Copertina
Autore Ida Magli
Titolo Dopo l'Occidente
EdizioneRizzoli, Milano, 2012, Bur Futuropassato , pag. 240, cop.fle., dim. 13x19,8x1,5 cm , Isbn 978-88-17-05578-9
LettoreCristina Lupo, 2012
Classe antropologia , politica , storia contemporanea , relativismo-assolutismo , religione , paesi: Italia: 2010
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Indice


    Prima Parte
    La Bellezza non ci ha salvato

1.  Uno sguardo da lontano                                    9
    Il triste mestiere dell'antropologo 9;
    Politicamente corretto 11;
    L'eurococco 14;
    I «bianchi»: impuri infedeli colonizzatori 20;
    L'Era della tabuizzazione femminile 25;
    «Libri di storia addio!» 37;
    Il Pentolone 42

2.  La falsificazione del bene                               47
    Lacrime d'odio 47;
    «La falsificazione del bene» 49;
    «Aprirai un conto corrente» 52;
    «Buon Dio Signore, guarda quello che hai combinato!» 55;
    «Celesti occhi ha la morte» 59

3.  La rottamazione dell'Europa                              67
    «La grande sassaia universale» 67;
    Dai doveri ai diritti 68;
    La lingua del rifiuto 77;
    Sacerdoti del mercato 83

4.  Un circolo chiuso                                        97
    Relativismo e crisi della Chiesa 97;
    La sessualità in Occidente 101;
    Il primato dell'omosessualità 109;
    Velo e rivelazione 116;
    La vita come attesa 122;
    Addio al Padre 141


    Seconda parte
    L'Era post europea, Era della Bruttezza

1.  La meteora americana                                    147
    Un nuovo tipo di umanità: gli Americani 147;
    Usa e getta 151;
    Una Nazione postcristiana 152;
    Lo spirito della Conquista 154

2.  L'età del cinema                                        159
    L'America e il suo specchio: l'arte cinematografica 159;
    I disperati di Hollywood 164


    Terza parte
    La Russia riflesso d'Occidente

1.  La Russia fra Oriente e Occidente                       175
    La centralità della Russia 175;
    Modello culturale e tecnologia giapponese 179;
    Spazio reale e spazio mentale 190;
    «Sono uno che impara: cerco chi mi insegni» 199;
    L'immobilità della Chiesa Ortodossa 209

2.  «La Russia non s'intende con il senno»                  217
    La bambina con la pentola di ghiaccio 217;
    Il segreto 219;
    Religione e carattere dei popoli 224;
    Il nuovo scenario mondiale 224


Bibliografia essenziale                                     229
Indice dei nomi                                             235


 

 

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Pagina 9

1.
Uno sguardo da lontano



Il triste mestiere dell'antropologo

Spetta all'antropologo studiare le culture «morte». O meglio, spetta all'antropologo studiare quelle culture che, anche quando sono a noi contemporanee, tuttavia appaiono morte. Ben diversamente dall'archeologo, che studia quelle dell'antichità, ossia quelle morte davvero, l'antropologo si è trovato di fronte a un fenomeno assolutamente sconosciuto prima nella storia, il fenomeno di culture «vive da morte». È stata così grande la sua sorpresa che sul primo momento ha pensato si trattasse di residui di un passato antichissimo, appartenenti a un'Era primordiale, selvaggia, primitiva. Come mai apparivano morte? Non tanto perché prive di tecnologia, di industria, di scambio commerciale, quanto perché non hanno mai neanche immaginato di potersi estendere al di fuori del proprio gruppo. Si tratta di popoli, in genere poco numerosi, che considerano il proprio modo di essere, di vivere, di comportarsi giusto e perfetto fin dall'inizio, dunque immutabile, e destinato soltanto a loro; ma che in realtà sono riusciti a conservarsi sempre uguali a se stessi soltanto perché privi di contatti con gruppi estranei, isolati. Isolati in quanto si trovano in territori estesissimi quasi privi di popolazione, ma anche perché non si avventurano al di fuori dello spazio dove vivono. Sono privi di «curiosità», insomma. Il motivo è sempre lo stesso: la curiosità nasce in chi ritiene che esistano cose diverse da quelle che già conosce e che sia importante scoprirle perché implicitamente pensa che potrà forse adottarle, farle proprie. Laddove si ritiene, invece, che non si debba mai cambiare nulla al ciclo dell'esistenza perché fissato alla «perfezione dell'inizio», è evidente che ogni sforzo è concentrato sulla ricerca sempre più puntuale di questo inizio, sulla ritualità della «ripetizione». Insomma la curiosità nasce fuori dal «Sacro».

Appena però una cultura viva, dominatrice, carica della volontà di espandersi, ha investito le culture primitive con la propria forza, non c'è stata battaglia: si sono avviate verso l'estinzione.

Sono queste, dunque, le società che l'antropologo ha studiato, senza possedere nessuna traccia precedente, nessun punto di riferimento nella storia. Si è trovato così a guardarle dall'esterno pur standovi dentro, con quello «sguardo da lontano» che è il più obiettivante possibile e al quale si deve il metodo particolare degli antropologi: «l'osservazione partecipante». È diventato chiaro, con il passare del tempo e con il sommarsi di sempre maggiori conoscenze intorno ai popoli «primitivi», che tutte le culture «vive da morte» possono, e anzi debbono, essere definite «etnologiche», ossia «passate» anche se presenti, in qualche modo fuori dalla storia o prima della storia, e che è la distanza, la rottura posta dalla morte, che ce le fa percepire definitivamente estranee.

Inutile sottolineare il fatto che è l'antropologo, l'osservatore d'Occidente, che le vede così. Loro, i «primitivi», hanno sempre ritenuto di essere vivissimi, anzi garantiti in eterno per la propria vita in quanto nel tempo «ciclico», nel tempo della ripetizione, non si muore mai. È stato l'incontro con noi che li ha uccisi. Li ha uccisi, anche quando non li abbiamo sterminati fisicamente, perché è andata in frantumi la loro sicurezza di vivere la vita «giusta», quella garantita dalla perfezione originaria.

Quello dell'antropologo è dunque un mestiere triste, perché si sente acutamente, malgrado l'alone di romanticismo con il quale l'Occidente ha investito il mondo primitivo, il senso di morte che esso porta dentro di sé. Il suo destino è segnato. Per quanto i popoli «vivi» tentino di non farli estinguere, di aiutare i gruppi che ne sono portatori a conservare i propri costumi, la propria religione, la propria lingua – come succede per esempio in America con gli Indios dell'Amazzonia, o con i Rom in Europa –, il loro è soltanto uno pseudorispetto, una specie di imbalsamazione e, di fatto, un rifiuto di comunicazione e un errore.

D'altra parte sono i governi attuali che impongono ai propri sudditi questo tipo di comportamento, anch'esso in qualche modo incluso nel «politicamente corretto». L'obbligo ad acquisire, attraverso le norme linguistiche, un sistema di giudizio non corrispondente alla realtà – alla realtà così come viene automaticamente percepita – ha come prima conseguenza che nessuno s'incontri mai con l'altro in ciò che pensa, costretto a passare sempre attraverso la realtà stabilita dal Potere. Questo sistema ha stravolto, falsificandoli, i rapporti fra i popoli, cancellando qualsiasi possibilità di scambio, di aiuto, di fecondazione culturale reciproca.


Politicamente corretto

Il «politicamente corretto» costituisce ovviamente la forma più radicale di «lavaggio del cervello» che i governanti abbiano mai imposto ai propri sudditi. La corrispondenza pensiero-linguaggio è infatti praticamente automatica. Inserire una distorsione concettuale in questa corrispondenza significa impadronirsi dello strumento naturale di vita cui è affidata la specie umana: l'adeguamento del sistema logico cerebrale alla percezione della realtà nella formulazione linguistica dei concetti, impedendone così anche qualsiasi cambiamento e trasformazione. Non sappiamo chi sia stato a ideare un tale strumento di potere per dominare gli uomini e indurli a comportarsi secondo la volontà dei governanti, evoluzione terrificante di quella che un tempo si chiamava «censura». Terrificante soprattutto perché la censura non è più visibile come tale, nessuno ne è più consapevole: è stata introiettata. È probabile, però, anzi quasi certo, che il laboratorio dal quale è partita l'idea, e la definizione ad hoc, anch'essa iniquamente falsificatrice, di «politicamente corretto», debba trovarsi negli Stati Uniti d'America, anche se nessuno ce ne ha mai parlato. Si tratta in ogni caso del frutto di una intelligenza sadico-criminale che non ha confronti nella storia, messa al servizio di un governo che possiede una larghissima influenza su tutti i governi d'Occidente e, sia pure in forma attenuata, su tutti i governi del mondo; e che ha quindi potuto con facilità portare ovunque il nuovo «ritrovato».

Nessuna voce critica, che io sappia, nessuna protesta, nessuna denuncia si è alzata nei confronti di chi ha, con l'improntitudine di un potere assoluto, imposto il primato del potere politico sul pensiero e sul linguaggio, definendolo esplicitamente come tale: politicamente corretto. Non: «corretto» dal punto di vista politico, ma «corretto» dal Potere. Politica e Potere sono la stessa cosa.

