Copertina
Autore Carlo Lucarelli
Titolo Almost Blue
SottotitoloUna voce canta nel buio, un ragazzo cieco ascolta e l'Iguana sta per uccidere ancora...
EdizioneEinaudi, Torino, 2001 [1997], Tascabili Stile libero 457 , pag. 196, dim. 120x195x13 mm , Isbn 978-88-06-14304-6
LettoreAngela Razzini, 2001
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po' di polvere. Quello del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro chiuso di una finestra, e dopo la voce velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost Blue.

A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima a di almost, cosi chiusa e modulata da sembrare una lunga o. Al-most-blue... con due pause in mezzo, due respiri sospesi dà cui si capisce, si sente che sta tenendo gli occhi chiusi.

Per questo mi piace Almost Blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi.

Io, con gli occhi chiusi, ci sto sempre, anche se non canto. Sono cieco, dalla nascita. Non ho mai visto una luce, un colore o un movimento.

Ascolto.

Scandaglio il silenzio che mi circonda, come uno scanner, uno di quegli apparecchi elettronici che spazzano l'etere a caccia di suoni e di voci e si sintonizzano automaticamente sulle frequenze occupate. So usarli benissimo, gli scanner, quello che ho dentro la testa da venticinque anni, fin da quando sono nato e quello che tengo in camera mia, accanto al giradischi. Se avessi degli amici, se ne avessi, di sicuro mi chiamerebbero Scanner. Mi piacerebbe.

Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardano. Dicono lucido, opaco, luminoso, invisibile. Come in quella favola che mi raccontavano da bambino per farmi dormire, in cui c'era una principessa cosi bella e con una pelle cosi fine che sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti sveglio a pensare, prima di capire che trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro.

Per me significava che le dita ci passavano attraverso.

Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L'azzurro, per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali e le volpi sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immaginarlo ma so che è il colore del nulla, del niente, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l'idea che contengono. Per il rumore dell'idea che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la b, invece, sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi.

Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i capelli blu.

Ci sono anche colori che hanno una forma. Una cosa rotonda e grossa è sicuramente rossa. Ma le forme non mi interessano. Non le conosco. Per conoscerle bisogna toccarle e a me toccare non piace, non mi piace toccare la gente. E poi con le dita sento solo le cose che ho attorno, mentre con le orecchie, con quello che ho dentro la testa, posso arrivare lontano. Preferisco i rumori.

Per questo uso lo scanner. Tutte le sere, salgo in camera mia e metto sul piatto un disco di Chet Baker. Sempre lo stesso, perché mi piace il suono della sua tromba, tutte quelle p, piccole e profonde, che mi girano attorno e mi piace la sua voce che canta piano, come se venisse da dietro la gola e facesse fatica a uscire e per farlo si dovesse soffiare con tanto impegno da dover chiudere gli occhi. Soprattutto quel pezzo, Almost Blue, che io punto per primo, anche se è l'ultimo. Cosi tutte le sere e tutte le notti aspetto che Almost Blue mi scivoli lentamente in fondo alle orecchie, che la tromba, il contrabbasso, il pianoforte e la voce diventino la stessa cosa e riempiano il vuoto che ho dentro la testa.

Allora, accendo lo scanner e ascolto le voci della città.

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Pagina 50

Certe volte miliardi di piccolissimi ami da pesca mi agganciano la faccia da sotto la pelle e me la risucchiano fin dentro la gola. Partono da qualche punto, dietro la lingua e mi attraversano la testa come una cascata finissima di stelle filanti. Gli ami passano tra poro e poro e mi si piantano nella pelle e sono cosi sottili che quasi non pungono neanche. Quando succede, corro a specchiarmi da qualche parte perché mi piace vedere il mio volto che brilla di milioni e milioni di puntini luminosi, come microscopiche gocce d'argento. Ma poi gli ami cominciano a tirare e il naso e la bocca e tutta la faccia mi si accartocciano dentro, come un pugno che si chiude e trascina tutto con sé, occhi, naso, labbra, guance e capelli, tutto giú, in fondo alla gola.

Certe volte la mia ombra è piú nera delle altre. Me ne accorgo quando cammino in strada e vedo che comincia a macchiare il muro che ho di fianco, a lasciare strisciate sempre piú nette sui cartelloni, sull'intonaco o sul sasso. La vedo che diventa sempre piú scura e sempre piú densa e ho paura che qualcuno se ne accorga e allora vorrei correre via ma è difficile perché si allunga e fila, appiccicosa e nera e mi tiene attaccato al muro e al marciapiede.

Certe volte c'è qualcosa che mi striscia sotto la pelle, come un animale, e corre veloce ma non so cos'è, perché sta sotto. Se mi tiro su le maniche in fretta faccio in tempo a vederlo, un rigonfiamento corto e sottile che mi solleva la pelle sulle braccia e sale verso la spalla, come per scappare via, e se mi tolgo la camicia me lo vedo scivolare sul petto e giú verso la pancia e su di nuovo, un mucchietto allungato che si alza, si abbassa e si rialza un po' piú avanti, rapidissimo. Quando succede sento un solletico insopportabile sotto la pelle, ma non posso farci niente. Solo una volta sono riuscito a farmi un taglio sul braccio e ho visto qualcosa che spuntava, come una virgolina verde che sembrava una coda e allora l'ho presa con la punta delle dita e ho cercato di tirarla fuori ma scivolava e sembrava che avesse le squame che facevano resistenza contro il bordo del taglio e mi faceva male e cosi l'ho lasciato andare e lui è tornato dentro.

Certe volte mi succedono queste cose.

Certe volte.

Ma sempre, sempre, sempre, sento risuonare in testa quelle maledette campane dell'inferno, che suonano sempre e suonano per me.

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Pagina 115

Rimetto il telefono sulla mensola, faccio scorrere tutte e due le mani sullo specchio e resto a guardarmi finché il vapore non mi cancella piano piano. L'animale che ho dentro mi corre veloce sotto la pelle. Mi gira attorno all'ombelico e mi fa gonfiare la pancia che si tende e sporge in fuori, poi sale su e mi scorre nella gola e sotto la pelle della faccia che si alza sugli zigomi e si arrotonda livida sotto gli occhi. Mi preme nella bocca, contro le labbra che sporgono arricciate e penso che se le aprissi forse lo vedrei, l'animale che ho dentro, lo vedrei riflesso nello specchio, ma ho paura e non lo faccio. Allora lo inghiotto, con un colpo secco, giú nella gola e aspiro aria umida di acqua e calda di vapore.

Devo guardare la foto sulla carta d'identità che ho incastrato nella cornice dello specchio, anche se è piccola e non si vede bene, perché l'altro è li che galleggia nella vasca che strabocca, con le gambe e le braccia ormai oltre il bordo, ma non ha piú la faccia. Ma la testa calva, le borse sotto gli occhi e le labbra carnose sono tutte sulla carta d'identità e dove aveva gli anelli che gli ho strappato, quello un po' me lo ricordo. Il petto e le gambe senza peli, invece, si vedono ancora bene e anche quella cicatrice rotonda che ha sul fianco.

Faccio in tempo a darmi un'altra occhiata allo specchio prima che il vapore lo appanni del tutto.

Siamo uguali.

Ma le campane, don, don, don... quelle le sento ancora.

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