Copertina
Autore Cesare Maestri
CoautoreFernanda Maestri
Titolo Duemila metri della nostra vita
SottotitoloLe due facce del Cerro Torre
EdizioneVivalda, Torino, 2011 [1972], I Licheni 102 , pag. 188, ill., cop.fle., dim. 12,5x20x1,5 cm , Isbn 978-88-7480-163-3
PrefazioneClaudio Baldassari
LettoreLuca Vita, 2012
Classe montagna , paesi: Argentina
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

PARTE PRIMA

Da quando viveva con me, Cesare non aveva più scalato. Il Torre lo aveva reso apatico, indifferente, insensibile a quella che prima era la sua passione piu grande. Non parlava mai del Torre di giorno. La notte invece urlava e durante l'incubo sudava, tremava e malediceva quella montagna.

"Ma che cos'è per te il Torre?".

"Il Cerro Torre. La montagna maledetta la chiamano gli argentini, l'urlo pietrificato: una cosa stupenda, ti affascina e ti atterrisce. Duemila metri di parete di ghiaccio, duemila metri di morte, una trappola pronta a scattare in ogni istante. E il vento. Quel vento bestiale che urla di giorno e di notte lungo le valli e che porta impazzito blocchi di ghiaccio fra le gole con il rumore di cento reattori. E in vetta un enorme strapiombo che grava sopra la testa come la morte sopra la vita. Mi ha ucciso un compagno, il Torre, e moralmente ha ucciso anche me. Non tornerei mai più su quella montagna".

"Ma allora non è solo la morte del tuo compagno. C'è qualcosa che ti tieni dentro. Lo voglio sapere quello che finora non hai detto".

"Ho dentro di me il ricordo di giorni di fame, di sete, di sfinimento, di paura, di quel vento ossessionante che non smetteva mai di urlare. Ho dentro di me la visione di quella immensa calotta ghiacciata che è la vetta del Torre mentre si stacca e precipita addosso al corpo di Toni, strappandolo dalla parete e facendolo volare nel vuoto come un sacco di stracci.

"Ho dentro il ricordo di quando sono rimasto solo, solo come non ero stato mai, e con addosso un senso di pietà non per il mio compagno, ma per me che la valanga aveva risparrniato. Avevo messo in gioco la mia vita per dimostrare a tutti che ero bravo. E con rabbia, mi rendevo conto di tenere in mano una vittoria che avrei pagato anticipatamente con la mia vita pur di vincere.

"No, Fernanda, nessuna montagna vale una vita. Capisci che cosa ho dentro? L'assurdo, il vuoto, il dolore, l'odore della morte. Ecco che cosa ho dentro, ecco che cosa mi ha fatto il Torre".

Così entrò nella mia vita il Cerro Torre. E subito l'odiai. Capii quanto aveva fatto soffrire il mio uomo, quanto lo aveva affascinato, e perchè ora non voleva parlarne. Imparai a capire le sue tristezze. Mi resi conto di quanto gli aveva dato e di quanto gli aveva tolto questa montagna, a che cosa pensava quando aveva gli occhi fissi nel vuoto.

Il Torre era stata la sua vittoria più grande. Avrebbe dovuto dargli gioia, orgoglio, fierezza. No, provava solo rabbia, nausea, dolore.

"Non arrampico più".

"Ma devi scuoterti, fai qualche cosa. Lo sai che sarei la donna più felice del mondo se tu non arrampicassi più. Se però il farlo può aiutarti a vivere di nuovo, io potrei anche accettare di essere meno felice di adesso".

E ricominciò pian piano ad arrampicare e a sorridere. E io da quel momento cominciai ad aspettarlo e ad avere paura.

Comparvero nella nostra casa le prime corde, poi chiodi, moschettoni, amache e cunei, tutte cose che allora, per me, non avevano neppure un nome.

Solo sei mesi prima non conoscevo Cesare. Passavo l'estate al mare, al Forte o alle Focette. In montagna mai. A me la montagna non piaceva, non la capivo, l'avevo sempre ignorata.

