Copertina
Autore Maurizio Maggiani
Titolo Meccanica celeste
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2010, I Narratori , pag. 314, cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-07-01799-5
LettoreGiovanna Bacci, 2011
Classe narrativa italiana
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Indice


 13  Personaggi

 17  1. Un fatto fatto

 36  2. Com'è tornato l'Omo Nudo

 60  3. I cento nomi delle città d'Italia

 86  4. Il tango del perduto amore

107  5. Sono nata vedova

128  6. Orto di Donna

155  7. Wintergewitter

176  8. Tutto questo è vero

198  9. Questa mia patria vallata

221 10. La malvolente

252 11. Di quelli che sono saltati in aria

272 12. L'attimo della belùa

288 13. La sacra intenzione di un patto

301 Meccanica celeste

311 Ex voto


 

 

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Pagina 13

Personaggi



IL NARRATORE

LA 'NITA la sua donna

LA DUSE sua madre

CHICO, DOMENICO suo padre

LA SANTARELLINA l'amica della Duse

LA FAMIGLIA DEI GIANNONI:

L'OMO NUDO, BRESCI GIANNONI allevatore di maiali, reduce di Sachsenhausen

L'AMANTEO nonno dell'Omo Nudo

L'OTELLO padre dell'Omo Nudo

LA MELINA madre dell'Omo Nudo

L'ISIDE amante dell'Otello

LA MARTA, staffetta partigiana

DON GIGLIANTE prete guerriero

PADRE OLINTO prete missionario

EDDA la zia della 'Nita

EVA amante del campione William Grover-Williams

BENOIT campione di automobilismo

ION NESBØ veterinario distrettuale

IL VERANO coltivatore di necci,

decorato della guerra di Liberazione

LA CASATA DEI NOBILI PROPRIETARI TERRIERI BORGIONI:

L'ARISTO proprietario del più bel pennato del distretto

LA FRANCESE moglie dell'Aristo

[...]

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Pagina 17

1.
UN FATTO FATTO



La notte che ho messo incinta la mia donna Barack Obama è stato eletto quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d'America. Il fatto è avvenuto poco dopo la mezzanotte, assai prima che la notizia fosse sicura, e se la relazione tra i due avvenimenti è naturale, è anche con assoluta certezza priva di alcun significato. È vero però che quella notte sembrava che il mondo intero palpitasse in un'atmosfera di trepidante attesa; persino noi avevamo eccezionalmente sintonizzato il televisore su una stazione che aveva in programma una vigilia elettorale con ospiti. Solo che la cosa si stava facendo lunga e noiosa.

L'idea era di salire, metterci a letto e leggiucchiare un po' mentre gli ospiti davano il peggio, e poi tornare quando si fossero placati, in tempo per il responso. Come il resto del mondo tifavamo per Obama, il nero colmo di profezia, ma anche in quei giorni continuavamo a leggere molto: leggere ci piace e ci fa bene. Ed è il fatto puro e semplice di leggere che ci fa bene. Come la lettura della Bibbia nelle antiche famiglie teneva assieme ogni cosa ben al di là di quello che ognuno sapeva cogliere di sacro dentro a quei venerabili testi, così è per noi l'azione in sé, che ci insegna ogni giorno qualcosa di buono.

A portata di mano l'uno dell'altra, con il culo poggiato sullo stesso sofà o, addirittura, sullo stesso materasso, assegnati nello stesso scompartimento, che guardano ognuno al proprio lato del finestrino due paesaggi diversi, assai probabilmente antipodi. E ci guardiamo di sottecchi, e sentiamo di esserci; e forse vorremmo avere il coraggio di presentarci e forse no, forse va bene così: covare l'intimità aspettando che il capotreno spenga le luci per la misteriosa notte boreale. E comunque vada, viaggiare con lo sguardo fisso al finestrino di quello scompartimento, non smettere mai di viaggiare e non smettere mai di guardare, che è più di quanto si possa sperare. Questo nostro leggere ci insegna a vivere assieme, e partire per ogni dove, e poi tornare. Ed è molto eccitante, naturalmente. Di una eccitazione un po' troppo sottile perché si semplifichi e riduca nell'ovvietà di un coito.

