Copertina
Autore Sergio Luzzatto
Titolo Il crocifisso di Stato
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Vele 63 , pag. 128, cop.fle., dim. 10,5x18x1 cm , Isbn 978-88-06-20727-4
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe religione , scuola , storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 2010
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Indice


  6  1.  La giornata d'uno scrutatore
 11  2.  Il vangelo secondo Natalia
 17  3.  Piú il Calvario che il Regno
 23  4.  L'albero del Talmud
 29  5.  Don Chisciotte a Cuneo
 35  6.  Si fa presto a dir pretesto
 41  7.  C'è un giudice a Strasburgo
 49  8.  Lettere scarlatte
 52  9.  Altri Cristi
 58  10. Ancora l'ex materassaio di Arezzo
 62  11. La marcia su Roma del crocifisso
 69  12. Prigionieri del Vaticano
 74  13. L'utopia di Cavour
 81  14. La vera religione
 85  15. Il crocifisso tricolore
 88  16. Quel professore con la kippah
 95  17. Dialettica dell'oscurantismo
101  18. Le zucche di Halloween
105  19. Gli illusionisti dell'identità
110  20. La doppia elica

117 Nota


 

 

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Pagina 3

Senza il crocifisso sul muro, dicono, l'Italia non sarebbe piú la stessa. Se il simbolo cristiano della Passione non avesse piú il diritto (o l'obbligo) di stare appeso alle pareti dei nostri edifici statali, tutti gli italiani verrebbero privati di qualcosa di particolarmente prezioso, perderebbero un ingrediente costitutivo della loro identità. Non lo dicono solo tanti cattolici, che pure - quando vogliono raccogliersi davanti all'arredo sacro che piú direttamente ricorda il sacrificio del Salvatore - possono ben farlo in una chiesa, inginocchiandosi davanti al crocifisso che sta presso l'altare. Lo dicono tanti laici. Quand'anche riconoscano di non credere nella Buona Novella, si affannano a spiegare che sí, che il crocifisso significa qualcosa anche per loro, o comunque che sta bene là dov'è. E poi, aggiungono, quel pezzo di legno e d'avorio non ha mai fatto male a nessuno.

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Pagina 12

Nell'inverno 1987-88, la professoressa Migliano Montagnana aveva sollecitato il preside dell'istituto tecnico a rimuovere il crocifisso da tutte le aule dove questo fosse esposto, «in ottemperanza alla lettera e allo spirito del nuovo Concordato»: il concordato firmato dall'Italia con il Vaticano nel 1984, che non qualificava piú la religione cattolica, come nei Patti lateranensi del 1929, «sola religione dello stato». Per protesta, Maria Vittoria Migliano si era impegnata a sospendere ogni sua attività didattica fino alla rimozione di tutti i crocifissi dalle pareti dell'istituto. Sottoposta d'ufficio a un procedimento disciplinare, e inquisita dalla magistratura per interruzione di pubblico servizio, la moglie di Montagnana non aveva ottenuto alcun pronunciamento dirimente, né del ministero della Pubblica Istruzione né dell'autorità giudiziaria. La caduta del governo in carica, nel marzo 1988, aveva fatto svaporare il "caso" come una bolla di sapone.

In compenso, la battaglia della professoressa di Cuneo aveva dato luogo a significativi riflessi di stampa. In particolare, un articolo di giornale che va qui riletto con attenzione, perché costituisce l' Ur-Text, il testo primigenio contenente tutte (o quasi tutte) le ovvietà, le melensaggini, le inesattezze, che nei decenni successivi avrebbero sostenuto l'argomentare dei cosiddetti difensori del crocifisso. Un catalogo di nonsenso spacciato per un decalogo di sapienza. E spacciato tanto piú facilmente in quanto possedeva il pedigree giusto: aveva le carte in regola sia per la burocrazia dell'intellighenzia laica, sia per il tribunale della moralità cattolica. Non era stato pubblicato su un bollettino parrocchiale qualsiasi, ma sulle pagine dell'«Unità», organo ufficiale del Partito comunista italiano. Lo aveva scritto (e lo aveva scritto con il cuore in mano, com'era solita fare) una donna dichiaratamente di sinistra, allora parlamentare della Sinistra indipendente. Per di piú - ciliegina sulla torta - lo aveva scritto una donna dalle ultranote origini ebraiche. L'articolo si intitolava Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano. L'autrice era Natalia Ginzburg.