I governanti, dunque, nel mondo della libertà e della democrazia, lo stesso mondo dove si sono sviluppati alcuni dei più importanti studi sul «linguaggio-cervello-comportamento», hanno assunto il diritto a utilizzarne il frutto contro l'uomo. In quello stesso mondo, le persone che sono in grado di valutarne la terribile forza distruttiva, hanno taciuto e tacciono. I sudditi invece, da persone «normali», fornite del semplice buon senso, non soltanto ne percepiscono tutta l'ipocrisia e la finzione – anche quando non possiedono gli strumenti per comprenderne la capacità trasformante – ma lo trovano comunque sopraffattorio e ingiusto per tutti: se stessi e gli altri.

Un popolo, così come ogni singolo uomo, è sempre animato dall'ansia, dal desiderio di comunicare le proprie idee, le cose in cui crede; cerca sempre di convincere tutti quelli che incontra a somigliargli, ad assumere il proprio tipo di vita. Se non lo fa con la violenza, lo fa almeno con la persuasione, con la letteratura, con l'arte, con lo scambio commerciale, con la pubblicità, con le chiacchiere al mercato o intorno al pozzo, in metropolitana, negli spettacoli televisivi. Perché in realtà l'uomo non è mai sicuro di essere nel giusto e trova la conferma ai propri dubbi soltanto se anche altri uomini condividono le sue idee. È la prova più sicura, quella che dà la certezza di essere uguali nell'unica cosa che conta: la «logica», il sistema di verifica del pensiero. Qualsiasi teoria sulla differenza delle razze si blocca infatti davanti a questa constatazione: due più due fa quattro per tutti.

Una cultura è viva soltanto se crede in se stessa e negli uomini in quanto «uomini» nella loro comune identità; se ha la forza di irradiarsi all'esterno, di accrescere il numero di coloro che vi credono e vi si affidano. C'è però un limite a questa possibilità. Un limite posto proprio dal sistema logico dell'uomo di cui stavamo parlando.

Si può sempre apprendere qualcosa da altri popoli, da altri gruppi e farlo proprio, ma ogni sistema culturale integra comportamenti estranei soltanto se questi non sono in contraddizione con il modello di base, se non ne alterano la «forma» significativa. Gli studi compiuti dai maggiori antropologi in questo campo sono ormai dei classici, impossibili da mettere in dubbio. Da Boas a Kroeber a Benedict a Mead a Malinowski a Leroi-Gourhan, non c'è chi non abbia dedicato la maggior parte delle sue ricerche a scoprire e verificare il funzionamento del «sistema significativo» che sostiene ogni modello culturale. Il risultato è stato sempre lo stesso, e non avrebbe potuto non esserlo visto che la «cultura» è il fattore naturale che contraddistingue la specie umana e ne guida i comportamenti. Ogni modello culturale possiede una «forma», nel senso gestaltico del termine, e rigetta perciò gli elementi estranei non compatibili, in analogia con il sistema immunitario di sorveglianza e di identificazione con il quale li rigetta l'organismo biologico. Non appena, quindi, viene meno la reazione di rigetto e il sistema comincia a lasciarsi invadere da elementi appartenenti a sistemi diversi, inizia il suo itinerario verso l'estinzione e manda il tipico segnale che l'antropologo percepisce come «etnologico»: segnale di pseudovita, di «vita morta».


L'eurococco

È il segnale che manda oggi la cultura occidentale. Per questo è l'antropologo ad accorgersene per primo e con maggiore chiarezza di chiunque altro. Ma quasi tutti in Occidente, e in particolar modo in Europa, percepiscono un disagio, un vuoto, cui non sanno dare un nome; un vuoto che li esaspera spingendoli a consumare, consumare, consumare: cibi, mode, parole, tempo, valori, droghe, sesso, vita. O forse: droghe come vita, sesso come vita. Gli stupri casuali, espressione di una violenza finale, quella del desiderio trasformato in odio, i suicidi-omicidi dei giovani, in preda alla pseudopotenza della droga e della velocità nelle cosiddette «stragi del sabato sera», gridano con disperata rabbia l'esasperazione di questo vuoto. Un vuoto che paradossalmente sembra pienissimo.

La fretta divora l'Occidente: l'assillo del non perdere tempo impedisce di accorgersi che in realtà non si produce quasi più nulla delle cose che contano: pensiero, scienza (il continuo sviluppo tecnologico non inganni: la tecnologia è soltanto applicazione della scoperta scientifica, non scoperta in sé), filosofia, letteratura, arte. Il mercato, la pubblicità, gli indici di Borsa hanno preso il loro posto e si ammantano di una «pienezza» di nuovo tipo: cambiano continuamente, aggiornano il mondo, minuto per minuto, della loro instancabile attività, delle loro avventure, delle loro trasformazioni in vincite e perdite, mentre gli uomini, la vita reale degli uomini, delle società, delle Nazioni, proiettata fuori dall'orizzonte di ciò che conta, affonda nell'indistinto, nell'amorfo, nel brulichio di quei frammenti non significanti e senza più nessuna possibilità di concatenarsi fra loro che stupiva e angosciava Robert Musil. È il brulichio delle innumerevoli vite che disintegrano un cadavere.

Una particolare infezione, l'«eurococco», di cui fantasticava Yvan Goll, è partita dalla crisi devastante della Germania e ha contagiato a poco a poco tutta l'Europa, minacciando il resto del pianeta.

Sfruttando il timore di una tale desertificazione è apparso all'orizzonte all'improvviso chi è riuscito a convincere il mondo che le Nazioni, gli Stati... l'Italia, possono «fallire»; anzi, che sono sul punto di fallire.

Parola incredibile, priva di senso riferita a un popolo, a una Nazione, a uno Stato. Nessun «popolo» fallisce. Può morire; e muore. Ma chi osa definire la morte un «fallimento»? Nazione, Stato, sono «figura» dei popoli. Non c'è nessuna Nazione, nessuno Stato, negli indici di Borsa. Non ci sono i popoli, il loro nome, la loro identità, la loro storia, il loro pensiero, il loro lavoro; non ci sono né nascite né morti, non ci sono né amori né pianti; non c'è quella «patria» per la quale si è data la vita cantando; non ci sono né la poesia né la musica; non ci sono, infine, né religioni né speranze di eternità: nulla.

Si chiamano valori di Borsa, ma appunto, usurpando il termine «valore», i governanti-economisti hanno compiuto un'operazione matematicamente invalida: i valori dei popoli non sono riducibili a numeri. Non sono quantificabili in cifre. Non si possono né sommare né sottrarre al capitale delle monete. Una Nazione, insomma, non è il suo Pil.

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Pagina 20

I «bianchi»: impuri infedeli colonizzatori

Spetta a un antropologo, dunque, che si trova a vivere oggi come «osservatore partecipante» in mezzo all'Occidente, sforzarsi di «guardarlo da lontano» per descrivere le fasi finali della sua inconsapevole, convulsa agonia.

[...]

Il dubbio che, di fatto, nessuno raccoglierà le tracce della nostra esistenza è diventato con il passare del tempo quasi una certezza. L'Europa, specialmente la parte dell'Europa più attraente, più ricca, più facile da aggredire – quale l'Italia, la Spagna, la Grecia, la Francia, la Germania –, sarà abitata in maggioranza da africani musulmani i quali avranno il piacere e il dovere di eliminare tutto ciò che ci appartiene. Siamo «bianchi», noi, impuri infedeli colonizzatori: ricordiamocelo. Diversi e nemici per definizione coranica, oltre che per gli avvenimenti della storia. È assurda e fuor di senso la reazione con la quale di solito vengono condannate, specialmente dai cattolici e dalla gerarchia della Chiesa, le aggressioni e le stragi di cristiani nei Paesi musulmani, specialmente in Africa e in Medio Oriente. Se ne parla come di gesti di odio verso persone innocenti, che non hanno fatto nulla di male, come se non fosse l'Antico Testamento, e di conseguenza il Corano, a obbligare i propri devoti a combattere e distruggere gli infedeli, i nemici di Dio. Soprattutto se non si unisse a questo comando il retaggio di un passato ancora presente (la crudele ingiustizia dell'aggressione alla Libia, finita con l'uccisione del suo leader, e alla quale ha partecipato, con una delle più sciagurate decisioni politiche di Berlusconi, anche l'Italia, tradendo i suoi patti di amicizia con Gheddafi) che sedimenta nello spirito dei popoli appena usciti dalla colonizzazione.

Il principio — anche questo naturalmente stabilito come valido per tutti dall'Occidente — che le religioni debbano essere tenute fuori da qualsiasi discussione in nome del rispetto reciproco (l'Unione europea lo impone con una legge apposita ma era già stato imposto dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo), è in realtà tutt'altro che una forma di rispetto, ma piuttosto un'offesa alla ragione umana e alle acquisizioni psicologiche e cognitive che il divenire della storia porta sempre con sé. Le religioni vanno affrontate e discusse come qualsiasi altra idea e istituzione proprio perché sono sempre collegate alla sfera del potere e su di esse ancora si fondano i costumi e le leggi di gran parte del mondo. Affermare che non possono essere studiate normalmente come qualsiasi altro fenomeno umano significa prima di tutto riconoscere l'esistenza delle divinità, di un Dio o degli Dei; e in secondo luogo — cosa ovviamente inammissibile per chi fa scienza — che possiamo studiare il Sacro presso gli «altri», come abbiamo già fatto, ma che non possiamo farlo presso di «noi».

