevole a vedersi; come se lo spirito avesse perduto qual- che sua funzione. Secondo gli studiosi del corpo umano, un attacco del cranio si trova sulla mascella superiore, l'altro sul muscolo mascellare della mandibola, la cui forza è grandissima. Quando da piccoli vogliamo mangiare una noce, per romperne il guscio dob- biamo metterla nella fessura di una porta. Ma da grandi bastano i denti, quel muscolo contraendosi fa spezzare la noce con un morso. Che un muscolo così forte qualche volta non riesca a trattenereun mento niente affatto pesante, anche se si è in estasi e la cosa ha un motivo, credo che infine non stia proprio bene.

Il giapponese Hasegawa Nyosekan è un ottimo autore di satire. L'anno scorso ho letto una sua raccolta di saggi, intitolata Gatti, cani, uomini, in uno dei quali si parla appunto della faccia dei cinesi. La sua idea è che a prima vista, rispetto ai giapponesi o agli occidentali, nel viso dei cinesi manca qualcosa. Più tardi, quando ci si è abituati a vederli, appaiono completi, non manca nulla; invece in genere nei visi occidentali si scorge qualcosa di troppo. A questo qualcosa egli dà un nome non molto gentile: bestialità. Sul viso dei cinesi non c'è, sono uomini; se vi si aggiunge quel qualcosa di troppo, si ha la seguente espressione:

uomo + bestia = occidentale.

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Pagina 134

Qualche chiacchiera sulla lettura (1927)


I professori di questa scuola media mi hanno voluto a tenere una conversazione, perciò oggi eccomi qui con voi, signori. Però non ho nulla da esporre. M'è venuto in mente che la scuola è il luogo dove si legge, perciò farò qualche chiacchiera sulla lettura. Si tratta di opinioni personali che sottopongo al vostro giudizio, non proprio di una conferenza.

La lettura sembrerebbe una cosa chiarissima: basta prendere un libro e leggerlo, ed è tutto. Invece non è così semplice. Ci sono per lo meno due modi di leggere: per professione e per diletto. Si chiama lettura professionale per esempio quella degli studenti per passare alla classe superiore, degli insegnanti per fare lezione: per loro non sfogliare libri sarebbe piuttosto rischioso. Suppongo che qui fra il pubblico vi sia esperienza di ciò: ad alcuni non piace la matematica, ad altri non piacciono le scienze naturali, eppure non possono non studiarle, altrimenti non prenderebbero il diploma, non sarebbero promossi, con conseguenze negative per il proprio futuro mantenimento. Anche per me è così. Poiché faccio l'insegnante, qualche volta non mi è possibile non leggere libri che non amerei leggere, se no in breve potrei trovarmi in difficoltà per la tazza di riso. Appena si parla di lettura, per abitudine si pensa subito a qualcosa di elevato, mentre questo tipo di lettura non differisce in nulla dall'affilar l'ascia del carpentiere o dall'infilar l'ago del sarto; non sembra niente di elevato, anzi qualche volta è penosa e compassionevole. Non t'è dato fare quel che ami e non puoi non fare quel che non ami. Perché il lavoro professionale non va d'accordo col piacere. Che felicità, se ciascuno, pur facendo quel che gli piace, potesse aver da mangiare. Ma nella società attuale non ci si è ancora arrivati, perciò per la maggior parte la lettura è in genere forzata e penosa lettura professionale.

Parliamo ora della lettura per diletto. Questa è volontaria, non forzata, libera dall'interesse. Credo che si possa paragonare alla passione per il gioco: si gioca tutto il giorno e tutta la notte, si gioca senza interruzione, e se capita d'essere acciuffati dalla polizia, appena liberati si ricomincia a giocare. Voi, signori, dovete sapere che il vero scopo dei giocatori non sta nella vincita, ma nel gusto che provano. Come i dadi possano offrire un simile gusto – io sono un profano - non lo capisco troppo. Ma ho sentito dire da chi ama il gioco che il suo fascino sta nel guardare venir fuori un pezzo dopo l'altro, in questo mutare continuo senza fine. Credo che, quando si legge per diletto, il motivo per cui non si riesce a togliere le mani dal volume sia lo stesso: il gusto che pagina dopo pagina si fa sempre più profondo. Naturalmente, la lettura arricchisce lo spirito, accresce le conoscenze. Ma tutto ciò non è sufficiente, può contare quanto la vincita nel gioco d'azzardo; fa parte del gioco, ma non vale molto.

