Copertina
Autore Jean-Pierre Luminet
Titolo La parrucca di Newton
EdizioneLa Lepre, Roma, 2011, Visioni , pag. 408, ill., cop.fle., dim. 13,5x21x3,2 cm , Isbn 978-88-96052-50-1
OriginaleLa Perruque de Newton
EdizioneLattès, Paris, 2010
PrefazionePiero Bianucci
TraduttoreValentina Palombi
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe narrativa francese , biografie , storia della scienza
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Indice


  9 L'alchimista delle stelle
    di Piero Bianucci


    Figlio di nessuno

 23 Capitolo primo           Il bastone di Euclide
 39 Capitolo secondo         Il taciturno studente di Grantham
 61 Capitolo terzo           Primi passi a Cambridge
 83 Capitolo quarto          Anni mirabiles
 97 Capitolo quinto          I pazienti calcoli di un bachelor


    Le nozze chimiche

117 Capitolo sesto           L'eletto
141 Capitolo settimo         Professore lucasiano
157 Capitolo ottavo          Che la luce sia!
177 Capitolo nono            Il nano e i giganti
193 Capitolo decimo          Brutta spirale e benauguranti comete


    Il gigante senza spalle

215 Capitolo undicesimo      La scommessa
239 Capitolo dodicesimo      Principia
257 Capitolo tredicesimo     Passa un angelo
285 Capitolo quattordicesimo Rotture


    Sotto la zampa del leone

305 Capitolo quindicesimo    Una nuova vita
319 Capitolo sedicesimo      Alla Zecca
341 Capitolo diciassettesimo Un tiranno alla Royal Society


367 Epilogo

    Appendice
383 Indice dei principali personaggi
    I giganti del passato, 385
    I contemporanei di Newton, 389

405 I sistemi del mondo da Copernico a Newton


 

 

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Pagina 9

L'alchimista delle stelle
di Piero Bianucci



Jean-Pierre Luminet è un personaggio poliedrico. Astrofisico, ha esordito nel 1979 con lavori originali sui buchi neri. Cosmologo, ha proposto un modello di universo con dimensioni finite ma senza bordi. Critico d'arte, studia le connessioni tra estetica e scienza. Scrittore, pubblica libri di divulgazione, poesie, romanzi. Storico della scienza, nel 2006 ha iniziato una serie di biografie degli astronomi che tolsero la Terra immobile al centro delle sfere celesti e ne fecero un pianeta come gli altri in orbita attorno al Sole: partito nel 2006 da Copernico, ha poi raccontato Tycho Brahe e Keplero (2008), Galileo Galilei (2009), infine Isaac Newton. Il suo editore francese, Lattès, ora ne ha fatto un unico poderoso volume di 1640 pagine sotto il titolo I costruttori del Cielo.

Molto diversi per carattere e vicende umane, ognuno dei cinque scienziati fondatori della scienza moderna offre spunti romanzeschi.

Copernico , con le sue esitazioni, covò per mezzo secolo il sistema eliocentrico e il libro della sua vita, il De Revolutionibus vide la luce mentre lui chiudeva gli occhi; una prefazione anonima ne svalutava il messaggio, ma lui stesso sapeva che neppure il sistema eliocentrico descriveva fedelmente i moti planetari.

Tycho Brahe , con il suo naso finto che copriva una mutilazione subita in duello, fu un osservatore infaticabile, il più grande dell'era pre-telescopica, ed escogitò una cosmologia di compromesso che cercava — invano — di mettere d'accordo Tolomeo e Copernico.

Keplero , con i suoi oroscopi e la madre fattucchiera, usando come un sonnambulo i dati pazientemente raccolti da Tycho, attraverso una cervellotica cabala geometrica scoprì le orbite ellittiche e dettò le leggi del moto dei pianeti.

Galileo , con la sua ironia, il gusto della polemica e un debole per le belle donne, inaugurò le osservazioni al telescopio, scoprì nuovi mondi, dilatò enormemente gli orizzonti, ma non si rassegnò mai alle orbite ellittiche; in questo, rimase pervicacemente tolemaico.

Infine Newton , che riassume in un paio di righe l'avventura intellettuale iniziata da Copernico: "due corpi si attraggono con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza".

La geniale sintesi di Newton aveva avuto tanti precursori. William Gilbert (1544-1603), studioso del magnetismo, e Keplero avevano immaginato che una forza magnetica regolasse il moto dei pianeti. L'italiano Alfonso Borelli (1608-1679) seguì le intuizioni di Keplero ma fece un passo oltre, sostenendo che le orbite sono il risultato di due forze opposte, una di attrazione verso il Sole e una che tende ad allontanarli. Per spiegare il moto dei pianeti, il francese Descartes (Cartesio) ipotizzò che essi fossero trascinati da "vortici rotanti". Anche il fisico olandese Christiaan Huygens affermò che la stessa forza che fa cadere i corpi al suolo attrae i pianeti verso il Sole e giunse a intravvedere che l'intensità della forza diminuisce con l'inverso del quadrato della distanza.

L'architetto e astronomo Cristopher Wren (1632-1723), Edmond Halley e Robert Hooke — irriducibile rivale di Newton — si avvicinarono più di tutti gli altri alla soluzione intuendo la legge dell'inverso del quadrato. In particolare Hooke nel 1674 aveva scritto in modo esplicito che la Luna tenderebbe a muoversi in linea retta se non glielo impedisse una attrazione esercitata dalla Terra decrescente con il quadrato della distanza. La cosa funzionava per orbite circolari. Nessuno dei tre però seppe elaborare una teoria completa e darne una dimostrazione in accordo con le osservazioni, cioè con la forma ellittica delle orbite planetarie.


Quello di Newton fu un puro volo della razionalità? La risposta è no. Un no secco. Paradossalmente, Galileo era troppo razionale per ammettere che due corpi celesti agissero a distanza l'uno sull'altro senza contatti fisici. Ci voleva la mentalità magica e religiosa di Newton per accettare che l'ordine cosmico fosse affidato a una forza invisibile, misteriosamente regolata da un'equazione.

Newton coltivò l'alchimia e la teologia come la fisica e l'astronomia. L'alchimia occupò lo scienziato per decenni a tempo pieno, tanto che divenne calvo per l'avvelenamento da mercurio e zolfo respirati nelle pratiche esoteriche. La teologia condusse Newton all'ossessione di stabilire una cronologia universale dei grandi eventi dell'umanità con tanto di calcolo dell'anno della fine del mondo, identificato nel 2060 sulla base dei dati biblici. Non ne siamo lontani: i ragazzi di oggi potranno verificare la previsione.

L'acutezza della sua analisi (dopotutto Newton era Newton anche quando faceva il teologo) finì con l'indurlo a convinzioni non ortodosse sulla Trinità, vicine all'eresia unitariana. Così, proprio lui che aveva studiato e tenuto cattedra al Trinity College, divenne un demolitore della Trinità: in un saggio inviato al filosofo John Locke e rimasto inedito sostenne che il dogma trinitario è una tardiva invenzione della Chiesa e Gesù Cristo non è pienamente partecipe della natura divina.

