Copertina
Autore Paola Lupo
Titolo Eros e potere
SottotitoloMiti sessuali dell'uomo moderno
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, i nodi , pag. 268, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x2,5 cm , Isbn 978-88-317-8979-0
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe storia sociale , femminismo , erotica
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Indice


    EROS E POTERE


  9 Cittadini attivi e cittadini passivi


 41 Masturbazione


 77 Lesbismo

 77 Con altra donna o da sé sola
 82 Come un uomo
 87 La tribade e la sua vittima
 92 Amicizie platoniche ed eccessi di libidine
 98 La tentazione lesbica
100 I luoghi della tentazione
107 Casi clinici e processi
117 Paris-Lesbos
124 Saffo, emblema dell'ancien régime
135 L'ideale androgino
141 Il cliché del lesbismo
143 Discorsi asimmetrici
151 Lesbismo e femminismo
157 Sadomasochismo
157 La paura della «donna nuova»
167 Antifemminismo e antisemitismo

157 Sadomasochismo

157 La paura della «donna nuova»
167 Antifemminismo e antisemitismo
177 La passiità: da ruolo sessuale a categoria esaustiva del femminile
183 Passività e piacere sessuale
190 Dalla passività al masochismo
194 Il diritto del più forte
207 Il pudore e «Jack lo sventratore»
209 Il marchio del potere
213 La teoria del sadomasochismo contro la realtà della donna nuova
216 La trasposizione politica del sadomasochismo

235 Note al testo
259 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 9

I.
Cittadini attivi e cittadini passivi



«Donne, volete essere repubblicane?», così il 19 novembre 1793 un anonimo rivoluzionario si rivolge alle francesi dalle pagine del «Moniteur Universel», il giornale semiufficiale della Convenzione che da poco più di due mesi ha deciso di «mettere il Terrore all'ordine del giorno». Dopo aver ricordato come il tribunale della rivoluzione abbia appena dato alle donne un grande esempio di cui certo esse sapranno far tesoro, e cioè l'esecuzione sul patibolo di Maria Antonietta, «cattiva madre, sposa scostumata»; quella di Olympe de Gouges, dimentica delle virtù che si addicono al suo sesso e desiderosa di diventare «un uomo di stato»; e infine di Mme Roland, quel «mostro» che per amore del sapere aveva sacrificato la natura pretendendo di elevarsi al di sopra delle sue leggi, il rivoluzionario conclude istruendo le donne sui loro doveri di patriote:

amate, seguite e insegnate le leggi che richiamano i vostri sposi e i vostri figli all'esercizio dei loro diritti; siate fiere se agiranno da prodi per la causa della patria, perché va a loro onore; siate semplici nel vestire, laboriose in casa; non andate mai alle assemblee pubbliche con l'intenzione di parlare, ma fate in modo che ogni tanto la vostra presenza sia d'esempio per i vostri figli; allora la patria vi benedirà, perché avrete agito proprio come essa ha il diritto di aspettarsi da voi.

Con lo spettro della ghigliottina viene dunque ricordato alle donne che esse non hanno diritti propri da reclamare perché quelli difesi dalla rivoluzione riguardano solo mariti e figli; che la loro attività deve limitarsi ai lavori di casa; e anche se occasionalmente potranno assistere alle assemblee, dovranno astenersi dal prendere la parola.

Alle donne che pensavano che i principi universali di libertà e uguaglianza dovessero riguardare tutti gli esseri umani dotati di ragione e che perciò avevano inviato i loro cahiers de doléances o presentato progetti di legge sulla propria condizione, avevano creato associazioni femminili o erano attive nei club misti, intervenivano nei dibattiti dell'assemblea legislativa o avevano combattuto come soldati o ufficiali nell'esercito della nuova repubblica, il governo rivoluzionario risponde con un decreto del 30 ottobre 1793 che scioglie tutte le loro associazioni e proibisce le riunioni, anche private, di più di cinque donne. A nome del Comitato di Sicurezza pubblica, il deputato Amar spiega la necessità del decreto alla Convenzione nazionale. Si tratta di una questione che riguarda l'ordine generale della società, ordine che «deriva dalla differenza esistente fra l'uomo e la donna»; e la prima differenza considerata è quella della forza: «L'uomo è forte, robusto, dotato per nascita di una grande energia, audacia e coraggio», e perciò adatto a tutto ciò che esige forza, intelligenza e capacità; la donna invece, mancando di forza morale e fisica e dunque incapace di alti pensieri e serie meditazioni, è destinata dalla natura alle cure della casa. Il limite invalicabile all'attività di ciascun sesso è stabilito dalla natura, e poiché essa «comanda imperiosamente e non può essere modificata da legge alcuna», ne deriva che le donne non possono prendere «parte attiva» agli affari del governo.

La differenza sessuale come categoria di base della nuova identità politica sembra essere già presente nella denominazione di «cittadini attivi» e «cittadini passivi» con cui Sieyès, nella sua Premessa alla Costituzione del 1789, distingue coloro che hanno «il diritto di esercitare un ruolo attivo nella formazione dei pubblici poteri» da coloro che non potranno avere il diritto di voto. Il linguaggio di Sieyès, nel suo subordinare al pagamento di un'imposta la qualifica di cittadini attivi, «i veri azionisti della grande impresa sociale», a un livello di significato immediato può essere facilmente riferito al campo dell'attività economica. Tuttavia nel suo discorso sono le donne, non i poveri, a comparire come la prima categoria di passivi esclusi, e la linea di demarcazione viene espressa con gli stessi termini tecnici usati per designare, specie nel linguaggio teologico e medico-legale, i rispettivi ruoli sessuali nell'atto riproduttivo. L'espressione «cittadini passivi» aveva molto indignato Robespierre che l'aveva qualificata una «locuzione insidiosa e barbara», «la più patente violazione dei diritti dell'uomo», parole ingannevoli miranti a creare «mostruose differenze». Nei testi delle costituzioni repubblicane non venne mai usata, troppo screditata, scrive Pierre Rosanvallon, dalla connotazione negativa delle «tracce censitarie» della sua accezione. Ma, appunto, non sono che tracce, marginali rispetto al significato primario inteso a distinguere fra autonomia e dipendenza: secondo il deputato Lanjuinais, ad esempio, poteva essere una denominazione molto utile e adatta a far luce sul linguaggio costituzionale: «Bisogna rammentare bene – spiegava qualche tempo dopo discutendo i progetti della Costituzione del 1793 – che questo termine attivo non era da applicarsi soltanto alle differenze di ricchezza; esso esprime molto bene l'insieme di determinate condizioni prescritte dalla ragione eterna», indispensabili per essere inclusi nel gruppo dei cittadini attivi i cui requisiti essenziali, specifica Lanjuinais, sono prima di tutto quelli relativi al sesso, e questi sono tali da consigliare l'esclusione delle donne.