Grazie alle virtú moltiplicatorie del web, il testo della Ginzburg vive oggi di una floridissima sua vita virtuale: tagliato e incollato dovunque si voglia denunciare, online, i biechi sostenitori del "muro bianco". Eppure, questo vangelo secondo Natalia è un testo di imbarazzante pochezza, che non fa onore alla magnifica autrice di Lessico famigliare. Nel catalogo delle ovvietà, possiamo iscrivere considerazioni del genere: «La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? Sono quasi duemila anni che diciamo "prima di Cristo" e "dopo Cristo". O vogliamo forse ora smettere di dire cosí?» Nel catalogo delle melensaggini: «Gesú Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso d'una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l'idea della croce nel nostro pensiero. Tutti, cattolici e laici, portiamo o porteremo il peso d'una sventura, versando sangue e lagrime, e cercando di non crollare. Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici». Può sembrare incredibile, ma sono simili piattitudini che gli alfieri del crocifisso sul muro raccolgono come fossero beatitudini.

Il peggio viene dalle inesattezze contenute nel testo di Natalia Ginzburg: affermazioni di imperdonabile superficialità, che pure riecheggiano oggi - con l'avallo della "grande scrittrice ebrea" - nella bocca di cattolici veri o presunti, di atei devoti, di laici o pseudolaici. «Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. È là muto e silenzioso. C'è stato sempre»: cosí la Ginzburg, tirando le orecchie alla «signora Maria Vittoria Montagnana», sull'«Unità» del 25 marzo 1988. E queste parole, tanto immeritatamente fortunate, basterebbero da sole a giustificare un libretto polemico come quello che il lettore si trova in mano. Un libro scritto contro la leggerezza, contro l'ignoranza, contro l'ipocrisia di chi vuole il crocifisso alle pareti dei nostri edifici statali sulla base di argomenti inconsistenti. E un libro mosso dalla persuasione che l'esposizione del crocifisso, a differenza di quanto sostenuto dalla Ginzburg («è un problema da nulla», «è una cosa di nessuna importanza»), dica molto di noi italiani: illustri fin troppo ciò che siamo senza neppure accorgercene, e ciò che non siamo capaci di diventare.

È falso che il crocifisso sia appeso da sempre sui muri delle nostre scuole statali, delle nostre carceri, dei nostri tribunali. Come vedremo, ci è arrivato in un momento preciso della storia d'Italia, e a seguito di circostanze epocali. È falso che il crocifisso se ne stia muto e silenzioso. Come tutti i simboli sacri o profani, anche il crocifisso parla, e proprio dalla sua eloquenza deriva la sua ragione di presenza. È falso che il crocifisso non generi alcuna discriminazione. Al contrario, la storia dell'Occidente cristiano è stata profondamente segnata, per mille anni dopo l'anno Mille, dal valore discriminatorio del crocifisso: un arredo religioso la cui fortuna ha coinciso precisamente con la volontà di separare (secondo l'etimologia latina del verbo dis-criminare) i meriti dei buoni cristiani dalle colpe degli eretici, dei giudei, dei mori. Pretendere che sia un simbolo universale - «rappresenta tutti», leggiamo in Non togliete quel crocifisso - significa quindi, né piú né meno, farsi beffe della storia.

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Pagina 23

4. L'albero del Talmud.

Simbolo muto e silenzioso il crocifisso, come si legge nel vangelo secondo Natalia? Se davvero lo fosse, non si capirebbe né lo zelo con cui generazioni e generazioni di artisti hanno interpretato il soggetto della crocifissione, né la venerazione con cui generazioni e generazioni di fedeli si sono inchinati, nelle chiese, davanti al segnacolo del Supplizio; e hanno appeso quel segnacolo nelle loro case, al capezzale, nella stanza dove gli sposi generavano i figli, dove i bambini venivano al mondo, dove gli infermi combattevano la malattia, dove i vivi chiudevano gli occhi ai trapassati. In fondo, nulla è piú offensivo da dire riguardo al crocifisso che definirlo un simbolo muto e silenzioso. Nulla è piú gravemente lesivo del messaggio evangelico. A tutti quelli che hanno la fede per ascoltarlo, il crocifisso parla, anzi urla. Urla la storia dell'Incarnazione, il dramma della Passione, la novella della Salvezza.