Questo "segreto" fu custodito gelosamente, ma è emerso dalle cosiddette "carte di Portsmouth", conservate in un baule che fu a lungo sottratto agli storici per non intaccare l'immagine dello scienziato. Tra gli studiosi delle "carte di Portsmouth" è stato il famoso economista Lord Maynard Keynes , che nel 1936 le acquistò per darle all'Università di Cambridge. A proposito delle pagine alchemiche e teologiche, Keynes ha osservato: "A partire dal diciottesimo secolo Newton fu considerato il primo e maggiore scienziato dell'età moderna, un razionalista, un uomo che ci insegnò a pensare lungo le direttrici di una ragione fredda e pura. Non lo vedo in questa luce. (...) Egli fu l'ultimo dei maghi, l'ultimo dei babilonesi, l'ultima grande mente che guardò il mondo con gli stessi occhi di coloro che cominciarono a costruire la nostra tradizione culturale un po' meno di diecimila anni fa".

Ma le Carte di Portsmouth non dicono tutto. Due mesi prima di morire, Newton bruciò vari scatoloni di documenti. Nessuno saprà mai che cosa contenevano.


La forma narrativa permette a Luminet di affrontare il Newton privato, che ebbe una personalità litigiosa, gelosie meschine, atteggiamenti vendicativi, ambiguità sessuali. Debolezze umane che si spiegano in parte con l'infanzia priva di affetti. Isaac venne alla luce già orfano di padre nel giorno di Natale del 1642 secondo il calendario giuliano allora in uso in Inghilterra. La sua era una famiglia contadina di Woolsthorpe, nella contea agricola di Lincolnshire. Il padre (anche lui di nome Isaac) si era spento tre mesi prima all'età di 36 anni dopo una malattia di cui non conosciamo la natura: il testamento parla di una infermità invalidante per il corpo ma non per la mente. Circolano pettegolezzi intorno al neonato. Si parla di una nascita prematura, e da alcuni indizi pare che il vero padre non fu quello anagrafico ma un soldato di ventura passato casualmente per Woolsthorpe. È certo invece che Isaac senior non sapeva né leggere né scrivere ma aveva ereditato un podere e un allevamento di bestiame che rendevano bene e così era riuscito ad acquistare il castello al centro di quei terreni. C'era più cultura nella famiglia della donna che aveva sposato, Hannah Ayscough: suo fratello era un canonico laureato a Cambridge. Sembra che Hannah fosse già in attesa di Isaac junior quando salì all'altare con Isaac senior. Di qui la storia della nascita prematura. Da adulto, lo scienziato retrodatò di un anno le nozze dei genitori, probabilmente per nascondere che il loro era stato un matrimonio riparatore e lui il "frutto del peccato". Se poi optiamo per la versione del soldato di ventura, la retrodatazione diventa ancora più spiegabile.

[...]

La vecchiaia di Newton fu accompagnata da una giovane, bella e chiacchierata nipote-governante: Catherine Barton. Ammirata da Jonathan Swift e da Voltaire, fu l'amante del cancelliere Charles Montagne, poi moglie di John Conduitt, parlamentare, direttore della Zecca e futuro biografo dello scienziato; rimasta vedova, si risposò nel 1740 all'età di 61 anni. Una forza della natura. Tra il vecchio mago-scienziato e l'allegra badante sbocciò un affetto bizzarro. Fu lei a salvare una cassa di documenti nascondendola nel granaio quando Newton, sentendo la fine vicina, si mise a bruciare tutte le carte che potevano essere compromettenti o offuscare la sua gloria.

L'esistenza di Newton si concluse il 20 marzo 1727, all'età di 84 anni. Il declino fisico non gli aveva risparmiato calcoli renali, dolori reumatici e l'umiliazione dell'incontinenza. Tre giorni dopo il trapasso il verbale della Royal Society registrò l'evento con questa frase gelida: "Essendo vacante la presidenza per la morte di Sir Isaac Newton, oggi non si terrà alcuna riunione".

Senza dubbio era ammirato, ma non amato.

È difficile definire l'operazione di Luminet. Il suo libro su Newton non è un romanzo, non è una biografia, non è divulgazione. È piuttosto, come lui stesso afferma, un'opera "di sensibilizzazione", un modo per comunicare ai lettori da un lato l'importanza del sapere scientifico, dall'altra l'umanità fragile di chi quel sapere costruisce. Con una costante: "Tutti gli scienziati — scrive Luminet — sono universalisti, in contatto con altre culture, tutti sono consapevoli di lavorare per il progresso dell'umanità. Così, una pagina dopo l'altra, il lettore scopre, insieme, le conquiste della scienza e l'avanzare di una idea d'Europa che sta formandosi".

Ce lo conferma un episodio simbolico. Vero o falso che sia l'aneddoto della mela che avrebbe ispirato a Newton la legge di gravitazione universale, per celebrare il 350° compleanno della Royal Society, la missione dello Shuttle STS 132, partita da Cape Canaveral il 14 maggio 2010, ha portato nello spazio un ramo rinsecchito del melo dal quale secondo la tradizione la mela si sarebbe staccata. Con il leggendario pezzo di legno, è andato in orbita anche un ritratto dello scienziato. L'albero e la mente responsabili della memorabile scoperta sono rimasti per 12 giorni in assenza di peso (ma non di gravità!). Paradossalmente, se il ramo fosse stato ancora in grado di portare frutti, da lassù non avrebbe potuto lasciar cadere nessuna mela.

(Torino, 15 agosto 2011)

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Pagina 23

Capitolo primo
Il bastone di Euclide



Isaac marciava lungo il grande viale che portava all'uscita del parco di Harlaxton, tenendo in spalla a mo' di moschetto il grosso bastone d'ulivo dal pomo d'avorio ingiallito che aveva ricevuto in dono da sir Askew, proprio come un fante che va in battaglia.

Secondo la leggenda, quel vetusto oggetto era stato usato da Euclide per tracciare le figure geometriche dei suoi teoremi sulla sabbia del lido di Alessandria. Diciotto secoli dopo, il "bastone di Euclide" era inspiegabilmente riapparso tra le mani di Paracelso, che si vantava di averlo ricevuto in dono da un mago babilonese. In seguito, lo stravagante dottore aveva incaricato un amico a lui particolarmente caro, il giovane Retico, di consegnarlo di persona al canonico Copernico nella sua torre-osservatorio in Polonia. Nella canna del bastone era stato occultato un antico manoscritto scampato in extremis all'incendio che aveva ridotto in cenere la grande biblioteca di Alessandria: L'ipotesi di Aristarco di Samo. In quel testo, che si credeva disperso, il geometra alessandrino aveva osato affermare che la Terra non era il centro dell'universo bensì un piccolo pianeta che ruotava attorno al Sole. Qualche anno dopo la morte di Copernico, Michel Maestlin, un discepolo di Retico, si era recato in pellegrinaggio presso l'osservatorio del canonico e aveva trafugato la reliquia ma poi, rimasto a corto di denaro lungo la strada per l'Italia, aveva dovuto venderla a un astronomo danese già molto noto, Tycho Brahe. Molti anni dopo, quest'ultimo, nel frattempo diventato matematico e astrologo dell'imperatore Rodolfo II, aveva affidato in punto di morte il bastone di Euclide al suo assistente e successore, Giovanni Keplero. Poco dopo si erano levati i venti della guerra dei trent'anni. Sospinto di città in città dalla tormenta che si era abbattuta sul Sacro Romano Impero germanico, Keplero fu soccorso da John Askew, a quel tempo inviato diplomatico con funzioni di spionaggio al servizio del governo inglese. Pensando di trovare prima o poi rifugio in Inghilterra, l'astronomo affidò a lui il bastone ma, prima di riuscire ad attraversare la Manica, morì di stenti dopo poche settimane lungo la strada di Ratisbona.