Forse è per questa ragione che, tra i molti luoghi della casa adatti alla lettura silenziosa e comune, finiamo per preferire il letto matrimoniale di sopra, per usufruire della castità del luogo e aggiungere un tocco in più di sacralità al nostro trepido viaggiare.

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Pagina 36

2.
COM'È TORNATO L'OMO NUDO



Con tutto lo scorbutico e il selvatico che ha, il Bresci si è preso la briga di chiamare per nome tutti i suoi maiali; e in questo è unico in tutto il distretto, ch'io sappia. Qui nessuno ha voglia di entrare in confidenza con un animale che da lì a un anno avrà il cuore trafitto da un cuneo di corniolo, per mano sua o del padre o del fratello. Si danno nomi a vacche, pecore e cani, perché, se si vuole che rendano per quello che sanno, con loro ci si deve parlare per tutta la vita. E ci si augura che sia la più lunga possibile, e qualche volta dura anche più della nostra, ed è un bene così. Neppure i gatti hanno un nome qui da noi, tanto non ti starebbero a sentire; e non c'è maggiore umiliazione, né peggiore solitudine, di chi non è riconosciuto dal proprio animale.

Il Bresci è indiscutibilmente il miglior macellatore del distretto, ma non presta opera per conto terzi: macella solo i suoi, quelli che conosce. E macella, a differenza di ogni altro, guardando negli occhi i suoi animali.

Dice l'Omo Nudo che a chiamarli per nome i suoi maiali gli fanno timidezza. Dentro la timidezza l'Omo Nudo ci tiene avvinti assieme tutti i suoi sentimenti, molti dei quali ci appaiono ancora inesplorabili. Un paio d'anni fa, a proposito, s'è presentato in camicia e calzone in piega solo per chiedere il permesso alla 'Nita di mettere il suo bel nome alla scrofa che gli era nata. "Perché con un nome così mi diventa bella da far timidezza." Noi siamo rimasti contenti perché è una scrofa di razza che durerà parecchi anni a fare porcellini, e morirà vecchia e stimata. L'anno scorso invece ha voluto dare a un porcello il nome particolare di Nesbø, anche se gli ci è voluto un po' a pronunciarlo in modo abbastanza accettabile anche per un suino; ma con questo sacrificio linguistico si è preso la sua vendetta con l'autorità. Perché si dà l'evenienza che per l'Omo Nudo Ion Nesbø è la somma autorità, il veterinario distrettuale dei controlli sanitari. Il giovane Ion Nesbø, anima delicata biondo cenere, è venuto dagli estremi confini del Nord fin qui per innamorarsi di questo distretto, e di una ragazza che imprudentemente gli ha concesso, non solo se stessa, ma anche l'opportunità di fermarsi a guadagnarsi il pane e prolificare. Ora consuma l'immeritato privilegio nell'invelenire la vita a tutti quanti con la sua stolida inflessibilità circa l'applicazione delle attuali normative imperiali. Con particolare riguardo ai sistemi arcaici e crudeli di macellazione, impone la sua norma e decreta cancellazioni e sequestri. Ma come si sacrifica un maiale non è una questione di legge: è un principio. L'autorità dice di essere più pietosa, più giusta e più pulita, l'Omo Nudo sa che nessuno è più giusto e pietoso e pulito di lui. Lui vive con le sue bestie e ci divide il pastone; lui guarda negli occhi i suoi animali e li chiama. L'autorità osserva lacerti di carne e ci fruga dentro, poi scrive delle carte. Io la penso come lui, anche se sono più scaltro e riesco a fare a modo mio senza che il ragazzo del Nord venga a sindacare.

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Pagina 56

[...] E gli uomini spaesati finiscono per fare brutti pensieri sulla libertà.