Fino a quando l'Occidente non si deciderà, e per primi gli Ebrei, a respingere l'idea della «rivelazione» — chiaramente appartenente all'infanzia dell'umanità, ingenua, primitiva, o meglio «etnologica», e che porta con sé l'intangibilità dell'Antico Testamento — non avrà nessuno strumento valido per condannare la violenza dei credenti musulmani. Ovviamente l'avrebbero dovuto fare subito i discepoli di Gesù, mettendo in atto così il suo principale insegnamento. Ma non l'hanno fatto. Il loro primo tradimento è stato proprio questo: rimanere agganciati all'Antico Testamento. Con il solito spirito di dominio l'Occidente adesso pretende che tutto il mondo si adegui a una nuova religione – la sua – chiamata «tolleranza», o meglio «democrazia-tolleranza» (termini che la politica ha deciso di rendere sacramentalmente interscambiabili), che include e copre tutte le altre; scandalizzandosi inoltre e condannando, sempre con le armi americane pronte a sparare, coloro che osano mettere in dubbio che ciò in cui crede l'Occidente sia il meglio per tutti.

Inutile obiettare che anche il concetto di «meglio» è, e non può non essere, relativo. Le istituzioni non lo ammetteranno mai. E come potrebbero? Il Potere o è assoluto, o non è. Si sono schierate tutte, dunque, e per prima la Chiesa cattolica con il suo ancora rilevante peso nella conduzione politica dell'Occidente, contro questo principio. Ma per quanto l'Occidente si ostini a voler conciliare gli opposti, facendoli coincidere con il proprio punto di vista, rimane vero che quasi tutto quello che abbiamo fatto e che ancora facciamo è vietato dal Profeta e di conseguenza è «male» per i credenti musulmani.

Una volta padroni dell'Europa, quindi, i musulmani «giustamente» ne distruggeranno «l'europeità», come è sempre successo quando una cultura è subentrata a un'altra. I cristiani non hanno forse raso al suolo tutti i templi, tutti gli edifici della Roma pagana, appena sono diventati abbastanza forti per poterlo fare? Hanno distrutto perfino ciò che i Romani, con il realismo e la sapienza ingegneristica che li contraddistingueva, avevano costruito al servizio e per il benessere dei popoli sottomessi al loro impero. Strade, mura, ponti, acquedotti, fontane, cloache, terme, giardini, anfiteatri: tutto è stato abbattuto, rifiutandone con l'irrazionalità dell'odio la meravigliosa funzionalità. Quel poco che sarebbe stato troppo faticoso o che non si era in grado di distruggere (non esistevano le bombe allora: per questo il Colosseo è ancora in piedi) è stato abbandonato alla sicura consunzione del tempo. Le misere condizioni di vita dell'Europa medioevale, la spaventosa mortalità infantile, la violenza delle malattie contagiose sono da attribuirsi in gran parte alla mancanza di ogni regola d'igiene, all'assenza di fognature, alla scarsità d'acqua, alla condanna del suo uso da parte della Chiesa che aveva spronato a eliminare le opere idrauliche dei Romani ritenute strumento di libidine e di corruzione.

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Pagina 25

L'Era della tabuizzazione femminile

[...]

Che sia stato un Maschio il primo ad assumere il potere è un fatto certo, malgrado le appassionate dispute sulla possibilità di un matriarcato primordiale che si sono scatenate durante i primi passi del femminismo. Si erano gettati in questa polemica quasi tutti gli storici, gli etnologi, gli archeologi e i giuristi più importanti, da Bachofen a Morgan, da Maine a Stärke, da McLennan a Westermarck spinti simultaneamente tanto dalla loro riluttanza a immaginare un gruppo di donne combattenti e fornite di potere quanto dal desiderio di non essere ingiusti nei confronti delle donne.

Quello che ha sempre accecato i maschi, nelle discussioni sul potere, è il loro tabù nei confronti dello strumento fondante di ogni potere: il pene. Tutti gli studiosi, anche i più sensibili e acuti nell'analisi della formazione delle culture, «saltano» il pene quale primo strumento guardando immediatamente alla mano. Gli studiosi, infatti, hanno sempre messo l'accento sull'azione della mano per la costruzione della cultura e, pur essendo, almeno fino a oggi, quasi tutti di sesso maschile, non hanno mai preso in considerazione il pene come membro che si muove e agisce all'esterno dell'organismo. Il massimo silenzio anzi lo circonda, in tutte le scienze umane, dall'archeologia all'antropologia alla filosofia alla storia.

Un caso esemplare, da questo punto di vista, è quello di un filosofo famoso come Arthur Schopenhauer il quale si vanta, nel suo saggio intitolato Metafisica della sessualità, di essere il primo ad aver avuto il coraggio di affrontare un argomento tanto scandaloso (il suo saggio è del 1844).

Malgrado questo coraggio, però, è riuscito in tutto il suo trattato a parlare della sessualità senza mai neanche alludere all'esistenza del pene. In realtà il pene è un «utensile» di grande complessità il cui funzionamento è esemplare: un perfetto prototipo di motore fornito dalla Natura in quanto non soltanto si erige e si prolunga, produce calore-energia e «proietta» lontano da sé un getto che colpisce un bersaglio, ma permette all'uomo sia di misurarne internamente la forza d'emissione che di vederne all'esterno il risultato (è molto significativo da questo punto di vista il gioco che tutti i bambini sono soliti fare, sfidandosi a chi riesce a gettare l'orina il più lontano possibile). Non c'è attrezzo, dal più semplice al più complesso, non c'è arma, che non copi sotto qualche aspetto la forma, il meccanismo e la funzione del pene. Non è possibile soffermarsi qui su un argomento così importante ma è probabilmente questo il motivo per il quale i maschi non si sono mai preoccupati e continuano a non preoccuparsi della «fecondazione»: la funzione del pene è quella del motore. Per quanto ci possa far sorridere, in fondo i «nostri» maschi si comportano più o meno come se anch'essi credessero, come i popoli studiati da Malinowski, che sia il vento della primavera a fecondare le donne.

Tutti gli uomini, invece, sanno e hanno sempre saputo che tutta la costruzione umana si fonda sul pene. La più antica rappresentazione che ne possediamo si trova nella grotta sottomarina Cosquer, nei pressi di Marsiglia, datata al 28.000 a.C. La silhouette caratteristica di quello che viene chiamato compuntamente «fallo» (l'uso della lingua straniera serve a stabilire l'evitazione, la distanza di rispetto) la si riconosce ovunque dato che le sue varianti concrete e simboliche sono praticamente innumerevoli, dai menhir alle «pietre erette» alle torri, fino a quei bastioni che portano l'esplicito nome di «maschio». È stato scolpito da qualche felice mano maschile un ultimo trionfale «fallo» anche alla fine del Vallo di Adriano, oltre a tutti quelli sparsi nelle varie torrette di guardia lungo il percorso, e ne avevano ben donde i poveri romani costruttori di un muro lungo 120 chilometri che taglia la Gran Bretagna dal Mare del Nord fino a Bowness nel Mare d'Irlanda.

È vero che per giustificare in qualche modo questa presenza imbarazzante gli studiosi hanno trovato una facile spiegazione attribuendo ai «falli» sparsi dappertutto la funzione di strumenti augurali di buona fortuna, di fertilità, di bonaccioni guardiani degli orti, oppure, come massima concessione alla mascolinità che pur sempre contraddistingue i «falli», la capacità di intimorire il nemico. Nessuno spiega, però, perché mai il nemico dovrebbe intimorirsi alla vista di un simbolo fallico: fra maschi evidentemente, nemici o meno, ci si capisce molto bene.

Il silenzio tuttavia non può far credere che l'uomo non abbia riflettuto sul funzionamento del pene e che non se ne sia servito per la vita concreta come ha fatto con tutte le altre parti del corpo. Le «misure», per esempio, sono state fissate in base a quelle della mano, del piede, del braccio, del passo, del pollice. Tutti gli oggetti composti di una parte che penetra (è sufficiente il linguaggio) e di una che viene penetrata si distinguono abitualmente in «maschio» e «femmina». L'acciarino (strumento che esiste da tempi antichissimi e presso tutti i popoli anche i più «primitivi») è formato di maschio e di femmina, il che permette di supporre che l'idea di poter produrre calore col movimento sfregando un punteruolo in modo accelerato contro una pietra o contro un legno sia stata suggerita dall'esperienza del funzionamento del pene.

È evidente che, partendo dalla mano, si può parlare con disinvoltura dei problemi del potere riguardo alle donne, mentre se si parte dal pene il problema diventa insormontabile. La realtà grida ad altissima voce, però, quale che sia la buona volontà dei maschi nel concedere qualcosa alle donne, che «pene-potenza-potere» sono la stessa cosa.

[...]

L'impurità femminile, dunque, è onnicomprensiva, ossia include nella sua negatività tutte le opposizioni possibili e può essere assunta, perciò, a carattere distintivo di un'Era dell'umanità, così come si è fatto per la pietra, per il bronzo, per il ferro. Il Figlio di Dio è maschio e siede alla destra del Padre. Destra e mascolinità dunque sono positive.

