Copertina
Autore Jean-Pierre Luminet
Titolo L'occhio di Galileo
EdizioneLa Lepre, Roma, 2012, Visioni , pag. 424, cop.fle., dim. 13,5x21x3 cm , Isbn 978-88-96052-74-7
OriginaleL'oeil de Galilée
EdizioneLattès, Paris, 2009
TraduttoreDaniele Petruccioli
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe narrativa francese , astronomia , storia della scienza , citta': Praga , storia: Europa , storia moderna
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Indice


 11 I costruttori del cielo


    L'occhio di Galileo


    Parte prima
 19 Il profeta dell'imperatore

    Parte seconda
163 Il messaggero astrale

    Parte terza
217 L'eretico e la strega

387 Epilogo


    Appendice

395 Indice dei personaggi principali

413 I sistemi del mondo da Tolomeo a Keplero

421 Appunti sull'opera scientifica di Keplero


 

 

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Pagina 11

I costruttori del cielo



Il romanzo che state per leggere è stato scritto non solo per divertire, ma anche per istruire. Istruire divertendo era pure lo scopo dichiarato di Alexandre Dumas, quando si accinse a raccontare la storia di Francia nei suoi ineguagliabili romanzi.

La storia della scienza e soprattutto quella dei grandi uomini che l'hanno plasmata resta quasi del tutto ignota al pubblico. Eppure brulica di personalità grandi e piccole, eroi e rinnegati, principi e accattoni, avventurieri e pavidi, insomma di uomini e donne spinti da passioni elevate e infime, intellettuali e materiali, spirituali e carnali. Nella grande ricerca dei misteri dell'universo, invidia, sete di potere e di riconoscimenti, cupidigia e codardia vanno di pari passo con larghezza di vedute, disinteresse, abnegazione e lampi di genio.

Tra il Cinquecento e il Seicento una manciata di uomini eccentrici, sapienti astronomi, hanno modificato da cima a fondo il nostro modo di guardare e pensare l'universo. Erano dei precursori, degli eversivi geniali ma non solo. In generale si ignora — forse perché le loro scoperte sono tanto straordinarie da oscurare le vicissitudini della loro esistenza — che sono stati anche uomini fuori dell'ordinario, personaggi molto particolari, figure davvero romanzesche con vite brulicanti di intrighi, suspense, colpi di scena...

La serie dei Costruttori del cielo chiarisce e sviluppa l'aforisma espresso da Shahrazade al sultano nella ottocentoquarantanovesima notte: «Ma i sapienti, o mio signore, e gli astronomi in particolare, non seguono le consuetudini comuni. Perciò le loro avventure sono diverse da ogni altra». Nel dir così riconsegna linfa vitale a eroi dello stampo di Niccolò Copernico, Tycho Brahe, Giovanni Keplero, Galileo, Isacco Newton e qualche altro di minore risonanza... Grazie al loro apporto nella formazione di una nuova concezione dell'universo, ciascuno di loro ha contribuito a edificare le basi della civiltà moderna non meno di Colombo e Gutenberg.

Perché ho scelto loro anziché Darwin, Pasteur, Maxwell o Einstein? Perché il Cinquecento e il Seicento segnano una tappa fondamentale nella storia della scienza, dell'astronomia in particolare e della civiltà in genere.

Quali erano le conoscenze e i dibattiti sulla natura e il funzionamento del mondo, a quell'epoca?

Nel Medioevo, la cosmologia aristotelica rivista alla luce dell'astronomia tolemaica era stata sistematizzata in modo da adeguarsi alle esigenze della teologia. L'universo antico e medievale era un mondo finito, piuttosto piccolo, con la Terra al centro. Il potere temporale e spirituale trovavano il loro luogo naturale dentro questa costruzione e ne imposero la conservazione e la supremazia fino a Seicento.

La prima crepa in questo modello d'universo appare grazie al canonico polacco Niccolò Copernico (Mikolaj Kopernik, 1473-1543). Copernico propose un sistema "eliocentrico", ovvero con il Sole quale centro geometrico del mondo e la Terra a girargli intorno, oltre che sul proprio asse. Tuttavia il sistema copernicano manteneva l'idea di un mondo chiuso, delimitato dalla sfera delle stelle fisse.

Copernico morirà da incompreso. Devono passare diversi decenni prima di vedere altre crepe scalfire l'edificio aristotelico. Nel 1572 una nuova stella viene osservata dal danese Tycho Brahe (Tyge Brahe, 1546-1601), il quale dimostra che essa va collocata all'interno delle regioni celesti più lontane, fino ad allora ritenute immutabili. Tycho osserverà anche comete, farà costruire il primo osservatorio europeo — un palazzo barocco assolutamente pazzesco chiamato Uraniborg — e nell'arco di trent'anni raccoglierà osservazioni accuratissime sui movimenti planetari.

Ma spetterà al tedesco Giovanni Keplero (Johannes Kepler, 1571-1630) essere il grande artigiano della rivoluzione astronomica. Con l'aiuto dei dati lasciati da Tycho Brahe, scopre la natura ellittica delle orbite dei pianeti e rovescia così il dogma del movimento rotatorio uniforme quale spiegazione dei movimenti celesti.

In Italia, a partire dal 1609, le osservazioni condotte attraverso il telescopio da Galileo Galilei (1564-1642) aprono definitivamente la strada a una nuova concezione dell'universo basata sullo spazio infinito. Giordano Bruno, suo contemporaneo (1548-1600), pagherà con la vita la passione per l'infinito e l'ostinazione a non voler abiurare la sua filosofia davanti all'Inquisizione. In Francia René Descartes (italianizzato in Cartesio, 1569-1650) elabora un nuovo sistema filosofico dalla considerevole portata, che caldeggia la matematizzazione della fisica e la separazione tra mente e corpo. Secondo lui, l'universo si estende in ogni direzione per una distanza indefinita ed è interamente occupato da una materia estesa caratterizzata da un moto vorticoso.

Il cambiamento radicale nella visione del cosmo viene portato a termine dall'inglese Isacco Newton (Isaac Newton, 1642-1727). Newton spiega la meccanica dei corpi celesti attraverso la gravitazione universale, attrazione dei corpi che agisce all'interno di uno spazio infinito, da lui denominato "organo sensibile" di Dio.

Questa successione di intuizioni ha rivoluzionato l'astronomia e le scienze in generale. Ma soprattutto, influenzando altri campi dell'umana attività, ha favorito la nascita e lo sviluppo della società occidentale moderna.


La sfida della finzione.

Ciascun romanzo narra dunque la straordinaria vita di un avventuriero del sapere, riportato alla sua personalità complessa attraverso la sua opera, certo, ma soprattutto attraverso i rapporti passionali e conflittuali con i suoi simili, la società, la politica, la morale e i costumi del tempo in cui è vissuto. Ogni tappa del sapere si situa infatti nel contesto sociale specifico di ciascuna epoca; il genio di certi individui entra in risonanza con la storia politica, religiosa e culturale del loro tempo, è attraverso questa dinamica che nascono gli improvvisi, decisivi avanzamenti del sapere.

Questi romanzi biografici in forma di riflessione scientifica non sono stati composti per divulgare, ma per sensibilizzare. Grazie alla finzione si può ridare vita a personaggi storici e a concetti a prima vista astratti, in quanto "scientifici". La finzione romanzesca rende più accessibile questo obiettivo e aiuta a dimostrare l'indissolubile legame tra sapere ed emozione.

La narrazione è ancorata in maniera profonda alla realtà storica e scientifica dell'epoca. Il lettore attraversa l'Europa a vele spiegate in compagnia di dotti avventurieri del sapere, legati ai poteri politici e religiosi. Intrepidi, eruditi, integerrimi ma abili negoziatori, carrieristi a volte, essi sono anzitutto umanisti, uomini universali in contatto con altre culture e consapevoli di operare per il progresso umano. Così, andando avanti nella lettura, il lettore scopre sia i progressi della scienza che quelli delle idee, all'interno di un'Europa in formazione.

La serie dei Costruttori del cielo vuole essere un inno alla scienza, al piacere e al coraggio della mente. Dobbiamo a questi uomini eccezionali la prima immagine di un cosmo che è ancora oggi il nostro — un universo smisurato, eppure misurabile dall'intelligenza e dall'immaginazione creativa.

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Pagina 21

1.



Un gran cavallo bianco apriva il corteo, coda e criniera bionde intrecciate con nastri rossi. Rosse erano anche le briglie, rette da un anziano servitore, e il sottosella. Le staffe, d'oro. Mi sembrava di assistere non al funerale di Tycho Brahe, pontefice dell'astronomia, ma a quello di Amleto, principe di Danimarca. Eppure in quel 4 novembre 1601 eravamo a Praga, non a Elsinore.