Askew non sapeva bene che fare di un oggetto di cui si sapeva indegno. Quel bastone era il simbolo della continuità del sapere e doveva essere passato in consegna a qualcuno che fosse in grado di proseguire la nobile opera degli antichi filosofi. Dopo Keplero, l'unica persona al mondo che sarebbe stata degna di riceverlo in eredità era Galileo che purtroppo in quel momento languiva nelle carceri dell'Inquisizione. Ci sarebbe stato Descartes ma l'esimio erudito era un diavolo di francese e in quel momento il regno d'Inghilterra non era in buoni rapporti con quello del giovane Luigi XIV. Così, il viaggio del bastone di Euclide si interruppe in un angolo della campagna inglese dimenticato da Dio e dagli uomini...

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Pagina 49

Il giorno successivo alla grande tempesta tirava ancora un forte vento ma i ragazzi raggiunsero ugualmente il loro campo di gioco preferito. Isaac propose loro una gara di salto in lungo e conquistò il primo posto. Sarebbe riuscito a conquistare anche la loro stima se non avesse avuto l'infelice idea di spiegare che aveva vinto solo perché aveva sfruttato la forza del vento. Così, gli altri si sentirono autorizzati a trovargli un altro difetto: Newton era anche un baro.

Ma Isaac non si diede per vinto. Per conquistare le loro simpatie decise di rendersi complice di uno dei tanti brutti tiri che i peggiori soggetti della città organizzavano ai danni di qualche vittima designata e, in particolare, di un povero idiota che viveva di pubblica carità in una catapecchia alla periferia di Grantham. Un giorno Isaac sorprese alcuni suoi compagni mentre confabulavano con fare sospetto nel cortile della scuola. Nessuno fece caso alla sua presenza perché era considerato meno che niente in questo genere di faccende. Stavano progettando di recarsi in una notte di luna piena davanti alla baracca di Zaccaria l'idiota, per spaventarlo a morte e provocare una delle sue spettacolari crisi di epilessia.

Dopo aver infilato la testa in un sacco provvisto di due fori per gli occhi, sette o otto monelli, alcuni armati delle lanterne costruite da Newton e altri di pentole e bastoni da usare a mo' di tamburi, si fermarono a qualche passo di distanza dalla stamberga. Poi cominciarono a battere sulle pentole e a gridare in tono minaccioso:

«Zaccaria, Zaccaria, la tua ora è arrivata. I servitori di Lucifero sono venuti a prenderti per condurti al palazzo del loro signore!».

Improvvisamente, nel terso cielo notturno risuonò una detonazione, poi un'altra e un'altra ancora. I ragazzi alzarono lo sguardo. Lassù in alto, proprio contro la luce della luna, un grande uccello bluastro dagli occhi fiammeggianti sparava petardi. Presi dal panico, i ragazzi fuggirono a gambe levate. Nascosto dietro a un cespuglio, Isaac incominciò ad arrotolare la fune del suo aquilone gridando a squarciagola: «Ehi, ragazzi! Non abbiate paura, sono io!» ma gli altri erano già scomparsi nell'oscurità.

Quando tornò a casa, si buscò dieci frustate dal farmacista che si era accorto del furto degli ingredienti necessari alla preparazione di polvere da sparo e petardi. Il giorno seguente, a scuola, il direttore gli inflisse la stessa punizione per indurlo a fare il nome di tutti i membri della spedizione notturna. In realtà, a Clark e Stokes non era sfuggito il lato comico della faccenda ma si erano sentiti in dovere di reagire con una certa severità perché a Grantham correvano strane voci sulle loro oscure pratiche alchemiche, condotte con l'aiuto del professor Babington e sotto lo sguardo del giovane prodigio. Quanto a Zaccaria l'idiota, non si sa quali furono le sue reazioni durante quel sabba notturno.

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Pagina 78

Quando arrivò nell'appartamento di Humphrey Babington, era ancora oppresso da quel senso d'angoscia. Ormai prossimo ai cinquant'anni, quel pezzo d'uomo magro e caustico aveva imparato a leggere, con i suoi penetranti occhi azzurri, ansie e pene sul volto dei suoi studenti. E i tratti non ancora induriti di Isaac erano incapaci di nascondere i sentimenti.

«Non avete una bella cera oggi, mio caro Newton. Non starete per caso covando una brutta febbre? Riguardatevi perché ho bisogno di voi. Ho intenzione di affidarvi incarichi molto più delicati quest'anno».

«No, maestro, no, sto benissimo e sono pronto a mettere tutte le mie forze al vostro servizio».

Babington cercò invano di intercettare lo sguardo sfuggente del suo segretario, domandandosi, come al primo incontro, se avesse a che fare con un pazzo o con un genio. In ogni caso, Newton aveva svolto i compiti che gli aveva assegnato in modo ineccepibile e con tanto zelo che ormai lo considerava indispensabile. Occorreva solo convincerlo a mostrarsi un po' meno brutale con la buona Maggie che, governante martire e amante delusa, al suo ritorno a casa gli si era gettata tra le braccia in lacrime. A ventun'anni suonati, Newton non aveva ancora nessuna esperienza in fatto di donne, Babington ne era certo.

«Ho un chiaro ricordo» disse infine «dell'inizio del mio secondo anno di università, benché siano ormai trascorsi più di vent'anni. I miei condiscepoli ed io eravamo finalmente liberi di leggere le opere di Descartes, Keplero e Bacon, e traboccavamo di entusiasmo, di voglia di apprendere. Ma il nostro ardore si spense durante la lezione inaugurale. Il mondo era cambiato ma Cambridge era sempre la stessa. E oggi?».

«Ahimè! Se la Terra gira attorno al Sole, secondo Galileo e Copernico, il Trinity College gira in tondo, secondo Aristotele e... Duport» sospirò Newton.

Babington accolse con una smorfia che ricordava vagamente un sorriso la battuta dello studente. James Duport era il regio professore di greco del college, il classico tipo del tradizionalista. Newton aveva infine dimostrato di avere un certo spirito.

«E ne avete parlato con i vostri amici?».

«Certo, e posso dirvi che la pensano come voi» mentì Newton pensando al leggero, fatuo Wilford.

«Alla mia epoca, per cercare di evadere da questo luogo di perdizione i giovani professori e gli studenti costituivano società segrete a volte un po' troppo fantasiose, a volte impareggiabili per la levatura dei loro membri, come, ad esempio, l'Invisible College, che Boyle, Hobbes e il nostro ammirevole Barrow fondarono qui e a Oxford. Con loro, la filosofia naturale poté finalmente fiorire».

«Mi state consigliando di imitarli, maestro?».

«Assolutamente no! Dopo la restaurazione della monarchia, la Chiesa d'Inghilterra è rientrata in forze nell'università e tiene sotto controllo qualsiasi innocente riunione che si svolga nelle camere o nelle taverne. A proposito, mi è giunta voce...».

«Rassicuratevi, maestro, si è trattato solo di tornei di scacchi o di dama».