Si è arrivati così a istituzionalizzare, anche senza scriverlo in nessun manuale, sulla falsariga di quanto si faceva nel mondo ebraico, lo spazio di sinistra come spazio delle donne: nelle chiese la crociera di sinistra è stata sempre riservata alle donne fino a quando, con l'epoca moderna, è stata eliminata la separazione; lo stesso è avvenuto negli ospedali; nei gabinetti pubblici, nelle toilette degli aeroporti, lo spazio riservato alle donne è stato, praticamente fino ai nostri giorni, sempre a sinistra. Del resto anche i partiti politici hanno scelto la sinistra per significare la ribellione, la «negatività» nei confronti dell'ordine stabilito e, fino a quando non è diventato più «giusto» essere rivoluzionari piuttosto che conformisti, la sinistra politica non è riuscita a essere vista come una scelta positiva.

Dopodiché è toccato alla «destra» ritrovarsi nella polarità negativa e, per quanti sforzi abbia fatto per togliersi da una posizione così scomoda, non c'è riuscita, ma il motivo è semplice: non è mai stato ammesso che la «destra» potesse essere negativa, visto che il suo primato dipende dall'uso che tutti facciamo della mano destra, per cui è soltanto diventato incerto che cosa fosse realmente la destra politica. Non si poteva e non si può riuscire, come è ovvio, a togliere l'incertezza dalla destra politica: due polarità positive non esistono nelle leggi della fisica... L'ugualitarismo ha portato con sé quello di cui ancora i politici non hanno preso atto: la fine del parlamentarismo oppositivo, o meglio, come si vede benissimo in Italia, dopo la lunga incertezza su che cosa fosse il partito berlusconiano visto che non si voleva assegnargli neanche quel minimo di incerta positività che la destra porta con sé, la fine dei governi parlamentari tout-court.

Il fatto che il «sistema» dell'impurità femminile si trovi presso tante popolazioni musulmane odierne non contraddice l'assunto di cui abbiamo parlato, ossia l'esistenza di un'Era dell'impurità, anzi lo conferma, in quanto l'osservanza «alla lettera» dei precetti del Corano, che rispecchiano quelli del Giudaismo, fa sì che i musulmani si comportino di fatto, almeno in questo campo, come si comportavano i pastori nomadi d'Oriente molti secoli prima di Cristo. Quelle in atto, perciò, sono le prescrizioni sull'impurità femminile fissate nella Bibbia nel libro Levitico.

L'esclusione femminile dalla vita dei maschi era un'istituzione ferrea perfino in quella Grecia classica antica la cui civiltà ha sempre destato l'ammirazione di tutti. Era in vigore, infatti la stessa separazione delle donne dagli spazi abitati dai maschi e da ogni aspetto della loro vita sociale esistente in Oriente, e soprattutto le numerose e gravissime regole riguardanti l'impurità, cosa che permette d'intravedere quell'ambivalenza fra Oriente e Occidente che ha condizionato in modo negativo la vita della Grecia tutte le volte in cui l'Oriente ha prevalso.

Un solo esempio sarà forse sufficiente a dare un'idea di quale fosse il timore dei Greci nei confronti del corpo femminile, un corpo ritenuto «aperto» a potenze che il maschio non può dominare e che pertanto sono per lui terribilmente contaminanti e pericolose. Assistere a un parto era assolutamente vietato e comportava per l'eventuale colpevole la condanna più grave, la stessa condanna che colpiva chi avesse compiuto un omicidio: l'esilio a vita.

Sapere qualcosa su questo aspetto della mentalità dei Greci è molto difficile perché gli storici hanno sempre preferito ignorarlo, quasi che la sola esistenza potesse oscurare lo splendore della sua civiltà. È dipesa da questo stesso presupposto l'abitudine degli storici ad associare in un'unica dimensione culturale e sociale il mondo greco con quello romano. Il concetto di «greco-romano» con il trattino unificante è diventato una formula così comune che sembra impossibile poterla discutere e tanto meno dimostrarne l'erroneità. Di fatto gli storici sono riusciti con il sistema del trattino, anche mentale, a nascondere la sconfitta della Grecia e a stabilire in qualche modo il suo primato su Roma che, come afferma il detto che più piace agli storici, divenne prigioniera di quella stessa Grecia che aveva fatto sua prigioniera. A sentire gli storici è la Grecia la regina di ogni civiltà antica, anche se viceversa la Grecia dimostra di possedere, perfino nel campo per il quale è più famosa, l'architettura, la stessa mentalità primitiva dei più grandi fra i popoli antichi: bellissimi templi e basta. Nessuna strada, nessuna fognatura, nessun acquedotto, nessun ponte, nessun edificio al servizio del popolo... nulla insomma che indichi il possesso del concetto di civiltà. E il timore dell'impurità fa parte del più primitivo atteggiamento nei confronti del Sacro. Differenza assoluta con i Romani, dunque, tanto che Cornelio Nepote, prendendo in giro i Greci, domanda retoricamente, nelle sue Vite dei massimi condottieri: «Chi dei Romani si fa scrupolo di condurre la moglie a un banchetto? O quale matrona si astiene dal farsi vedere nell'atrio della casa o dal frequentare la società? In Grecia, invece, l'uso è ben diverso. La donna non è ammessa a conviti che non siano di congiunti e si trattiene solo nella parte più interna della casa, chiamata gineceo, dove nessuno che non sia parente stretto può entrare».

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Pagina 37

«Libri di storia, addio!»

[...]

Non c'è bisogno del resto di ricorrere a motivi specifici per essere sicuri che i musulmani provenienti dall'Africa cancelleranno ogni ricordo della civiltà europea: manca nei popoli africani il «senso della storia», o meglio, manca il nostro modo di concepire la storia.

La causa è evidente: il senso della storia, la consapevolezza oggettivante del proprio esistere e il piacere di conservarne la memoria, la scoperta della storia come «coestensiva alla vita» è una delle maggiori conquiste dell'Occidente: «È qui, e soltanto qui, che è avvenuta la più importante delle rivoluzioni, l'apparizione di una presa di coscienza storica. Per coscienza storica intendiamo il privilegio dell'uomo moderno di avere piena consapevolezza della storicità di ogni presente e della relatività delle opinioni... avere senso storico significa pensare espressamente all'orizzonte storico che è coestensivo alla vita che noi viviamo e che abbiamo vissuta». Questa coscienza storica fa parte di un sistema culturale fondato su due fattori essenziali: il tempo in divenire e il valore della vita del gruppo, di ciò che il gruppo ha fatto e fa. Due fattori che hanno formato e formano la ricchezza straordinaria della civiltà europea perché, come abbiamo appena accennato, libera dal Sacro, a cominciare dall'assoluta laicità dei Romani, talmente consapevoli di se stessi che hanno inciso ovunque nella pietra il nome e la data del proprio agire. «Ovunque» non per modo di dire: Europa, Africa, Asia conservano abbondanti vestigia della presenza fattiva dei Romani. I 75.000 chilometri di strade costruiti dai Romani lungo tutto l'Impero parlano del loro perfetto addestramento alla disciplina e al lavoro e della loro indefettibile volontà di conoscere e di far conoscere metro per metro il mondo che conquistavano e che non avevano mai visto prima. Quelle dei Romani erano, per la prima volta nella storia, «strade» nel senso pieno del termine: non soltanto strumenti per il commercio e per la guerra, ma prima di tutto monumenti alla bellezza dell'«andare». Il «cammina, cammina, cammina» delle fiabe era istintivo nel cuore dei Romani, inestricabilmente connesso alla potenza del piede umano che nel momento in cui poggia sulla terra la fa sua, se ne impadronisce, le comunica la propria essenza. Qualsiasi viaggiatore conosce bene questa sensazione di possesso, come sia diversa l'immagine di un qualsiasi luogo quando si può dire: «Qui ci sono stato io». Le strade dei Romani sono, perciò, prima di tutto bellissime, una sfida alla fisica e al tempo stesso l'espressione di un'assoluta fiducia nelle sue leggi. La meravigliosa capacità ingegneristica dei Romani (non sappiamo spiegarci neanche oggi, per esempio, come abbiano fatto a costruire perfettamente diritta la via Salaria e perché volessero che fosse diritta) ha loro permesso di superare tutti gli ostacoli che si trovavano davanti nel realizzare le strade nel modo voluto: partivano tutte da Roma e raggiungevano ogni punto, anche il più lontano, del territorio conquistato. Gli archeologi hanno individuato in Tunisia e in Algeria i resti di 357 città fondate dai Romani alcune delle quali con più di trentamila abitanti, tutte fornite ovviamente di funzionali vie di comunicazione. Un ponte a tre arcate eretto al tempo di Tiberio sul fiume Beja sopporta ancora oggi un pesante traffico. Sono monumenti che in Africa sorprendono più che in qualsiasi altro luogo perché si erigono all'orizzonte di un immenso deserto con la loro sagoma silenziosa e solenne, a testimonianza che anche in Africa, quando sono liberi e padroni di se stessi, gli uomini possono lavorare e produrre opere mirabili. È un messaggio non di oppressione, quindi, ma di incoraggiamento che gli Africani dovrebbero saper cogliere dalla memoria dell'antichità.