A quell'epoca l'opposizione fra attività e passività non si è ancora imposta come la qualità essenziale e di per sé qualificante e costitutiva della distinzione di genere, ciò che avverrà soltanto nel secolo successivo e proprio in funzione di discriminante sociale e politica. Verso la fine del Settecento è ancora una categoria che, pur fondamentale nelle dissertazioni sulle trasgressioni sessuali, rimane per lo più limitata a quei contesti, ed è rara o assente nei trattati che illustrano la fisiologia della riproduzione o discutono il diverso destino cui l'uomo e la donna sono designati per natura. Con queste implicazioni compare però in Rousseau, il quale nel V capitolo dell' Émile incomincia a trattare della differenza di valore e di funzione sessuale proprio adottando la terminologia del discorso normativo più formale. Nel rapporto fra i sessi, scriveva nel 1762, «uno dev'essere attivo e forte, l'altro passivo e debole», opposizione che comportava conseguenze nell'ambito dei rapporti morali, in cui la gerarchia attribuita all'atto riproduttivo veniva assunta come l'originario principio fondante di un ordine sociale derivato dalla natura.

L'accezione sessuale della contrapposizione usata da Rousseau, precursore del quadro concettuale e del linguaggio rivoluzionario del giacobinismo, connota anche la terminologia di Sieyès aggiungendo la propria valenza a quella economica, o sovrapponendosi ad essa come appartenente a uno strato semantico primario ed essenziale. Tanto più che, dopo anni di incubazione ad opera di una stampa scandalistica tutta imperniata, come vedremo, sull'enfasi dell'arcaica metafora che fa della relazione sessuale un simbolo dell'azione e della volontà di potere, ora la coscienza rivoluzionaria del militante si trova a dover riempire il vuoto di potere politico con principi e schemi di attività nuovi, e lo fa riproducendo «in forma laicizzata gli investimenti psicologici delle credenze religiose», ossia identificando i problemi individuali con questioni politiche, la propria vita privata con la vita pubblica, ed esaurendo nell'azione il mondo dei valori col farne un tutt'uno con la dottrina e la morale.

Anche in Sieyès, così come spesso troviamo nelle argomentazioni dell'epoca che si appellano sia alle leggi immutabili della natura che alla contingenza storica dei costumi, l'esclusione delle donne dal diritto di voto è attenuata dalla riserva di una sua necessità forse limitata «per lo meno» alla condizione attuale. Tuttavia l'adozione di una terminologia mutuata dalla sfera sessuale, o ad essa analoga, rivela l'intenzione di fissare il requisito essenziale del cittadino alla sua qualità biologica di maschio. Il parametro di riferimento della discriminante politica viene così stabilito nella condizione di sottomissione e dipendenza delle donne, cui vengono assimilati coloro che mancano di proprietà oppure si trovano «in stato di domesticità» cioè legati «al servizio della persona o della casa». Di come sia il sesso il vero contrassegno della libertà, indipendenza e autonomia inerenti ai pieni diritti di cittadinanza è chiaramente spiegato da Kant: «la differenza fra cittadino attivo e cittadino passivo», scrive, è costituita dall'indipendenza, ossia dalla facoltà di agire secondo il proprio arbitrio; e perciò

tutti coloro che nella conservazione della propria esistenza (nel mantenimento e nella protezione) non dipendono dal proprio impulso ma dai comandi degli altri (all'infuori del comando dello Stato), mancano di personalità civile e la loro esistenza è in certo qual modo soltanto inerenza [...] essi devono essere comandati e protetti da altri individui e in conseguenza non possiedono nessuna indipendenza civile.

Sono tali i garzoni, i servi, i pupilli, e «tutte le donne»; ma i primi, grazie alle leggi naturali della libertà e dell'uguaglianza, potranno «elevarsi dal loro stato passivo a uno stato attivo»; le donne invece non possiedono la «qualità naturale» che consente loro di accedere all'indipendenza.

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Pagina 37

Riguardo invece alle fantasie erotiche delle donne i pareri erano diversi. Tradizionalmente era ritenuto per certo che quello femminile fosse il sesso «più fantastico», che le donne avessero immaginazione più fervida. E non si trattava di quel tipo di immaginazione che contribuisce alla conoscenza del reale e produce le idee per migliorarlo, ma proprio di fantasie fallaci e sregolate che scambiano i desideri per realtà, quelle che, accese da romanzi e canzoni disoneste, si nutrono di pensieri osceni e di immagini lascive e voluttuose. Cosa che poteva accadere anche se non si masturbavano, e magari proprio per questo: nel 1675 il famoso medico Venette riteneva che le donne fossero più soggette a quelle «illusioni veneree che turbano l'immaginazione» prodotte dalla semenza corrotta, per la ragione che esse non potevano scaricarsene come invece accadeva agli uomini durante il sonno. Un secolo dopo il dottor Bienville dedicava invece un intero capitolo del suo trattato sulla Ninfomania a dimostrare come le fantasie delle fanciulle troppo immaginose fossero all'origine di passioni, eccessi e malattie, prima fra tutte l'arte funesta della masturbazione.