La libertà è un sacrificio solitario e una pena dell'anima, e per questo cerchiamo di placarla, di farcela un po' più domestica. Qui ci sono cimiteri pieni di uomini che hanno combattuto per la libertà fino a rimanerci secchi, parecchi di loro sono morti a migliaia di chilometri da dove sono nati, e hanno sentito parlare di libertà fino a farsene una passione. Gente che è morta in Paraguay, in Polonia, in Spagna, in Grecia, in Russia, più di cento anni fa, ancora più in là nel tempo. Senza contare tutti quelli che sono morti qui a casa. Sulle loro lapidi c'è sempre e solo scritto MORTO PER LA LIBERTÀ. Ma la loro morte, se così si può dire, è stata una faccenda semplice e franca. E, in definitiva, non sono poi così tanti rispetto a quelli che sono "morti di libertà". Quelli vissuti cent'anni senza che gli desse un giorno di tregua un limio che li ha smangiati di dentro, come un ragno che li ha presi nella sua tela e se li è divorati con calma facendoli agonizzare per decenni. Metà di quelli che sono morti di cirrosi lo hanno fatto attaccandosi al bottiglione di striscino solo per placare quel limio, e io credo persino la metà di quelli che si sono venduti alle Brigate Nere. L'opprimente libertà di pensare l'inopportuno, l'indecifrabile libertà dello spirito che si agita nelle penombre del dubbio, il soffio divino che libera le mani in un gesto meraviglioso; quella libertà lì che non ha nomi di amici né di nemici, può essere una tortura troppo crudele, un lavoro troppo pesante.

Molto più facile togliersi lo sfizio e abbrancare l'oppressore, e sgozzarlo con un solco del pennato, agguantare lo sfruttatore e buttarlo giù nel pozzo di una cava. Più facile ancora sbeffeggiare e impiccare quelli che ti sbattono in faccia il loro magone, la smania della febbre che gli invidi. Per questa ragione coltiviamo con tanta devozione le tradizioni e gli stupidi doveri a esse correlati. Per placarci.

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Pagina 60

3.
I CENTO NOMI DELLE CITTÀ D'ITALIA



Quando la mattina il cicalino della sveglia cinguetta il motivetto cinese che imbastisce ancora una volta assieme i sogni che continuiamo a fare nella notte ognuno per conto nostro, e la 'Nita mi si allunga addosso, e poi si arriccia, e si allunga, e si arriccia ancora più stretta, e mi scava nel ventre come il verme primordiale nel suo nutrimento, per alitare da lì su tutto il mio vecchio corpo i nomi che nottetempo ha escogitato per la nascitura, di chi fa il nome?

E quando poi, svogliata come un'odalisca, allunga il collo fuori dalle coperte e si fissa sulla nebbia che filtra dalla finestra, e inizia a salmodiare i suoi presagi di gravida, per chi canta íl sole che deve ancora venire?

Se trovo abbastanza forza, quello è l'attimo in cui più mi piacerebbe montarla, coprirla. Non c'è momento che sia più vasta, bella e provocante; perché mi canta di chi è lei, e dei suoi avi e dei suoi trisavoli. Giù fino alla prima generazione di anellidi che ha escogitato la copula, assumendo, tentativo dopo tentativo, la coscienza definitiva che quel penetrarsi era di gran lunga più interessante che continuare a dividersi in due e poi in due e in due ancora.

Quando parliamo di ciò che verrà, raccontiamo di quello che è stato, e più ci azzardiamo in avanti, più scaviamo nel remoto.

Lei è gravida di antichità.

E anche questa mattina mi piace il mio silenzio mentre l'ascolto e la guardo, e mi rallegro del rinnovato miracolo di un'erezione che trova forza dove da solo non l'avrei mai saputa cercare. Per fortuna ignoro ciò che sogna nella notte, e mi applico con diuturna cura a coltivare la reciprocità della cosa. La solitudine notturna ci tiene d'assedio e ci convince a stringerci l'un l'altro sugli spalti di quello che andremo a vivere. Se le concedo dopo tanto penare l'uso della parola amore, è solo perché a conti fatti anch'io posso dire di amare: amo ricongiungermi con lei la mattina, sul far dell'alba.