Però non intendo dire che voi dobbiate abbandonare lo studio per leggere ciascuno quel che gli piace, non è ancora tempo; e forse questo tempo non arriverà mai – tutt'al più in futuro si troverà il modo di rendere un po' più interessanti le cose che non si può evitar di fare. Io dico ora che i giovani che amano la lettura hanno ampia possibilità di leggere libri estranei ai loro compiti, cioè estranei alle lezioni, e non è necessario attenersi solo ai libri di testo. Ma prego di non fraintendere, non dico che nell'aula di letteratura si debba leggere di nascosto nel cassetto il Sogno della camera rossa e così via; dico che, nel tempo che resta terminate le lezioni, c'è ampia possibilità di leggere libri di ogni genere, a cui dare un'occhiata anche se estranei alla propria specialità. Per esempio, chi studia scienze esatte e naturali legga pure libri di letteratura, chi studia letteratura legga pure libri di scienza; si legga insomma qualcosa di diverso da quello che si sta studiando. In tal modo si approfondisce la comprensione degli altri uomini e delle altre cose. Oggi in Cina c'è un grave difetto: quasi tutti sono convinti che il proprio settore di studi sia il migliore, il più bello e il più importante, e che gli altri siano tutti inutili e indegni di considerazione, e chi si occupa di queste cose da nulla debba morir di fame. Ma il mondo non è così semplice. Ogni campo di studi ha la sua utilità, e sarebbe assai difficile stabilire che cosa venga prima. E per fortuna ci sono uomini di ogni genere; se al mondo ci fossero solo i letterati, ci si occuperebbe solo di «generi letterari» o di «struttura della poesia». Il che sarebbe parecchio insensato.

Ma questo è un effetto secondario, non è quel che conta quando uno legge per diletto. Così, se si va a spasso per i giardini pubblici, si cammina distesi perché si è distesi, non si fa fatica perché non si fa fatica: perciò ci si prova gusto. Se quando si prende un libro in mano si pensasse tutti soddisfatti: «Io sto leggendo!», «Mi sto applicando!», si proverebbe subito un senso di peso, l'interesse cadrebbe e diventerebbe una fatica.

Io vedo che i giovani di oggi provano interesse per la lettura e m'imbatto continuamente in domande d'ogni specie. Ora esporrò qualche mia opinione, ma limitatamente al campo della letteratura, perché non m'intendo d'altro.

[...]


I testi di critica cinesi, più li leggo e più mi trovo stupido. Se li si prende sul serio non c'è via d'uscita. Gli indiani lo sanno da un pezzo, e hanno in proposito una parabola molto diffusa: Un vecchio e un bambino caricarono le merci su un asino per andare a venderle e, dopo averle vendute, tornavano, il bambino sull'asino e il vecchio a piedi. Ma i passanti li rimproverarono dicendo che non era ragionevole fare andare l'anziano a piedi. Essi si scambiarono il posto, ma la gente lì accanto disse che il vecchio era senza cuore; il vecchio si affrettò a prendere il bambino e a caricarselo in sella, e allora chi li vide disse che erano crudeli. Scesero entrambi, e dopo che ebbero camminato un po', vi fu ancora chi rise di loro, dicendo che erano stupidi, a lasciare lì un asino senza cavalcarlo. Allora il vecchio disse sospirando al ragazzo: «Non ci resta che un modo, prenderci il somaro sulle spalle». Nella lettura come nella vita pratica, se si adottano i consigli dei passanti si può sempre finire col portare l'asino sulle spalle.

Però io non chiedo che non si legga la critica ma che, dopo averla letta, si legga il libro in questione, si rifletta e si decida da sé. Θ lo stesso per la lettura di ogni libro: bisogna considerare e osservare da sé. Se si legge soltanto, si diviene pedanti; anche se si prova interesse, è un interesse che a poco a poco si irrigidisce, gradualmente avviato alla morte. Quando mi sono opposto a che i giovani si rifugiassero nelle aule di studio, intendevo appunto questo; e ancora oggi alcuni studiosi per queste parole mi considerano un criminale.