Se il senso della storia dipende dal modo collettivo di «vivere il tempo», dal significato globale e dall'importanza che ogni gruppo dà o ha dato alla propria vita, quella maggioranza di Africani che è da tanti secoli musulmana, non sente né il bisogno né il desiderio di fare storia.

I musulmani, infatti, vivono in una dimensione del tempo molto particolare, quella stabilita da Maometto nel momento in cui, affermando di essere, non l'ultimo Profeta, ma l'unico Profeta, ha chiuso, o meglio ha vuotato di senso sia il tempo dell'attesa ebraico sia quello salvato dei cristiani.

È un tempo fermo, quindi, fisso, in base al quale i musulmani sono tornati di fatto (anche se forse non lo sanno) al tempo naturale-ciclico, comune a tutte le popolazioni tranne che agli Ebrei e ai cristiani, a un continuum in cui gli avvenimenti, pur importanti, tuttavia non dipendono dall'uomo ma dalla volontà insindacabile e perfetta di Allah.

L'oggi, insomma, per l'uomo musulmano è, e deve essere, ugualmente buono o cattivo come era ieri e come sarà domani perché così voluto da Allah. È evidente che non esiste «storia» laddove non sono gli uomini a determinarla.

Ma anche per le popolazioni africane non musulmane è difficile capire e amare la storia nel modo in cui la capiamo e l'amiamo noi. Sia quelle «convertite» (termine di comodo che adopero malvolentieri soltanto per farmi intendere ma che sarebbe bene eliminare) al Cristianesimo protestante o cattolico, sia quelle rimaste fedeli alle proprie credenze animistiche e ai propri riti «naturali», si trovano, infatti, in una situazione assai conflittuale nel conservare la memoria di sé e del proprio passato. Il conflitto nasce dal fatto che la loro vita a un certo punto ha subìto un cambiamento totale, una «rottura»: la colonizzazione.

Si tratta di popoli – come per esempio i Bantu, gli Zulu, i Dogon, i Bambara (impossibile qui citarli tutti) – il cui passato è spaccato fra il prima e il dopo della colonizzazione. Il «prima», quello della «storia» orale, dei miti e dei costumi tramandati attraverso i racconti degli sciamani, degli stregoni, degli anziani capitribù, è iniziato ab illo tempore ed è fisso per sempre, nessuno lo può cambiare; il «dopo», quello della «storia vera», è iniziato con la colonizzazione che li ha costretti a diventare consapevoli di se stessi visti dagli altri: neri, inferiori, schiavi. Due modi radicalmente diversi di guardare agli avvenimenti e impossibili da definire (e da accettare) come «storia».

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Pagina 67

3.
La rottamazione dell'Europa



«La grande sassaia universale»

Il segnale più forte, tuttavia, della disgregazione e del non senso in cui viviamo è quello della «rinuncia». Rinuncia a estendere i propri valori, la propria religione, la propria lingua, la propria cultura; un atteggiamento che, come ho detto, caratterizza le culture etnologiche.

Cercherò di analizzare in profondità questa «rinuncia» e apparirà evidente che viviamo davvero in una cultura morta da viva, dove quei comportamenti che vengono presentati ed esaltati come conquiste — l'allargamento a tutto il Continente del medesimo sistema di vita, di significati, di istituzioni politiche, di leggi, di «valori» che va sotto il nome di unificazione europea, con identici «diritti all'uguaglianza» nella libertà di aborto, di matrimonio omosessuale, di cambiamento di sesso, di fecondazione artificiale, di eutanasia, di suicidio assistito, di morte cerebrale, di trapianto di organi — sono in realtà soltanto manifestazioni della dissoluzione dell'Europa, della rinuncia al futuro del gruppo, dell'abbandono di qualsiasi razionalità di vita.

È «la grande sassaia universale» di cui parla Gottfried Benn: «Crisi espressive e attacchi d'erotismo: questo è l'uomo di oggi, l'interno un vuoto».

Su questa grande sassaia non si alza la poesia, ma lo stridio di vite amorfe, prive di pensiero, affogate nel vaniloquio, nelle ricette di cucina, nel pettegolezzo paraerotico, nei giochi televisivi, cui collaborano adesso al loro meglio anche i maschi, diventati ovviamente bravissimi nel disprezzato regno cui un tempo erano relegate le donne.

Le normative dell'Unione europea nei campi più delicati dell'etica garantiscono il predominio dell'individuo sulla società, cosa che già di per sé segnala che si odia il gruppo, che se ne vuole la disintegrazione e la morte. Quale senso dare se non questo ai circa 110.000 aborti di Stato annuali in Italia, mentre si compiono sforzi inauditi per far nascere un bambino da una donna di settantacinque anni? Quale senso dare al «prendere in affitto» (espressione raccapricciante di un mondo che vive di mercato) un utero per far nascere un bambino di cui non si sa chi siano il padre e la madre? Quale senso dare, soprattutto, al matrimonio omosessuale? Questo appare in realtà come una esplicita dichiarazione di guerra alla propria sopravvivenza da parte della società che l'ha legiferato.

Nel governo italiano c'è chi programma l'insegnamento nelle scuole di Stato (assunte a organi dell'ideologia dei governanti) dell'uguaglianza degli omosessuali, cosa che ovviamente non si sa come potrà essere dimostrata salvo che con il perfetto strumento di falsificazione che è il «politicamente corretto». Ma lo scopo è sempre lo stesso: spingere il più rapidamente possibile gli Italiani e gli Europei alla morte.

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Pagina 71

Questo è il punto più importante del nuovo assetto sociale costituitosi con il passaggio dalla società dei doveri a quella dei diritti: lo Stato è il Potere, è tutto. Non rappresenta più quindi il Popolo, anche se l'apparenza formale di un'organizzazione parlamentare lascia a tutti questa illusione. L'ugualitarismo dei diritti annulla, infatti, la coscienza – quindi la libertà – del singolo individuo. Nessuna «repubblica» può esistere senza la libertà di coscienza di ognuno dei cittadini. Che votino oppure no, in un'apparenza formale di democrazia, non fa naturalmente nessuna differenza.

Un esempio sarà sufficiente: in Italia la battaglia per la liberalizzazione dell'aborto ha conosciuto punte polemiche che forse non sono state raggiunte in nessun altro Paese, anche per il forte impegno della Chiesa cattolica nel cercare di impedirlo. Alla fine, però, tutte le istituzioni sono state d'accordo sull'obbligo di effettuarlo nelle strutture pubbliche, a carico dello Stato quindi, ossia di tutti i cittadini. E quando si paga per l'esecuzione di qualsiasi cosa se ne diventa direttamente responsabili. Permetterne l'esecuzione in cliniche private, almeno nei casi in cui non fossero presenti motivazioni di carattere medico-sociali, quali gravi patologie nella madre o nel feto, avrebbe significato, invece, un'effettiva possibilità di scelta individuale. La Chiesa si è arroccata nell'assolutezza del suo «No»: no in ogni caso, per qualsiasi motivo, neanche per grave pericolo della salute della madre o per malformazioni o gravi handicap nel bambino. Ai cattolici è proibito, infatti, l'accertamento ecografico durante la gravidanza in base al presupposto che, anche se fosse accertata una qualsiasi malformazione (anche una decerebrazione) o una grave malattia genetica, non sarebbe in nessun caso lecito l'aborto. Questa assolutezza ha di fatto impedito qualsiasi scelta da parte dello Stato con la conseguenza che tutti noi siamo responsabili di queste nascite che avvengono nelle strutture pubbliche, scelta che viceversa dovrebbe essere lasciata alla responsabilità dei genitori.

In questo campo, del resto, un campo così difficile e tuttavia determinante come quello della bioetica, gli errori compiuti dalla Chiesa sono stati davvero gravissimi, tanto gravi da diventare anch'essi una prova in più della volontà di uccidere la civiltà europea uccidendone il cristianesimo. Sarà sufficiente accennare al consenso diretto del papato alla dichiarazione di «morte cerebrale», che non è stato soltanto un consenso ma, nella persona di Karol Wojtyla, addirittura un entusiasmo e un'incitazione a compiere il massimo numero possibile di trapianti. In Wojtyla era presente, forse, e agiva a livello universale dato l'assoluto narcisismo che lo caratterizzava, la sua convinzione che essere cristiani significasse essere «vittime sacrificali». Ma in realtà con l'esaltazione dei trapianti si è dato corpo all'eterno homo homini lupus che abita nel più profondo inconscio di ogni essere umano, come l'orrido traffico di organi ha subito dimostrato.

La compravendita è proibita dalla legge; però, malgrado sia certa l'esistenza dell'acquisto e della vendita (basta fare un giro d'orizzonte in internet) che io sappia non è mai stato processato o condannato qualcuno in Italia per questo motivo. Purtroppo le notizie sull'uccisione di bambini per utilizzarne gli organi scompaiono quasi subito dai giornali senza alcun seguito. Suore missionarie in Mozambico hanno denunciato, tramite «l'Osservatore Romano», il giornale del Vaticano, la sparizione dai loro collegi e orfanotrofi di bambini di cui vengono ritrovati nelle strade e nella spazzatura i cadaveri chiaramente smembrati a scopo di trapianto, ma anche questa denuncia non ha avuto seguito pur essendo un fatto notorio che nei Paesi più poveri, come il Mozambico, il Messico, l'India i bambini scompaiono per questo motivo. E non soltanto nei Paesi più poveri.