E ora, per amore, arrancavo su sentieri che conducevano fin sotto le pareti per vederlo arrampicare e alla sera mi facevano male gli occhi, il collo e le dita, che tenevo incrociate tutto il giorno per scaramanzia.

Passavo giorni e notti in una tendina piantata in un ghiaione, vestita in un modo che mi faceva un po' ridere, e gli scarponi mi facevano male, l'umidità mi penetrava nelle ossa, le unghie diventavano nere, i capelli si sporcavano.

Avevo capito la "sua" montagna. Avevo capito che solo così era felice. E se era felice lui lo ero anch'io.

E ritornò a essere "il campione".

"Che cosa prova lei mentre Cesare arrampica? Chissà che paura".

Sì. Tanta. Ma come fai a spiegare la tua paura così, in mezzo a una strada, in un bar, in un teatro, nei mille posti dove la gente te lo chiede? È una cosa troppo grande. Non è solo paura. È terrore, agitazione, ansia, è rassegnazione e impotenza, è parlare senza sapere quello che dici, è superstizione, è orgoglio.

So che non posso chiedergli di smettere, e molte volte devo persino aiutarlo a preparare le sue imprese. E in quei momenti mi sento anche responsabile, cinica, incosciente, una ruota del suo ingranaggio.

Quando stacco gli occhi da lui mentre arrampica, penso che potrebbe essere l'ultima volta che l'ho visto vivo. Rivedo i corpi straziati di tanti altri alpinisti caduti, e il sacco dove vengono rinchiusi per essere trasportati a valle. Penso che se cadesse, per tutta la vita urlerei di notte il suo nome come ho sentito lui urlare quello di Toni.

Non posso chiedergli di non arrampicare più, so già quale sarebbe la sua risposta: "L'atleta muore due uolte, una il giorno in cui smette la sua attività e una quando cessa di vivere. Non credermi superficiale, ma io ho anche bisogno di tutte quelle cose che dà la popolarità l'interesse della gente, l'affetto, la stima e, percbe no, anche la critica della gente. Non riesco più a farne a meno. E amo la montagna, amo il piacere fisico che mi dà il vuoto, il gusto di sentire e vedere i miei muscoli muoversi, l'armonia del corpo e della mente che mi permette di vincere pareti tanto più grandi di me. Io ti sono grato perchè in un momento terribile mi hai aiutato a ritrovare tutte queste sensazioni senza le quali ora sarei un cadavere. Ma non chiedermi di smettere, ti prego, sai che se tu volessi lo farei, ma non chiedermelo, ti prego".

Non glielo chiederò. Continuerò a prendere tranquillanti, continuerò a tremare ogni volta che squilla il telefono quando lui è lontano, continuerò ad arrancare su e giù per i sentieri che portano fin sotto le pareti.

E se la vita continua diventerà vecchio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 51

La pista taglia le sterminate praterie che sono il pascolo delle pecore merinos. Quaggiù un'estancia piccola alleva un minimo di diecimila pecore, mentre una grande supera i centomila capi. Questi pascoli producono un'erba tanto dura, che le pecore dopo averla mangiata per quattro anni, devono essere uccise perché hanno perso i denti.

In Patagonia anche le pecore sono strane. Mentre da noi hanno paura e fuggono, qui assalgono, mordono e ti fanno scappare. Anche loro però hanno qualcosa da temere: il puma, che le uccide per insegnare ai suoi cuccioli la legge della sopravvivenza; la volpe, che le azzanna alla gola per soddisfare il suo istinto sanguinario; e il carancho dal volo silenzioso, che fulmineo plana sulle loro teste e che con il becco cava loro gli occhi.

Arriviamo dai miei uomini che attorno a un fuoco stanno cucinando una lepre uccisa da Ezio. Sono contenti di vedermi e sono curiosi di sapere gli sviluppi della situazione, che a questo punto è veramente disastrosa.

Teniamo un consiglio di guerra.