Ho sentito che l'inglese Bernard Shaw ha detto che la cosa più negativa al mondo è la lettura, perché chi legge sa vedere solo l'arte del pensiero altrui e non impegna se stesso. Θ come quel che Schopenhauer dice: far galoppare gli altri nel cervello. Meglio è chi riflette, perché sa impiegare la sua forza vitale; però cade nella fantasticheria. Perciò ancor meglio è chi osserva e legge con i propri occhi il libro vivente che è il mondo.

Questo è positivo: l'esperienza reale è sempre più persuasiva della lettura, dell'ascolto, della fantasticheria. Io avevo mangiato lizhi secchi, lizhi in scatola, lizhi stagionati, e ne avevo indotto la bontà dei lizhi freschi. Ora che li ho mangiati, li ho trovati diversi da quel che avevo supposto, e se non fossi venuto a mangiarne a Guangzhou non l'avrei saputo. Però a quel che dice Shaw vorrei aggiungere una considerazione a mezza via. Shaw è irlandese, e nelle sue posizioni non manca un po' di demagogia. Io credo che se da una campagna del Guangdong si cerca un uomo inesperto e lo si fa andare da Shanghai a Pechino o in qualche altro posto, e poi gli si domanda che cosa ha ricavato da ciò che ha osservato, temo che ne risulterà ben poco: perché egli non avrà esercitato la capacità di osservare. Per osservare occorre dunque passare prima per la riflessione e la lettura.

Insomma, la mia idea è molto semplice: nella lettura di nostra iniziativa, cioè nella lettura per diletto, chiedere il consiglio degli altri è sostanzialmente inutile. Basta prima uno sguardo generale, poi scegliere e approfondire la specialità o le specialità che si amano. Ma la sola lettura è insufficiente, perciò occorre essere in contatto con la società reale affinché quel che si legge diventi vivo.

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Come cominciai a scrivere racconti (1933)


Come cominciai a scrivere racconti? – Dei motivi ho già parlato nella prefazione a Grido d'allarme. Aggiungerò ancora che, al tempo in cui posi mente alla letteratura, le condizioni non erano quelle di oggi: in Cina la narrativa non era considerata letteratura e gli autori di narrativa non potevano chiamarsi in alcun modo letterati, perciò non c'era nessuno che pensasse di acquistar fama su questa strada. Né io intendevo innalzare la narrativa nella «sfera della letteratura», volevo solo utilizzarne la forza per riformare la società.

Non pensavo di diventare io stesso uno scrittore; importante era introdurre, tradurre, racconti in particolare, e specialmente opere di autori di nazioni oppresse. Infatti a quel tempo erano molto diffuse teorie anti-manchu, e molti giovani trovavano un appoggio negli autori che protestavano e si rivoltavano. Perciò non ho letto neppure un libro sui «metodi di composizione», mentre ho letto non pochi racconti, in piccola misura per mio piacere, e in larga misura per cercar materiale da presentare. Leggevo anche storie letterarie e opere di critica, perché volevo conoscere gli autori come uomini e il loro modo di pensare, per decidere se introdurli o meno in Cina. Cosa che non aveva niente che fare con la ricerca accademica.

Poiché le opere che cercavo erano di protesta e di opposizione, era giocoforza che mi indirizzassi all'Europa orientale. Così lessi in gran numero specialmente autori russi, polacchi e dei piccoli Paesi balcanici. Con grande passione avevo cercato anche opere indiane e egiziane, ma non ero riuscito a trovarne. Ricordo che a quel tempo amavo leggere Gogol e Sienkiewicz. Dei giapponesi, Natsume Soseki e Mori Ogwai.

Tornato in patria, mi sono occupato di scuola e per cinque o sei anni non ho avuto più tempo di leggere narrativa. Perché ho ricominciato? Ne ho già scritto nella prefazione a Grido d'allarme e non c'è bisogno di parlarne più. Ma quando ho cominciato a scrivere racconti non ritenevo affatto di avere talento per la narrativa: solo perché a quel tempo abitavo in un alloggio universitario a Pechino e per un lavoro di studi critici non avevo libri di consultazione e non avevo testi da tradurre, finii col far fronte a un impegno assunto e scrissi qualcosa di simile a un racconto, Il diario di un pazzo. Tutto quello su cui potevo basarmi erano un centinaio di opere straniere lette e qualche conoscenza di medicina; non avevo altra preparazione.

Ma i redattori di «Xin qingnian» presero a sollecitarmi più e più volte, e alla fine scrissi un pezzo; debbo ricordare il signor Chen Duxiu come quello che con più forza mi sollecitò a scrivere un racconto.