Il sogno è diamantina solitudine. Se solo sfiorasse colei che ci dorme accanto, ciò che sogniamo avrebbe il potenziale distruttivo di un gorgo di antimateria. Le mutevoli ombre del sogno vorticano sull'orlo di un buco nero dove non siamo né padri né madri, né amanti di una qualche affidabilità, solo figli unici, orfani di ignota provenienza. Smettessimo di sognare, andrebbe anche meglio; almeno per lei, soprattutto ora che è gravida. Ma la 'Nita ha spirito imprenditoriale e capacità manageriali di notevole entità, ha funzioni di controllo in una grande azienda con molti dipendenti; nel momento preciso in cui si leva dalle coperte in tutta la sua turgida bellezza, ha già riconfermato il nostro patto, punto per punto, sogni o non sogni. E senza alcuna esitazione: la sua affidabilità è di pregiata fattura.

E prende e se ne va nel mondo della produzione di beni essenziali con uno slancio colmo di fiduciosa attesa. Gattescamente si avvicina alla sua Karmann facendo il giro largo dell'aia, mentre la nebbia le si sta alzando intorno e lei, che ama la scena, nel gettare la borsa nell'infimo abitacolo del coupé, si inchina prima alla valle e poi alla casa, salutando con indecifrabile lingua.

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Pagina 68

Io non sapevo che mia madre fosse bella finché lei stessa non me lo ha fatto vedere; pensavo solo che fosse coraggiosa e forte e prepotente. Ma aveva ancora i suoi capelli ricci e lunghissimi quando andava alla scuola della Capria, e lasciava che io ci mettessi la faccia dentro quando tornava e se li scioglieva prima di andare a lavarsi. Sapevano di tutte le puzze del suo lavoro, e quando ci mettevamo a cena, e cominciava a raccontarmi di quello che aveva fatto e di chi aveva visto, io conoscevo già l'odore di tutto. Non mi dispiaceva il suo odore, e se me lo lasciava annusare, immagino che non dispiacesse nemmeno a lei. Forse su in montagna aveva nostalgia di me e le faceva piacere che io conoscessi ogni cosa della sua vita, compreso il tanfo, perché non ne avessi io troppa di lei. Finita la cena, andavamo nella stanza del sofà, ci sedevamo al tavolo e mi passava in rassegna. E il lunedì mattina a buio ripartiva.

Cosa pensi quando pensi a tua madre? A nient'altro che non sia possessione e abbandono, servitù e rivolta; le cose ineluttabili concernenti l'amore. Io e la Duse abbiamo avuto modo di riflettere approfonditamente su questi temi per i due interi giorni che ho passato con la testa fuori e i piedi dentro il suo ventre. Lei mi ha raccontato, ero ormai quasi un uomo quando l'ha fatto, che per partorirmi ha faticato quarantott'ore di travaglio. Ho faticato, ha detto, per cercar di rimanere viva senza farti morire. E tu mi lottavi contro, e l'ostetrica mi pigliava a schiaffi per non farmi addormentare svenuta. Pregava sant'Anna e mi gridava addosso come se fossi stata un'assassina; quando rimaneva senza voce, mi si infilava la testa tra le gambe e ti bisbigliava. Voleva convincerti perché era sicura che non volevi venire al mondo in nessun modo, al costo di farci morire, io, te e lei. Lei di vergogna per aver lasciato due morti in mezzo alla sua carriera senza sbagli.

Quarantott'ore mezzo soffocato, livido e tumefatto in tutto il corpo a discutere con la Duse e l'ostetrica su quello che dovevo fare per il bene mio; e ancora non avevo un giorno di vita. E loro sapevano parlare, ma io no. Mi ha raccontato di cos'è il dolore del travaglio, che io non saprò mai.

Quello che non mi ha detto, è quanto mi ha maledetto in quei due giorni; si è dilungata in raccapriccianti particolari sulla quantità di forza con cui ha voluto che nascessi, ma ha taciuto su quanto mi ha odiato perché non ci riuscivo senza farla morire di dolore.