All'epoca era già incominciata quella campagna contro gli effetti nocivi e spesso mortali delle «polluzioni volontarie», che si intensificherà nel corso dell'Ottocento insistendo, pur se in misura minore, anche sui pericoli che riguardano le donne. Se infatti alcuni medici non se ne occupavano o ritenevano che avessero per lo più desideri molto tiepidi, altri pensavano invece che si masturbassero piu dei maschi, oppure meno ma con piu passione e fervore di immaginazione. La campagna era dunque rivolta ad ambedue i sessi, ma con misura e accenti diversi: i discorsi riferiti ai maschi, infatti, benché più martellanti contengono «un minimo di moralizzazione» e non appaiono ascrivibili, come osserva Foucault, al registro della colpa, comprese le confessioni delle «lettere dei malati» dominate più che altro dalla paura delle malattie. Si parla certo anche di voluttà e godimenti illeciti, ma desideri e piacere sembrano emozioni marginali, quasi estranee alla questione: se i bambini si toccano di solito è perché nella loro incoscienza qualche disturbo locale vi conduce la mano, e anche quando accade che intere classi si masturbino durante le lezioni pare lo facciano solo per non morire di noia. Al contrario, quando medici o pedagoghi trattano di donne allora torna a dominare il tema della lussuria sfrenata, del fuoco dei sensi e dell'esaltazione della fantasia, quella «perversione del cervello» che con immagini impure e lubriche «svergina il cuore». Ancora verso l'inizio del Novecento, quando ormai la masturbazione ha perso il suo effetto rovinoso e i discorsi dei medici si vogliono più liberi da ipoteche morali, vengono raccontati esempi di solitarie estasi femminili che possono prolungarsi «a tempo indefinito» e sono accompagnate da immagini sessuali «così vivide da divenire allucinatorie». Nei confronti dei maschi invece si registrano cambiamenti più sostanziali, e la loro masturbazione è diventata compatibile anche con l'intelligenza e perfino con un certo grado di creatività, mentre per più di un secolo era stata una pratica diffusa più che altro fra imbecilli e poveri di spirito, o fra incoscienti che lo sarebbero presto diventati. Perché il genio, spiegava Virey, poteva fiorire «solo da lui, per una forte virilità dell'uomo molto maschio», ma a patto che lo sperma venisse conservato e riassorbito nell'economia animale e non dissipato in abusive profusioni o voluttà anticipate e troppo comuni che rammolliscono nervi e cervello, raffreddano l'immaginazione e degradano il pensiero distruggendo ogni talento:

che sventura per l'uomo di lettere, per il poeta, il pittore, il musicista, per tutti gli studiosi come per tutti gli artisti che si abbandonano all'abuso delle voluttà! Vi perderà la sensibilità, primo elemento del genio; la carriera del talento come quella della guerra esigono l'uomo tutto intero, e la vera gloria può essere conquistata soltanto dai forti. Oh! se si comprendesse in quale modo ignobile tanti talenti abortiscono, come tanti fiori spogliati del loro polline e che colano senza dar frutti, si terrebbero in maggior conto queste lezioni della morale che raccomandano la castità, e che ne fanno anche un voto obbligatorio per le condizioni sociali più serie e più auguste!

La storia insegna, proseguiva Virey, che fu proprio la depravazione morale a corrompere la purezza del sangue dei nobili e a estinguerne la razza, e la facilità dei piaceri sarà sempre l'eterna rovina dei grandi e la causa che inaridisce anche la linfa più vigorosa. Perciò, solo quando si sforzano di essere continenti e riescono a spezzare le loro catene corporali, i giovani, «morti alla terra», potranno allora slanciarsi verso il cielo e raggiungere le sacre vette del genio e della gloria. Ecco invece come si riducono gli incontinenti, in particolare coloro che sono schiavi di «quegli abominevoli vizi, coi quali, soddisfacendo a se stessi, s'inganna la natura», abusi che più di ogni altro fiaccano e spossano il loro vigore fisico e intellettuale:

Tutti que' giovani magri, smunti, languidi nello sguardo, con voce dimessa e fioca, con portamento snervato, e gracile petto, membra deboli e allungate, che in copia incontransi nelle popolose città, abbandonati a cotali misere inclinazioni, le quali pari a Circe avvelenatrice mischiano la morte, e le infermità della vita nella tazza della voluttà: oh, quanto sì funesti piaceri abbattono l'animo, ed affievoliscono l'immaginazione! quante preparano sciagure, allorché le illusioni svaniscono, con quanti disgusti, e pene pagansi tali menzognere delizie! La sanità rovinata nel restante dei giorni, snervato tutto quanto il vigor dello spirito, l'imbecillità, l'ignominia, gravitano sopra il resto degli anni loro giovanili: l'impossibilità d'occupare impieghi, di godere de' vantaggi dell'esistenza, un fine infelice, ecco ciò che attende l'incauta gioventù. Veggansi nel trattato dell'onanismo di Tissot le prove di ciò che qui si asserisce.

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12. LESBISMO E FEMMINISMO



Più convenzionale l'idea dei ruoli nel discorso con cui Anna Rühling, durante il meeting annuale del Comitato di Hirschfeld nel 1904, chiedeva la solidarietà delle femministe con la lotta omosessuale asserendo meriti particolari delle lesbiche nel movimento delle donne in virtù di doti presunte loro proprie, quali ad esempio «un'energia, una spinta e una chiarezza d'intenti» tipicamente maschili:

Quando consideriamo tutto quello che le donne omosessuali hanno ottenuto in decine d'anni per il movimento delle donne, si può solo giudicare sbalorditivo che le grandi e influenti organizzazioni di questo movimento non abbiano ancora alzato un dito per assicurare al loro non insignificante numero di aderenti uraniane i propri diritti di fronte allo stato e alla società, che non abbiano fatto nulla per proteggere tante delle loro più note e devote pioniere dallo scherno e dal ridicolo quando informavano il vasto pubblico sulla vera natura dell'uranismo.