«Povero Tycho» ironizzò Edmund Bruce «Addirittura un destriero! Lui che aveva orrore di montare, tanto soffriva di vertigini... Non lo vedevo in cima a una sella dal suo arrivo a Praga, con l'imperatore in persona ad accoglierlo a piedi».

Avevo conosciuto Edmund Bruce sulla nave che dall'Inghilterra ci portava sul continente. Diceva di viaggiare per diletto, come amano sostenere molti miei compatrioti di buona fortuna. Per parte mia, poiché tutti a Londra ne avevano parlato, non potevo nascondere di essere stato incaricato da Giacomo VI di Scozia di visitare le corti europee al fine di rassicurarne i sovrani, in vista dell'ormai imminente morte della vecchia regina Elisabetta, sulla prosecuzione della medesima politica di intesa e pace da parte del suo successore. Certo, in Francia, Spagna, nel Sacro romano impero germanico e altrove c'erano diplomatici ben più esperti del ventiquattrenne che ero, ma ufficialmente dovevo appunto portare nuova linfa a quel genere di relazioni. Questa era la motivazione di facciata.

In realtà avevo ottimi motivi per diffidare di Bruce. Lo sapevo al pari di me appassionato di arti astronomiche, matematiche e navali, nonché sospetto di essere al soldo della rispettabile neonata Compagnia delle Indie orientali. Io invece avevo la missione segreta, affidatami da Sua Maestà, di sostenere lo sviluppo di un'altra compagnia commerciale, che si era appena vista concedere una patente sotto il nome di Compagnia della Virginia di Londra. Il parlamento le aveva concesso per territorio una piccola parte di litorale nordamericano sotto il quarantunesimo parallelo, dove era stata istituita una prima colonia inglese, lasciando agli altri concorrenti britannici il Canada delle pellicce e la ricerca del passaggio a nordovest. Ma il vero obiettivo della Compagnia della Virginia era colonizzare un Nuovo mondo inglese, allo scopo di tenere in scacco gli spagnoli e, perché no, anche i nostri alleati olandesi. Il mio compito non era certo diventare un novello sir Walter Raleigh, piuttosto racimolare qua e là quanto potesse servire al nostro progresso geografico e navale. E per quanto sembrasse strano, i migliori cartografi, meccanici e astronomi erano tedeschi, venivano da paesi del tutto privi di coste oceaniche...

Bruce, da cui ero stato preceduto di soli due mesi nella capitale dell'impero, sembrava già informatissimo sulla corte praghese e i suoi segreti di alcova. Mi aveva convinto a non seguire i funerali insieme alla delegazione inglese bensì dal balcone di casa di un suo amico, da dove avremmo meglio contemplato la cerimonia.

Dietro il destriero, al rullio cupo dei tamburi, ecco la bara sorretta da dodici gentiluomini d'arme di alto lignaggio. Bruce li conosceva tutti per nome e mi assicurò del loro odio verso la salma che trasportavano. La chiamavano "l'anima dannata dell'imperatore", perché nessuno di loro aveva goduto di tanti favori quanti quelli di cui Rodolfo II aveva colmato il suo matematico e astrologo. Subito dopo veniva la famiglia di Tycho, o almeno i suoi due figli, il genero Tengnagel e tre figlie; la quarta si diceva stesse partorendo, assistita dalla madre. Ma a prestar fede a Bruce, la vedova era stata definita indesiderabile da chi si occupava del protocollo, perché quella contadina non era mai stata unita al defunto in santo matrimonio.

Di seguito alla famiglia venivano i rappresentanti dell'imperatore Rodolfo II d'Asburgo. Alla Sua augusta Maestà sarebbe piaciuto seguire un'ultima volta il caro Tycho, da lui tanto venerato, ma un simile comportamento sarebbe stato considerato l'ennesima stravaganza. Avevo già conosciuto la maggior parte di quei consiglieri privati, conti, ciambellani, ministri e baroni vari. Tra loro non c'era nemmeno un rappresentante della Chiesa apostolica romana: malgrado tanta pompa, l'inumazione avrebbe avuto luogo secondo il rito luterano.

In toga rossa o nera con berretto quadrato, passò sotto le nostre finestre anche l'esercito di universitari, scienziati e artisti al servizio di Sua Maestà.

«Oh, ecco il successore di Tycho» disse Bruce. «Giovanni Keplero, prossimo matematico imperiale».

«Qual è?» domandai con l'aria indifferente di chi non si interessa di astrologi, alchimisti e filosofi vari.

«Sta tra Martin BacháČek, rettore dell'università, e il preside della facoltà di medicina Ján Jesensky, alias Jessenius, il famoso anatomista. È quello con la barba nera, vedete, magro come il bastone a cui si appoggia.

«Giovanni Keplero, l'autore del Mysterium cosmographicum» mormorò Thomas Harriot. «Tempo fa mi ha scritto per...».

Gli mollai un calcio discreto sul polpaccio: inutile diffondere anche solo un dettaglio suscettibile di mettere una pulce nell'orecchio dell'agente della Compagnia delle Indie orientali. Thomas Harriot, allora quarantenne, era senza dubbio il primo matematico moderno ad avere praticato la sua arte in mare. Insegnava a Oxford ed era partito agli ordini di un suo vecchio allievo, il famoso Raleigh, "lupo di mare" di Elisabetta, alla scoperta della costa nord del Nuovo mondo in una contrada chiamata Virginia in onore della nostra sovrana, la "regina vergine". Harriot ne aveva rilevato una cartina, ci aveva piantato del tabacco delle isole ed era tornato con un interessante diario di viaggio. Era quindi perfetto per assistermi nella raccolta delle informazioni più adatte a trasformare le navi di Sua Maestà nella flotta più moderna e dunque più potente del mondo, e la Compagnia della Virginia nella più prospera fra le nostre gilde mercantili.

Lasciammo il balcone per raggiungere la delegazione inglese e trovarci un buon posto davanti alla cappella per l'elogio funebre. Sulla soglia, Bruce mi trattenne per un braccio ed esclamò:

«No! Parsberg. Manderup Parsberg! Ecco il prescelto dal re di Danimarca e Norvegia quale suo rappresentante ai funerali del suo più illustre suddito! Cristiano IV davvero non dimentica un'offesa...».

«Manderché?» chiese il mio medico scozzese, Robert Fludd.

«Ah, questa non ve l'hanno detta, a Oxford?» rispose Bruce. «Manderup Parsberg è quello che tanto tempo fa ha tagliato il naso a Tycho, durante un duello».

«Un duello per cosa?» chiesi io, nonostante mi fossi informato in maniera esaustiva sulla vita del fu astronomo danese.

«Argomenti astrologici. Confesso, caro amico, di dilettarmi di alterchi tra sapienti, che a volte finiscono addirittura con la morte di uno di loro».

«E sareste anche capace di provocarli, vero?» ribatté Fludd. «Strano tipo d'uomo, in verità, chi non sapendo costruire si accanisce a distruggere quanto altri impiegano una vita a erigere».

«Basta dottore» intervenni, «non è questo il luogo né il momento di polemizzare... Piuttosto, andiamo a raggiungere i nostri amici».

La mia carica di addetto diplomatico itinerante mi obbligava a munirmi di un seguito degno del mio rango. Harriot ricopriva la funzione di matematico, Fludd quella di medico. Quest'ultimo, allora ventisettenne, era stato studente di Harriot al St John's College di Oxford. Non era ancora in possesso dei diplomi per praticare la sua arte, inoltre la foga con cui difendeva le tesi di Paracelso urtava i suoi maestri, soprattutto perché aveva imitato il bizzarro alchimista morto sessant'anni prima bruciando pubblicamente i libri di Galeno. Resosi indesiderabile a Oxford, Fludd aveva accettato la proposta del suo vecchio professore di matematica di aggiungersi a noi. Al pari del suo dio Paracelso, era appassionato di grandi iniziati dell'antichità quali Ermete Trismegisto, Pitagora, Mosè, Ario di Alessandria e qualche altro ancora. Io e Harriot al contrario, da bravi inglesi scettici, eravamo di intelligenza pratica, rivolta alle cose concrete e alla loro possibile utilità. Ma avevamo bisogno di lui per entrare in confidenza con Tycho e l'imperatore.

Ahimè i miei incarichi ufficiali ci avevano trattenuto a lungo alla corte di Enrico IV di Francia e poi in Baviera. Strada facendo ci eravamo poi fermati nel Württemberg, non che il granducato fosse un pezzo fondamentale sulla scacchiera del mondo, ma io e Harriot ci tenevamo a incontrare l'insigne astronomo e professore di matematica dell'università di Tubinga, Michael Maestlin. Per quanto socievole e molto istruito, non aveva tuttavia la benché minima cognizione di astronomia nautica. Inoltre la sua università era brutalmente soggetta all'ortodossia luterana: alla minima delazione, lì dentro, le cattedre tenute da umanisti e copernicani sarebbero state soppresse. È stato Maestlin, però, e non Harriot, a parlarmi per primo di Giovanni Keplero, assistente di Tycho e suo ex pupillo.