"Non ci sono elicotteri, non ho trovato il DC3 per effettuare i lanci. Con il signor Fenoglio pensiamo di utilizzare i Cessna dell'Aeroclub per sorvolare la zona e tirare il materiale sul ghiacciaio del Torre. L'apparecchio però deve ritornare domani in sede per una revisione, quindi, tempo permettendo, potremo cominciare a lanciare i sacchi solamente dopodomani o più tardi. Nel frattempo voi dovrete salire al ghiacciaio del Torre, segnare la zona di lancio e attendere che io tiri la roba. Porterete con voi un po' di viveri, i sacchi a piuma e una corda. Cesarino conosce benissimo la zona".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 146

9 luglio

Nevica un po' meno ma il tempo è peggiorato. Porta in giro ghiaccioli con una potenza incredibile, quando mi colpiscono mi pungono come aghi.

Attacco di notte. Essere solo in parete mi riempie di orgoglio e di forza. Mi sento in forma come nei miei giorni migliori, quando salivo e scendevo senza corda e senza chiodi per le vie di sesto grado. Il vento che mi urla attorno non mi fa paura, anzi mi eccita e mi esalta.

La parete è ricoperta di fiori bianchi, meravigliosi arabeschi formati dal vento e dall'umidità. Il freddo è così intenso che comincio a sanguinare dal naso. Perdo un guantone. Ma continuo a salire ugualmente e quando la mano è bianca e semicongelata la sbatto con violenza contro la roccia, finche riprende colore e calore. Il vento che soffia di lato mi ha creato sulla parte sinistra del viso una spessa crosta di ghiaccio. Riesco a toglierla solamente con un pugno. La crosta parte e insieme levo ciglia e sopracciglia. È comico vedere tutti i miei peli appiccicati a questo calco di ghiaccio.

Arrivo al punto massimo raggiunto ieri con Pietro.

Continuo ad avanzare. Il pensiero di muovermi da solo su terreno vergine mi da una carica formidabile e urlo al vento con quanta voce ho:

"Soffia, mona, soffia. Credi di spaventarmi? Soffia che mi fai un piacere. Soffia che mi fai un piacere".

Sembra strano ma il vento smette di soffiare. E quando riprende anch'io riprendo a urlare. Forse sto impazzendo.

Sento arrivare l'aereo. Esco in fretta dal camino in cui mi trovo e mi metto in mezzo a un terrazzino di neve. Voglio che mi vedano. Voglio che Fernanda e Gian vedano il loro Cesare che lotta fino all'ultimo sul "suo" Torre. Voglio che mi vedano su questa montagna, che non è "impossibile", mentre sto vivendo questi duemila metri della mia vita.

Finchè l'aereo sorvola la zona, mi sbraccio e urlo come un pazzo. Ma l'aereo vola alto e sicuramente non mi vedranno. Riprendo ad arrampicare.

Alla sera scendo alle amache e faccio collegamento radio. La voce di Carlo è grave:

"Cesare, è successa una disgrazia".

"'Na disgrazia? Ma cosa ostia è successo ancora?"

"È terminato il gas. Non possiamo più scaldare niente. Non possiamo più sciogliere la neve. Tutto è finito, Cesare. Tutto è finito. È inutile che tu resti su. Torna. Non c'è più niente da fare".

Ecco, tutto è finito. Siamo a poco meno di quattrocento metri dalla vetta ed è tutto finito. Fatiche, pericoli, sacrifici, fame, sete, freddo, tutto inutile.

È stato tutto inutile. Ma non è possibile, io mi sento ancora fortissimo, non ho un graffio, ho ancora tanta volontà da arrivare da solo in vetta. Non voglio che sia stato tutto inutile. Non voglio.

Ma penso ai miei compagni. Sono giù in una baracca sepolta da venti metri di neve, senza la possibilità di guarire. Senza nemmeno la possibilità di sperare o di combattere. Senza niente di niente.

Sono un povero sciocco romantico. Un Don Chisciotte che si batte contro i mulini a vento.

La mia forza si sgretola, si sbriciola.

Un pugno di viveri in più, i compagni non colpiti da congelamento, qualche giornata di bel tempo, e saremmo arrivati sulla vetta del Torre.

Ma adesso è veramente tutto inutile, anche il dolore di mia moglie e di mio figlio. E a loro che cosa dirò? È veramente finita.