Le organizzazioni femministe infatti si disinteressavano della questione, salvo prese di posizione specifiche quali ad esempio quelle contro il progetto di legge che nel 1910, con il pretesto dell'eguaglianza fra i sessi, proponeva di estendere anche alle donne l'art. 175 del codice penale tedesco: un provvedimento ingiusto e pericoloso, dichiarava la Lega per la protezione delle madri, che avrebbe sottoposto le donne all'incompetenza del giudizio maschile e magari esposto tante lavoratrici, solo perché coabitavano per risparmiare le spese, a vergognosi ricatti e accuse. Anche le lesbiche, comunque, erano poco interessate al Comitato di Hirschfeld: la posta in gioco e la priorità delle scelte, osserva Bonnet, erano infatti diverse, poiché per tutte le donne, non ancora cittadine a pieno titolo, la questione centrale era ancora la liberazione dal loro statuto di oggetto sessuale. Si può pensare anzi che le donne si sentissero più libere come lesbiche, anche se socialmente costrette alla discrezione, che come mogli, penalmente sottoposte a quello che Colette chiamava il servizio coniugale, e forse la loro scarsa militanza nel Comitato derivava anche dalla percezione dell'ininfluenza o della marginalità degli argomenti scientifici su cui invece Hirschfeld aveva incentrato la sua strategia. Il discorso tenuto dalla Rühling nel 1904 era intitolato: «Quale interesse ha il movimento della donna nella soluzione del problema omosessuale?». Ma la domanda avrebbe potuto, e con maggior pertinenza, essere ribaltata per porre invece l'accento sugli effetti del movimento delle donne rispetto alla concezione dell'omosessualità. Le donne infatti, lottando per se stesse, lottano per tutti: per le lesbiche, sottraendole alla svalutazione, al ridicolo e allo sfruttamento generale della sessualità femminile; e per i maschi omosessuali, liberandoli dalla ragione della loro condanna, cioè la concezione svilente e infamante del ruolo cosiddetto passivo proprio delle donne. Questo almeno tendenzialmente, ché poi la realtà è spesso intersecata da variabili compensatrici o correttivi paradossali diretti a riprodurre i privilegi maschili. Succede infatti che la difesa dell'omosessualità maschile, sanzionata in forma più diretta e violenta, appaia una nobile battaglia in soccorso di vittime innocenti e riesca a guadagnare alla propria causa partigiani devoti e anche sostenitori ammirati della presunta genialità o superiorità spirituale insita nell'anomalia. Mobilitarsi in tale difesa per i medici è un'occasione per ribadire il loro status di detentori di un sapere privilegiato che li designa a parlare sempre «nell'interesse della verità, del diritto e dell'umanità, non solo dal punto di vista della investigazione scientifica». E può anche regalare la gratificazione di pensarsi emancipato dai pregiudizi di una massa di filistei retrogradi e ignoranti, l'orgoglio di sentirsi parte di un'avanguardia illuminata e perciò autorizzata a distanziarsi con sprezzo dalla cecità del volgo e dall'ipocrisia del bigotto. Al contrario, un discorso specifico in difesa del lesbismo sembra inevitabilmente ipotecato dalla derisione preventiva, la solita arma per svilire le questioni femminili, mentre la tolleranza legale lo svaluta come superfluo e lo sfruttamento voyeuristico lo retrocede all'ambito della pornografia invischiandolo di complicità ammiccante.

Da parte delle femministe, poi, una presa di posizione in favore del lesbismo avrebbe significato avvalorare un argomento spesso usato per screditare il loro movimento. Era vecchia consuetudine quella di etichettare come deviazione dalle caratteristiche del proprio sesso qualsiasi iniziativa femminile al di là del ruolo assegnato. In Francia, ad esempio, le donne che durante la rivoluzione intervenivano nelle assemblee per discutere dei propri diritti, quelle che negli anni trenta aderivano ai movimenti libertari di Saint-Simon e di Fourier, o che avevano lottato nei moti rivoluzionari del 48 o sulle barricate della Comune, avevano sempre dovuto fare i conti con le qualifiche via via di ermafrodite, androgine, virago, amazzoni, viriloidi eccetera. Ma verso la fine del secolo, alla luce della moderna sessuologia, i discorsi si fanno più circostanziati e si parlerà di forme di degenerazione che fan crescere la barba a chi si interessa di politica o che comunque associano la femminista alla lesbica mascolina assimilandola così a quel terzo sesso cui da decenni, adottando la definizione di Ulrichs, venivano assegnati gli uranisti. Già secondo i médecins philosophes erano gli stretti rapporti fra il fisico e il morale a determinare idee, passioni e sentimenti propri di ciascun sesso e i rispettivi compiti sociali, e Cabanis definiva le femmes savantes come «esseri incerti, che propriamente parlando non appartengono a nessun sesso». Ora, denominazioni quali terzo sesso, sesso neutro o esseri asessuati si applicano indifferentemente sia alle lesbiche, considerando così inesistente una sessualità non rivolta al maschio, sia alle donne «dal cervello di fuoco e dal cuore di ghiaccio» che non sacrificano al matrimonio i loro interessi professionali o intellettuali. C'è anzi chi afferma, così riferisce Bloch, che la cosiddetta questione femminile concerna per lo più «le donne omosessuali virili»; affermazione dubbia, continua l'autore, anche se «il movimento femminista ha certo molta importanza per la diffusione della pseudo-omosessualità».