Naturalmente uno che si mette a scrivere racconti ha qualche sua opinione. Per esempio, sul perché scrivere abbracciavo ancora l'«illuminismo» di una decina d'anni prima: ritenevo che andasse fatto «per l'umanità» e per riformare la vita degli uomini. Provavo una profonda avversione per la precedente definizione della narrativa come «letteratura amena», e consideravo «l'arte per l'arte» come un altro nome della nuova forma di «letteratura amena». Perciò sceglievo il materiale per la maggior parte fra gli infelici della società malata, con l'intenzione di rivelare il male per incitare a curarlo. Ed evitavo ogni orpello letterario, intendevo solo esporre quel che volevo significare, senza il minimo strascico di abbellimenti. Il vecchio teatro cinese era senza scene, sui fogli di carta a colori che si vendevano ai bambini per il nuovo anno c'erano solo alcuni personaggi principali (sulle carte a colori di oggi c'è un po' più di scenario): ero profondamente convinto che questo metodo si addicesse al mio scopo, perciò non descrivevo particolari e non davo molto spazio neppure ai dialoghi.

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2. Chi inventò i caratteri? (1934)

Chi inventò i caratteri? Abituati alla favola che qualsiasi cosa è stata inventata da un antico santo, naturalmente porremo la domanda anche per la scrittura. Ma ecco pronta la risposta, di cui non si sa più l'origine: i caratteri furono inventati da Cang Jie.

Così affermano in generale gli studiosi, e certo avranno le loro prove. Io ho visto un ritratto di questo Cang Jie, somigliava a un vecchio prete buddhista con quattro occhi. Evidentemente per inventare i caratteri ci vuole un aspetto speciale; uomini con soli due occhi come noi, non solo non sono abbastanza dotati, ma hanno anche un aspetto inadatto. Però l'autore dello Yi jing (non so chi sia) era più intelligente. Egli dice: «Nella remota antichità governarono stringendo nodi, in epoca successiva i santi li sostituirono con la scrittura». Non dice «Cang Jie», ma: «In epoca successiva i santi»; non dice che inventarono, ma che sostituirono – davvero con molta prudenza. Forse inconsciamente, non credeva all'esistenza in antico di un uomo che da solo avesse inventato tanti caratteri; perciò si espresse in modo così vago.

Ma, che personaggi erano quelli che sostituirono la scrittura ai nodi? Letterati? Indubbiamente, a giudicare dai cosiddetti letterati di oggi occupati solo a smerciare i loro scritti e non capaci d'altro che di muovere una penna, vien fatto di pensare a loro (ed essi effettivamente devono pur darsi da fare per procurarsi da vivere). Eppure non è così. Gli uomini preistorici, benché cantassero quando lavoravano e quando chiedevano amore, non ne prendevano appunti per iscritto e non ne lasciavano manoscritti: non si sarebbero neppure sognati di vendere delle poesie o di pubblicare le opere complete. Nella società di allora non c'erano uffici di giornali né librerie, la scrittura non serviva a niente. A quel che ci dicono alcuni studiosi, ad applicarsi alla scrittura in origine furono assai probabilmente gli storici.

Nella società primitiva dovettero essere solo sciamani: finché con un graduale progresso le cose si complicarono, e a poco a poco ci fu bisogno di registrare alcune cose, come sacrifici, cacce, battaglie... E gli sciamani, oltre che «far discendere gli spiriti», secondo le loro attribuzioni, dovettero anche trovare il modo di registrare i fatti: questo fu il principio della «storia». Inoltre rientrava nelle loro funzioni «fare ascendere al cielo»; perciò dovettero anche bruciare al signore celeste i fascicoli con registrati i nomi dei capitribù e i principali avvenimenti sotto il loro governo: anche per questo occorreva scrivere – benché si tratti probabilmente di uno sviluppo più tardo. Ancora più tardi, le mansioni si separarono distintamente, e allora si ebbero gli storici addetti esclusivamente a registrare i fatti. La scrittura è uno strumento indispensabile agli storici, e gli antichi dissero: «Cang Jie è lo storico di Huang Di». Questa affermazione è molto dubbia, ma è molto significativo il rapporto stabilito fra scrittura e storia. Quanto al suo successivo impiego da parte dei «letterati», per scrivere belle frasi come: «Oh mia amata, io morrò!», si tratta solo dell'utilizzazione di quel che era già pronto. «Vale la pena di parlarne?».