«Forse, ma la cosa deve finire qui. Il consiglio ha l'espulsione facile negli ultimi tempi. E quest'anno sarà anche peggio. No, date ascolto a me, pensate solo allo studio».

«Mi aiuterete?».

«Posso darvi solo qualche traccia e libero accesso incondizionato alla mia biblioteca. Alla fine dell'anno in corso, valuterò la possibilità di raccomandarvi al professor Barrow. Per il resto... Siete un tipo brillante, signor Newton. Brillante ma arruffone. Anch'io ero così... Arruffone, intendo. I miei consigli si ridurranno quindi a una parola: metodo, signor Newton, metodo. E questo metodo dovrete trovarlo da solo. Bene. E se ora parlassimo un po' delle nostre faccende?».

Newton uscì di lì in uno stato di estrema eccitazione. Con le mani incrociate dietro la schiena fece tre volte il giro del portico senza rendersene conto, mormorando a mezza voce:

«Metodo dunque... Ma io non ne conosco che uno di metodo. Quello di cui ci riempiono la testa qui: la dialettica. Sì perché, no perché, dunque... Tesi, antitesi e sintesi. Sempre le stesse domande che prevedono le stesse risposte. Ebbene, ne porrò altre, io, di domande... Tanto per cominciare, che cos'è la filosofia naturale di cui Babington mi ha parlato poc'anzi? Essa consiste forse nell'interrogare la natura? No! La natura si nasconde. È lei a formulare domande. E sta a noi rispondere. Ma le sue sono veramente domande? No, si tratta piuttosto di fatti: la luce, il movimento... E prima di rispondere, bisogna osservare e poi sperimentare. Ecco qual è il vero metodo: l'osservazione. Una paziente osservazione. La natura non ama le risposte affrettate. E che c'è di più affrettato di un'ipotesi? I filosofi moderni hanno fatto congetture per spiegare tutto meccanicamente, rinviando le vere cause alla metafisica. Ma non si deve piuttosto ragionare sui fenomeni senza far ricorso a ipotesi immaginarie? Dedurre le cause dagli effetti fin quando non si sia pervenuti alla Causa prima che di certo non è meccanica?».

Non appena rientrato nella sua stanza, prese un voluminoso quaderno ancora intonso che aveva nascosto sotto il materasso. Aspirò l'odore della carta, intinse la penna nel calamaio e scrisse sulla prima pagina: «Questioni di filosofia». Poi subito sotto, sempre in latino: «Platone è mio amico, Aristotele è mio amico, ma il mio miglior amico è la Verità».

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Pagina 82

Lassù, nel sottotetto, si è aperta la finestra di una stanza che lascia apparire la figura di un giovane dai lunghi capelli di un biondo ramato.

«Isaac, Isaac, guàrda l'arcobaleno!» esclama Mary saltellando. «È come un miracolo, non è vero?».

L'entusiasmo della piccola non accende neppure un lieve sorriso sul volto dalle mascelle squadrate e dal mento volitivo del malinconico Isaac Newton. Lui richiude con cura le imposte e la stanza cade nell'oscurità. Ma da un foro praticato in una di esse penetra un sottile ma intenso raggio del grande astro che ora inonda di luce la campagna inglese. A tastoni, Isaac libera il tavolo dalle pile di carte e di libri che lo ingombrano e lo trascina in mezzo alla stanza. Poi va dritto verso il cassettone - e afferra le basi di legno lavorato di due prismi, uno tondeggiante a forma di lente e l'altro triangolare, entrambi montati su una sfera che gli permette di ruotare su se stessi. Posa il primo il più vicino possibile alla finestra, posizionandolo in modo da intercettare il raggio solare prima che vada a proiettarsi sul lungo rettangolo di tessuto che ha attaccato al muro opposto. Allora la macchia rotonda, simile a una piccola luna, che in precedenza appariva sul drappo, si metamorfosa in una forma oblunga dai lati rettilinei e dalle estremità arrotondate. La luce bianca si scompone nei colori dell'arcobaleno che poco prima ha suscitato la meraviglia nella piccola Mary. Con un gesto di una precisione quasi meccanica, Isaac posa il secondo prisma sul tavolo, esattamente davanti al primo, capovolgendo il triangolo, e subito l'arcobaleno oblungo si trasforma di nuovo in una piccola luna bianca...

«Oh la la, Monsieur Cartes» mormora tra sé e sé in francese, «credo che la fine del vostro regno sia molto vicina. Con quest'esperienza ho dimostrato che i colori non sono modificazioni della luce bianca ma i suoi elementi costitutivi».

Un vago sorriso si disegna sul suo volto pallido. «Monsieur Cartes...». Non riesce a resistere alla tentazione di storpiare il nome del famoso filosofo René Descartes, sopprimendo la particella "des" che evoca un po' troppo i nobili natali di cui non può vantarsi... Per dimostrare che lui, Isaac Newton, un oscuro bachelor of arts del Trinity College di Cambridge, è impegnato, a soli ventitré anni, in un'ardua partita di dama con quel mostro sacro della scienza e del pensiero, rispettato e stimato dai sovrani e dalle accademie del Vecchio e del Nuovo Mondo. Eppure ha letto e ammirato le opere dell'erudito francese scomparso quindici anni prima, ma dall'ammirazione alla gelosia il passo è breve. Adesso il dado è tratto.

«Ho dimostrato» ha detto... Sì, certo, ma a chi? Isaac Newton non ha amici a Cambridge né nel suo villaggio natale o a Londra dove, del resto, non è mai stato. Non nutre ammirazione né affetto per i suoi maestri del Trinity College. Ora si sente alla loro altezza, anche se a causa della peste non è ancora fellow, e non indietreggerà di fronte a nulla pur di superarli. Così, ha divorato i libri di Boyle, Hobbes, Wallis, "Cartes", copiandoli con la sua scrittura minuscola e indecifrabile, trasfigurandoli, appropriandosi del loro contenuto, facendoli suoi, come il messia con gli scritti dei profeti. Non è forse nato il giorno di Natale, e colui che ufficialmente è considerato suo padre non è morto prima della sua nascita? Non può considerarsi, almeno simbolicamente, figlio delle potenze astrali? E l'anagramma del suo nome, Isaacus Neuutonus, non è Ieoua Sanctus Unus, "Jahvè unico santo"?

Durante i tre anni trascorsi al Trinity College, Newton non aveva avuto maestri oltre a se stesso. Si era imposto un programma di studi che il più esigente dei professori non avrebbe mai osato proporre al suo miglior discepolo. Era arrivato a fare l'inventario delle conoscenze e delle scoperte accumulate dall'uomo a partire dalla Creazione, di cui aveva confermato la data, 4004 a.C., ricalcolando una serie di eventi. E soprattutto aveva compilato l'elenco di tutto ciò che non era stato scoperto, di quello che lui, Isaac Newton, doveva ancora scoprire. O, meglio, dimostrare. Di qui il suo odio per Descartes. Non potendo provare la meccanica di questo o quel mistero dell'universo, l'erudito francese lo spiega avanzando l'ipotesi che gli sembra più plausibile, finendo poi per considerarla un dato di fatto, una legge naturale. Quello pseudo-filosofo parte dal presupposto che tutti i fenomeni naturali possono essere spiegati attraverso il movimento e la materia: i corpi celesti sono trasportati da vortici di materia eterea, il magnetismo è prodotto dai movimenti di corpuscoli a forma di "vite", il cuore umano è una vaschetta di fermentazione, gli animali sono macchine senz'anima e così via. Ipotesi, ipotesi gratuite e soprattutto pagane! Perché la meccanica cartesiana non ha bisogno di Dio per funzionare. Anche il grande Galileo, del resto, ha preteso di dissociare fisica e metafisica. Certo, egli ha anteposto l'osservazione alle ipotesi, eppure non ha detto «L'intenzione dello Spirito Santo essere di insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo»? Che ironia, che disinvoltura, tutte italiane, nei confronti di Dio! Da tutto ciò emana un forte odore di libero pensiero, di ateismo! Newton invece sente di essere stato investito di una missione divina, quella di scoprire, attraverso la filosofia della natura, l'armonia universale stabilita dal Signore, di rivelare "come vadia il cielo" per essere in grado di salirci quando verrà la sua ora...