Quello che a quel tempo non avrei saputo dirle, è quanto l'ho odiata io mentre i suoi sfinteri vaginali mi stavano stritolando. È solo questione di veniali omissioni verbali: quello che c'era da sapere di definitivo tra noi, ce lo siamo detto in quei due giorni. Se siamo sopravvissuti è perché alla fine abbiamo trovato un accordo. Quell'accordo è tuttora valido. Anche oggi, mi sento di dire, anche se lei è morta da un pezzo. Oggi più che mai, visto che sono rimasto solo io a potergli fare onore.


Ricordo la donna che partiva di notte. E qualche volta lasciava che la vedessi mentre se ne andava. Mi svegliava prima di prepararsi, e mi rimetteva a letto prima di andare, perché la sua partenza era fissata per le ore quattro del mattino: a quel tempo alla scuola non c'era altro modo di andare se non a piedi. Per lei come per i suoi valorosi alunni. A differenza loro aveva una bicicletta, sempre quella della fotografia, eppure ancora splendente di olio e cromature, ma non si andava alla Capria in bicicletta. Come i suoi alunni doveva essere puntuale alla lezione del lunedì, ma a lei spettava scaldare l'aula per tempo e dare una spazzata in terra e seppellire i topi che erano rimasti nelle tagliole.

Per il viaggio aveva un paio di bellissimi scarponi americani; la domenica sera li rimpinzava nella punta con fiocchi di cotone perché le erano un po' grandi. E aveva una gonna di fustagno lunga e ruvida, che mi arrossava i ginocchi quando mi ci strofinavo contro. E una giacca di lana cotta con i revers di velluto che mi sarebbe piaciuto averla io da grande, perché, oltretutto, aveva i bottoni di osso con l'intaglio della testa di un cavallo. E sotto la giacca tutte le maglie che le servivano, perché a quell'ora era freddo per gran parte dei mesi della scuola. E poi una lampada militare ad acetilene di qualche esercito che non ricordava, per farsi luce nelle selve finché non spuntava mattino. E dentro lo zaino, chiuso con un elastico in un panno di lino di quelli che secondo la Duse mi erano serviti quando mi allattava, la scatoletta di latta del siero antivipera; ma solo nella stagione che veniva a far caldo, e i serpi erano per strada già di buon'ora.

Anche lo zaino era americano, e c'era la promessa che mi sarebbe rimasto in eredità quando la Duse avesse finito di andare alla Capria; a pieno carico era abbastanza pesante perché mi proibisse di provare a caricarmelo sulle spalle. Forse faceva un po' la sbruffona con suo figlio, ma doveva essere davvero pesante, perché dentro c'era tutto quello che non avrebbe trovato alle cascine per mangiare, vestirsi e fare il suo lavoro. Per ultima cosa si sedeva e con calma raccoglieva la gran massa dei suoi capelli e la legava ben stretta sulla testa: quando aveva finito sembrava che ci portasse sopra un paniere.

E si dava il rossetto; già tutta calzata e vestita, in piedi in mezzo alla stanza, prendeva da una tasca della giacca la scatolina con lo specchietto e il bastoncino rosso e si disegnava le labbra. Ricordo bene come fossi geloso di quelle labbra dipinte, della smorfia da diva con cui le arricciava per stendere la tinta. Lei che era madre e maestra, mi spiegava che era solo per fare dispetto al provveditore. E mi ha raccontato di quando nel 1949 andò a prendersi il posto di maestra e il provveditore volle che gli mostrasse le mani. Voglio sincerarmi se ha lo smalto alle unghie, perché l'incarico che ho da darle non è consono a una signora avvezza allo smalto, le disse. La Duse non aveva smalto, e così le fu data la sua scuola di montagna. Ma trovando intollerabile la superficialità del suo superiore, volle portare un segno di insubordinazione, perché se per la Capria non andava bene lo smalto, non sarebbe andato bene neppure il rossetto. Se una maestra è destinata a rovinarsi le mani, argomentava mia madre, tanto più a sciuparsi la bocca. E un'altra volta si ricordasse, il provveditore, di aggiungerlo all'elenco. Mi parlava liberamente, allo stesso modo di un adulto, era il suo metodo.