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Pagina 80

Giorgio Napolitano si è felicitato del fatto che, guidata da un esperto delle funzioni bancarie, l'Italia recuperasse il proprio onore in Europa. Una convinzione che fa venire i brividi. L'onore dell'Italia, Presidente? Ma cosa dice? Quale uomo può avere nelle sue mani l'onore dell'Italia? L'onore di Galileo, l'onore di Leonardo, l'onore di Michelangelo, l'onore di Dante, l'onore di Mazzini, l'onore di Garibaldi, l'onore di Leopardi, l'onore di Verdi? No, no, tranquillizziamoci: l'uomo di cui parla il Presidente è un banchiere, il signor Mario Monti, che non potrebbe avere in mano, con o senza l'aiuto del Presidente della Repubblica, l'onore di nessuno, salvo il proprio naturalmente. E anche il suo, chissà? Come membro della Commissione europea presieduta da Jacques Santer, è stato costretto dal Parlamento a dimettersi, insieme a tutta la Commissione (di cui faceva parte anche un altro italiano, Emma Bonino), per cause veramente infime: compaiono infatti nella perizia sui bilanci della Commissione, effettuata dal Comitato di esperti indipendenti nominato dal Parlamento, insieme a un macroscopico «buco di bilancio», operazioni di corruzione quali «frode, cattiva gestione, nepotismo, favoritismi, contratti fittizi»: termini imbarazzanti e quasi inverosimili in rapporto a quello che avrebbe dovuto essere il governo di un grande e nobile Impero.

È stato poi consulente della banca Goldman Sachs, una delle maggiori protagoniste nella diffusione dei titoli «derivati» che hanno provocato il crack mondiale del 2008 e, con totale noncuranza dei conflitti d'interesse, è stato anche consulente dell'importante agenzia Moody's. Finalmente, dopo le operazioni di distruzione dei titoli sovrani degli Stati, appositamente messe in atto da quei potenti dietro le quinte che perseguono l'unificazione mondiale, è giunto al posto cui aspirava da molto tempo, quello di capo del governo italiano.

Malgrado tutto, però, il salto non è stato facile: gli Stati sono lenti a morire e i banchieri sempre più impazienti. C'è voluta una bella spinta: con un atto di forza del Presidente della Repubblica ha preso corpo, fra tutte le falsificazioni del bene cui assistiamo impotenti in questo periodo, anche la «falsificazione della democrazia». Povera Italia! Una persona autoritaria, che al momento giusto coglie la palla al balzo per instaurare la dittatura, non le è mai mancata. Questa volta, però, perfino come dittatura è talmente grottesca che non si sa in quale modo definirla: sono ancora in carica, infatti, i parlamentari eletti dal popolo, ma si sono trasformati, votando le decisioni di un governo formato da persone non elette, in truffatori di se stessi, del Parlamento e della volontà di coloro che li hanno eletti. Forse Giorgio Napolitano, vissuto fin dalla prima giovinezza nell'ambito degli ideali del Partito comunista sovietico, ha voluto fare omaggio a una delle invenzioni più care ai fondatori del comunismo in Russia: il governo dei tecnici. Si erano definiti così, infatti, Lenin, Trockij e i loro primi compagni per giustificare il fatto che a prendere il potere, formando il governo postrivoluzionario, erano degli intellettuali che non avevano mai avuto cariche politiche.

C'è da aggiungere un particolare ai «meriti» di un banchiere capo del governo, un particolare interessante dal punto di vista del problema della lingua di cui ci siamo occupati: nel mondo dell'economia e della finanza ci si vanta di parlare soltanto in inglese. Non parlare la propria lingua madre è stato sempre per qualsiasi uomo, come abbiamo già visto, un enorme sacrificio, una privazione dipendente dalla necessità, come per chi è emigrato e si trova in terra straniera. Nulla quanto la rinuncia alla lingua madre rappresenta e allo stesso tempo dà sostanza alla condizione dell'esilio, dell'estraneità. Evidentemente non è così per banchieri ed economisti, ma forse un motivo c'è. La propria lingua è tutt'uno con il pensiero: avviene molto raramente che uno scrittore non si serva nelle sue opere della propria lingua madre, anche quando viva da moltissimi anni in un Paese straniero e ne parli abitualmente la lingua. Il fatto è che economisti e banchieri non sono persone di pensiero. Anzi ne rifuggono, così come rifuggono da qualsiasi sapere che non rientri nell'economia.

Il rifiuto di uscire dal proprio ristrettissimo campo d'azione, cosa che nell'universo scientifico moderno caratterizza soltanto gli economisti, dipende da alcuni precisi dati psicologici. Il primo ed essenziale è il primato di se stessi: se l'economia interessa me significa che è l'unico sapere realmente «sapere», un sapere assoluto che non ha bisogno di nulla che lo completi così come Io sono assoluto e nulla è maggiore di me. Si tratta, dunque, di una convinzione che fa parte della personalità dell'economista e che naturalmente contraddice il concetto stesso di «scienza», portando a pericolosi errori. L'economia sarebbe, in questo senso, la scienza delle scienze, così come è stata per molto tempo la teologia.

Di fatto per molti economisti e finanzieri l'economia è davvero una teologia, con il medesimo assunto di partenza dei teologi: chi non conosce l'economia è analfabeta, è escluso dal mondo del sapere, così come il non iniziato, il non circonciso è escluso dal mondo «vero», quello del «mito» fondativo della tribù e dalla capacità d'azione che ne discende. Per questo i cultori dell'economia formano una società chiusa, forte e solidale soltanto all'interno del proprio cerchio, stranamente simile a quella società segreta potentissima e piena di conoscenze magiche che nelle culture primitive è costituita dai «lavoratori del ferro», quelli col fuoco sempre acceso. La Borsa è questo fuoco.


Sacerdoti del mercato

Questo atteggiamento esclusivo è stato contestato agli economisti da molti studiosi anche del loro campo, quali Karl Polanyi e Amartya Sen , quest'ultimo insignito del Premio Nobel 1998. Molto sensibili alle teorie antropologiche, ambedue dimostrano con i loro studi come sia errato ritenere il mercato e la sua «crescita» il fattore fondamentale dell'economia e come nessuna dinamica economica possa essere valutata in assoluto, avulsa dall'insieme di ogni specifica società.

Alla luce di queste profonde riflessioni, dettate oltre che dall'intelligenza, anche da una grande conoscenza dell'antropologia e di molte società etnologiche e antiche, il fondamentalismo dei banchieri che governano attualmente l'Europa fa veramente paura. Si tratta, infatti, di un fondamentalismo radicato nell'idea ossessiva che la salvezza degli Stati dipenda dal mercato e dalla «crescita». Il fatto che questa teoria sia errata non li tocca e non li può toccare visto che, se la salvezza del mondo dipende dal mercato e dalla crescita è perché i sacerdoti (gli esperti, i tecnici) del mercato e della crescita sono loro, gli economisti. Potrebbero mai i sacerdoti di una qualsiasi religione affermare che Dio non esiste? Quindi «mercato e crescita» sono diventati ormai concetti e termini assoluti e al tempo stesso apotropaici, analogamente agli enormi falli priapeschi che un tempo sorgevano nei campi a proteggere le messi.

Crescita! Crescita! Alle prese con il dovere assoluto della «crescita», i banchieri e i governanti d'Europa, e con loro purtroppo i poveri popoli che ne sono governati, sembrano diventati ormai come quelle madri che pesano ansiosamente il neonato tre volte al giorno, pronte a vedere avvicinarsi un pericolo di morte e a chiamare il pediatra se la bilancia non segna almeno un grammo di più della volta precedente. Invece di chiamare il pediatra si aumentano le tasse, ma il meccanismo è lo stesso.

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Pagina 97

4.
Un circolo chiuso



Relativismo e crisi della Chiesa

Non pensiamo a un futuro che sia nostro, che riguardi noi, soltanto noi e non l'universo mondo. È questo che manca all'Europa: l'aspirazione a un futuro. Manca perché la maggior parte dei suoi tratti culturali è esaurita. Manca perché una società priva di vis, dove non si sa più che cosa sia la «virilità», la potenza della virilità, e addirittura la si disprezza, non possiede più alcuna spinta aggressiva verso l'esterno e anzi si trova in stato di passività e di soggezione. Manca perché i suoi leader, governanti, clero, giornalisti l'hanno spinta e la spingono ogni giorno a perdere le proprie caratteristiche per unificarla e omologarla al resto del mondo. Laddove tutti sono «uguali» (o vengono costretti a sembrare uguali) la passività dei sudditi è assicurata, ma è assicurata anche l'assoluta debolezza della società.

L'Europa è diventata «femmina». Tutte le caratteristiche sociali e culturali dei «bianchi», quelle che erano implicite nella definizione stessa di «bianchi» come conquistatori, ma anche come portatori della civiltà più ricca e sviluppata in ogni campo, sono sparite. Certo, l'Europa appare ancora molto ricca in confronto all'Africa o all'India, ma si tratta di pura ricchezza materiale, una ricchezza che del resto si va anch'essa esaurendo rapidamente.

