Copertina
Autore Lucio Magri
Titolo Il sarto di Ulm
SottotitoloUna possibile storia del Pci
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2009, La Cultura 669 , pag. 455, cop.fle., dim. 15,4x21,5x2,8 cm , Isbn 978-88-428-1608-9
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe politica , storia contemporanea d'Italia , movimenti , paesi: Italia: 1940 , paesi: Italia: 1960 , paesi: Italia: 1980
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Indice



Introduzione                                     13

1.   L'eredità                                   29

1.1  Il fardello dell'uomo comunista             30
1.2  Il genoma Gramsci                           48

2.   Un atto fondativo, la svolta di Salerno     55

2.1  La Liberazione                              55
2.2  I governi di unità nazionale, 1944-1947     62
2.3  Il partito nuovo                            67

3.   Sul filo della Terza guerra mondiale        71

3.1  La guerra fredda di lunga durata            73
3.2  La grande sorpresa                          75
3.3  La nuova guerra fredda                      76
3.4  L'invenzione del Patto atlantico            83

4.   I comunisti e la nuova guerra fredda        89

4.1  La replica di Stalin                        89
4.2  L'errore del Cominform                      93
4.3  Gli anni duri                               99

5.   Lo choc del XX congresso                   113

5.1  L'avvio della destalinizzazione            115
5.2  Il XX congresso e il Rapporto segreto      118
5.3  Polonia o Ungheria                         125

6.   Il Pci nella destalinizzazione             131

6.1  Togliatti e il Rapporto segreto            133
6.2  La seconda tempesta                        138
6.3  L'VIII congresso                           143

7.   Il caso italiano                           149

7.1  Il miracolo economico                      152
7.2  La ripresa operaia                         162

8.   Il centrosinistra                          169

9.   Il Pci di fronte al neocapitalismo         181

9.1  Destra e sinistra                          181
9.2  Le tendenze del neocapitalismo             187
9.3  Modello di sviluppo e riforme di struttura 190

10.  L'XI congresso                             195

10.1 La legittimità del dissenso                195
10.2 Urss e Cina                                201

11.  Il lungo Sessantotto italiano              209
11.1 La centralità operaia                      211
11.2 Studenti e dintorni                        217
11.3 Il Concilio ecumenico                      228

12. Il Pci di fronte al Sessantotto             235

12.1 Il prologo                                 237
12.2 Praga resta sola                           242
12.3 Il partito e i movimenti                   245
12.4 Longo, Berlinguer                          250
12.5 La radiazione del manifesto                252

13.  Verso il finale di partita                 259

13.1 La crisi economica                         260
13.2 Un matrimonio mai consumato                268
13.3 I primi passi di una politica              269

14.  Il compromesso storico come strategia      275

15.  Dall'apogeo alla sconfitta                 283
15.1 Il dilemma del 1976                        286
15.2 La grande coalizione e il suo fallimento   293
15.3 Omissioni, reticenze, bugie                294

16.  Quel che bolliva in pentola. In Italia     307
16.1 Il miracolo al ribasso                     307

17.  Quel che bolliva in pentola. Nel mondo     323
17.1 L'ultima guerra fredda                     323
17.2 Crisi all'Est                              326
17.3 Kissinger, geniale quanto cattivo          329
17.4 Il nuovo vento dell'Ovest                  337

18.  I fatali anni ottanta                      343
18.1 II secondo Berlinguer                      345
18.2 Il recupero del conflitto di classe        348
18.3 La questione morale                        352
18.4 Lo strappo                                 355
18.5 Un bilancio provvisorio                    360

19.  Natta, il conciliatore                     367

20.  Andropov, Gorbacëv, Eltsin                 375

20.1 La Perestrojka                             377
20.2 Il collasso                                382

21.  La fine del Pci                            387

21.1 L'operazione Occhetto                      388
21.2 L'unanimità sorprendente                   390
21.3 La Bolognina, i sì e i no                  392
21.4 Le tre scissioni                           398

Appendice
Una nuova identità comunista (1987)             403

Indice dei nomi                                 449


 

 

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Pagina 13

Introduzione


In una delle affollate assemblee che dovevano decidere se cambiare nome al Pci, un compagno rivolse a Pietro Ingrao una domanda: «Dopo tutto ciò che è successo e sta succedendo, credi proprio che con la parola comunista si possa ancora definire un grande partito democratico e di massa come siamo stati, ancora siamo e che vogliamo rinnovare e rafforzare per portarlo al governo del paese?».