La seconda volta fu alla tappa successiva, per bocca del gran cancelliere di Baviera che manteneva con Keplero una corrispondenza assidua sulla cronologia biblica e la cabala. Era roba per Fludd, e non ci sprecai più di tanto. Ma in viaggio lessi il suo Mysterium cosmographicum.

Il 15 ottobre arrivammo finalmente a Praga. Tycho era morto il giorno prima, la mia missione era fallita. Non sarei mai riuscito ad avere da lui le osservazioni astronomiche utili ai progetti americani della Compagnia della Virginia. Né avrei potuto approfittare del suo genio meccanico per progettare insieme strumenti di navigazione migliori di quelli attuali, basati sulla riproduzione in miniatura dei precisissimi sestanti, ottanti e giganteschi astrolabi da lui costruiti e perfezionati in una vita votata all'arte cosmografica.

Sarebbe stato certo un compito arduo. Per punire Tycho dell'arroganza di cui aveva dato prova in occasione della visita del re di Scozia Giacomo VI al famoso osservatorio danese sull'isola di Venusia (ero parte del suo seguito, come ho raccontato altrove) e oltretutto in presenza del re Cristiano IV, re Giacomo volle attaccare il pontefice dell'astronomia sul suo stesso terreno. Il mio sovrano ordinò al suo medico personale, che fungeva anche da astrologo, di armare una guerra non contro il principe Brahe, ma contro Tycho il filosofo. Mal gliene incolse! Il buon dottore volle attaccare l'edificio dell'astronomo danese partendo proprio dal suo bastione più solido, la teoria delle comete. Poiché mai se ne era vista una oscurare la Luna, Tycho aveva dimostrato che quelle viaggiatrici errabonde non passavano in questo basso mondo, bensì seguivano il loro corso ben più in alto, svilendo così il perfetto ordine e l'armonia delle sfere cristalline in cui Aristotele e i suoi esegeti avevano posto gli astri, fissi e vaganti. Affermazione scandalosa, ma vera.

Per ingraziarsi Tycho, divenuto nel frattempo astrologo imperiale, avrei dovuto convincerlo che non tutti i britannici erano suoi nemici. Ecco perché avevo chiesto a Harriot di condividere con lui le osservazioni raccolte in Virginia e a Fludd di interrogarlo su questioni alchemiche e divinatorie. Ma eravamo arrivati tardi. Mi restava Keplero.

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4.



Suo padre aveva bevuto. Anche sua madre. Si insultarono. Tutti gli allievi del collegio di Maulbronn li circondavano, incitandoli a picchiarsi. Il direttore del seminario, ma forse era Tycho, arrivò per dirgli che era stato bocciato all'ultimo anno di teologia. Avrebbe dovuto ridare l'esame. La mano di suo padre si abbatté sulla guancia di sua madre e Keplero si svegliò di soprassalto.

Barbara dormiva tranquilla accanto a lui. Era incinta. Il bambino sarebbe sopravvissuto, questa volta? Già due neonati, in cinque anni di matrimonio, erano morti dopo poche settimane. Da allora Barbara faceva di tutto per sottrarsi ai suoi doveri coniugali. Né vi si era sottoposta di buona voglia fino a dopo il trasloco nella nuova casa, la sera in cui il consigliere Barwitz aveva annunciato ufficialmente a suo marito la nomina alla carica di mathematicus imperiale.

Johann si sedette sul bordo del letto e si passò le dita nella barba mentre l'incubo si dissipava. Ben presto gli restò soltanto il ricordo di un Keplero trentenne costretto a ridare gli esami di scuola. "Se capitasse davvero" si disse, "non sarei affatto sicuro di ottenere il diploma". Si alzò. Dopo avere ritrovato la lucidità si dedicò alle abluzioni e meditò suo malgrado sulle tavole di rifrazione della luce elaborate da Tycho, da lui attentamente studiate il giorno prima. Seduto nel suo studio, mentre inzuppava un tozzo di pane nella zuppa di cavoli, decise che bisognava iniziare da lì: dalla luce.

Il suo assistente Matthias Seiffart entrò nel laboratorio. Aveva dovuto subire la tirannia di Tycho solo negli ultimi mesi, mentre Keplero era in Stiria a sistemare la successione del suo patrigno e Longomontanus, pur essendo il discepolo più fedele del "pontefice dell'astronomia", era fuggito definitivamente dal dispotismo del suo illustre compatriota per tornare in Danimarca: almeno lì era sicuro di non ricadere sotto la scure di quel boia.

«Matthias» disse Keplero, «stiamo facendo le cose a rovescio. È come se degli architetti innalzassero i pilastri di un tempio senza prima aver scavato le fondamenta. E le fondamenta, sono la luce».

Seiffart era una di quelle rare persone che quando non capiscono qualcosa hanno il coraggio di confessarlo:

«Non ho capito».

«Ma sì, invece! Rifletti. Tycho ha passato la vita a osservare gli astri. Qual è il primo strumento di osservazione che ha utilizzato?».

«Secondo la leggenda, un bastone di Giacobbe fabbricato con le sue mani».

«No, gli occhi! L'astro osservato esiste solo in virtù della luce che arriva fino a noi. Ne so qualcosa, sono miope come una talpa.

Eppure gli antichi ritenevano con Aristotele che fosse la vista ad andare verso l'oggetto, mentre gli odori e i suoni verrebbero a noi, giacché naso e orecchie sono cavi, dunque concavi, mentre l'occhio è convesso e quindi non può accogliere niente.

Idiozie degne di un baccelliere al primo anno di retorica, Matthias, lo sai benissimo. Non fingerti più scemo di quanto tu non sia. Avresti dovuto assistere alla piccola dimostrazione privata di anatomia a cui sono stato invitato l'altro giorno dal caro Jessenius. Ha sezionato un occhio umano... Ebbene, ne ho analizzato il funzionamento: funziona allo stesso modo di una camera oscura. L'immagine non si forma davanti, sul cristallino, come si tende a credere, ma dietro, sulla retina. Ed è ribaltata».

«Io però non vedo gli oggetti con i piedi per aria».

«Vero, perché li correggi. O meglio, è il tuo cervello a correggere le immagini...».

Keplero si tolse le spesse lenti da cui i suoi occhi miopi risultavano ingranditi e il suo strabismo accentuato. Le asciugò con cura sul colletto.

«Ah, Matthias» continuò, nella comica imitazione di un vecchio professore bisbetico, «quand'è che uscirai dal tuo mondo di matematica pura ed entrerai in quello della fisica? Se Tycho ti usava come un abaco, non per questo devi comportarti allo stesso modo con me. La luce non discende in linea retta dal Sole o dagli altri astri, alla stregua di un oggetto pesante. Benché mi si dica che pure per i gravi, a Padova, quel diavolo di un Galileo – si fosse mai degnato di rispondermi a una lettera – avrebbe scoperto cose... La luce non può scendere a noi in quel modo, perché l'aria intorno alla Terra forma un ostacolo che ne devia la corsa. Così, la posizione in cui crediamo di vedere questo o quel corpo celeste non è quella dove si trova davvero».

«Sì, lo so» si spazientì Seiffart. «So anche delle tavole approntate da Tycho, in cui si stabilisce l'angolo secondo il quale la luce degli astri devia nell'attraversare gli strati d'aria».

«Tycho?» rise Keplero. «Vuoi scherzare, caro. Come al solito si è solo appropriato di quanto altri avevano scoperto ben prima di lui. Seicento anni fa, un babilonese chiamato Alhazen ne aveva già scoperti tutti i principi. Tralascio i lavori del "Dottor mirabilis" Ruggero Bacone per arrivare subito a un misconosciuto filosofo polacco detto Vitellione, scopritore ben più di due secoli fa della branca della fisica che possiamo chiamare "ottica". Allora, certo, gli scoliasti parigini fecero presto a nascondere quei due testi, in modo da poter tornare al tuo occhio convesso e alle narici concave. Se penso a quei signori di ristrette vedute intenti a scribacchiare castronerie nei loro volumi con gli occhi dietro fondi di bottiglia spessi quanto i miei! Finché trent'anni fa, precisamente nel 1572, una traduzione dall'arabo dell'opera di Alhazen e uno scritto di Vitellione, che per fortuna non aveva bisogno di essere tradotto dal polacco perché redatto in latino, comparvero in contemporanea alla fiera di Francoforte».