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Pagina 193

Capitolo decimo
Brutta spirale e benauguranti comete



Dopo più di sei mesi, ritenendo che i suoi affari fossero ormai in ordine e in buone mani, poiché ne aveva affidato la cura alla signora Vincent, ossia a quella Margaret per la quale un tempo aveva costruito una casa di bambola, Newton fece ritorno al Trinity College. Mentre la carrozza nera scendeva lungo il grande viale, ora provvisto di un solido inghiaiato che portava fino all'uscita della fattoria, si rese infine conto di essere orfano e, a trentasette anni suonati, pianse con la fronte appoggiata alla parete dall'imbottitura rossa della sua elegante vettura.

All'esterno, James, appollaiato al posto di guida, lanciava energici «Arri! Hi!» al bel baio che il suo padrone aveva appena acquistato alla fiera di Grantham. Quel robusto cavallo non avrebbe avuto alcun problema ad affrontare la strada scoscesa e piena di fango che collegava il massiccio casolare che il suo padrone chiamava "maniero" al resto del mondo.

La sera stessa dell'arrivo nell'appartamento che occupava al Trinity College, Newton si accinse a evadere la voluminosa corrispondenza che l'aspettava sulla sua scrivania. Era il miglior modo di smettere gli abiti del gentleman-farmer in lutto.

Per prima cosa, aprì la spessa busta recante l'intestazione del segretario della Royal Society, Robert Hooke. Questi esordiva proponendogli di riprendere lo scambio epistolare interrotto qualche tempo prima, questa volta per prendere in esame il problema della gravitazione dei corpi celesti. Dopo il Tentativo di provare il moto della Terra, dato alle stampe sei anni prima, Hooke aveva ripreso in mano la questione. In particolare, avrebbe gradito conoscere il suo parere in merito all'ipotesi secondo cui i moti dei pianeti erano composti da un moto tangenziale e da un moto d'attrazione verso il corpo centrale.

Newton sbuffò. Era un bel pezzo che aveva smesso di interessarsi alla meccanica dei corpi celesti. In mezzo al disordine che regnava tra le sue cose, doveva pur esserci qualche appunto riguardante la questione, ma in quel momento non aveva nessuna voglia di mettersi a cercarlo. E poi, di che andava in cerca lo gnomo? Di un'altra controversia per farlo cadere in fallo?

Prese carta e penna e incominciò a buttar giù la risposta. Innanzi tutto si scusò di non avergli scritto prima ma sua madre era mancata e importanti affari di famiglia lo avevano tenuto lontano da Cambridge. Poi aggiunse che non intendeva più occuparsi di quel genere di filosofia «salvo, forse, nei ritagli di tempo e per puro divertimento». L'espressione gli piacque: rifletteva bene il suo disinteresse per quei giochi da bambini. Poi, a ripensarci, la trovò un po' troppo dura. Così precisò: «Spero che la mia riluttanza a occuparmi di queste questioni non sia interpretata come malevolenza nei confronti vostri o della Royal Society».

Ma poi la malevolenza riprese il sopravvento. Qualche rigo più avanti, sostenne di non aver mai inteso parlare dei lavori di Hooke sulla gravitazione. Su questo punto mentiva e per di più maldestramente, dato che poco dopo, con una chiara allusione ai suddetti scritti del segretario della Royal Society, dimostrò di averli letti e anche molto attentamente.

Giunto alla fine, non sapeva come concludere. Forse con un ultimo colpo basso? Ma fu assalito da un dubbio: e se, con quella lettera, il segretario della Royal Society avesse voluto sfidarlo? In questo caso, il suo rifiuto sarebbe passato per un'ammissione di ignoranza. E questo era inconcepibile per Newton. Allora la sua mente andò in ebollizione. Impugnò la penna che, vibrata a tutta forza sulla carta, incominciò a stridere, mentre il sottomano della scrivania si macchiava d'inchiostro. Per dimostrare che la Terra compie un moto rotatorio, occorreva, gli suggerì, salire in cima a una torre, badando bene a che fosse sufficientemente alta, in modo da non compromettere il valore probatorio dell'esperienza, e poi lasciar cadere giù un oggetto. In linea di principio, il punto d'impatto dell'oggetto al suolo avrebbe dovuto trovarsi più a est della stazione di lancio. Poi, con uno schizzo, stabilì che, seguitando a cadere fino al centro della Terra, l'oggetto avrebbe descritto una traiettoria a spirale.

Quando arrivò alla conclusione era quasi giorno. Nel finale, si dichiarò pronto a prendere in esame tutte le obiezioni che Hooke avrebbe sollevato pur ribadendo che il suo interesse per la filosofia si era esaurito. Ma poi, in coda, non poté trattenersi dall'aggiungere che non desiderava altro che dedicare il suo tempo a ciò che gli dava soddisfazione e al bene altrui. Il che significava, leggendo tra le righe, che quelle inutili speculazioni non lo divertivano più da un bel pezzo: la soddisfazione era quella che gli dava l'alchimia, e il bene altrui non era altro che la salvezza dell'umanità da ottenersi attraverso la conversione alla religione naturale, di cui andava elaborando i canoni e che, una volta diventata universale, secondo i suoi calcoli, a quattrocento anni dalla fondazione, avrebbe potuto annunciare la fine dei tempi prevista per il 2060.

Rilesse una sola volta la lettera. Era svuotato, completamente privo di forze, e indugiò qualche istante prima di andarsi a coricare. Sigillò la busta. Proprio allora la sua attenzione fu attratta da un altro plico. Il mittente era John Collins, quello stravagante della matematica, che non smetteva di dargli il tormento. Malgrado tutto incuriosito, lo aprì. Il solerte corrispondente gli aveva inviato due libri di matematica, entrambi di autori francesi e riguardanti l'opera dei geometri greci della Scuola di Alessandria: Pappo, Aristeo, Apollonio e, naturalmente, Euclide.

Dimentico della notte passata in bianco, Newton, cominciò a leggerli, o meglio, a divorarli. Buttò giù meccanicamente la prima colazione servita da James, seguitando a girare le pagine di uno di quei libri. Poi la stanchezza lo spinse ad allungarsi sul nuovo canapè cremisi. Dietro le palpebre abbassate, la mente seguitò il suo lavorio. Tutt'a un tratto scattò in piedi esclamando:

«Che asino calzato e vestito da cartesiano sono! In fatto di filosofia della natura ho seguitato a basarmi su un universo interamente meccanico, tanto simile a un pendolo dal moto perpetuo costruito da un orologiaio che non si dà neppure la pena di ricaricarlo di tanto in tanto. E pensare che mi vantavo di trarre ispirazione dagli Antichi, gli unici detentori della Verità. E invece in matematica non ho fatto altro che stare a cavalcioni di Cartes, quel fante di picche a quattro zampe!».