È sparita però la forza della società fondata sulla famiglia, sull'autorità del padre e dei maschi in generale, su una desiderata procreazione, sulla solidarietà dei legami di parentela. È sparito l'amore per la Patria, l'orgoglio per il patrimonio inestimabile del diritto, della letteratura, dell'arte, della musica, che caratterizza la storia d'Europa. È quasi del tutto sparita anche la fiducia nella Chiesa cattolica, la partecipazione alle cerimonie liturgiche, diventata più una tradizione sociale che un gesto religioso. È sparito l'ossequio verso il cristianesimo come religione portatrice di grandi valori etici, qualità mai negata fino a oggi anche dai non credenti, al di là della critica pur asprissima nei confronti del clero e del suo comportamento.

Tutto, insomma, assolutamente tutto quello che costituiva il patrimonio della civiltà europea, è andato in rovina, si è dissolto con una rapidità quasi incredibile. Non c'è stato «valore» che, all'improvviso, non sia stato dichiarato ingiusto, sbagliato o comunque irreparabilmente tramontato. Senza battaglia. Senza neanche la più piccola resistenza.

All'inizio era sembrato che la gerarchia cattolica volesse fare qualche tentativo per opporsi a questa dissoluzione, ma si è capito quasi subito che viceversa si trattava del voltafaccia più sorprendente che la storia della Chiesa avesse mai registrato. I papi, infatti, nella persona del beneamato Karol Wojtyla, hanno cominciato a «chiedere scusa» al mondo per gli errori commessi in passato. Chiedere scusa? Chiedere scusa della storia? È un'idea talmente grottesca che ci si domanda come possa essere venuta in mente a qualcuno, o se per caso si trovino oggi a capo della Chiesa dei bambini che giocano con il mondo e con se stessi, fuori dalla realtà. Wojtyla «chiede scusa» per le Crociate, per l'Inquisizione, per decisioni di «potere» che hanno caratterizzato il pensiero e l'azione della Chiesa attraverso i secoli e che hanno inciso sulla vita di milioni di persone e sulle istituzioni di quasi tutto il mondo!

Tornare indietro nella storia non è possibile, è chiaro, ma chiedere «scusa» offende la ragione, offende i popoli e la realtà della storia. Soprattutto rivela fino a che punto si tratti di un gesto dettato, sotto le apparenze dell'umiltà, da una presunzione spropositata: sono talmente piccoli i popoli, talmente piccole le loro sofferenze, talmente piccola in fondo la loro storia in confronto alla Chiesa, che questa può perfino chiedere scusa per averla provocata.

L'unica cosa che la Chiesa potrebbe fare, cancellando la vergognosa idea delle scuse, è ripensare oggettivamente a quali fossero i motivi delle azioni del passato e imparare, proprio in base a questo passato, a non compiere gli stessi errori. Cambiare quindi molte delle premesse teologiche che hanno guidato il comportamento della gerarchia e del clero, riconoscendo quanto influisca il contesto del momento su ciò che si crede giusto.

La Chiesa, viceversa, continua a camminare nello stesso modo in cui ha sempre camminato, proclamandosi assolutamente certa di ciò che fa, senza porsi neanche per un attimo l'interrogativo se le conoscenze storiche accumulatesi negli ultimi due secoli con l'apporto delle scienze umane, non siano da prendere in considerazione proprio da questo punto di vista. I papi condannano in assoluto il «relativismo» (non soltanto Wojtyla, visto che anche il suo successore, Joseph Ratzinger, ha ribadito questa condanna), ma proprio il relativismo, ossia la presa in considerazione del punto di vista del soggetto agente in un determinato contesto, può spiegare, almeno in parte, anche molti degli errori compiuti dalla Chiesa.

Certo, se prendesse in parola se stessa quando afferma di voler chiedere scusa del proprio passato, la Chiesa dovrebbe tirar giù dagli altari quasi tutti i Santi, anche i più grandi e famosi. Quelli che hanno esortato a compiere le crociate, per esempio, a cominciare dal fondatore di Cluny, il celebre san Bernardo; poi tutti quelli – e sono una foltissima schiera – che hanno predicato contro le streghe, contro gli Ebrei, contro gli omosessuali, mandandoli al rogo. Infine gli inquisitori-giudici che hanno condannato alla tortura e al rogo ogni genere di supposti eretici. Fra questi sarebbe doveroso che la Chiesa riconoscesse i gravissimi errori del gesuita Roberto Bellarmino, dichiarato non soltanto «santo» ma anche «dottore» (massimo conoscitore di ciò che è la Chiesa, dunque), il quale può vantarsi di aver giudicato e condannato durante la sua lunga vita (è nato nel 1542 ed è morto nel 1621), insieme a tanti altri, due delle persone più famose al mondo: Giordano Bruno, torturato e bruciato in Campo de' Fiori a Roma, e quel Galileo Galilei che pretendeva di saperne più della Bibbia su ciò che fa il sole, condannato a vestire i panni del pentito in processione intorno a San Pietro e, non potendolo bruciare a causa della sua fama mondiale, agli arresti domiciliari a vita e alla recita tutte le settimane dei Salmi penitenziali (durissima condanna questa per uno scienziato che non poteva pentirsi di ciò che sapeva essere vero).

La Chiesa, però, non lo fa. Le parole di scusa pronunciate prima da Wojtyla e poi da Ratzinger sono parole vuote, simili a quelle di tutti i governanti e i leader del nostro tempo perché fanno parte del sistema ormai ben noto della «falsificazione del bene». Perciò non contano. È vero: i papi ci hanno fatto le loro scuse e noi dobbiamo tenercele; e magari onorarli per questo. Ma le parole sono parole. Joseph Ratzinger ha perfino pronunciato un lungo elogio di Bellarmino nell'udienza generale del 23 febbraio 2011, affermando che: «Un segno distintivo della spiritualità di Bellarmino è la percezione viva e personale dell'immensa bontà di Dio», senza nemmeno accennare alla condanna di Giordano Bruno e di Galileo. Evidentemente l'immensa bontà di Dio si manifesta anche nel torturare e far morire sul rogo chiunque osi pensare, studiare, riflettere con la propria testa. La chiesa parrocchiale dedicata al santo dottore Bellarmino, a pochi passi di distanza dalla piazza dove è stato bruciato Giordano Bruno, continua a funzionare regolarmente ogni giorno. Né il parroco né il vescovo hanno creduto alla buonafede dei papi e di conseguenza non hanno minimamente pensato che fosse necessario dedicarla a qualche altro «eroe» della santità, cancellando la dedica precedente.

La Chiesa si è affrettata invece, quanto non aveva mai fatto in passato, a beatificare Karol Wojtyla, uno dei papi che hanno fatto maggior danno al cristianesimo a causa della sua scarsa capacità di guidare la Chiesa. Probabilmente nell'ambito della gerarchia incaricata della beatificazione c'è chi intuisce il pericolo di non poterlo più canonizzare se si lasciasse passare del tempo: la falsificazione del bene è diventata ormai in Europa una patologia ammorbante, all'ultimo stadio. Sono molti adesso a rendersene conto: presto tutta la costruzione crollerà.


La sessualità in Occidente

A dire il vero il segnale d'inizio per la morte dell'Occidente è stato dato dall'America con il processo a Bill Clinton. Un processo per molti aspetti «medioevale», nel quale il procuratore Kenneth Starr ha assunto le vesti dell'inquisitore; le stesse vesti dell'inquisitore che, prima di condannare al rogo Gerolamo Savonarola per «eresia», ha voluto accertarsi, ispezionandone l'ano personalmente, della sua colpa di sodomia.

Era l'anno 1498 della splendida civiltà rinascimentale fiorentina. Sono passati esattamente cinque secoli. Il procuratore Starr ha compiuto lo stesso gesto, nel momento in cui ha prelevato il sangue dal braccio del Presidente degli Stati Uniti d'America per accertarsi di chi fosse lo sperma raccolto proditoriamente sulle vesti di Monica Lewinsky. Il processo a Clinton si è svolto quindi, nel 1998 e nella splendida civiltà dell'America, sulle stesse direttrici del processo a Savonarola: in teoria il tradimento politico, il falso giuramento del Presidente (l'eresia); di fatto la colpa sessuale.

Se con il processo a Clinton è iniziata la fine dell'Occidente, con il rogo del Savonarola aveva avuto invece inizio l'inesorabile declino della Chiesa, un declino che nessuna Controriforma ha in seguito potuto arrestare.

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[...] Aggiungo, per quanto mi riguarda personalmente, che la cosa che mi ha indotto a tenere in particolar modo fissa l'attenzione su determinati comportamenti, non è stato il fatto che la maggior parte delle norme, dei divieti, dei tabù riguardassero le donne, ma il «silenzio» totale e assoluto su questi argomenti che hanno conservato tutti – uomini, donne, medici, psicologi, storici, filosofi, sociologi, antropologi, teologi – per duemila anni e oltre. Per giunta gli storici, non appena sono comparse all'orizzonte le scienze sociali, si sono premurati di precisare che il metodo storico non permette di dedurre nulla dal «silenzio» per cui il cerchio sembrerebbe chiuso. Insomma, perché?