Sostenere che il crocifisso sia un simbolo muto e silenzioso non è offensivo soltanto per i veri cristiani. È offensivo anche per chi cristiano non è, e conserva memoria di come e quanto l'urlo del crocifisso sia stato raccolto dalla Chiesa alla stregua di una dichiarazione di guerra: guerra ai musulmani, guerra agli ebrei. Del resto, se davvero le cose stessero come nel vangelo secondo Natalia, non si capirebbe neppure il rovescio di questa vicenda. Perché dal Medioevo in poi, la guerra del crocifisso non è stata combattuta soltanto dai cristiani contro gli infedeli: è stata combattuta anche dagli infedeli contro i cristiani. Nel momento in cui l'immagine del Calvario è divenuta arma di guerra, inevitabilmente si è trasformata in un obiettivo di rappresaglia. Sia il discorso islamico, sia il discorso ebraico hanno designato nel crocifisso non il piú sacro, ma il piú blasfemo dei simboli. E seguaci di Maometto come di Mosè hanno scatenato contro il crocifisso una guerriglia piú che mai concreta, materica, vandalica.

Ben prima dell'anno Mille, il Talmud aveva tenuto a offrire un'immagine negativa - insieme sarcastica e polemica - della figura di Gesú crocifisso. Certo, i rabbini della tarda antichità si erano fatti beffe di un po' tutti gli ingredienti costitutivi della Buona Novella: la pretesa del Messia di essere figlio di Dio, la sua nascita dal grembo purissimo della Vergine, il miracolo della Resurrezione. Ma i rabbini si erano soprattutto impegnati nello smontare il racconto evangelico della messa a morte di Gesú e della sua crocifissione. Il Talmud insisteva sul fatto che non Ponzio Pilato, bensí il Sinedrio aveva deciso di condannare lo stregone di Nazareth alla pena capitale. E il Talmud contraddiceva il Nuovo Testamento riguardo alle modalità di esecuzione della sentenza. Secondo la vulgata dei rabbini - indifferenti all'evidenza storica - Gesú non fu mai crocifisso. La sentenza di morte non venne applicata nel rispetto della legge romana, che prevedeva appunto la crocifissione, ma nel rispetto della legge ebraica: Gesú fu lapidato. Dopodiché, i magistrati del Sinedrio riservarono alle sue spoglie la punizione prescritta per i criminali peggiori: quando i colpi di pietra ebbero ragione di lui, il falso Messia venne appeso a un albero.

Le guerre (anche le piú «asimmetriche», come oggi suoi dirsi) si combattono sempre in due; l'effetto collaterale di un millenario antisemitismo cristiano è stato una millenaria cristofobia ebraica. I rabbini di Palestina e di Babilonia che compilarono il Talmud replicarono per tempo all'accusa cristiana di «deicidio», rivendicando la responsabilità come il merito di avere ucciso nel Nazareno un eretico dell'ebraismo. Scopertamente contrapposto alla croce dei Vangeli, l'albero del Talmud stava a significare questo: sí, lo abbiamo ucciso noi, e abbiamo fatto bene. Sicché la tradizione iconografica cristiana, che a partire dal XII secolo avrebbe insistito sul ruolo diretto degli ebrei nel dramma del Calvario, non fece che rispondere per le rime alla tradizione letteraria rabbinica. E quest'ultima preparò il terreno a un'altra forma di cristofobia, piú o meno diffusa nelle comunità ebraiche d'Europa fra tardo Medioevo e prima età moderna: la pratica di gesti - o addirittura di riti che avevano il crocifisso per bersaglio non piú metaforico, ma reale.

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In realtà, nel momento in cui aveva deciso di battersi affinché venisse rispettato lo spirito del nuovo Concordato, una volta di piú il professore di Cuneo si era trovato a fare i conti, se non con la sua storia personale, quanto meno con la sua storia di famiglia. Mezzo secolo prima, al tempo dell'Assemblea costituente, nessun uomo politico piú dello zio di Montagnana - Palmiro Togliatti - si era assunto la responsabilità storica di lasciare che la Repubblica italiana si iscrivesse in continuità con il regno d'Italia per quanto atteneva ai rapporti fra Stato e Chiesa. Di contro alle istanze dei socialisti e degli azionisti, i comunisti avevano trovato un'intesa con i democristiani per recepire, all'articolo 7 della costituzione repubblicana, i Patti lateranensi del 1929; che a loro volta avevano recepito, all'articolo primo del trattato fra Italia e Santa Sede, l'articolo primo dello statuto albertino del 1848: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato». Nulla di simile nel Concordato del 1984. Il cui protocollo addizionale recita anzi, a scanso di equivoci: «Si considera non piú in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano».

Non essendo piú la religione cattolica religione di Stato, Montagnana si sentí autorizzato a contestare la presenza del crocifisso nello spazio pubblico. E la corte di Cassazione, nelle motivazioni della sentenza del 2000 in cui il professore di Cuneo venne definitivamente assolto per il caso del seggio elettorale n. 71, gli diede ragione. L'esposizione del crocifisso nelle sedi della pubblica amministrazione - scuole, tribunali, carceri - è illegittima, perché incompatibile con quanto stipulato dalla Costituzione in materia di uguaglianza, di laicità, di libertà di coscienza. «In particolare, l'imparzialità della funzione di pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto della fede, che ogni immagine religiosa simboleggia».