«Giusto un anno dopo la vostra nascita» ridacchiò Seiffart. «Una coincidenza per cui il vostro animo di astrologo imperiale avrà certo gioito».

«Imitami nelle mie qualità, Seiffart, non nei difetti. Il sarcasmo è territorio mio. Vedi di non sconfinare».

Seiffart s'inchinò ironicamente, con tutta la deferenza dovuta dal discepolo al maestro. Keplero lo sconcertava. Quell'uomo si comportava con lui come un compagno di studi. Il nuovo mathematicus imperiale non sembrava aver capito di essere diventato, grazie a quella nomina, il filosofo più autorevole del mondo cristiano e forse perfino di Costantinopoli, alla corte del sultano. Almeno sapeva, quando rispondeva da pari a pari alla lettera di un oscuro pastorucolo erudito di Pilsen o Strasburgo, che la sua risposta sarebbe stata letta in pubblico e commentata fin nella corte della provincia in questione? No, altrimenti avrebbe evitato al suo interlocutore quell'ironia di cui si serviva con tutti, da lui denominata "sarcasmo".

«Ebbene, nel 1572 queste due opere fondamentali di ottica sono saltate fuori dal sepolcro in cui gli universitari le avevano sepolte. Anzi dal fiume, dove proprio quello stesso anno, nella notte di San Bartolomeo, avevano annegato anche il grande Ramus. Ecco una coincidenza di date più interessante del primo compleanno di un marmocchio prematuro del Württemberg, non ti pare?».

«Per pietà, maestro, basta divagare, ve ne supplico!».

«Hai ragione. Ti sono grato di riportare sulla retta via il cavallo imbizzarrito della mia niente. Dov'ero rimasto? Sì... Tycho, ancora Tycho, sempre Tycho! Quanto mi pesa! Mi distrugge! Peggio morto che vivo».

«Lo odiavate tanto?».

«Chi parla di odio? Non c'entra niente, anche se avrei qualche motivo di risentimento nei suoi confronti. Ma no, è... la sua stupidità. È morto in modo scemo, trattenendo volontariamente l'urina. E ha vissuto in modo scemo, trattenendo le osservazioni nei forzieri con la stessa ostinazione del liquidi nella propria vescica».

«Strano elogio funebre, maestro, che Jessenius non si sarebbe mai degnato di pronunciare».

«Però qualche perfidia nel mio stile ce l'ha infilata. Ma dov'ero rimasto?».

«A Tycho e all'ottica».

«Ah, sì. Tycho e l'ottica. Beh, le sue tavole sulla rifrazione sono perfette, precise come ogni altra cosa prodotta da lui. Sono uno strumento formidabile per rilevare la posizione effettiva dei pianeti, anziché quella apparente. Ma credi abbia reso il minimo omaggio ad Alhazen o Vitellione? Quando mai! Eppure metteva ovunque statue e ritratti di Tolomeo, Ipparco e Copernico, peraltro orrendi. "Io, Tycho", "Ego, ego ego!", di bocca non gli usciva altro. Un giorno gli ho chiesto, con aria volutamente stupida: "Chi è questo signor Ego di cui parli sempre? Mi sembra un gran sapiente in ogni campo". Be' non ha capito l'ironia, ha risposto di essere lui, l'Ego in questione!». Keplero assaporò per un momento la propria battuta, forse apocrifa. Non mentiva mai, se non per far ridere il suo uditorio. «Nel frattempo io, ego Keplerus, che non avevo mai studiato ottica perché il mio maestro Maestlin non ci vedeva alcun interesse, ho avuto occasione di impegnarmici in occasione di uno dei miei numerosi soggiorni in quella nuova Alessandria rappresentata dalla sempiterna capitale della Stiria. Io, ego Keplerus, e Tycho avevamo deciso di osservare, lui da Praga io da Graz, l'occultazione del Sole dell'anno milleseicento. Ne ho composto un saggetto, un modesto studio sulla camera oscura come simulazione di eclissi, in cui ho cercato di risolvere l'apparente diminuzione della circonferenza lunare nel momento in cui passa davanti all'astro del giorno. Quando Tycho lo ha consultato, ho temuto gli venisse un attacco. Invece l'ha presa bene, mi ha anche canzonato per il mio interesse improvviso in fantasticherie luminose. Tuttavia non ha menzionato né Alhazen né Vitellione, e neppure i suoi stessi lavori. Se quel ghiottone fosse sopravvissuto, ne sono convinto, si sarebbe appropriato anche del mio piccolo saggio».

«Gli attribuite certe intenzioni...».

«Gli attribuisco anche lodi. E Tycho non mancava di motivi per essere lodato. Ne ha accumulati per tutta la vita, senza domandarsi a cosa potessero servire, senza sapere come metterli a frutto. Ebbene, io, ego Keplerus, lo so. Ma affrontavo il problema dalla parte sbagliata. Bestia da soma che sono!

Pensavo bastasse ordinare quella considerevole quantità di osservazioni e oplà, l'universo ci sarebbe apparso in tutto il suo splendore. Avremmo infine scoperto il percorso esatto io di Marte, tu della Luna. Così ogni parte della creazione si sarebbe incastonata una nell'altra. Il Grande Architetto ci offre, a Tycho, a me, all'umanità tutta, di ricostituire come in un gioco il grande tempio della natura eretto da lui».

«Un gioco?».

«Un gioco, sì! Ti prego, non tentare di portarmi sul terreno della teologia. La situazione è già abbastanza difficile da spiegare di per sé. Bene, cosa ha fatto Tycho per ricostruire quel tempio? Si è accontentato di ammucchiare alla bell'e meglio mattoni, tegole, travi, marmi, stucchi e depositarli in una cascina ben chiusa. Certo ha fabbricato per questo strumenti all'avanguardia; ma i suoi sestanti, gli ottanti, orologi e compassi sono come altrettanti bilancieri, piatti, pulegge e carriole, una volta portato il materiale non servono a niente. Per costruire il tempio ci vogliono altri attrezzi. E per il momento ne vedo uno solo, per fabbricare il quale non c'è affatto bisogno di ottone, cuoio o essenze preziose, né di renderlo più grande di quanto facessero gli antichi, alla maniera di Tycho. Questo strumento primario con cui l'Eterno ha costruito tutto è qui, ovunque...». Con le mani sempre inguantate per nascondere le cicatrici del vaiolo, a causa del quale a sette anni per poco non moriva, si mise a palpare l'aria quasi volesse afferrare invisibili mosche. Dopodiché declamò, in una specie di rapimento: «Dio disse: "Sia luce!". E la luce fu». Poi, in un tono meno magniloquente: «Una luce, mio buon Matthias, che dalla sua origine si spande in ogni direzione, come un flusso, fino all'infinito per mezzo di raggi in linea retta...».

Seiffart si riteneva un giovanotto posato, le esaltazioni di Keplero lo mettevano in imbarazzo tanto quanto il suo modo caustico di deridere ogni cosa.

«Se ho capito bene, maestro, vorreste lasciar perdere la classificazione del "tesoro di Tycho", contereste di far aspettare Sua Maestà per le Tavole rudolfine che gli avete promesso, insomma mi chiedete di lasciar perdere la Luna mentre voi abbandonate Marte, per dedicarci ai fenomeni ottici...».

«Chi ha detto di abbandonare alcunché? In natura tutto si tiene, come gli ingranaggi di un orologio si sospingono a vicenda. Ormai mi propongo di esaminare l'intero meccanismo, non solo alcune molle. Su, al lavoro, al lavoro Matthias!».

«E dire che solo un minuto fa trattavate il povero Tycho di ghiottone!» sospirò l'assistente.

«Lui si rimpinzava e si ubriacava alla tavola degli dèi; io, mio caro, gusto il nettare offertoci dalla natura».

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9.



Partii dunque per Venezia. La Serenissima aveva perso il prestigio di un tempo, ma manteneva la fierezza e il vigoroso senso di indipendenza. Quella vecchia mercantessa scaltra intimidiva i lanzichenecchi tedeschi e impauriva i monaci spagnoli senza il minimo imbarazzo. Quei rozzi non si azzardavano ad abbordare la città galleggiante, troppo complessa per le loro menti ottuse. Troppo complessa e soprattutto colpita da interdizione papale, il doge Renato era sotto scomunica. Paolo V, romano e Borghese, aveva preteso dal Consiglio il non assoggettamento alla giurisdizione della Serenissima per tutti i suoi preti. La risposta del doge non si era fatta attendere: non solo rifiutava, ma proibiva agli ecclesiastici di acquistare nuovi beni fondiari nel suo territorio. Prima veneziani e poi cristiani. La disputa aveva certo ben poco di religioso, ma dopotutto anche Enrico VIII d'Inghilterra, a suo tempo, aveva fondato una Chiesa per motivi di donne, no?