Era necessario tornare alle fonti, anche per quanto riguardava la matematica. Ma prima occorreva imparare di nuovo a conoscere il nemico. In fondo a uno scaffale della sua biblioteca, ritrovò la Geometria del fante di picche. Era proprio scorrendo quel libro che tanto tempo prima aveva scoperto la matematica. Stavolta, però, avrebbe messo Descartes alle strette, punto per punto.

Il tempo volava via mentre sezionava l'opera del francese come un medico un cadavere fresco, viscere per viscere. Passava giorno e notte chino sui suoi libri, riempiendo i margini delle pagine di "non sono d'accordo!!!", "errato!!!", "non geometrico!", "tutto da dimostrare!!!", mentre nella sua mente a poco a poco prendeva forma un discorso sugli Errori della geometria di Descartes, che redasse continuando sullo slancio.

Poi tornò a immergersi nelle opere dei matematici della Scuola di Alessandria. Per arrivare a dimostrare al di là di ogni dubbio la verità di una proposizione, gli Antichi ammettevano solo principi generali evidenti. L'eleganza delle loro dimostrazioni non era meno bella delle statue di Fidia. Per quanto pagani, gli scienziati dell'antichità erano detentori di un sapere che risaliva a Mosè e che in seguito era andato perduto. Le leggi che lui, Isaac Newton, aveva "riscoperto", dovevano essere enunciate in un stile espositivo derivato da quello degli antichi geometri. Certo, gli Elementi di Euclide erano incompleti. Ebbene, si sarebbe fatto carico lui di portarli a termine. Avrebbe dimostrato la verità delle proposizioni sinteticamente, a partire da principi evidenti, affinché il sistema del mondo potesse poggiare su una solida base geometrica e non sul linguaggio algebrico inaugurato dal francese, da quel "matematico abborracciato".

Decise di farne un'opera da dare alle stampe. Occorreva distruggere la fortezza di Descartes, raderla al suolo come una nuova Cartagine. E, per cancellare una volta per tutte il suo nemico, avrebbe evitato di farne il nome, lasciando i relativi spazi in bianco, come aveva già fatto con un altro rivale, il Cristo. Non stava già dimostrando man mano che procedeva con le sue esperienze alchemiche che i corpi non possedevano una realtà assoluta e indipendente, come sosteneva l'altro? Ah, che imbecille, che falsario, che truccatore di dadi! Certo che la materia era dipendente: dipendeva da Dio! Da Dio che era onnipresente, che non si era mai riposato, neppure il settimo giorno, ma seguitava ad agire, incessantemente e ovunque, sul moto degli astri, sui cicli della natura e sulle anime degli esseri umani.

Più in là, avrebbe attaccato un'altra cittadella cartesiana, quella della fisica e della metafisica. Solo una volta definitivamente scacciato il fantasma che aveva fuorviato i suoi primi vent'anni di studio e ossessionato la sua mente, finalmente libero, avrebbe proseguito senza ulteriori intralci la ricerca della pietra filosofale e quella dell'Essere che dominava tutto, che in realtà erano le due facce delle stessa indagine.


Il suo bellicoso entusiasmo si spense di fronte alla risposta di Hooke. Quest'ultimo sollevava, come al solito in tono ossequioso, un'obiezione circa l'ipotesi della caduta a spirale del corpo verso il centro della Terra, determinata, secondo Newton, dal moto del pianeta. A suo parere, seguitando a cadere, il corpo in questione non avrebbe mai raggiunto il centro della Terra ma descritto in eterno una traiettoria ellittica, come i corpi celesti in conformità con le leggi di Keplero.

Nel leggere quelle righe, Newton per poco non schiattò di rabbia: aveva messo un piede in fallo, Hooke aveva ragione. Come aveva potuto essere così sbadato? Sulle prime gli venne voglia di non rispondere, poi pensò di giustificarsi, evocando ancora una volta il suo disinteresse per la filosofia. No, non era possibile, sarebbe equivalso a riconoscere di aver sbagliato. Avrebbe dato modo a Hooke di esibire sulla pubblica piazza quello stupido errore sulla caduta a spirale, proprio come aveva fatto con l'azzardata ipotesi sulla luce. Allora, facendo appello a tutto il suo coraggio, Newton spiegò a Hooke che quella era una questione di secondaria importanza e che il calcolo che gli aveva inviato era esatto ma che, da parte sua, supponeva che l'attrazione fosse sempre inversamente proporzionale al quadrato della distanza.

Pensò così di aver stroncato sul nascere la controversia. Ma si sbagliava.

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Pagina 207

Si è rifugiato nel suo nido, a Woolsthorpe. Wickins lo ha tradito. Sapeva che prima o poi sarebbe successo ma andarsene ora, proprio nel momento in cui ha più bisogno di lui, mentre si avvia a concludere un'opera definitiva, una profezia, la sua opera sulla religione naturale, questo non se lo sarebbe mai aspettato dal Vecchio John! In realtà, non è con l'amico che Newton se la prende ma col segretario comprensivo che volge in bella scrittura i suoi scarabocchi. Se ha lasciato Cambridge il giorno prima della partenza del Vecchio John è per dimostrare a quel traditore che è sempre lui, Isaac, a prendere l'iniziativa.

Newton non ha la percezione del passare del tempo, o piuttosto, per lui il tempo è piatto, uniforme, almeno quello della vita quotidiana. L'incontro con Wickins sotto il portico del Trinity College è cosa di ieri, anche la morte di sua madre è cosa di ieri. Le lunghe e ripetute assenze del suo compagno sono un fatto recente e spiegano la sua partenza definitiva che ritiene dettata dalle pressioni esercitate su di lui dai suoi nemici.

Chi potrà sostituire Wickins? Gli serve un segretario, un vero segretario, una persona fidata che non andrà a spifferare il contenuto dei suoi scritti a quei plagiari della Royal Society.

La sorte gli viene in aiuto. Un giorno, durante una temporanea schiarita, si mette a dirigere i lavori di giardinaggio. Vuole che il viale che porta al maniero sia fiancheggiato da due siepi di bosso dietro le quali si stenderà un prato ornato di cespugli in fiore. Vuole trasformare quello che fino ad allora è stato un terreno scosceso sul quale pascolavano greggi di pecore in un vero e proprio parco degno di accogliere i suoi visitatori. Ha disegnato il progetto con un teodolite fabbricato con le sue mani e pretende che gli operai piantino le aiuole nel punto esatto che ha indicato sulla carta, tenendo conto del periodo di fioritura, affinché il prato sia sempre colorato, almeno dall'inizio della primavera alla fine dell'autunno. Coltiva il vago sogno di lasciare prima o poi Cambridge e la cattedra lucasiana per stabilirsi definitivamente a Woolsthorpe, dove porterà avanti le sue ricerche nel più totale isolamento, lontano dalla Royal Society e dai suoi postulanti.