3. Come sono nati i caratteri?

Secondo lo Yi jing, i precedenti della scrittura furono i nodi. La gente di campagna dalle mie parti, se il giorno dopo ha da fare qualcosa di importante e teme di scordarsene, dice: «Mi faccio un nodo alla cintura!». Allora, i nostri antichi santi usavano una lunga corda e per ogni cosa vi facevano un nodo? Temo che non sia verosimile. Finché i nodi erano pochi, si poteva ancora ricordare, ma diventava un pasticcio quando erano molti. Oppure era qualcosa come gli «otto trigrammi» di Fu Xi: tre corde formano un diagramma, non annodate sono il maschio, con un nodo in mezzo la femmina? Temo che non vada bene neppure così. Passi per otto diagrammi, ma è difficile ricordarne sessantaquattro, per non parlare di cinquecentododici. Solo nel Perù rimangono ancora dei quipu: su una corda tesa orizzontalmente si appendono molte corde verticali e si annodano tirandole su e giù, come in una rete irregolare: sembra che così sia possibile esprimere diversi concetti. Le corde annodate dei nostri antichi probabilmente erano qualcosa di simile. Ma giacché furono sostituite dalla scrittura e non ne sono le antenate, niente ci vieta di non occuparcene, per ora. La «tavola di Goulu» di Yu dei Xia è un falso dei taoisti; la scrittura più antica che oggi possiamo vedere è quella sugli ossi sacrificali e sui tripodi di bronzo dell'epoca Shang. Qui però è già molto sviluppata, ed è quasi impossibile trovare una forma primitiva. Solo sui bronzi qualche volta si vedono figure realistiche, come cervi ed elefanti, e da queste si può indurre un rapporto coi caratteri: il fondamento dei caratteri cinesi è la «pittografia».

I bisonti dipinti nelle grotte di Altamira in Spagna sono reliquie famose degli uomini primitivi, e molti storici dell'arte sostengono che si tratta di «arte per l'arte», che i primitivi dipingevano per divertimento. Ma questa interpretazione pecca di eccessiva «modernità». Infatti gli uomini primitivi non godevano del tempo libero degli artisti del XIX secolo, e se dipingevano un bisonte, lo facevano per un motivo: per catturarlo o per cacciarlo o per farne un tabù. Se oggi c'è sempre gente a bocca aperta davanti alle immagini pubblicitarie di sigarette o di film sui muri di Shanghai, possiamo immaginare che impressione dovessero fare segni così insoliti nella società primitiva tanto povera di esperienza. La gente comprendeva, vedendolo, che una cosa come il bisonte si può trasferire con un tratto sottile su una superficie piana; nello stesso tempo forse imparava il simbolo scritto di «bisonte»; ammirava certo l'ingegno degli autori; però nessuno li pagava per comporre la propria autobiografia, così i loro nomi si sono perduti. Ma nella società non vi fu un solo Cang Jie: alcuni incisero immagini sulle impugnature delle armi, altri ne disegnarono sulle porte; se li ricordarono gli uni con gli altri, se li trasmisero. I caratteri divennero più numerosi e gli storici li raccolsero e poterono divulgare i fatti registrati. Suppongo che l'origine della scrittura cinese non ecceda questa ipotesi.

Naturalmente in seguito dev'esserci stato un continuo incremento, ma questo poté avvenire ad opera degli stessi storici: i nuovi caratteri inseriti fra i già noti erano ancora pittografici, ed era facile per la gente arguirne il significato. Ancora oggi in Cina si fabbricano nuove parole. Ma a voler essere per forza dei nuovi Cang Jie, si fallisce. Tanto Zhu Yu di Wu che Wu Zetian dei Tang inventarono strani caratteri, ma fu fatica sprecata. Quelli che oggi inventano più parole sono i chimici cinesi: i nomi di molti elementi e composti chimici sono difficili da intendere e perfino da pronunciare. Per esser franco: appena li vedo mi viene il mal di testa, e credo che per renderli agevoli sarebbe molto meglio usare i nomi latini diffusi in tutti i paesi. Se non si è in grado di imparare un alfabeto di una ventina di lettere, chiedo scusa, ma non si sarà in grado neppure di studiare la chimica.

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