Non l'ho mai vista uscire di casa, e questo è un bene. Mi rimetteva sotto le coperte, mi dava due baci sul collo, come poi avrei visto fare agli amanti, e mi infilava al collo la catenella d'oro con la sveglia. Era una piccola sveglia d'argento, e nel toccarla mi dava una sensazione intensa e singolare di fredda vitalità, come se stessi toccando una lucertola. La sveglia era un dono di suo padre; quell'uomo sarebbe stato mio nonno se si fosse trovato nei paraggi; ma io non l'ho mai visto, ed è rimasto sempre e soltanto suo padre. La sveglia aveva un suono di campanella ecclesiastica, quel genere di campanella che i chierichetti strombazzavano a destra e a sinistra quando accompagnavano per via il prete con l'olio santo, e aveva il compito di farmi saltare in piedi senza spaventarmi, in tempo per fare la colazione, vestirmi e andare a scuola. Perché anch'io, come i suoi alunni, andavo a scuola. Durante la settimana la curavo io, la caricavo e controllavo che non si fosse spostata la lancetta dell'ora di sveglia; la sera, prima di andarsene a casa, la Santarellina doveva solo controllare che fosse al suo posto, e ce la trovava sempre: sopra la maglietta di lana, sotto il pigiama.

Non l'ho mai vista uscire di casa, ma so la strada che faceva. Dal Ponte andava per la strada bianca fino a Treppignana, che erano poi le case dove viveva la sua amica Santarellina, da li ai campi di canapa di Fosciandora. Dopodiché prendeva a salire per le mulattiere sempre ben tenute e sgombre delle selve che portavano ai metati di Villa. E poi a Sillico, e dal Sillico ancora su sempre per selve, fino ai sentieri scrocchianti delle faggete della Capria. Da qualche parte lì intorno c'era la sua scuola. Quell'andare di mulattiere era chiamato Vandelli, perché per qualche tratto saliva ancora assieme al tracciato dell'antica opera che l'abate Vandelli aveva disegnato per collegare i domini del distretto con la loro signoria estense. Su quella strada portavano di là dall'Appennino, marmo, sale, leve di soldati, lana di pecora, e un orso all'anno. L'orso era il tributo che gli Estensi chiedevano per confermare il libero arbitrio sulle sue selve del popolo di Sillico, e appena finita la raccolta delle castagne, tutti gli uomini di quella libera pieve si mettevano per le forre tra il monte Belfiore e Morgiandonda a dare la caccia a quest'orso. A quel tempo ce n'erano ancora parecchi, e in quel periodo dell'anno erano già abbastanza assonnati per non mangiarseli tutti, prima che il più balordo tra loro accettasse di consegnarsi al signorile sollazzo.

Questa era la strada per la scuola: al passo della Duse ci volevano più di due ore, se non c'era la neve; con la neve devi aggiungere un'ora, se la neve è molto alta una mezz'ora in più, se nella nottata la galaverna ha steso una ghiacciata troppo spessa per essere rotta senza impegno dallo scarpone, aggiungine un'altra ancora. E allora la Duse partiva di domenica sera. Al mio passo, e parlo di quando avrei potuto attraversare il globo intero sui miei piedi, col tempo buono ce ne mettevo tre di ore. La Duse è sempre stata più in gamba del suo figliolo.


Nei giorni di Natale abbiamo visto la fotografia del presidente Obama mentre dall'alto di una scogliera disperde nell'oceano le ceneri della sua amatissima ava. Era un'immagine molto suggestiva e la coreografia dei sentimenti ritratti nel bel volto del presidente molto efficace. Io e la 'Nita abbiamo riflettuto su quell'immagine, chiedendoci se in una circostanza del genere ci saremmo comportati bene come lui, se saremmo stati capaci di gesti così esemplari e di emozioni così vive. Se qualcuno avesse mai potuto scattarci una fotografia come quella. In occasione della morte della Duse avrei potuto essere il precursore del presidente eletto degli Stati Uniti.

La Duse è morta l'aprile scorso senza lasciar detto niente. Al riguardo di se stessa mia madre non ha mai detto niente che concernesse la sua fine e i postumi che ne sarebbero stati generati; né a me né a nessun altro, ch'io sappia. L'unica volontà nota risale a più di cinquant'anni or sono, e stabiliva che se le fosse successo qualcosa, il suo zaino americano sarebbe toccato a me. Ho preso poi quello zaino senza che le dovesse succedere niente.