In effetti pare diffusa una chiara autoconsapevolezza delle valenze socialmente eversive insite negli amori fra donne, e questo anche nelle sue rappresentazioni estetizzanti e decadenti: gli uomini sono «avversari politici», afferma la protagonista di un romanzo di Renée Vivien, ed è per sete di giustizia contro le loro leggi squallide e la loro morale corrotta che apprese ad esaltarsi al pensiero della donna e ad odiare il maschio. E ancora: «Le azioni degli uomini hanno sempre avuto come unico scopo quello di asservire la donna ai loro stupidi capricci, alla loro sensualità, alla loro tirannia ingiusta e feroce. E come non odiare un individuo che si presenta sotto le vesti di padrone?». È anche più che probabile che si sia verificato un aumento dei rapporti lesbici, come sembra accadere nelle situazioni caratterizzate da maggiore stima, solidarietà e fiducia fra donne. L'incontro fra Sibilla Aleramo e Lina Poletti all'affollatissimo Convegno delle donne italiane nel 1908 a Roma, non ne è forse che l'esempio più famoso. Già Fourier era convinto che l'inclinazione al saffismo fosse in rapporto con l'emancipazione e che perciò nel nuovo mondo di libertà e armonia da lui sognato sarebbe stato l'amore più diffuso:

Si può osservare già ai nostri giorni che le donne, nello stato di libertà, di perfettibilità come quello di Parigi, hanno molta inclinazione al saffismo. I giornali di Parigi si sono a volte lagnati che tale gusto si sia tanto generalizzato tra le giovani della capitale; il sesso femminile è infatti più incline dell'altro alla monosessualità. Ora, in un ordine nuovo in cui saranno scomparse tutte le diffidenze e inimicizie femminili, in cui il meccanismo delle serie di riunioni e gli altri equilibri passionali avranno eliminato tutte le attuali gelosie tra le donne, non sarà sorprendente se tutte o quasi tutte preferiranno un rapporto che già vediamo così diffuso nei luoghi in cui esse sono più emancipate.

Per molti medici e sociologi di fine secolo il rapporto fra emancipazione e lesbismo derivava invece dalla perniciosa influenza delle femministe più attive, quelle animate dalla cieca avversione verso il maschio e dall'invidiosa pretesa di imitarlo in tutte le sue funzioni e prerogative, e «logicamente» anche in quelle sessuali. Succede così che, dopo secoli di stigmatizzazione verso gli amori fra maschi e di sostanziale indifferenza verso quelli tra donne, la situazione a volte tenda a capovolgersi, in particolare da parte di quegli autori che si considerano più illuminati e progressisti: quando riguarda l'uomo, l'omosessualità può diventare una deviazione che sovente lo obbliga ad agire con più nobiltà e che ha avuto una sua benefica influenza civilizzatrice nella storia dei popoli; fra le donne invece è un fattore di disordine e corruzione che si accompagna a un aumento di nevrosi, suicidi, pazzia e criminalità.

Questo nel contesto del movimento di emancipazione, quando la risonanza della questione femminile e l'uso generale della diffamazione sessuale rendono difficile o contraddittorio ricorrere a difese di tipo svalutativo, quelle più tradizionali perché più sintoniche con le richieste del narcisismo maschile. Da fatto privato e irrilevante come puo esserlo «una porcheriola vigliacca», il lesbismo diventa allora una sorta di patologia sociale in quanto non è più eludibile la sua componente di negazione della gerarchia fra i sessi. Questa infatti, e non una generica questione di morale, si conferma come la specifica ragione della condanna dell'omosessualità, sul cui parallelo con il movimento femminista aveva già insistito Proudhon nel 1865 nel suo pamphlet contro le seguaci di Enfantin:

Ogni deviazione dell'essere genera malattia e deformità. Il giovane omosessuale che affetta grazie femminee, è disgustoso quanto il negro dalla faccia di gorilla; la donna che porta scopettoni e baffi, è forse ancor più laida. Per questo motivo la sedicente intellettuale che dogmatizza, che perora, che scribacchia [...] la donna che si affibbia una barba filosofica [...] questa donna decade dalle sue qualità e diventa brutta.

Uguaglianza dei sessi. [...] Comunanza, promiscuità, confusione dei sessi; degradazione per l'uomo, che si effemina; degradazione per la donna, che si prostituisce; disfacimento del corpo sociale, che cade nella schiavitù e nella sodomia.

Tutto è collegato: chi vuole la distruzione del matrimonio, l'emancipazione della donna, vuole la rovina del diritto e della libertà, è alla sodomia che finisce per approdare. Tutto ciò è molto chiaro e netto.

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Pagina 222

Le polemiche contro la dottrina del darwinismo sociale erano state frequenti fin dalle sue prime formulazioni e avevano accompagnato la sua diffusione. In particolare ne era stata sottolineata la potenziale pericolosità: Walter Benjamin aveva messo in guardia contro la frequente e facile accettazione del grossolano assunto «per cui quella violenza che è quasi esclusivamente adeguata a fini naturali, sarebbe perciò stesso anche giuridicamente legittima», e Novicow la qualificava come una teoria criminale «che vede nell'omicidio collettivo la causa dei progressi del genere umano», un veleno che da quasi quarant'anni fa vivere l'Europa «in un formidabile sogno folle, in una specie di delirio omicida». Nel pensiero di Croce però, insieme al disprezzo e alle accuse, si trova anche l'affermazione esplicita e ripetuta dell'affinità fra quella «mal ragionata» filosofia del naturalismo e il gusto «lussurioso e sadico» proprio della letteratura ispirata al nuovo irrazionalismo romantico o a correnti variamente denominate come attivistiche, dinamiche, imperialiste o futuriste, tutte improntate a ideali di «nazionalismo sensualistico» che ben figurerebbero in un «trattato di patologia sessuale».