Il cancello si apre stridendo, mentre la campana si mette a suonare. Un ragazzone vestito di nero incomincia a risalire il viale, soffiando come un pistone costruito da Robert Hooke, con una grande cartella sotto il braccio e tirando per la cavezza una mula recalcitrante. Gli si para dinanzi, si leva il bicorno facendolo strusciare sulla ghiaia e si inchina fino a toccare terra.

«Venerato maestro, il direttore della scuola di Grantham, l'esimio signor Stokes, mi invia presso di voi per sollecitare i vostri lumi. Il mio nome è Humphrey Newton. Ho il grande onore, infatti, di portare il vostro stesso cognome».

Isaac non riesce a reprimere un sorriso nell'udire queste frasi contorte sottolineate da una pronunzia leggermente blesa.

«Ebbene» dice allegramente «andiamo nel mio studio. Cercherò di chiarirvi le idee... con i miei lumi».

Lo studio in questione non è altro che il piccolo soggiorno che Newton ha interamente tappezzato di libri stipati alla rinfusa sugli scaffali. Humphrey estrae dalla sua cartella una lettera di raccomandazione del direttore della scuola di Grantham, presso il quale, un tempo, Isaac aveva alloggiato. Il vecchio Stokes gli chiede se può fare qualcosa per aiutare quel giovane a ottenere una borsa di studio al Trinity College. Solo allora Newton si ricorda di aver conosciuto Humphrey cinque anni prima, poco dopo la morte di sua madre, quando era ancora un ragazzino. Ora deve avere diciassette o diciott'anni e insegna latino e matematica presso la scuola di Grantham. Newton lo squadra per qualche minuto e rimane colpito dalla bella testa, rotonda e piena; lo sguardo è vivo, la fronte larga denota una certa intelligenza. Senza sapere perché, Isaac sente di potersi fidare di quel giovane. Come sempre, è la prima impressione che conta per lui.

«Ragazzo mio, mi sembrate un po' troppo cresciuto per fare il borsista. Del resto, date le vostre conoscenze e il vostro percorso, proseguire gli studi a Cambridge non vi sarà di nessuna utilità. Lo stato in cui versa l'insegnamento è sempre più disastroso. Tuttavia...».

Per un lungo istante lascia in sospeso la frase, per godersi l'espressione affranta di Humphrey, attraversata dal bagliore di speranza che quel "tuttavia" ha acceso nel suo sguardo.

«Tuttavia» prosegue infine «il mio assistente mi ha appena lasciato. Il Trinity College non farà nessuna difficoltà ad assegnarmi un sostituto un po' più costante ed efficiente di quell'ignaro scansafatiche. Che ne pensate?».

Mentre Humphrey lo subissa di ringraziamenti, Newton incrocia le dita davanti alla bocca e dice in tono severo:

«Caro amico, vi ringrazio di aver accettato la mia proposta. Ma vi avverto: il vostro compito non sarà una sinecura. Cominceremo il più presto possibile. Trattenetevi dunque a cena. Il mio domestico vi preparerà una stanza. Domani andrete a prendere le vostre cose a Grantham».


E così fu. Nel corso delle due settimane che seguirono, Humphrey si rivelò un segretario efficiente, discreto, ordinato e meticoloso. Ma soprattutto aveva una bellissima calligrafia. Esaminando minuziosamente il regolamento, Isaac capì quale avrebbe potuto essere il suo status universitario: borsista sotto il suo tutorato. Così non avrebbe dovuto pagarlo. Humphrey prese una sola iniziativa: cominciò a mettere in ordine la biblioteca di Woolsthorpe. Quando se ne accorse, Newton gli proibì categoricamente di proseguire, spiegandogli che dietro quell'apparente disordine si celava un ordine invisibile che lui solo capiva e che da quel momento in poi non avrebbe più dovuto far niente senza parlarne prima col suo maestro. Humphrey non se lo fece dire due volte.

Dopo essersi trattenuto quattro settimane a Woolsthorpe, Newton pensò che era arrivato il momento di far ritorno a Cambridge: Humphrey avrebbe riempito il vuoto lasciato da Wickins, occupando, allo stesso tempo, meno spazio nell'appartamento. Ma ciò che più contava era che il nuovo segretario dava prova di una devozione senza limiti nei suoi confronti. Isaac aveva cercato di capire quali fossero le sue convinzioni religiose e aveva finito per convincersi che coincidevano con le sue. A dire il vero, Humphrey aveva una strana mania, che a volte contraddistingue le persone di carattere debole e influenzabile: quella di ripetere sistematicamente l'ultima frase pronunciata dal loro interlocutore prima di svilupparla a modo loro.

Malgrado questo piccolo ma fastidioso difetto, non appena stabilitosi al Trinity College, Humphrey si mostrò efficientissimo. Regolarizzò in un batter d'occhio la sua posizione con l'amministrazione, anche se la facilità con cui riuscì a passare tra le maglie del regolamento era almeno in parte ascrivibile al prestigio del professore lucasiano. Il direttore dell'istituzione colse l'occasione per ricordarglielo, informandolo anche che il suo maestro non depositava i manoscritti, delle sue lezioni presso la biblioteca del college da più di dieci anni, pur essendo tenuto a farlo in base alle norme di legge.

Quando Humphrey riferì l'appunto a Newton, quest'ultimo rispose distrattamente:

«Ah! E così vogliono i miei corsi di algebra? Bene! Gli darò ciò che gli spetta!».

Così in un lampo, ossia in meno di due settimane, attingendo a piene mani dai molti saggi scritti in passato, mise insieme un'opera dall'aspetto molto sobrio. Non poté trattenersi di lanciare post mortem qualche frecciata al suo vecchio nemico René Descartes, senza tuttavia menzionarlo. Non meritava un così grande onore! Si limitò a denunciare "i contemporanei" che combinando aritmetica e geometria rinunciavano all'eleganza degli Antichi. Dopo aver copiato il manoscritto, Humphrey lo depositò presso la biblioteca.

Qualche tempo dopo, uno dei suoi rari studenti, anzi il migliore, cosa che, in sé, non significava molto, venne a fargli visita: aveva letto le sue lezioni di algebra e si proponeva di farle pubblicare dalla stamperia del college. Suggerì persino un titolo per il manoscritto, che fino a quel momento non ne aveva uno: Aritmetica universale. Newton accettò di buon grado la proposta e rielaborò le lezioni in modo da rivolgere il discorso "al lettore", per conferire una maggiore eleganza all'esposizione.

Poi ritornò alle sue care marmitte e ai suoi cari profeti, issandosi di nuovo, in pace con la coscienza, sulle spalle dei suoi giganti.

L' Aritmetica universale ebbe immediatamente un successo clamoroso al quale l'autore non diede un gran peso, almeno in un primo momento. Alla Royal Society, la presentazione dell'opera da parte di John Wallis fu salutata con un'ovazione. La cosa divertì Newton che non si era neppure dato la pena di completare la stesura del libro: preso dalla stanchezza, aveva interrotto l'esposizione a metà di un brano sulle equazioni cubiche. Lo stesso John Wallis, il grande matematico che gli aveva insegnato a prendere le distanze da Descartes, pubblicò poco dopo Un parere sulla pubblicazione di un trattato d'algebra, in cui esponeva il metodo impiegato da Newton per il calcolo delle serie infinite, riconoscendo così che l'allievo aveva superato di gran lunga il maestro. Isaac esultò. Inoltre dalla Germania gli pervenne una recensione anonima ma entusiastica secondo cui l' Aritmetica universale presentava «qualità straordinarie che si cercherebbero invano nei ponderosi volumi di analisi». Questa lettera lo mandò in visibilio. Poi cominciò a inquietarsi. Nel trasmettergli la comunicazione, Hooke aveva fatto il nome dell'autore. Si ricordò di aver avuto un breve scambio epistolare con quel prussiano: sì, gli aveva chiesto delucidazioni circa il metodo di calcolo degli infinitesimi, sostenendo di aver elaborato un procedimento analogo. Non era da escludersi che lo pseudofilosofo teutone stesse cercando, con le sue sviolinate, di spingerlo a parlare delle sue scoperte per appropriarsene. Che voleva da lui quel perfetto sconosciuto, quel tal Gottfried Wilhelm Leibniz?