Mi preparo a scendere. Depongo il materiale in perfetto ordine, come facevo i giorni scorsi. Ispeziono i nodi, come facevo i giorni scorsi. Comincio a scendere bloccando le corde doppie, come facevo i giorni scorsi. Verifico la tenuta dei chiodi, come facevo i giorni scorsi. Scendo in piena notte, come facevo i giorni scorsi.

E arrivo in fondo. Lentamente mi incammino verso la casota.

Dentro di me non c'è niente. I miei sentimenti li ho lasciati a quattrocento metri dalla vetta.

Fra pochi mesi tornerò a riprenderli.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 172

Il tempo è sempre buono.

Saliamo di notte e all'alba attacco la parete finale. Alla nostra destra le cime delle Adele sono alla nostra altezza: segno che stiamo arrivando all'altitudine di 3000 metri, e che quindi mancano poco più di cento metri alla vetta. Mi alzo in arrampicata libera, cioe senza chiodi di assicurazione. Faccio una ventina di metri, poi vengo assalito dal rimorso. E se cadessi? Non devo più fare di queste pazzie. Se cadessi metterei i miei compagni nella condizione di scegliere se tentare di salvarmi o lasciarmi morire dove sono. Non posso, non devo.

Ho sete. Ho sempre tanta sete. Carlo ed Ezio continuano a sciogliere recipienti di neve al calore del tubo di scarico. Con la corda di servizio isso sino a me questa acqua insipida che puzza di benzina, di olio, che è piena di piume, di peli della barba. Eppure bevo quest'acqua fetida con voluttà, ma è come vuotarla su una lastra infuocata.

Arriva Ezio, insieme recuperiamo il compressore, sale anche Carlo. Riparto, uso moltissime precauzioni. Salgo altri quaranta metri e faccio salire Ezio, che, vedendomi provato dallo sforzo e dalla tensione, affettuosamente mi dice:

"Ti triga Cesare, tiro su mi da sol. Ti triga Cesare".

E io gli do retta. Appoggio il capo contro la parete e riposo. Vedere questo mio compagno faticare mi fa una grande pena, ma ho bisogno di riposare e questo bisogno mi rende egoista, e allora "trigo" e riposando mi preparo alla prossima filata di corda.

Il carico si impiglia, e la parete è fatta in modo tale da non permetterci di vedere dove si è impigliato il compressore. Chiedo a Carlo:

"Carlo, dove si è impigliato il compressore?" "Da nessuna parte. Tirate".

Per quanti sforzi facciamo, il peso non si muove di un solo millimetro.

"Carlo, el sa empegnà. Nol ven su".

"Nol sa empegnà, tiré che el ven". Proviamo ma non c'è modo di farlo salire.

"Carlo nol se move. Ostia el se deve eser ernpegnà da qualche banda".

"Ma putana merda, el vedero ben mi se el sa empegnà. Tiré e basta".

Coordiniamo i nostri sforzi e azioniamo la leva con tutta la nostra forza. Il compressore comincia a salire. Riusciamo a dare al massimo dieci pompate, poi crolliamo affranti sull'argano ma continuiamo a issare il carico. A un tratto il compressore sbuca dallo strapiombo.

Per forza facevamo tanta fatica: c'era montato sopra Carlo. E lui si affaccia all'uscita dello strapiombo con le gambe divaricate appoggiate sul telaio del compressore, tenendosi con le mani alla cordina metallica e con un sorriso imbarazzato sulla faccia come quello di un bambino sorpreso mentre sta tentando di mettere il gatto nella vasca dei pesci rossi.

Alle ventuno siamo a circa cinquanta metri dalla vetta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 176

Cerro Torre - 2 dicembre

All'orizzonte nasce il giorno, timidamente, poi prorompe in tutto il suo splendore e spazza via i fantasmi della paura, il gelo che abbiamo dentro, i crampi dolorosi. Ritorna la vita, la consapevolezza che fra poche ore avremo costruito qualche cosa. C'è in noi la speranza che questa impresa sportiva possa servire come certezza per tutti che vi sono uomini pronti a battersi, sul sentiero della non violenza, contro la meschinità e la slealtà che affliggono il consorzio umano.