Al di là del tecnicismo della prosa, il concetto era chiaro. E suonava come una smentita non soltanto delle precedenti sentenze di condanna contro Montagnana, ma anche di un parere che il Consiglio di Stato aveva emesso, nell'aprile del 1988, riguardo al caso di sua moglie, la professoressa Maria Vittoria Migliano. «Il Crocifisso o, piú comunemente, la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa»: cosí il Consiglio di Stato nel 1988. Dodici anni piú tardi, pronunciandosi sul caso del seggio cuneese n. 71, la Cassazione respinse in toto un argomento del genere. Nessuna «radice storica» può imporre agli italiani una presunta universalità del cristianesimo, a fronte del dettato costituzionale che riconosce pari dignità sociale a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro confessione religiosa.

Il crocifisso va tolto dal muro: questo stabili la Cassazione nel 2000, premiando la battaglia una e bina dei coniugi Montagnana. E a questa sentenza si sarebbero appigliati, negli anni seguenti, quanti hanno pensato bene di riprendere da Marcello Montagnana (scomparso nel 2004) la fiaccola della lotta contro i simboli religiosi nello spazio pubblico. Cosí due coniugi di Abano Terme in provincia di Padova, Massimo Albertin e Soile Lautsi: genitori di scolari quotidianamente obbligati a convivere con il crocifisso nell'aula, e protagonisti di un contenzioso giudiziario non meno epocale di quello del donchisciotte di Cuneo. Dopo una laboriosa trafila presso i tribunali italiani, la vertenza è approdata alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo (la quale, va precisato una volta per tutte, è corte europea in quanto istituzione del Consiglio d'Europa, non dell'Unione europea).

Il 3 novembre 2009, i giudici di Strasburgo hanno sentenziato che i crocifissi nelle aule scolastiche italiane configurano una forma di proselitismo religioso. Dunque, costituiscono una violazione flagrante sia del diritto dei genitori di educare liberamente i propri figli, sia del diritto dei figli di non essere lesi nella loro libertà di coscienza.

Il governo italiano ha immediatamente presentato ricorso contro tale sentenza. Il ministro degli Esteri in persona, Franco Frattini, ha dichiarato che il bando del crocifisso dai nostri edifici statali rappresenterebbe un «colpo mortale all'Europa dei valori e dei diritti». Ai giudici di Strasburgo, il governo Berlusconi ha dunque chiesto di riconoscere un'autonomia dei singoli paesi europei nel regolare materie che investano i sentimenti diffusi delle rispettive popolazioni. È quanto ha sollecitato anche la piú alta carica dello Stato - il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano - in un documento del giugno 2010, pubblicato in appoggio al ricorso del governo italiano contro la sentenza di Strasburgo. Le scelte sull'«atteggiamento da tenere nei confronti delle simbologie religiose» vanno affidate agli Stati membri, «secondo il generale principio di sussidiarietà, che ha finora costantemente ispirato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo». Che l'Europa non si immischi né dei crocifissi né dei muri di casa nostra, noi italiani siamo capacissimi di occuparcene da soli. Noi sappiamo bene come «valorizzare e salvaguardare il tradizionale patrimonio identitario e di valori espresso [...] dalla millenaria presenza cristiana e cattolica»; e avremo cura di evitare «sterili contrapposizioni e integralismi», «specialmente nei confronti di simboli che hanno assunto, anche per il riconoscimento di esponenti di altre religioni, significati universali di pace e di tolleranza».

Ritornavano cosí, nel messaggio del presidente Napolitano, tutti i luoghi comuni che da almeno vent'anni sorreggono l'argomentare dei cosiddetti difensori del crocifisso. Anzitutto, l'idea che non soltanto (com'è perfettamente ovvio) l'identità italiana sia stata plasmata dalla presenza spirituale e istituzionale di Santa Romana Chiesa, ma che tale identità abbia un quid di fisso, di immobile, e di tanto piú degno in quanto fisso e in quanto immobile. Inoltre, l'idea che contestare tale visione delle cose, riconoscendo nel «patrimonio identitario e di valori» di una comunità nazionale una realtà in fieri, soggetta alle repliche della storia e all'ibridazione delle culture, corrisponda a una forma «sterile» di integralismo. Ancora, l'idea che il crocifisso sia un simbolo universale, un passe-partout planetario per aprire le porte della pace e della tolleranza, quale l'hanno salutato anche «esponenti di altre religioni»: cioè - bisogna intendere fra le righe - autorevoli voci dell'ebraismo, come la Natalia Ginzburg dell'articolo Non togliete quel crocifisso.