Venezia mi piaceva. Sembrava costruita per il viaggio, la diplomazia, il commercio e i piaceri; insomma per me. Sui suoi canali, lungo le banchine, sopra i ponti e le passerelle, nelle sue calli strette, si sentiva un perenne, sottile pericolo in agguato, a speziare una vita già piccante di per sé. Mi piacevano anche i rischi, ma senza correrne troppi, era mio compito. A Keplero e Galileo non piacevano, ma ne correvano, era loro dovere.

«Ma insomma cosa vi prende, a tutti voi inglesi, di scassarmi i timpani con il vostro matematico imperiale? L'anno scorso il vostro compatriota Bruce è venuto a farmi la morale rimproverandomi di insegnare Tolomeo e tutti i vecchi barbosi aristotelici, invece di Copernico rivisitato dai poliedri di Keplero. E adesso voi volete conoscere la mia opinione sul suo trattato di ottica. Non siamo a Praga né a Londra, qui, da poter dire e scrivere qualsiasi cosa su qualunque argomento! Siete a Venezia, signor mio, terra di invidia e gelosia, di complotto e delazione».

A proposito di Venezia, Galileo mi aveva portato nel giardino botanico della facoltà di medicina di Padova, a tre leghe dalle orecchie indiscrete sui canali. Qui tutto era pace; l'aria profumava degli odori forti e zuccherini di fiori sconosciuti; mi sentivo trasportato sull'isola di Utopia cantata da Tommaso Moro. Vero era però che, quando pochi giorni prima ero andato a presentare le mie credenziali alle autorità veneziane, avevo percepito nel Palazzo Ducale, nella sua stessa concezione architettonica, dietro la levità sorridente del personale al suo interno, un'atmosfera di pesante sospetto nei confronti di uno straniero par mio. Non perché nemico, ma in qualità di emissario di un'impresa concorrente. Non avevano torto.

Galileo non possedeva, nell'aspetto e nel comportamento, nulla di un faccendiere della Serenissima. Peraltro era toscano. Di costituzione robusta, largo di spalle, faccia scabra e angolosa, sembrava fatto più per la guerra che per gli studi. Infatti aveva il tono forte del soldato, l'imprecazione facile e l'andatura ondeggiante. A quarant'anni suonati i capelli gli erano divenuti ormai bianchi, ma la barba tagliata corta lasciava intendere che era stato rosso. Ad ascoltarlo brontolare a quel modo pensavo che la natura si fosse sbagliata: Keplero avrebbe dovuto nascere in Italia, Galileo in Germania.

«Certo – continuò – nell' Ottica ci sono cose buone, e anche nel Mysterium cosmographicum. Idee... Ma tutto quel confuso andirivieni tra geometria e metafisica... Cosa importa a me se un cerchio è più perfetto di un quadrato? Il cerchio e la sfera sono perfetti per avviare una carrozza e giocare a palla, mentre il quadrato e il cubo sono ideali per costruire un muro e lanciar dadi. Si proclama fisico, allora perché non si limita alla sola physis, alla sola natura? Cosa bruca a fare nel campo della teologia? È proprio da teutonici riformati! Noialtri cattolici romani lasciamo a Cesare quel che è di Cesare».

E invocò il nome di Dio invano, con una bestemmia tale da non poterla riprodurre qui nemmeno per uno stomaco forte come il mio. Sarebbe stato facile considerare Galileo una di quelle persone convinte che il mondo intero fosse coalizzato contro di loro e votato alla loro rovina, tanto lungo era l'elenco dei suoi presunti nemici. Ma siccome ho incontrato un buon numero di matematici e astronomi presso le principali facoltà italiane, ho potuto constatare che in confronto a Padova e Bologna le nostre Oxford e Cambridge filano d'amore e d'accordo.

Giovanni Magini, il famoso professore della non meno rinomata università di Bologna, era il più accanito dei suoi avversari. Eppure nulla avrebbe dovuto contrapporli, almeno nell'ambito della filosofia della natura, poiché erano entrambi copernicani acclarati. Il loro odio reciproco derivava in parte dall'antica rivalità fra le università di cui erano impiegati. Ma soprattutto, sia Galileo sia gli altri studiosi consideravano le loro scoperte e invenzioni come loro proprietà, sui cui benefici avevano diritti esclusivi. Diritti esclusivi per loro e le città che generosamente li pagavano. Non era solo la gloria per essere arrivati primi a spingerli a lottare in quel modo, come un tempo Tycho quando aveva accusato Nicolaus Ursus di avergli rubato la teoria astronomica, ma anche la sete di guadagno. Gli insulti fioccavano, i pamphlet si moltiplicavano; con vocabolario e argomentazioni ben lontani dalla poesia di Boccaccio e Orazio!

Galileo non era certo il meno virulento. Aveva subito risposto al trattato con cui Capra si era ascritto la paternità del compasso proporzionale: « ... invido inimico [...] di tutto 'l genere humano ... non essendo al mondo altro schermo contro 'l veleno di questo Basilisco ... i critici, che sempre in guisa di rapaci avvoltoi stanno sulle ali apparecchiati per buttarsi addosso ai parti novelli [...], le cui tenere membra [...] sotto l'amato caldo del paziente padre venivano ancora covati...» e altre amenità della stessa specie.

«A ogni modo – gli dissi mentre uscivamo accaldati dalla serra tropicale – mi sembrano insulti esagerati contro quanto si può al massimo definire una grossolana mancanza di tatto».

«Eccovi qua, voialtri inglesi. Chiamare "mancanza di tatto" questo furto bello e buono, questa bassezza! Quel cane scodinzolante è andato a depositare il mio compasso ai piedi dei suoi padroni spagnoli».

«E se vi dicessi che Capra, a me sconosciuto, è stato solo un burattino in mano a un tedesco a me invece ben noto...».

«Keplero?».

Scoppiai a ridere. Credere il mio amico capace della minima scorrettezza, anche solo per un istante!

«Ma no. Si tratta di Simon Mayr, alias Marius».

«Impossibile. Su richiesta del vecchio Maestlin ho aiutato e protetto quel ragazzo per tutta la sua permanenza qui. Era fin troppo maldestro nel dissimulare il suo credo riformato. Che andate cercando, signor Askew? Volete seminare la discordia tra Mayr e me, al pari del vostro compatriota Bruce con Keplero? Cos'è, una scommessa tra due ricchi inglesi oziosi? Giocate con la mia vita, signor Askew, sappiatelo. A quanto pare né a Londra né a Praga esistono monaci invasati pronti a squartarvi o a issarvi sul patibolo, come a Roma con il povero Bruno».

Aveva ragione: gente come me, Bruce e in misura minore anche Keplero viveva al riparo da grandi pericoli e non poteva quindi capire l'atmosfera di velata, ambigua minaccia che gravava sui teneri cieli azzurri delle colline toscane e sulle nebbie intente ad accarezzare languidamente i muri vermigli e ocra dei palazzi veneziani. Decisi di abbandonare ogni prudenza, gli raccontai con franchezza il conflitto di interessi tra me e Bruce, e cosa volevo da lui.

«Insomma – rispose brusco – mi chiedete di tradire non solo Venezia, che mi dà lavoro, ma anche la mia fede cattolica».

«Tradire... È una parola grossa. Non sareste il primo italiano a portare il genio della sua razza e i lumi della sua civiltà a popolazioni settentrionali come quella a cui appartengo, ancora preda delle nebbie della barbarie».

«Barbari! Tu guarda! Voglio esser franco anche io. Sotto sotto, la Chiesa della vostra nazione mi piacerebbe assai, in qualche punto mi pare anzi poggiare su quanto di meno peggio c'è nella mia, nella svizzera e in quella tedesca. E poi, per i tempi in cui viviamo la tolleranza sembra piuttosto di moda presso i monarchi del mondo. Perfino Sua Santità vi si è convertito. In maniera certo molto discreta, ve lo assicuro, e il più lontano possibile dalla lunga mano del Sant'Uffizio. Ma sapete meglio di me come in politica le opinioni cambino in maniera irrazionale. Basti vedere cosa accade a cattolici e puritani nella vostra stessa patria. Non ci sperate: a poter scegliere, preferisco i Piombi veneziani alla Torre di Londra. Eppure anche qui a Venezia mi sento straniero. Io sono toscano, sa, darei questo intero giardino di piante rare per le mie vigne e uliveti. Sarei felice di lasciare la grande università di Padova per l'umile facoltà di Pisa, mia città natale. Figuriamoci l'Inghilterra».