Il rombo del nostro motore riempie la valle del Torre. È una sfida a tutti i tabù dell'alpinismo. Ad alcuni potrà sembrare una bestemmia: per me è un inno contro i pregiudizi e le idee preconcette, è l'inno dell'uomo disposto a farsi aiutare nella sua fatica da qualsiasi artificio o macchina, purchè sia lui stesso a risolvere il problema, con coscienza e raziocinio, senza farsi condizionare o sottomettere da mezzi meccanici.

Ci stiamo avvicinando velocemente al ghiacciaio della calotta terminale. Il "fungo" è in parte sotto di noi. Questo enorme strapiombo visto di lato perde il suo aspetto sinistro.

Sopra la nostra testa una piccola cornice di neve ci consiglia di attraversare in diagonale verso una lingua di ghiaccio, che ci perrnetterà di salire più agevolmente alla vetta. Pianto l'ultimo chiodo a pressione e attacco il ghiaccio assicurandomi con lunghissimi chiodi di nostra fabbricazione. Sono lunghi più di un metro e quando entrano completamente, a meno che non ceda tutta la zona, dovrebbero tenere.

Ma il tempo cambia. Si alza un vento di nord-est, che quaggiù corrisponde al nostro scirocco. La vetta comincia a scaricare grossi pezzi di ghiaccio e rivoli di acqua scorrono lungo la parete.

Faccio salire Ezio perchè sia più vicino in modo da assicurarci meglio. Si ferma sugli ultimi chiodi a pressione; mentre lui sale, comincia a nevicare. Sale anche Carlo e in un attimo si scatena, improvviso, il finimondo.

Ho dentro di me il terrore che tutto si ripeta come tanti anni fa. Allora la disgrazia ha avuto inizio così. Riprendo a salire. Ora il pendio si fa meno ripido, ma pianto ugualmente i miei lunghi chiodi. La corda finisce. Mi guardo attorno.

È la vetta.

Urlo la mia gioia ai compagni che non vedo. Ma non so dire altro che:

"Ghe son! Ghe son!"

Lo ripeto urlando finchè la gola mi brucia. Poi comincio a tirare come un forsennato nelle corde. Sentendo gli strattoni Ezio capirà di salire, anche nel caso non mi avesse sentito.


Ma mi hanno sentito. Anche loro urlano di gioia. E quando la corda che lega Ezio a me, si allenta, capisco che il compagno sta salendo. Sbuca dalla parete verticale in mezzo a un turbinio di vento, che con fragore assordante scaglia intorno neve e ghiaccio. Alza la testa, mi guarda, poi la riabbassa e parte come un toro inferocito. Carica con la potenza dei suoi venticinque anni, con l'orgoglio di quello che ha fatto e mi raggiunge. Ci abbracciamo. Ci stringiamo forte senza dire parole inutili. Quassù non servono.

Instancabile, Ezio assicura Carlo che sbuca a sua volta.

Anche lui alza la testa, ci guarda con calma, con calma cerca gli appoggi migliori, vuole dimostrare al Torre che lo sta vincendo con la sua perseveranza e con la sua ostinata resistenza. Lo dimostra con altero sprezzo, e a questa montagna che sta facendo di tutto per impaurirci, sembra dire: "Non ci hai spaventato per cinquantaquattro giorni, vuoi farlo adesso? Illuso, noi abbiamo vinto".

Carlo è con noi. Ci abbracciamo e per un attimo diventiamo tutt'uno, non ci sono più sentimenti singoli ma solo la gioia comune di essere amici, di aver lottato insieme, di aver vinto insieme. E nel nostro abbraccio accomuniamo Claudio, Daniele, Cesarino, Pietro, Renato, Juan Pedro e Fausto. Senza di loro non saremmo sulla vetta di questa montagna. Anche a loro dobbiamo questa vittoria.

È il 2 dicembre 1970 e i nostri orologi segnano le quattordici e trenta.

| << |  <  |