C'è un giudice a Strasburgo, e questo giudice deciderà del maggiore o minore valore di argomentazioni del genere. Ma qualunque decisione finisca col prendere la Corte europea dei diritti dell'uomo, difficilmente tale decisione avrà un impatto concreto sull'arredo dei nostri edifici statali. Che cos'ha dunque l'Italia di cosí speciale, che rende virtualmente impossibile togliere il crocifisso dal muro? Non basta dire, con il presidente della Repubblica: è un paese di millenaria tradizione cristiana e cattolica. Non lo è forse anche la Francia, dove fin dal 1905 si è fatto esplicito divieto di «apporre segni o simboli religiosi sui monumenti pubblici, e in qualsivoglia luogo pubblico»? Non lo è forse la Baviera, in Germania, che dal 1995 ha visto la presenza del crocifisso nelle scuole del Land condizionata, per sentenza della Corte costituzionale tedesca, all'accordo di tutte le famiglie di tutti gli scolari iscritti in una classe? Non ha forse una millenaria tradizione cristiana e cattolica la Spagna, che si prepara ad approvare una «legge organica sulla libertà religiosa» dove qualunque segnacolo confessionale verrà bandito dallo spazio pubblico ?

Evidentemente, quand'anche si riconosca che il problema del crocifisso è anzitutto un problema di storia, resta da chiedersi: quale storia? Che cosa c'è di peculiare nella storia d'Italia, rispetto alla storia di paesi altrettanto profondamente impregnati di cattolicesimo, che impedisce - qui da noi - un'operazione all'apparenza semplicissima: togliere il crocifisso dal muro, estrarre il chiodo, stuccare il buco, e passare una mano di bianco? Ardua (o forse proibitiva) una risposta secca, univoca. Piú praticabili variazioni sul tema, approssimazioni successive.

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11. La marcia su Roma del crocifisso.

Lo spettacolo della cosiddetta marcia su Roma - la manifestazione eversiva che aprí a Benito Mussolini le porte del governo, il 28 ottobre 1922 - era ancora negli occhi di tutti gli italiani, quando un fascista di Firenze letterariamente talentuoso, Kurt Suckert (il futuro Curzio Malaparte), decise di fornire la sua versione degli eventi. Versione storicamente inesatta, tanto picaresca quanto provocatoria. Eppure, rappresentazione che sarebbe imprudente liquidare con un'alzata di spalle. Perché a dispetto della sua superficialità morale, Malaparte era un uomo-sismografo: un registratore sensibilissimo dei movimenti tellurici, grandi o piccoli, delle masse umane intorno a lui. E a dispetto delle sue arie da damerino, era un uomo-sonda. Per la capacità di penetrare nelle viscere d'Italia, tenendosi sempre a contatto con il ventre del paese, Malaparte va preso sul serio come storico del suo presente: quand'anche racconti storie troppo belle (o troppo brutte) per riuscire totalmente vere.

Secondo il Suckert del 1923, la marcia su Roma era stata la sospirata, meravigliosa rivincita dell'Italia migliore - cattolica, terragna, antimoderna, anticivile - sull'Italia peggiore, laica, cittadina, esterofila, viziosa. «Una specie di vendetta della terra sulle città sine Deo». Una spedizione di fanti-contadini, reduci delle trincee e dello squadrismo, contro la capitale dei retori e dei politicanti, liberali, democratici, «ebrei socialisti», «uomini di piazza, di governo, di caffè, di università, d'accademia», che dal 1870 (l'anno della breccia di Porta Pia) avevano «sputtanato in mille modi l'Italia eroica, santa, cristianissima del 1821». Dai quattro angoli della penisola si era mosso verso Roma «l'esercito agreste, lento e solenne all'assalto delle città moribonde, recando innanzi le immagini dei Santi, le mensoline con gli amuleti, i paramenti sacri, i tappeti di porpora tesi fra due pali, i baldacchini con sotto i vecchi, i preti e i signori di campagna, e ancora elmi da frate infilati sui badili e sulle zappe, gonfaloni selvaggi e stendardi paesani con le scritte Virgo virginum, Christus imperat, e i grandi Crocifissi trionfanti».