Quando un figlio si accinge a seppellire sua madre, è lì che comincia a volerle bene. E si prende cura di lei con mistico abbandono, avendo lasciato altrove, dove non c'è più crudezza, le spoglie della carne che lo ha tenuto legato a cose ben più forti del bene e della sua cura. Nel farmi firmare le carte, mi è stato intimato di decidere all'istante cosa avrei fatto di lei. Erano i giorni della Pasqua. Nella sua casa, nella stanza del sofà, sul tavolo quadrato, ho trovato a lievitare sotto un telo di canapa le pasimate. Le pasimate devono lievitare dal Giovedì Santo alla domenica mattina, quando vanno infornate dopo che è stato cotto tutto il resto. Non era né vecchia, né malata per dover morire; immagino che lo abbia fatto allo stesso modo che ha portato il rossetto per tutto il tempo della scuola della Capria: per insubordinazione. Non era stabilito che morisse, ed era opinione comune nel distretto che ci avrebbe seppellito tutti.

La maestra Duse si era guadagnata la medaglia dei quarant'anni di servizio, ma continuava a fare scuola, visto che non aveva altro da fare, neppure da preparare la cena per qualcuno, voglio dire. Continuava a stare nella sua casa al Ponte, e l'unico trastullo che si dava era il giardino, per lo sbigottimento di tutto il paese. Aveva preso con il passare degli anni a tenere quei duecento metri di terra innocente come se fossero da mettere in riga, con le buone o con le cattive, e coartati a divenire un capriccio esotico contro la loro natura e la necessaria grazia. Dalla strada quel giardino appariva come un tormento di piante morenti, smanianti e distorte, oppure inverosimilmente floride e ipertrofiche, pervertite nell'immagine ridicola di un delirio tropicale: non una sola essenza aveva una qualche attinenza con il luogo dov'era costretta a vegetare; semi e bulbi e tuberi se li faceva arrivare per posta. Quel giardino era una pazzia, e come tutte quante le pazzie, traeva origine e motivo da uno strazio d'amore che nessuna arte del cucito era riuscita a rammendare. Questo è quello che penso io, ma tutto ciò che si vedeva era la stranezza senile della Duse, e al suo riguardo non c'era una sola delle sue adoranti amiche che non si vergognasse per lei e per la sacra dignità violata dell'Appennino. Quello che doveva fare la Duse, dicevano, era la scuola e basta.

Si portava in casa i suoi vecchi alunni e i loro nipoti, a turno o tutti assieme, e nella stanza del sofà continuava a fare il suo lavoro con la carta geografica delle città d'Italia e le più belle poesie della sua lingua. Tanto non era cambiato niente, e in generale i discendenti dei montanari continuavano ad avere scarsa attitudine allo studio e l'aria svagata dagli spiriti. Fin dove si spingeva la sua fama, si contemplava la sua paniera di capelli tinti con il turchinetto come destinata all'eternità. Quando me l'hanno fatta vedere aveva ancora un po' di rossetto sulle labbra, e quando la Santarellina l'ha preparata per la veglia, glielo ha risistemato per bene, forse anche un poco abbondante. Dunque ha messo a lievitare le pasimate per fare la Pasqua, si è cambiata, si è messa il rossetto, e ha chiamato la Santarellina perché l'accompagnasse all'ospedale, a morire. Se l'è cavata in un paio di giorni, il sabato sera era già tutto finito.