L'ulivo e la vigna. Galileo e Keplero. Come avevo potuto pensare anche solo per un attimo di poter trapiantare due uomini tanto pieni di linfa nella mia isola piovosa? Avevano radici troppo profonde. Bruce lo aveva certo compreso prima di me e non potendo trascinare né l'uno né l'altro in Inghilterra aveva deciso di renderli infecondi. Optai per una tattica diversa: cogliere i loro frutti ma con il loro accordo, senza inganni né violenze. Quale abile alchimista, dovevo mischiare il vino e l'olio, la forza di calcolo di Keplero, la sua miracolosa capacità di cavare l'essenza da un mondo di astrazioni, e il genio di Galileo nello spremere ben bene gli oggetti per costruire nuove macchine. Quei due erano di una complementarità assoluta. Dimenticai di botto di essere ambasciatore inglese e inviato segreto della Compagnia della Virginia e mi feci soltanto un uomo pieno di fiducia nell'umanità, a cui il caso, le circostanze, il destino o la provvidenza, non ha nessuna importanza, avessero dato la possibilità di giocare un ruolo sul futuro del mondo. Me ne infischiai della prudenza necessaria alla mia carica e proruppi:

«Dovete assolutamente conoscere Keplero».

Trasalì di fronte al mio entusiasmo. Si sedette su una panca di pietra davanti alla fontana al centro del giardino. Poi mi chiese:

«Keplero è sposato?».

«Sì, certo, ha due bei bambini».

«Anch'io ho dei bei bambini. Ma sposare la donna che amo mi è proibito. Sono considerato un chierico, dunque obbligato al celibato. Se lasciassi l'Italia, fosse pure per un breve periodo, niente e nessuno potrebbe salvare la mia famiglia. Il mio concubinaggio è tollerato, perlomeno a Venezia, in cambio dell'obbedienza, cioè che mi occupi di ingegneria bellica e non celeste. Ma se mi venisse in mente di scontentare i gesuiti o le famiglie di patrizi da cui ottengo protezione, se una mia frase maldestra venisse interpretata come contraria alla politica della Serenissima, mi ritroverei subito ai Piombi, con la mia dolce Marina in convento o al bordello. Quanto ai miei figli, almeno non avrei il dolore di vederli mendicare sui sagrati delle chiese».

Il suo discorso mi metteva a disagio. Mi sembrava un pesante rimprovero verso la mia posizione di diplomatico libero, ricco e scapolo, cui era permesso andare in qualsiasi paese di qualunque religione, protetto dal proprio status di ambasciatore. Mentre un Galileo o un Keplero, alle prese con innocenti idee incapaci di nuocere a principi e preti, vivevano sotto la perenne minaccia della scomunica, dell'esilio, del rogo. Con quale coraggio dipinger loro il mio paese come un'oasi di tolleranza, quando un domani quell'oasi poteva trasformarsi in un inferno? Con quale coraggio chiedere di gridare alto e forte le loro scoperte, ovvero spingerli al martirio, come alcuni avevano fatto con Giordano Bruno, che d'altronde non chiedeva di meglio? Lì per lì provai vergogna di me e delle mie imprese, mandai al diavolo tutte le compagnie di commercio del mondo, tutti i Bruce, tutti i Dunbar. Cosa avevo fatto nella vita? In cosa ero mai stato utile? Non credevo nella provvidenza, solo nel caso, ma avere conosciuto per caso due grandi menti come Keplero e Galileo, capii, essermi guadagnato l'amicizia dell'uno e forse la stima dell'altro, mi offriva la possibilità di dare un senso alla mia vita: fare da ponte fra loro, nient'altro. Il mio ruolo di diplomatico non consisteva forse nel creare legami?

«Il controllo di cui siete oggetto – domandai con sincera compassione – arriva a violarvi anche la corrispondenza?».

«Violare? Non ne hanno bisogno. Io stesso spalanco le sue cosce per loro! Leggo tutto quanto ricevo, tutto quanto spedisco, in amene riunioncine dove cardinali, gesuiti e senatori plaudono ai miei virtuosismi letterari e ridono dei miei motti di spirito. Se una mia lettera è indirizzata a qualche membro di una potente famiglia italiana, posso permettermi di lasciar trasparire alcune verità in odore di blasfemia, alle quali i dignitari all'ascolto ridacchiano con discrezione dietro i loro guanti inanellati, ma... Ecco, senta questa. Circa nove anni fa ricevetti il primo libro di un oscuro professore di matematica di Graz, astrologo dell'arciduca Ferdinando di Asburgo. Era il Mysterium cosmographicum del vostro amico Keplero. L'aveva affidato a un certo Paulus Amberger, inviato della Stiria presso la Serenissima. Per cui ero sicurissimo che l'autore di quella bomba copernicana fosse cattolico quanto me, altrettanto rispettoso dei comandi di Sua Santità...».

Fin dall'inizio della nostra conversazione Galileo ribadiva di continuo il suo credo papista. Qualcuno più diffidente di me avrebbe potuto trovare sospetta tanta insistenza.

Aveva ringraziato Keplero con l'affermazione di essere in pieno accordo con le teorie eliocentriche, ma lasciando intendere che quanto poteva liberamente venire espresso a Graz o a Praga andava divulgato con grande prudenza a Venezia e Roma. Keplero non capì il sottinteso e con l'entusiasmo della gioventù aveva chiamato Galileo alla crociata copernicana, quasi che il professore del prestigioso ateneo padovano fosse solo il timido discepolo del modesto insegnante di un piccolo collegio stiriano.

«Keplero mi ha dato da leggere una copia di quella lettera, prima della mia venuta in Italia» dissi. «Può aver ferito il vostro amor proprio, questo lo capisco, ma avreste almeno potuto rispondergli, non foss'altro per chiudere il becco a un ragazzino di venticinque anni, otto meno di quanti ne avevate allora voi, se non sbaglio».

«Rispondergli? E fare la fine di quel pazzo di Giordano Bruno? Ma non capite niente, Cristo di Dio! Quando sono stato costretto a leggerla in pubblico, uno degli astanti, mi pare fosse un gesuita, mi ha reso edotto del credo luterano di Keplero. Qualsiasi cosa gli avessi risposto sarei stato sbattuto negli archivi dell'Inquisizione in qualità di assiduo corrispondente con un eretico! Del resto, probabilmente ci sono già. Al minimo passo falso, quel paio di pezzi di carta serviranno ad accendermi il rogo».

Sarà stata la delicatezza dei profumi appena speziati della primavera veneziana? Non riuscivo a credere alla presenza di simili nubi di morte e tortura sopra quelle dolci contrade rosa e blu. Gli ricordai sommessamente le argomentazioni di pura astronomia contenute in quel breve scambio di lettere e l'appoggio fornito fin dall'inizio dalla Chiesa cattolica alle teorie di Copernico, al contrario di Lutero e Melantone.

«Per uno che dichiara di spiare ogni minimo cambiamento dei tempi, mi sembrate molto male informato, signor Askew» mi rispose un Galileo piuttosto sarcastico. «Copernico è stato oserei dire in odore di santità fin quando è risultato utile all'elaborazione del nuovo calendario. Ma da quando è stato collaudato e adottato da tutte le maggiori potenze mondiali a eccezione della...».

«Ahimè lo so! – risposi – Tuttavia non siamo pochi, in Inghilterra, a cercare di far intendere ragione ai nostri vescovi perché adottino infine il calendario gregoriano. Il re lo accetterebbe volentieri, ma troppe sette vi si oppongono. La stupidità non avrà frontiere, ma certo dispone di una miriade di cortili...».

Per un attimo, sotto le sopracciglia folte, il suo sguardo brillò di malizia. All'improvvisò sembrò perdere un po' di diffidenza nei miei confronti e proseguì:

«Da quando il calendario cosiddetto gregoriano si è imposto nei paesi cattolici e presso i filosofi della natura più ragionevoli, la Chiesa non ha più alcun bisogno di Copernico. Peggio, ne ha paura. Anzi, la imbarazza. Eppure se sapeste quanti vescovi, cardinali e canonici si sono dichiarati con me partigiani convinti del sistema eliocentrico. Ma intanto... Il Sant'Uffizio ha già fatto sparire ogni traccia scritta del suo lungo soggiorno italiano. Non si deve sapere, deve restare fra noi. Fra noi! Per la verginità di Maria, che ipocriti! Sotto quale aspetto un Copernico, un Keplero, un Galileo sarebbero dei loro? Su una cosa però hanno ragione: fin quando non vi sarà una dimostrazione fisica o matematica che la terra gira intorno al Sole e su se stessa, questa resterà solo un'ipotesi tra le altre, per di più con la sfortuna di risultare contraria ad Aristotele e alle Sacre Scritture. Bisognerebbe prendere una delle macchine volanti di Leonardo e andare lassù, a vedere come funziona in realtà...».

«Lassù, dite? Buffa coincidenza! Keplero, con il suo fare ironico, mi ha detto una volta di essere stato su Marte per determinarne l'orbita».