Si sbaglierebbe a riconoscere in parole come queste unicamente la vena iperbolica dell'ennesimo toscanaccio, o l'imminenza culturale del movimento di Strapaese. Suckert vantava da subito quanto altri fascisti si sarebbero rassegnati ad ammettere piú tardi, ma quanto avrebbero pur suggerito - il 28 ottobre 1923 - le messe officiate in molte città d'Italia nel primo anniversario della marcia su Roma: la rivoluzione fascista era una rivoluzione clerico-fascista, e proprio tale qualità ne garantiva il valore epocale, la funzione storica. «La Croce e il coltello», riassumeva Suckert: contro gli «italianucci assetati di vigliaccheria, di eguaglianza, di appiattimento, di parentele, di coiti contro natura», borghesi veri o presunti, romantici o filistei, «oratori, giornalisti, rabbini», «levantini, graeculi, protestanti», insomma contro l'Italia grigia e tollerante, frivola e ciarliera, indolente e peccaminosa, uscita dalla breccia di Porta Pia, i fascisti avevano mobilitato l'esercito del «Cristo cattolico», che «è armato e implacabile e sa resistere al male». Il Cristo della Controriforma. Il Cristo della Santa Fede. Il Cristo della Restaurazione.

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13. L'utopia di Cavour.

Le circostanze del 1860, per cui un paese diviso da millenni trovò quasi da un giorno all'altro - grazie alla bizzarra, geniale, spericolata alleanza di Cavour con Garibaldi - la quadratura del cerchio unitario, non spaccarono l'Italia lungo una linea di faglia definita dalla fedeltà o dal rigetto della religione cattolica. Né la presa di Roma, il 20 settembre 1870, scatenò alcuna spirale di resistenza, sopraffazione, punizione, vendetta. Per nostra fortuna, il Risorgimento non comprese nel proprio copione i preti ghigliottinati della Rivoluzione francese, né le suore impalate della Repubblica spagnola; non conobbe le violenze inaudite di giacobini o miliziani, né le rappresaglie feroci di vandeani o falangisti. Neppure si può sostenere (checché ne scrivano oggi certi storici dilettanti) che la terribile guerra civile italiana di quegli anni, la lotta senza quartiere fra l'esercito piemontese e il «brigantaggio» meridionale, sia derivata dalla rivolta di buone plebi cattoliche contro un perfido governo di miscredenti.

Di fatto, dopo la morte improvvisa di Cavour, gli uomini della Destra storica rinunciarono a realizzare pienamente l'ideale cavouriano della «libera Chiesa in libero Stato» (una Chiesa libera, cioè, entro i limiti che lo Stato le riconosce e le consente): ideale che trovò un primo correttivo nelle famose «guarentigie» offerte al Vaticano. Dopo l'avvento al potere della Sinistra storica, si registrarono bensí passi avanti verso una separazione fra Stato e Chiesa in materia di istruzione pubblica, riti civili, feste religiose, gestione dei camposanti. Se mai l'Italia fu laica, lo fu nel quarantennio abbondante che separò la presa di Porta Pia dallo scoppio della Grande Guerra: l'epoca in cui lettura per eccellenza poté essere Cuore di Edmondo De Amicis, un intero libro sulla vita di scuola e sull'educazione degli italiani senza l'ombra di un accenno a simboli religiosi, meno che mai a quel crocifisso che la legge Casati prescriveva come obbligatorio sui muri delle classi elementari. Tuttavia, anche al tempo dell'Italia laica la religione cattolica mantenne lo status di confessione dominante che le garantiva lo statuto albertino.

Con tutto il parlare che si va oggi facendo intorno al 150° anniversario dell'Unità, raramente viene evocata l'importanza della sconfitta postuma di Cavour, il venir meno del suo progetto di ridurre la Chiesa cattolica allo status (per cosí dire) di ente privato qualsiasi. Eppure, tale sconfitta ha avuto conseguenze epocali sulla vita italiana del secolo e mezzo successivo. La negazione del carattere privato del fatto religioso è infatti all'origine della vexata quaestio sull'«ingerenza» del Vaticano nella nostra vita pubblica: poiché, evidentemente, l'ingerenza non può essere denunciata come tale nel momento in cui si ammetta che la fede religiosa del singolo non riguarda lui soltanto e la sua comunità di appartenenza, ma va tutelata dalla Chiesa-istituzione come una specie di diritto collettivo. Oggi, la vulgata del 150° anniversario presenta l'astuto Cavour quale trionfatore assoluto del Risorgimento: sarebbe piú esatto riconoscerlo vincente su una varietà di terreni politici, diplomatici, militari, ma perdente nell'«utopia» (come gli occorse di definirla) di voler negare alla Santa Sede ogni influenza sul potere civile.

[...]