Più che frutto del medesimo clima culturale, il sadismo appare dunque il retroterra ideologico della moda del darwinismo sociale, il tramite del consenso generale e spesso entusiastico con cui essa fu accolta. Concetti improntati a un determinismo biologico tanto schematico e a un così esplicito relativismo o nichilismo morale da identificare il fondamento dell'agire maschile in un primordiale nucleo istintivo refrattario a ogni istanza etica o evoluzione sociale; un istinto che sarebbe costituito sempre e soltanto da aggressività e crudeltà, prime determinanti di un impulso riproduttivo ridotto a bramosia di potere e in cui il piacere erotico viene fatto consistere nel soggiogamento e nel possesso violento del più debole: questi, come abbiamo visto, gli elementi di base della teoria del sadomasochismo elaborata dalla scientia sexualis a difesa del potere maschilista. Una teoria che, forte del crisma scientifico, diventa habitus ideologico, e ben oltre il suo ambito originario si diffonde da un campo di pensiero all'altro senza neppur bisogno di travestire i suoi concetti. Sono schemi argomentativi, priorità di valori, immagini lessicali che il riferimento continuo all'autorità della scienza e al prestigio delle arti ha reso inconfutabili, vengono ripetute come ovvietà naturali, presentate con la patina familiare del luogo comune e con un linguaggio semplice e suggestivo, lontane da costruzioni filosofiche o scientifiche complesse e variamente interpretabili, ben rispondenti invece a profonde istanze rivendicative e consolatorie. Questo materiale concettuale e affettivo fa da sfondo alla reinterpretazione in senso sociale dei modelli darwiniani: la lotta per l'esistenza diventa volontà di potenza, la sopravvivenza del più adatto si trasforma in quella del più forte, la vittoria si fa intrinseco criterio di legittimità etica e validazione giuridica; e sulla traccia del pensiero di De Maistre – l'uomo è un animale che «uccide per nutrirsi, uccide per vestirsi, uccide per ornarsi, uccide per attaccare, uccide per difendersi, uccide per istruirsi, uccide per uccidere» – viene elaborata, accanto alla nuova estetica dell'istinto e della violenza, una teoria sociale in cui è considerato normale che i rapporti diventino antagonismo crudele, inesorabile e senza pietà.

Da reazione maschilista nutrita di sogni di onnipotenza aristocratica, la teoria del sadomasochismo si diffonde infine come categoria interpretativa generalizzata. Orienta la prospettiva che riconfigura la vecchia metafora sessuale di un bagno in mare:

L'umanità subisce il coito delle forze. Ecco, donne e bambine si avanzano con paura-coraggio, frenetica allegria e isterico terrore contro l'urto dell'ondata... Voglio, non voglio, temo, ho paura, scappiam, restiamo, pigliamola in faccia. Dio! i capelli!... Tutta bagnatal... Che freddo! l'acqua sulle gambe e sul ventre! Mi do a te, mi apro tutta a te, mare rude, potente invadente massiccio, mare sverginatore, uccidimi possiedimi mare guerra, eroismo massacro! Ho paura, mi fai male sei troppo brutale, mi piaci, ti odio!...

Diventa un modello nella rivendicazione programmatica di un rapporto esistenziale con l'arte dalle pretese rivoluzionarie:

Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.

Ricorre negli appelli nazionalisti a una volontà di trionfo che guardi all'avvenire sapendo che «la fortuna e la storia sono donne, e amano soltanto i gagliardi capaci di violentarle», e sull'«Avanti!» è usata da Mussolini come immagine esemplificatrice di un agire politico aggressivo, che consideri le masse come una realtà che deve «essere conquistata, violentata, fecondata dai partiti». Sempre da Mussolini, in una sorta di citazione-collage dalla Genealogia della morale che accentua la connotazione sadica del pensiero di Nietzsche, viene assunta contro le congetture di Rousseau e dei «suoi illusi seguaci» come la vera teoria esplicativa della genesi dello stato:

È un branco di biondi animali da preda – è una razza di signori e di conquistatori che si getta sulle popolazioni limitrofe, disorganizzate, deboli, nomadi. È una violenza compiuta da uomini che – nella e per la loro organizzazione guerresca, non hanno il concetto di riguardo al prossimo, di responsabilità, di colpa. Il loro egoismo di forti non ammette limitazioni. Essi sentono la pienezza della loro vita e la tensione delle loro energie sol quando possano stritolare un altro essere umano. Lungi dal comprimerlo essi danno libero sfogo al loro primordiale istinto di crudeltà. La loro divisa è la parola d'ordine dell'orientale setta degli assassini. Nulla esiste, tutto è permesso. E aggiungono: veder soffrire fa bene, far soffrire fa meglio.

Le nuove «verità» storiche e scientifiche secondo cui l'aggressività è potenza e la vittoria legittima il dominio sui vinti e dunque inferiori — individui, popoli, razze o nazioni che siano — circolano nella letteratura, nella saggistica, nel discorso politico e giornalistico, magari ammantate di misticismo pseudofilosofico sull'inestinguibile slancio ideale a una «espansione superiore», o sugli ineffabili destini per cui «le minoranze veramente spirituali si elevano sopra il gregge, perché vivono intimamente congiunte con l'unità spirituale dell'Ego umano»: un'orgia di vuota retorica e termini equivoci, commentava Garin, cui si dedicano in gruppo coloro che, quando la farsa diventerà tragedia, «si faranno mistici della violenza, mistici della razza, mistici della guerra, teorici dell'odio, giustificatori della strage». Essi però non si ispirano direttamente, o almeno non più, ai testi canonici delle varie teorie evoluzioniste, razziste o imperialiste:

Gli scrittori del dopoguerra — scrive Hannah Arendt — non avevano più bisogno delle dimostrazioni scientifiche della genetica, e non sapevano che farsene delle opere di Gobineau o di Houston Stewart Chamberlain, che appartenevano già al bagaglio culturale dei filistei. Essi non leggevano Darwin, ma il marchese de Sade.