Galileo storse la bocca e disse acido:

«La sua carica di matematico imperiale, vedo, gli lascia molto tempo libero. Non ho altrettanta fortuna. E cosa avrebbe riportato, dalla spedizione?».

«Un'orbita marziana ellittica o ovoidale, è ancora incerto, o finge di esserlo. Quel diavolo d'uomo, ne sono sicuro, prepara un altro capolavoro ancor più grandioso della sua Ottica».

«Un uovo. Divertente... Tolomeo, Copernico e Tycho vi troverebbero collocazione. Ma non Pitagora, Euclide né Aristotele. La fisica, signor Askew, la fisica, non esiste altro. Tutto il resto è fumo. Frutto dell'immaginazione, come la sua passeggiata su Marte. Io voglio vedere da qui, con i piedi ben piantati in terra, cosa succede lassù. Voi che girate per tanti paesi, avete mai sentito parlare di un certo tubo dotato di lenti con cui si ingrandirebbero gli oggetti?».

Ebbi la netta sensazione che sapesse benissimo di cosa parlava, mi ricordava un contadino scaltro intento a tirare sul prezzo.

«La lente telescopica? Certo, ne ho una in valigia. Tra l'altro, volevo proprio chiedervi di esaminarla. La vostra fama di meccanico è conosciuta ovunque e...».

«Keplero l'ha vista? Cosa ne pensa?».

Si morse il labbro, si era accorto con quella domanda frettolosa di avere dimostrato troppo interesse per l'opinione del collega tedesco. Trattenni un sorriso: malgrado la portata del loro pensiero, quegli uomini non la smettevano di comportarsi come collegiali. Se fossi stato un Bruce mi sarebbe stato facile aizzarli uno contro l'altro. Gli dissi quello che Keplero ci aveva spiegato a suo tempo sulla rifrazione della luce e sulle ulteriori alterazioni riconducibili a quell'apparecchio non molto affidabile.

«Ma non so se queste fossero le sole ragioni del suo rifiuto a esaminare il cannocchiale. Praga è immersa in un'assurda atmosfera di magia, superstizione e ciarlataneria, tale da rendere difficile restare con i piedi per terra. E poi... Vi sembrerà ridicolo ma quell'uomo, della cui amicizia mi lusingo, soffre di una vista pessima. Inoltre le sue mani deformi lo rendono chiaramente inadatto a tutto, fuorché alla scrittura».

Gli occhi di Galileo si riempirono di lacrime. Quell'orso aveva dunque un cuore. Balbettò:

«Mbeh, sì... E quando me lo mostrerà, questo apparecchio?».

«Non ve lo mostro, ve lo regalo. Ma vi prego, per la sicurezza di entrambi, di non rivelare il mio nome a nessuno, la consegna alla Repubblica di Venezia di un apparecchio forse utile alla guerra da parte di un diplomatico inglese sarebbe molto mal vista. Se non è tradimento, troppo gli assomiglia».

Mi afferrò le mani, la sua corazza rugosa si fuse come neve al sole:

«Ignoro le vostre vere intenzioni, signore, di certo avulse dall'amore per la filosofia, ma vi sarò sempre debitore, credetemi, per un simile dono. Da quanto tempo do la caccia a quella lente! Ne farò buon uso, statene certo, lo condividerò con Keplero e con il resto del mondo. Fra tre giorni un mio amico verrà a ritirare il vostro dono. Non vi stupite: il mio messo sarà un uomo di chiesa, buon cattolico quanto me».

Mi scoccò un buffo sorriso complice e con la sua andatura ondeggiante scomparve dietro un grande cedro del Libano. Per il momento ero molto soddisfatto del mio lavoro. Avevo vinto una manche contro Bruce, che da vero idiota aveva deciso di offrire il suo cannocchiale a Magini subendone il rifiuto. Mi ero guadagnato la fiducia di Galileo e il giorno in cui uomini liberi della tempra sua e di Keplero sarebbero stati costretti a fuggire, pensavo, non avrebbero trovato miglior rifugio della corona d'Inghilterra, a tutto beneficio dei nostri battelli stipati d'oro e spezie di ritorno da tutte le Indie, orientali e occidentali.

Invece, quando quei tempi di guerra, sangue e fanatismo arrivarono, quei due avrebbero preferito restare in mezzo alla tempesta, sotto la costante minaccia di miseria, prigione e rogo, ma a casa loro, nel loro paese. Ancora oggi, più di quarant'anni dopo, mentre scrivo queste righe ben coperto di fronte al camino nel mio maniero di Harlaxton, lontano dal suono degli stivali tedeschi, non riesco a capire.

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14.



A volte la Storia perde la testa, entra in ansia, va troppo in fretta. Tra l'approdo di Colombo sulle rive del Nuovo mondo e il ritorno sulle rive spagnole dei superstiti della spedizione di Magellano erano passati trent'anni. Appena dieci ne passarono tra l'affermazione di Amerigo Vespucci che le Indie occidentali erano per forza un nuovo continente e la loro prima rappresentazione cartografica per mano di Martin Waldseemüller. Un intervallo di tempo piuttosto corto, per sconvolgere la faccia della Terra.

Tra l' Astronomia nova di Keplero, apparsa a settembre del 1609, e il Nunzio sidereo di Galileo della primavera successiva passarono solo sette mesi; e altri sette perché Keplero attestasse senza ombra di dubbio le scoperte di Galileo, tramite l'invenzione di una nuova branca del sapere: la diottrica. Un anno e due mesi, quindi, per comunicare agli uomini l'assoluta disparità tra l'immenso universo come era e come loro lo vedevano, o era stato loro insegnato a guardarlo. La cosa più stupefacente fu che ciascuno dei due ignorava le scoperte dell'altro.

Quando nell'autunno del 1609 Georg Fugger, ambasciatore di Boemia a Venezia, consegnò a Galileo una copia con dedica dell'opera di Keplero egli, con le sue tipiche maniere spicce, promise al diplomatico di rispondere all'autore di persona, dopo avere letto il libro. Una risposta di singolare scortesia, che spiacque molto al diplomatico. Galileo aveva il dono di farsi odiare quanto Keplero di farsi amare.

L'uscita dell' Astronomia nova veniva a turbare Galileo in un momento assai importante per lui. Sapeva che il matematico imperiale, forte delle osservazioni di Tycho, si affannava da quasi dieci anni per determinare l'orbita di Marte. Nel leggere l'introduzione, e solo quella, capì che ci era riuscito. Si rallegrò in cuor suo per la conversione del collega alla fisica, il suo campo, anche perché fra quelle ellissi e le sue dimostrazioni sulla caduta dei corpi c'era più di un punto d'incontro, c'era un legame. Tuttavia l'italiano era al contempo esasperato e terrorizzato dal modo del tedesco di ironizzare sui dogmi aristotelici e i padri della Chiesa, a cominciare da sant'Agostino e fino al Sant'Uffizio. Facile scrivere in piena libertà, quando non si corre alcun rischio. Ma adesso, se Galileo si fosse azzardato a scrivere a Keplero anche solo un biglietto di ringraziamenti, un giorno avrebbe potuto pagarla con la galera, se non con il rogo. Soprattutto dopo il passo che si era deciso a compiere e di cui non poteva prevedere le conseguenze.

Due mesi prima, il 21 agosto 1609, Galileo aveva invitato in cima al campanile di San Marco importanti membri del Senato per mostrare loro la sua nuova invenzione, molto utile a sentir lui per la difesa di Venezia. I patrizi ne restarono entusiasti: attraverso un tubo di cartone con lenti capaci di ingrandire nove volte, si vedeva una piccola galea costeggiare l'isola di Murano come se fosse a poche braccia da palazzo Ducale. Se una flotta berbera si fosse spinta nel golfo, si sarebbe potuto dare l'allarme prima che arrivasse in vista di Chioggia. Il Senato non ebbe dubbi; due giorni dopo, a Galileo veniva assegnato un'ingente stipendio e la sua paga di professore a Padova risultava raddoppiata. Aveva quarantacinque anni; la compagna Marina gli aveva dato tre bei bambini e la repubblica di Venezia tollerava il loro concubinaggio, purché restasse discreto; godeva della stima del doge; la sua fama di meccanico era ormai consolidata, l'Accademia dei Lincei lo aveva appena ammesso fra i suoi; pensava di non avere nemici, solo invidiosi e plagiari.