I «laicisti» lo imparino una volta per tutte: l'Italia unita è nata contro lo Stato pontificio, ma senza disconoscere al cattolicesimo un primato nella sfera del diritto pubblico. Fu questa la lezione che gli uomini della Destra e della Sinistra trasmisero alle generazioni future, e che trovò un suggello nell' union sacrée della prima guerra mondiale: attraverso la sanguinosa riconciliazione, nell'inferno delle Dolomiti e del Carso, fra lo Stato dell'esercito in grigioverde e dell'«avanti Savoia!» e la Chiesa dei cappellani militari e della consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesú. Fu questa la lezione che gli uomini del Fascio ebbero cura di raccogliere, traducendola nello spirito come nella lettera dei Patti lateranensi del 1929. E fu questa la lezione che gli uomini della Repubblica accettarono di fare propria quando recepirono nella Costituzione i Patti lateranensi, riconoscendo formalmente il cattolicesimo come religione di Stato. Sloggiato dal Quirinale, il papa ci è rimasto in casa.

[...]

Come per una nemesi di Porta Pia, o per vergogna di un giacobinismo che la storia d'Italia non ha mai conosciuto, i politici della Repubblica si consegnano in tal modo all'egemonia culturale d'Oltretevere: prigionieri del Vaticano, o prigionieri - piú esattamente - di un'idea vecchia, striminzita, inerte, del rapporto fra le istituzioni civili e le fedi religiose. Tutti presi dallo scrupolo di rendere pubblico omaggio al cattolicesimo legale, e alieni da ogni forma di curiosità per il cattolicesimo reale. Oppure edotti in materia dalla discutibile scienza dei sondaggi: la scienza che conteggia un tot per cento di italiani «favorevoli al mantenimento del crocifisso nelle scuole», un tot per cento di «contrari», e un tot per cento che «preferisce non rispondere». Mentre nessun sondaggio ci informa di quanti siano gli italiani del terzo millennio che ancora tengono il crocifisso appeso al capezzale nella stanza da letto: là dove era rimasto (là sí, davvero) per secoli e secoli della storia italiana, una generazione dopo l'altra, nel luogo deputato all'amore, al parto, alla malattia, alla morte.

Di questo non si parla né si straparla. Questo non conta, o - comunque - non si conta. Nessun sondaggio interviene a confermare o a smentire l'impressione maturata, al giorno d'oggi, dai piú seri antropologi italiani: che la difesa a oltranza del crocifisso nello spazio pubblico valga anche a mascherare la progressiva, inarrestabile sparizione del crocifisso dallo spazio privato. Forse, l'uso (e l'abuso) del simbolo deve nascondere un disuso. Forse, il segnacolo della Passione va lasciato sulle pareti delle nostre scuole perché è sempre piú difficile trovarlo sulle pareti delle nostre case.

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Pagina 95

17. Dialettica dell'oscurantismo.

La riflessione di Joseph Ratzinger sul significato storico dell'illuminismo è cominciata ben prima della sua ascesa al trono petrino, iscrivendosi in una riconoscibile tradizione ermeneutica: quella che ha ereditato da due maîtres à penser lontani dalla cultura cattolica - due marxisti tedeschi di origini israelite, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno - una visione dell'età dei Lumi come culla del bene ma soprattutto del male, della ragione ma soprattutto dell'abiezione, dell'emancipazionismo ma soprattutto del totalitarismo. Molteplici sono stati gli usi, i riusi, gli abusi del celebre volume firmato insieme da Horkheimer e Adorno nel 1947, Dialettica dell'illuminismo; da sinistra come da destra, al servizio di proposte politiche, filosofiche, sociologiche variamente etichettabili come libertarie o reazionarie. Da parte sua, il teologo Ratzinger ha fatto tesoro di quel libro per costruire una dialettica dell'oscurantismo.

Nella sua opera di studioso, il futuro Benedetto XVI non ha neppure provato a negare i meriti storici dell'illuminismo, la nascita settecentesca delle idee moderne di libertà, di diritti dell'uomo, di etica pubblica. Piuttosto, si è curato di raccogliere dalla requisitoria di Horkheimer e Adorno - dalla loro denuncia della ragione settecentesca come utilitaristica, mercificante, disumanizzata - l'idea che i Lumi abbiano dato vita anche al male supremo della modernità: la negazione del ruolo di Dio nella storia. Da qui, secondo il Ratzinger teologo, la missione tanto delicata quanto esaltante della Chiesa contemporanea. Inaugurando una nuova alleanza tra fede e ragione, la Chiesa deve salvare l'umanità attraverso una cristianizzazione dell'illuminismo. Superando ogni artificiale distinguo fra religione e politica, deve scendere nuovamente nel «secolo» e giocare la sua partita con spregiudicatezza: deve accettare il fondamento razionalistico dei Lumi, ma proprio su questo deve far leva per rimettere Dio al centro della storia.