A vederla morire c'era la Santarellina. Io non avrei potuto esserci, e non avrei nemmeno voluto. Come si può veder morire la madre? Come può una madre lasciarsi morire davanti agli occhi di suo figlio? Pur di non umiliarsi si sarebbe smangiata nella malattia per cent'anni, finché non mi fossi deciso ad andare io per primo. Non ci siamo visti quasi mai in questi ultimi venti, trent'anni. Se mai ce ne veniva voglia, cercavamo di incontrarci per caso. La mia casa ora è a cinque ore dalla sua, al suo passo di quando era ragazza, e se volevamo che capitasse di vederci, dovevamo fare molta strada. Naturalmente non poteva che essere un momento raro, e sarebbe rimasto per un certo tempo il ricordo dell'ultima volta, parole e immagini su cui ogni tanto meditare per considerare cosa è perduto e cosa è rimasto del nostro patto primigenio. Non l'ho mai scoperta commossa di vedermi; ma una volta, alla fiera autunnale dei casari a Castelnuovo, ho notato che dava una sbirciatina alla sua scatolina con lo specchio prima di venire verso di me. E io sono andato a incontrarla allora, e credo sempre, con l'intenzione di riprovare ancora una volta a immergere la mia faccia nella massa dei suoi capelli. Per sentire l'odore della sua vita, se c'erano ancora le vecchie puzze o se ne aveva trovate di nuove. Ma da un bel pezzo sono alto due palmi più di lei, e la cosa sarebbe soltanto ridicola; sempre che lei avesse ancora voluto lasciarselo fare.

L'ultima volta che l'ho vista è stato per il Corpus Domini dell'anno passato. Era sulla strada, davanti a casa sua, e spargeva sull'asfalto una gran grembiulata di petali per la processione che sarebbe passata di lì: erano i suoi fiori stranieri e inconoscibili. Non abbiamo parlato molto, ci siamo invece baciati e io mi sono chinato perché lei potesse farlo sul collo, come mi ha sempre baciato. Ancora una volta me ne sarei tornato nella mia vita senza che lei sentisse la necessità magistrale di dirmi qualcosa in proposito, ma con la traccia umida delle sue labbra e del suo rossetto là dove l'avrebbe dovuta lasciare un'amante; e ricordo di aver pensato con una certa soddisfazione che la 'Nita non avrebbe potuto fare a meno di notarla, e di interrogarsi, e di indispettirsi a lungo prima di decidere di ignorare quello sbaffo e, forse, dimenticarselo. Lei e la Duse non si sono mai incontrate. Non è stata una decisione, ma la pratica forza delle cose e una tacita convenienza.

Ecco che poi mi si domanda cosa ho intenzione di farne delle spoglie mortali di mia madre. Ho chiesto qualche ora e ho occupato quel tempo pensando perlopiù alla Pania. Alla Pania della Croce, fra le tre panie.

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Anche i ragazzini delle scuole sanno la storia del Valanga. C'è sempre qualcuno che gliela racconta, c'è ancora nella gente l'idea che il Valanga e i suoi uomini rimangano a presidiarci l'orgoglio in eterno. Che poi non è altro che una storia di partigiani, ma piena della bellezza e della passione che basta per un'epopea millenaria. E tanto per cominciare era bello il ragazzo di Gallicano che smise di studiare medicina per darsi alla macchia. Era bella la sua famiglia e piena di passione libertaria. Era bella la sua donna, che gli fu portata via da un inglese che egli stesso aveva sottratto alla prigionia di un campo tedesco, e tenne in casa come un fratello. E già in questo, e nel dolore segreto e impronunciabile del Valanga, chiunque avrebbe potuto vedere la cecità di un destino che andava a compiersi senza riguardo per nessuno. Erano belle facce i suoi uomini, o per meglio dire i suoi giovanotti; e riescono ancora a essere belle lì dove sono, negli ovali di porcellana smangiati e ammuffiti nella lastra di marmo bianco, quello in eterno come l'orgoglio, ai piedi del cippo che conferma ciò che accadde. Era bello che si fossero decisi per la Pania della Croce per combattere: il posto più ingrato, ma il più lontano dalla gente che da una battaglia poteva soffrirne. E piene di passione le loro gesta, persino compassionevoli, nonostante che fossero pur sempre opera del Valanga. Erano in venti e ci si misero in duemila a stanarli. E naturalmente ci riuscirono, e li tennero stretti alla cima, senza cartucce e senza pane per giorni, finché la Valanga non prese la decisione di gettarsi all'unisono, nell'ultimo gesto di passione che le rimaneva: volare morendo.

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