Il sistema sessuale, fattore fondamentale della vita di qualsiasi società, presenta caratteristiche assolutamente originali in Europa a causa dell'itinerario – mentale e concreto – compiuto nel passaggio dalla psicologia e dai costumi dell'antichità classica a quella dei discepoli di Gesù, i quali erano Ebrei pieni di dubbi ma anche di propositi nuovi indotti dalle parole e dalle azioni del loro maestro. Questi propositi alla fine si sono concretizzati in uno strano «accomodamento».

Il «salto» è stato vertiginoso. Tanto vertiginoso che ancora adesso è molto difficile per gli storici trovare delle spiegazioni plausibili alla caduta dell'Impero romano. Forse si può però intravedere almeno una delle cause principali nei significati sotto traccia ma assolutamente coercitivi, nella loro sistematicità logica, sottostanti all'ebraismo e alla loro clamorosa «conclusione» con il cristianesimo. Una conclusione di cui vediamo oggi dissolversi le ambivalenze, i lati oscuri, gli equivoci, cosa che potrebbe configurarsi, invece che nell'attuale rabbiosa distruttività, in un'ancora di salvezza per liberarsi della Chiesa come seconda Sinagoga e del cristianesimo ebraicizzante codificato dai discepoli di Gesù e aggrapparsi esclusivamente alle idee di verità della parola, di libertà dalla prigionia del Sacro e di perdono reciproco che Gesù ha predicato e per le quali è stato ucciso.

La radice prima del rapporto degli Ebrei (i maschi, ovviamente, è inutile sottolinearlo in quanto sono stati sempre e soltanto i maschi i soggetti creatori e agenti delle culture) con Dio è un'unione sessuale, il matrimonio fra Dio e Israele. Dio rivolge tremendi rimproveri al suo popolo in termini di «tradimento», di «adulterio», di «prostituzione». Israele è la Sposa di Dio. Il patto di alleanza avviene attraverso un'offerta sessuale: il prepuzio. «Tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome» dice Dio attraverso le parole del profeta Isaia. Il Secondo Libro di Samuele conferma con gli stessi termini: «Ricondurrò a te tutto il popolo, come ritorna la sposa al marito». Il rimprovero di Geremia è ancora più incalzante: «Sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde, ti sei prostituita... tu ti sei disonorata con molti amanti e osi tornare da Me? Sfrontatezza di prostituta è la tua». In un passo del libro di Osea, Jahvè dice esplicitamente agli Ebrei che devono chiamarlo «marito». E nello stesso libro Dio dice agli Ebrei che «li sedurrà» nell'accezione del termine che indica il possedere una vergine.

Naturalmente si sono sempre interpretate queste espressioni come metafore, ma si tratta, invece, di una immagine matrimoniale che è primaria nella fondazione culturale ebraica in quanto identifica la posizione degli uomini davanti a Dio come femmine. Il corpo degli Ebrei è un corpo femminile, offerto nel prepuzio a Dio e che perciò deve essere continuamente purificato, lontano da ogni contaminazione. Viene a mancare pertanto nella cultura ebraica la struttura di comunicazione sacrificale rappresentata ovunque dall'offerta delle donne e la «sacrificalità» si configura in modo diverso da tutte le altre religioni perché si forma una specie di corto circuito omosessuale nella comunicazione diretta fra il gruppo e Dio, ambedue «maschi». È il motivo per il quale l'omosessualità, il rapporto sessuale con un altro maschio, viene respinto con orrore, assolutamente condannato: rappresenterebbe il vero, unico «adulterio», il tradimento nei confronti dello Sposo (il rapporto con la donna, con la moglie, non è adulterio perché non è un «rapporto», è un contatto finalizzato esclusivamente alla procreazione e il rapporto con le prostitute è vietato). Neanche una goccia di sperma può essere dispersa o cadere in terra (con il divieto della masturbazione); tutti i maschi primogeniti sono «Suoi» e debbono quindi essere riscattati dal servizio divino.

In realtà, dunque, c'è un'omosessualità implicita nella cultura ebraica, quella vissuta mentalmente, affettivamente, simbolicamente con la mascolinità di Dio.

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Le religioni ne sono lo specchio in quanto, essendo fondate sul modo di affrontare la morte, includono necessariamente una concezione del tempo. Ogni popolo, quindi, quando adotta una religione inventata da altri popoli, è costretto ad adattarla, ad «aggiustarla» in funzione di questa esigenza. Questo è un punto molto importante di cui tenere conto e che ha rilevato Franz Boas criticando l'eccessiva facilità con la quale nei primi studi etno-antropologici si spiegavano i fenomeni di somiglianza culturale attraverso la «diffusione». È vero che gli uomini sono assetati di idee nuove e che queste si diffondono a grande velocità perché inventare, creare, non è facile; ma non succede mai che un popolo si appropri delle idee di un altro popolo senza cambiarne o il significato, o lo scopo, o qualche altro attributo. Il motivo è evidente: il nuovo elemento non può entrare in contrasto con gli altri fattori del modello culturale già esistente.

Nell'ambito delle religioni bibliche lo si vede chiaramente: il «tempo» dei musulmani è tipicamente orientale e conduce a non fare, abbandonandosi alla volontà di Allah, con tutte le lentezze, le inerzie, le pigrizie che questo comporta. Nel cristianesimo, invece, sono state compiute vere e proprie acrobazie spirituali e intellettuali (teologiche) per giungere a realizzare gli «aggiustamenti» necessari ai diversi caratteri dei popoli. Nei primi secoli le diatribe che si sono scatenate sulla natura umana e divina del Salvatore hanno posto le premesse per sviluppare poi la fisionomia religioso-culturale che ha diviso le Chiese d'Oriente da quelle d'Occidente. In Occidente si è posto l'accento sull'umanità del Cristo, quindi sul «fare», sul soffrire, sul voler «vivere la vita» e combattere la morte, mentre in Oriente si è posto l'accento sulla Trinità di Dio, che ovviamente comporta la «contemplazione» dell'al di là e non l'agire di qua.

In seguito, la violenta battaglia pro e contro le immagini ha dato la misura di quanto fossero diversi i popoli. Il predominio dello spirito contemplativo dell'Oriente ha favorito il culto delle icone, il «guardarle» e l'«essere guardate» come forma di preghiera, escludendo quasi del tutto la rappresentazione di scene di vita del Vangelo (anche la Madonna non può essere rappresentata da sola, ma sempre insieme al Figlio). I popoli d'Occidente hanno invece colto l'occasione per abbandonarsi senza limiti alla loro passione per la «forma» e per la varietà dell'arte in tutti i campi, dall'architettura alla scultura, alla pittura, alla musica.

La vita di Gesù, uomo fra gli uomini, ha suggerito i temi agli artisti, ma non li ha creati. Sono stati gli innumerevoli artisti fioriti attraverso i secoli in Italia e in Europa a impadronirsi di Gesù per manifestare la loro straordinaria capacità di «spiegare» con l'arte tutto ciò che non si può spiegare a parole: l'immensa dolcezza della Madre con il Bambino, l'assoluta bellezza di un'Ultima cena; l'attonito silenzio del mondo davanti a un uomo che, mentre chiede aiuto come tutti gli uomini davanti alla morte, grida però parole mai udite: «Perdona!». Quel «perdona loro perché non sanno quello che fanno» non è mai stato né pensato né detto da nessuno prima di Gesù e ha veramente cambiato il mondo. Lo ha cambiato perché lui l'ha pensato e l'ha detto e gli uomini, tutti gli uomini, se ne sono commossi, l'hanno capito e questo basta a testimoniare che l'uomo ne è capace. Per quanto atroce sia stata la storia dell'Occidente dopo di lui, il mondo è davvero cambiato con Gesù. L'arte ne è la prova.

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Addio al Padre

Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non vi sia più spazio non soltanto per il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno concorso alla formazione e allo sviluppo della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso qualsiasi rilevanza e autorità. Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L'immagine di un Dio-Padre è ormai priva di senso.

Non può sussistere una religione fondata sull'importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi aborti confermando così che vuole la propria morte. D'altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in quanto non gli serve più a garantirne la sopravvivenza. Non serve né per l'al di là né per il di qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite, oppure vengono significativamente caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la propria vecchiaia. Alla vita nell'aldilà è ormai quasi impossibile credere e di fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.

La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d'organi hanno tolto concretamente e simbolicamente ogni trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però nessuno evidentemente pensa più.

Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità. Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d'organi costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.

Ma il trapianto d'organi significa l'annullamento delle specifiche individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell'istinto sempre presente nell'uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l'altro); significa avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di affermare l'esistenza del singolo, afferma la sua non-forma, la sua mancanza d'identità, la sua integrazione nell'identico. Passaggio indispensabile per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità» dell'omosessualità.

Non si può trarne che una sola conclusione: hanno voluto che l'omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma il primato dell'omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela, dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l'assoluta «differenza» del genere maschile e femminile, ossia la differenza per antonomasia. L'interscambiabilità dei corpi l'ha annientata. Dunque: nessun «Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna «Società», nessun «Futuro».

Naturalmente questo significa che si vuole la fine non soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della società europea, la fine dei «bianchi». L'omosessualità è strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchi.

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