Sono ormai decenni che, sulla falsariga della trasformazione del principio maschile attivo nel potere violento del sadismo, seguaci di dottrine che di volta in volta vengono definite come filosofie dell'attivismo, del volontarismo, dell'irrazionalismo, oppure dell'idealismo o spiritualismo, continuano a confondere il principio di attività con la volontà di potenza ed estendono il concetto di azione fino a farlo coincidere con quello di violenza. La quale viene celebrata come realtà sublime ed eroica, garanzia di una umanità superiore, potenza rigeneratrice della decadente e femminilizzata società; quella forza virile che, insofferente dei percorsi tortuosi e degli ipocriti compromessi dei politicanti, fulminea recide il nodo e sa procedere inflessibile all'imposizione brutale e risolutiva della propria volontà.

Nel corso della sua storia il pensiero filosofico si era spesso interrogato sul concetto di violenza e ne aveva esaminato i limiti etici e i fondamenti razionali o i rapporti con il potere e la giustizia. Scuole diverse avevano discusso se e in che senso la violenza poteva essere considerata «creatrice di diritto», o ne avevano sottolineato la provvidenziale funzione civilizzatrice nella genesi e nello sviluppo dell'organizzazione della società; era stata riconosciuta come effettiva risoluzione nei conflitti fra nazioni o come ultima ratio dell'azione politica, perché i patti senza la spada non sono che parole, ed esisteva anche una voluminosa letteratura sulla patriottica «teoria del pugnale» o sulla necessità della violenza come levatrice di un nuovo e più giusto sistema sociale. Ma in queste concezioni la violenza non poteva comunque prescindere dal suo carattere strumentale e solo dal criterio dei fini poteva o meno derivare la propria giustificazione, così come la ricerca di potere di uno stato si intendeva posta al servizio di finalità etiche superiori alla mera imposizione del dominio. Ora invece dilaga una moda filosofeggiante che, scriveva Treves, è «pura idolatria di violenza», la quale viene dotata di uno statuto di moralità intrinseca, diventa essenza divinizzata, libertà, spirito, soggetto, potenza etica e ideale tipica dell'età virile. Così ad esempio nell'apologia del teorico del fascismo Sergio Panunzio, secondo il quale, coincidendo col diritto naturale e costituendo la radice di ogni sistema giuridico positivo, la violenza diventa mezzo e fine, materia e forma, corpo e anima: in sintesi, «l'eterna e inestinguibile semenza di vita», «l'anima stessa, la divina semenza della storia dell'uomo». Ma già nella polemica di Sorel contro la prassi riformista del socialismo parlamentare, l'appello alla lotta di classe serve a coprire un'ideologia in cui l'attivismo, il culto dello slancio vitale, dell'atto virile ed eroico della violenza proletaria creatrice di morale e di virtù non sono strumentali rispetto alla costruzione di una giustizia futura, ma piuttosto rappresentano essi stessi i valori costitutivi del nuovo mondo rigenerato. Nella sua «apologia della violenza» come unica forza in grado di educare, salvare, redimere il popolo e restituire l'antica energia alle nazioni europee «abbruttite dall'umanitarismo», l'accento non è spostato sugli obiettivi da raggiungere ma rimane ancorato sulla violenza stessa, mitizzata come fonte del sublime e valore etico assoluto e perciò in grado di attribuire valore ai mezzi usati. Primo fra tutti allo sciopero generale il quale, costituendo in ultima istanza «un'omissione di azioni, un non-agire», avrebbe anche potuto essere qualificato, se non altro a scopo persuasivo, come mezzo di lotta pacifico e non violento, e che invece viene esaltato da Sorel come la mitica arma della violenza proletaria.

Contro il dilagare di teorie che arrivano a negare qualsiasi valore a principi e diritti preesistenti o autonomi dalla pura coercizione, Rodolfo Mondolfo sottolineava il pericoloso errore di una celebrazione della violenza che «si è creduta da serva divenuta padrona, da ostetrica trasformata in procreatrice», e alla moda delle esaltazioni misticheggianti o estetizzanti opponeva la definizione secondo cui, «reazionaria o rivoluzionaria che sia»,

violenza in generale è l'azione di chi, con qualsiasi mezzo di coercizione e d'intimidazione – dalla guerra offensiva e di conquista al blocco, dalla minaccia armata al ricatto economico, dall'uso dichiarato di una condizione di privilegio all'insidiosa creazione di una altrui inferiorità, dalla conservazione di un regime legislativo di disuguaglianza all'introduzione di leggi eccezionali e all'instaurazione del terrore e via dicendo – domina, soggioga, costringe a rinunce, vilipende la dignità umana, nega l'universalità del diritto.

Che siano riferiti all'ambito delle relazioni sessuali o a quello della prassi sociale e politica, si tratta sempre di quei principi di «attivismo» che la teoria scientifica del sadomasochismo ha sanzionato come costitutivi della natura biologica e perciò dell'espressione etica dell'identità maschile. Principi che non conoscono la loro attuazione su larga scala nei confronti delle donne, verso le quali non sembra siano riusciti a incidere di fatto in modo significativo, ma che piuttosto sono invocati come ragione di una guerra che in gran parte d'Europa viene lungamente attesa e poi entusiasticamente salutata come prova di virilità e restauratrice del suo potere. Per i seguaci dell' Action française, in un mondo così corrotto e femminilizzato da «laicismo, democrazia, socialismo, femminismo», solo la salutare violenza della guerra avrebbe potuto ricondurre a «un sentimento più sano e più virile» e riconsacrare «l'Autorità su tutta la linea». In particolare in famiglia, «l'istituzione forse più minacciata dalle utopie moderne», il potere virile e paterno ora tanto minato e compromesso sarebbe uscito «più forte, più solido ed eminente, come una magistratura di fronte alla quale la donna stessa si inchinerà di buon grado». Particolarmente euforici, i futuristi continuano ad alternare professioni di disprezzo per le donne e di amore per la guerra invocando «un caldo bagno di sangue nero», l'igiene della «doccia sanguinosa», le «vittime, vittime, vittime» dal sangue indispensabile alle ruote della storia, e inneggiano all'apertura del «macello all'ingrosso» che permette a ciascuno di rubare il mestiere al boia. In Germania, contro mercanti e filistei si cantano «le idee del 1914» grazie alle quali l'uomo potrà cessare di essere «un verme della terra», e sul versante opposto lo scrittore Robert Graves così raccontava l'eccitazione sua e dei suoi compagni all'annuncio dello scoppio delle ostilità: «Spingemmo fuori la lingua vanagloriosa, pugni stretti e membro gagliardo», pronti a «prematuri orgasmi di morte».