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19. Gli illusionisti dell'identità.

Si fa oggi un gran parlare di «identità», termine con cui si vuol dire di tutto e di piú, storia, cultura, religione, politica. Non a caso, la categoria dell'identità è ritornata e ritorna - come il proverbiale prezzemolo - nei dibattiti italiani sul crocifisso. Fin dentro un testo del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: il documento del giugno 2010 in cui l'ex dirigente del Partito comunista si è pronunciato in favore del ricorso governativo contro la sentenza della Corte di Strasburgo, per la « necessità di salvaguardare e valorizzare il tradizionale patrimonio identitario e di valori espresso, in particolare nei paesi europei e nel nostro paese, dalla millenaria presenza cristiana e cattolica».

Peccato che le identità collettive siano una realtà evolutiva: non qualcosa di fissato ab initio e per sempre, come il codice genetico di un individuo, ma qualcosa di mobile, mutevole, provvisorio. In questo senso, i due aggettivi impiegati dal presidente Napolitano riguardo al patrimonio di valori espresso dal crocifisso, «tradizionale» e «identitario», potrebbero apparire contraddittori piú che complementari. Di fatto, gli storici sanno bene come entrambe le cose - la tradizione e l'identità - siano costrutti umani. Invenzioni, trovate, creazioni che nulla hanno di metafisico; che furono, sono, saranno prodotte, a ogni latitudine e longitudine, dall'inesauribile fucina dell'umanità. Sicché non dovrebbe bastare, quando si voglia sostenere l'importanza di un simbolo, ricorrere a parole feticcio come identità o tradizione; né dovrebbe bastare calarle sul tavolo neanche fossero un poker d'assi. Scienziati piú o meno autorevoli del passato, gli storici possono servire il presente almeno in questo: avvisando se il pieno delle parole nasconde un vuoto, se l'abilità del gesto nasconde un bluff.

La discussione di qualche anno fa sulle «radici cristiane» dell'Europa trovava un suo primo limite nel carattere indeterminato della metafora botanica. Qual era la cronologia di riferimento, per poter definire le radici dell'Europa come cristiane piuttosto che pagane o piuttosto che laiche? Di sicuro, l'albero europeo insistette su terra cristiana nell'età di Carlo Magno come nell'età di Carlo V. Ma che dire dell'età di Cesare, o dell'età di Adriano? E che dire dell'età di Robespierre, o dell'età di Hitler? Perché i costituenti dell'Unione europea avrebbero dovuto assumere per ovvio che le famose radici andassero fotografate all'altezza cronologica del Medioevo e del Rinascimento? Soltanto una torsione concettuale del problema giustificava il fermo immagine, ai piedi dell'albero, sulle barbe di Carlo Magno e di Carlo V: ancorando l'identità europea alla realtà millenaria del Sacro Romano Impero, ma ignorando il film di tutto ciò che era venuto prima e di tutto ciò che sarebbe venuto dopo, dalla calvizie di Cesare alla barba di Adriano, dalla parrucca di Robespierre ai baffi del Führer.

La metafora delle radici cristiane non è soltanto indeterminata: è anche evasiva. Sottace piú di quanto non riveli, e accomoda il passato piú di quanto non lo rifletta. Si consideri l'età di Carlo V, la prima metà del Cinquecento. Se vi è stata un'epoca nella storia d'Europa in cui l'albero della cristianità ha visto le sue radici divaricarsi, contorcersi, rivolgersi l'una contro l'altra, fino ad uscire dalla terra e sommuoverla tutt'intorno, questa è stata proprio l'epoca di Carlo V; tanto è vero che, da ultimo, l'abdicazione dell'imperatore suggellò il fallimento del sogno di un universalismo cristiano esteso all'intero orbe terracqueo. Nella stagione che inaugurava cent'anni di guerre di religione, il nemico musulmano - il quale pure bussava alle porte d'Occidente - poté apparire a occhi cristiani meno temibile, meno giurato, meno abietto del nemico interno: il luterano o l'anglicano o il calvinista per i cattolici, il cattolico per i seguaci dell'una o dell'altra obbedienza protestante. E il simbolo del Calvario poté divenire esso stesso vettore di propaganda, e strumento di lotta. Come nel rituale spagnolo dell'auto da fé, quando un cancelliere dell'Inquisizione brandiva alto il crocifisso del giuramento contro gli eretici, mentre la piazza dove i condannati salivano al rogo si riempiva di croci portate in processione.

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