Il suo migliore amico era un frate, un uomo influente. Paolo Sarpi aveva osato tenere testa a Roma in nome della Serenissima, guadagnandosi così alcune coltellate una sera in cui usciva da Santa Apollonia per recarsi al Consiglio dei Dieci, di cui era membro. Sarpi sopravvisse per miracolo a quelle ferite. Continuò nella sua battaglia, ma da quel giorno Galileo, credendosi anch'egli in pericolo, ebbe un solo desiderio: abbandonare Venezia e tornare nella sua cara Toscana. Quanto a Sarpi, non smise mai di cercare di dissuaderlo: fu lui a organizzare la famosa riunione in cima al campanile di San Marco da cui il mondo dell'astronomia sarebbe risultato sconvolto. Per parte sua, quel 12 agosto 1609, Galileo salì molto controvoglia le scale del celeberrimo campanile.

Da svariati anni la lente per ingrandire era conosciuta un po' ovunque, di solito in qualità di "magico divertimento" alle corti di Francia e di Praga. Gli olandesi l'avevano inventata, ma abbandonandone ben presto gli impieghi militari e navali perché il tubo offriva una visione troppo limitata. Come si fa a capire i movimenti di truppe nemiche, quando si vedono solo alcuni soldati che giocano a dadi sopra un tamburo? In Inghilterra il mio amico Thomas Harriot l'aveva sì rivolta verso la luna, ma la cattiva qualità delle lenti non gli aveva permesso di trarre nessuna conclusione sulle forme e le ombre irregolari notate anche da lui. E poi il vecchio oxfordiano era mediocre meccanico quanto ottimo matematico. Non mi azzardo a dire il contrario su Galileo, ma quando gli donai l'apparecchio da me battezzato "telescopio" non ebbi bisogno di avvertirlo della sua scarsa affidabilità. Inoltre aveva dalla sua i migliori vetrai del mondo, quelli di Murano.

Costruì subito un nuovo modello perfezionato per tentativi, moltiplicando le prove, aggiungendo vetri concavi e convessi per poi toglierli di nuovo senza mai chiamare in aiuto la teoria. Il libro d'ottica di Keplero giaceva in biblioteca ad accumulare polvere. La dimostrazione sopra piazza San Marco aveva dunque portato a un prototipo stabile. Il Senato lo lasciò libero di sfruttare la sua invenzione come meglio credeva. Non se lo fece ripetere due volte e diede incarico al vetraio di Murano con cui collaborava di fabbricare una sessantina di telescopi, molti dei quali di qualità assai inferiore, che si disseminarono un po' per tutta l'Italia. Non si diede neppure la pena di pubblicare una descrizione dell'apparecchio per rivendicarne la paternità. Ne costruì un altro ancora, con estrema cura, perché ingrandisse fino a venti volte. Soddisfatto del risultato, tornò a Padova da professore puntuale e zelante per la riapertura dell'anno accademico. E li, lontano da nebbie lagunari e sguardi indiscreti, rivolse il tubo verso il cielo.

Nessuno è più distaccato di un meridionale freddo. Nessuno è meno espansivo di un italiano cupo. Non sapremo mai cosa provò Galileo quando, nell'esaminare più e più volte la linea di divisione tra giorno e notte lunare, da lui chiamata «terminatore», constatò una superficie della bianca Selene niente affatto tersa e uniforme al pari di una palla d'avorio, come si affermava fin dai tempi di Aristotele. Al contrario, ci vide l'ombra di immense montagne acuminate, che si stendevano su quelli che sembravano oceani in tempesta. Emise anche solo un gridolino di stupore quando la Via Lattea, il lungo strascico bianco che si credeva la scia di una cometa, si sgretolò in mille stelle, mentre quelle della spada e dello scudo di Orione diventavano legione? Intonò un peana a Copernico, quando intorno a Giove apparvero e disparvero una, due, tre e infine quatto stelline, come tante lune intorno a un'altra terra? Rientrò, all'alba di un Natale, alla casa veneziana di Marina per confidare con voce tremante di entusiasmo all'orecchio della sua compagna ancora nel dormiveglia il suo straordinario viaggio fra le stelle? Nessuno lo seppe mai, o se qualcuno lo seppe, magari il suo assistente e quei pochi amici a cui chiese di confermare le sue scoperte, non disse mai nulla. Forse non c'era niente da dire.

Passò buona parte delle notti di quell'inverno con l'occhio incollato al suo tubo. Non come un marinaio, piuttosto come un colono. Non viaggiava fra le stelle, le delimitava.

Il 5 marzo 1610 venne pubblicato da diversi tipografi veneziani un piccolo "in ottavo" di ventiquattro pagine, in cui si descrivevano senza fronzoli quelle fondamentali scoperte: il Nunzio sidereo o, come diremmo forse oggi, "Il messaggero astrale". Il messaggero era ovviamente Galileo. Ma per una sottigliezza del latino nuncius nel diritto romano ha anche il significato di "notifica di divorzio". Divorzio dall'antico ordinamento astrale, divorzio da Tolomeo e Aristotele, ma anche, chissà, dalla repubblica di Venezia.

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Di soluzione gliene arrivò un'altra, e non da poco. Il suo amico Jost Bürgi, orologiaio dell'imperatore, e Henry Briggs, professore a Oxford con cui era in corrispondenza, gli avevano fornito uno strumento prezioso: il calcolo logaritmico. Keplero non era matematico da incupirsi se un altro inventava qualche metodo per facilitare i calcoli, al contrario: secondo lui, più le cose diventavano semplici, più erano belle e si avvicinavano alla volontà di Dio.

Grazie dunque ai logaritmi, di cui non si sapeva se fossero invenzione dello scozzese John Napier, scomparso da poco, o di Bürgi, rimasto a vivere a Praga, eresse quella che considerava la principale costruzione del suo tempio al creato: l' Armonia del mondo. L'ultimo dei cinque libri di quest'opera era anche il solo dedicato all'astronomia, mentre i primi si occupavano di altri grandi campi del sapere così come li concepivano gli antichi filosofi, ma arricchiti e illuminati dalle scoperte moderne: poligoni regolari, figure congruenti, proporzioni armoniche in musica, architettura, metafisica e perfino psicologia!

Nel proemio lanciava un grido di vittoria assolutamente immodesto. Accennava all'ispirazione da cui era stato preso venticinque anni prima, quando ancora non aveva scoperto il Mysterium cosmographicum, poi raccontava la ricerca forsennata della realtà fisica nell' Astronomia nova, nove anni dopo, e infine scriveva: «Sì mi abbandono al sacro furore, sì sfido gli uomini con questa confessione ingenua: io rubo i vasi d'oro degli egiziani per farne un tabernacolo al mio Dio lontanissimo dai confini dell'Egitto. Se mi perdonate, me ne rallegrerò. Se vi irritate, pazienza. Ecco lo faccio, scrivo un libro per i miei contemporanei o per i posteri. Non mi interessa. Può aspettare un lettore cento anni. Dio ha atteso un testimone per ben seimila».

Aveva scoperto la musica delle sfere celesti. L'aveva ascoltata. Ne dava testimonianza. Dio aveva creato un universo in cui musica e geometria si accordavano in un concerto sublime ed eterno, dentro una non meno sublime ed eterna scenografia. Era solo questione di prospettiva, di dove lo spettatore si situava e di cosa era venuto a vedere e ascoltare. Se cercava la divina verità, doveva chiudere gli occhi e immergersi in se stesso: avrebbe contemplato allora i pianeti muoversi su poliedri perfetti, ciascuno dotato del suo accordo armonico.

Quel tempio eretto da Keplero dopo venticinque anni era diventato così un teatro. Ma senza perdere il carattere labirintico, in cui guidava pazientemente il lettore spiegando di esservisi perduto a sua volta, nonostante ne fosse l'architetto. Le potenti canne dell'organo attraverso cui risuonava l'armonia del mondo ogni tanto si acquietavano in modo da lasciar sentire la musichetta maliziosa di cui spesso erano disseminati i suoi scritti: bisognava ricordare al lettore che se voleva capire il funzionamento di quel meccanismo miracoloso, se voleva vedere dietro le quinte, doveva ammettere in primis che le orbite di tutti i pianeti sono ellissi di cui il Sole occupava uno dei fuochi, e poi che le aree attraversate dal vettore che va dal centro del Sole al centro dei pianeti sono proporzionali ai tempi impiegati a descriverle. Allora, e solo allora, sarebbe stato pronto ad accogliere la suprema legge, appena scoperta da Keplero e da lui così enunciata:

«L'8 marzo dell'anno 1618, se si vuole la data precisa, la legge mi si è affacciata in testa. Ma l'ho scartata, credendola falsa per un errore di calcolo. Tuttavia mi tornò il 15 maggio e con un nuovo assalto conquistò le tenebre della mia mente, tanto era conforme ai miei lavori degli ultimi diciassette anni sulle osservazioni di Tycho e a quelli attuali. È dunque certo e del tutto esatto che la proporzione da cui sono uniti i periodi di rivoluzione di ogni coppia di pianeti è esattamente la sesquialtera delle loro distanze medie dal Sole».