Un secolo prima, combattere in guerra significava assumere una responsabilità militare che avrebbe aumentato e giustificato la responsabilità politica del cittadino; adesso è diventato occasione di riscatto maschilista, la possibilità di sentirsi parte di «un corpo maschile collettivo» in cui tutti hanno la possibilità di vivere l'identificazione fra maschilità e violenza affermata dalla scientia sexualis, così da poter sentire e dimostrare, come scrive Jünger, di «non essere castrati». Ma mentre nella teoria di Krafft-Ebing la concreta «voluttà del sangue» era considerata patologica o quantomeno adolescenziale, nella letteratura di guerra di Jünger o Marinetti si è trasformata nell'espressione più autentica e profonda della virilità. Anche le interferenze linguistiche hanno cambiato direzione e significato: nelle metafore delle case che implorano e godono d'essere spaccate con «voluttà crudelissima», o nel «dilaniamento radioso e lo schianto del piacere nel buio-noia-attesa della carne nemica! [...] l'abbandono assoluto sfondato a cosce larghe di tutti i reticolati, ritegni, difese, pudori, ricordi», non è più la strategia militare a prestare all'amore le sue immagini di accerchiamento, assalto e conquista, ma al contrario è la concezione sadica del sesso che colora di sé ed erotizza la violenza e il sangue della guerra. In modo particolarmente ossessivo questo avviene nella prosa di Marinetti, versione letteraria di quei «peana di battaglia» di impronta scientifica i quali dissertano sull'identità delle basi fisiologiche dell'amore e della guerra, concepita questa come «superattività funzionale di organismi maschi», o «amplificazione evoluta di un iniziale diritto non al cibo, ma all'amore»: cosicché, scriveva ad esempio Emanuele Gallo a sostegno dell'impresa libica, essendo «l'epilessia guerresca» meravigliosamente collimante fin nei minuti particolari con «l'epilessia amorosa», accade che «la deficienza o la deformazione della passionalità» porti a rovina i popoli infrolliti, i quali saranno inevitabilmente sopraffatti da chi sa ancora amare secondo natura e con torva gelosia, ed è perciò ancora in grado di esultare nell'«evviva corporeo della guerra».

Ma la guerra come festa del sangue, ebbrezza irresistibile, orgia inebriante eccetera, nonostante le generalizzazioni della letteratura psicologica, è però soltanto un elemento della guerra «degli intellettuali», di quelli che possono viverla con la divisa di ufficiale, al comando di una truppa che da parte sua pare invece del tutto «reticente e chiusa ad ogni fervore attivistico». Sempre tra ufficiali e intellettuali si distingueranno i più pronti nell'adesione al fascismo: instaurando la legge della violenza e il diritto del più forte, il nuovo ordine trasforma i vizi privati di Sade nelle virtù pubbliche dell'era totalitaria, così da poter venire salutato da Drieu La Rochelle in Socialismo Fascista come «la contrazione dell'uomo europeo intorno alla idea di virtù virile».

Il fascismo dunque come prodotto e insieme riproduzione su larga scala dell'«uomo nuovo»: attraverso una dilagante «liturgia della crudeltà» il cui vocabolario scende fin sui quaderni delle scuole elementari, verrà forgiato l'eroico combattente consapevole della propria virilità e insieme della grandezza delle storiche ascendenze della patria di cui è pronto a restaurare l'antica potenza. Alieno fin dall'infanzia «da eccessivi agi e da colpevoli mollezze», imparerà che la guerra è sogno meraviglioso, impresa miracolosa, l'autentica realizzazione della vita, conoscerà «la bella violenza che schianta» perché sano e giovane negli istinti, e saprà incarnare «la volontà in azione, il pensiero in atto, l'idea che si estrinseca in forza immediata», senza fiaccarsi nei meandri dello spirito critico che mina la dedizione e la disciplina dello spirito guerriero seminando anarchia. Perché, pur orgoglioso dell'appartenenza a una squadra vissuta come una via di mezzo fra la gang e il manipolo di eroi, il gregario deve pagare lo scotto alla teoria del masochismo del subalterno, o a quel principio, ineludibile secondo Mondolfo, per cui «non si erige impunemente la volontà di potenza e di dominio a legge suprema dell azione dello stato» senza giungere poi a negare la libertà del popolo e anche la sua stessa dignità umana. L'uomo nuovo dovrà perciò annullare la propria volontà in quella del suo capo, votargli obbedienza e fedeltà assolute e sottomettersi alla «severa disciplina di morte» richiesta dai superiori destini della nazione. Riacquisterà invece tutte le prerogative del ruolo maschilista con la sua donna, come esemplificato dal modello di Mussolini con la moglie, la quale «vive di lui e guarda a lui come a un Iddio. L'ha seguito orgogliosa e felice in tutta la sua vita turbinosa: e l'ha sempre adorato in un silenzio mistico». Con lei potrà incarnare «l'Uomo per eccellenza, la quintessenza della virilità», quella figura che, scriveva Virginia Woolf in Le tre ghinee, in tedesco e in italiano si chiama Führer o Duce e dietro la quale si vedono macerie e cadaveri, ma il cui embrione velenoso è riconoscibile in ogni paese, racchiuso in ogni maschio che si arroga il diritto di predicare sui doveri delle donne verso la famiglia, il marito, i figli, la casa.

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