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Capitolo dodicesimo
Principia



«Che cos'è questo baccano? Non si può avere un attimo di pace in questo benedetto college?».

Era l'inizio di febbraio del 1685 e Newton lavorava in soggiorno, al piano meglio riscaldato della casa, mentre accanto a lui Humphrey ricopiava in bella le sue minute. Improvvisamente, lungo la strada che fiancheggiava il college, proprio sotto le sue finestre, risuonò la musica assordante di una fanfara.

«Tre giorni fa ve l'avevo detto, maestro, ma voi non mi avete dato ascolto. Il re Carlo è morto e oggi si festeggia l'ascesa al trono di suo fratello, Giacomo II».

«Papista scaccia papista» si limitò a constatare Newton. «Rimettiamoci al lavoro».

«Perdonatemi, maestro, ma la vostra assenza alla messa solenne e al Te Deum della scorsa domenica non è passata inosservata. Dovreste almeno assistere alle cerimonie per l'incoronazione, altrimenti la cosa potrebbe dar adito a voci calunniose, se non a qualcosa di peggio. Si dice che il nuovo re ostenti spudoratamente il suo attaccamento alla fede cattolica, incoraggiato dall'odioso provvedimento che suo cugino il re di Francia si appresta ad adottare contro i riformati per impedire loro di praticare il proprio culto».

«Bah! Voci su di me ne girano già tante. Capite ora i vantaggi di recitare la parte dell'astrologo della fiaba? "Ah, quello smemorato di Newton, quell'eterno distratto! È talmente preso dalle sue misteriose ricerche che non si accorge della morte di un re e dell'ascesa al trono di un altro!". Ci siete cascato anche voi, mio buon Humphrey? Bene, il frastuono si allontana. Possiamo tornare alla musica ben altrimenti armoniosa degli spazi infiniti».

Humphrey rimase a bocca aperta. E così da cinque anni, giorno dopo giorno e persino durante le notti di veglia e lavoro forsennato, il suo maestro aveva recitato volutamente la parte del filosofo con la testa tra le nuvole?


I mesi passavano senza che Newton desse segni di vita alla Royal Society. Di tanto in tanto, Halley andava a trovarlo, guardandosi bene dal fargli premura, anche se non vedeva l'ora che completasse quell'opera che avrebbe sconvolto la visione convenzionale dei moti dei pianeti e di tutte le forze attive sulla Terra e nell'Universo, relegando i vortici di Descartes nei gabinetti delle curiosità.

Halley cominciava a conoscere lo strano carattere dell'uomo di cui aveva deciso di diventare l'editore ufficiale, con il consenso e il denaro della Royal Society. Bisognava prima di tutto evitare di urtarlo. In quindici anni, il professore lucasiano aveva accumulato una quantità inaudita di manoscritti incompiuti. Ma quello a cui stava lavorando non doveva fare la stessa fine. D'altro canto, Newton gli chiedeva di rileggere i testi via via che li scriveva, di rifare i calcoli e di aggiungervi i suoi commenti. Halley si sforzava di essere più diplomatico possibile, come a Danzica con Hevelius. Fortunatamente, finora aveva avanzato solo critiche e suggerimenti riguardanti la forma del testo che a volte gli sembrava un po' troppo involuta, soprattutto nell'uso dei neologismi latini.

La sua principale preoccupazione era isolare ancora di più dal mondo quel genio allo stato puro, quel blocco di marmo di cui voleva diventare sì il pigmalione, ma solo nell'interesse della scienza. Trovò un complice affidabile in Humphrey che, sempre inquieto per la salute del maestro, recepì prontamente l'ordine di non consegnargli più la posta che rischiava di turbarlo, distraendolo dal lavoro. Quel ragazzone era molto più perspicace di quanto si potesse pensare, tanto che preferì non far parola col suo maestro dell'arrivo di un trattato inoltrato dalla Royal Society su un nuovo metodo di calcolo differenziale del tedesco Leibniz.

Dopo la recente ascesa al trono di Giacomo II, il mondo esterno si faceva sempre più minaccioso per i filosofi della natura. Convinto cattolico, il nuovo sovrano non faceva nulla per dissimulare la sua fede né per venire incontro alle altre religioni del regno, e faceva in modo di inserire nei ranghi dell'esercito e della magistratura il maggior numero possibile di persone che condividevano le sue convinzioni papiste. Il consiglio della Royal Society adottò una condotta di rara prudenza. Anglicani, protestanti e "liberi pensatori" del precedente regno non ebbero alcuna difficoltà a farsi papisti nel nuovo, a condizione di conservare le loro cariche e gli altri privilegi. Ora erano proprio questi eminenti personaggi che suggerivano al re di autorizzare o proibire le pubblicazioni dei membri dell'associazione, quasi sempre conformandosi al parere della maggioranza, almeno quando si trattava di matematica e di fisica, anche perché ne capivano poco o niente. Ma non era detto che sarebbe andata così anche per l'opera di Newton. Se un malintenzionato fosse riuscito a decifrare a uso dei membri del consiglio il testo che l'eremita di Cambridge intendeva intitolare Principi matematici della filosofia naturale, quei lord, quei cancellieri e quei ministri, tutti uomini di corte più che di scienza, avrebbero potuto farlo proibire; autore ed editore rischiavano di subire una sorte analoga a quella di Huygens, costretto a fuggire dalla Francia dopo la revoca dell'editto di Nantes.

In effetti, dietro ai calcoli e ai disegni oscuri dei Principia, Newton dimostrava che l'intero universo si muoveva secondo le leggi intuite da Copernico, calcolate da Keplero e osservate da Galileo, tutti e tre condannati dalla Chiesa di Roma, il porto verso il quale ora Giacomo II voleva pilotare la nave dell'Inghilterra.

Mentre riceveva brano a brano il manoscritto di quell'opera magistrale, Edmund Halley si adoperava come un ossesso sia presso il consiglio della Royal Society sia presso i suoi membri. Nella primavera del 1686 comunicò alla Royal Society che il trattato di Newton era quasi pronto per andare in stampa. Dal momento che l'opera aveva assunto più che ragguardevoli proporzioni, i due uomini avevano deciso di comune accordo di pubblicarla in due torni. Halley prese l'iniziativa di indire l'assemblea dei soci. Il 29 maggio, l'areopago di Arundel House si riunì. Halley lesse la prefazione dell'opera, dedicata alla Royal Society, e riassunse il suo contenuto in un "Discorso concernente la gravità", dopodiché l'assemblea decise all'unanimità di far stampare il primo libro dei Principi matematici della filosofia naturale.

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