Ingrao, che già aveva ampiamente esposto le ragioni del suo dissenso da Occhetto e proposto di seguire un'altra strada, rispose, scherzosamente ma non troppo, usando un famoso apologo di Bertolt Brecht, Il sarto di Ulm. Quell'artigiano, fissato nell'idea di apprestare un apparecchio che permettesse all'uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo e gli disse: «Eccolo, posso volare». Il vescovo lo condusse alla finestra dell'alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e ovviamente si spiaccicò sul selciato. Tuttavia — commenta Brecht — alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare.

Io, che ero presente, trovai la risposta di Ingrao non solo arguta, ma fondata. Quanto tempo, quante lotte cruente, quanti avanzamenti e quante sconfitte, furono necessari al sistema capitalistico — in un'Europa occidentale all'inizio più arretrata e barbarica di altre regioni del mondo — per trovare alla fine una efficienza economica mai conosciuta, darsi nuove istituzioni politiche più aperte, una cultura più razionale? Quali contraddizioni irriducibili marcarono, per secoli, il liberalismo tra ideali solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di parola, la sovranità conferita dal popolo) e pratiche che li smentivano in modo permanente (schiavismo, dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)? Contraddizioni di fatto, ma legittimate nel pensiero: l'idea che alla libertà non potessero né dovessero accedere se non coloro che avessero per censo e cultura, perfino per razza e colore, la capacità di esercitarla saggiamente; e l'idea correlativa che la proprietà dei beni era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il suffragio generale. Tutte contraddizioni che non tormentarono solo la prima fase di un ciclo storico, ma si erano riprodotte in forme diverse, nelle loro successive evoluzioni e gradualmente si erano ridotte solo per l'intervento di nuovi soggetti sociali sacrificati e di forze contestatrici di quel sistema e di quel pensiero. Se dunque la storia reale della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente progressiva, anzi drammatica e costosa, perché dovrebbe esserlo il processo del suo superamento? Questo appunto voleva significare l'apologo del sarto di Ulm.

Tuttavia, scherzosamente ma non troppo, proposi subito a Ingrao due interrogativi che quell'apologo, anziché superare, metteva in luce. Siamo sicuri che il sarto di Ulm, se fosse sopravvissuto storpiato alla rovinosa caduta, sarebbe rapidamente risalito per riprovarci, e che i suoi amici non avrebbero cercato di trattenerlo? E comunque, quel suo azzardato tentativo, quale contributo effettivo aveva portato alla successiva storia dell'aeronautica?

Questi interrogativi, in relazione al comunismo, erano particolarmente pertinenti e ostici. Anzitutto perché, nella sua costituzione teorica, pretendeva non di essere un ideale cui ispirarsi, ma parte di un processo storico già in corso, di un movimento reale che cambia lo stato di cose esistenti: comportava quindi, in ogni momento, una verifica fattuale, un'analisi scientifica del presente, una realistica previsione sul futuro, per non evaporare in un mito. In secondo luogo perché tra le precedenti sconfitte e gli arretramenti delle rivoluzioni borghesi, in Francia e in Inghilterra, e il crollo recente del «socialismo reale» occorre vedere una differenza pesante. Una differenza che non si misura nel numero dei morti o nell'uso del dispotismo, ma nel risultato: le prime hanno lasciato eredità, magari molto più modeste delle speranze iniziali, dovunque sono avvenute, comunque immediatamente evidenti; del secondo è invece difficile decifrare e misurare il lascito e individuare degni continuatori.

Vent'anni dopo, questi interrogativi non solo non hanno trovato una risposta, ma non sono neppure stati seriamente discussi. O meglio, delle risposte le hanno trovate in una forma molto superficiale e dettata dalle convenienze: abiura o rimozione. Un'esperienza storica e un patrimonio teorico che hanno segnato un secolo sono stati così affidati, per usare un'espressione di Marx, alla «critica roditrice dei topi», che come si sa sono voraci e, in un ambiente adatto, si moltiplicano velocemente.

La parola comunista torna certo ancora, in modo ossessivo e caricaturale, nella propaganda della destra più rozza. Resta nei simboli elettorali di piccoli partiti europei, per conservare il consenso di una minoranza affezionata a un ricordo, o per indicare genericamente un'avversione al capitalismo. In altre regioni del mondo, partiti comunisti continuano a governare piccoli paesi, soprattutto a difesa della propria indipendenza dall'imperialismo, e uno, grandissimo, in cui serve a sostenere uno straordinario sviluppo economico, che però va in altra direzione. La Rivoluzione di ottobre è generalmente considerata una grande illusione, in qualche momento e agli occhi di pochi utile, ma nel complesso sciagurata (identificata con lo stalinismo e in una sua versione grottesca), comunque condannata dal suo esito finale. Marx, di recente, ha riconquistato un certo credito, come pensatore, per le sue lungimiranti previsioni sul capitalismo del futuro, ma del tutto amputato dall'ambizione di porvi fine.

Ancor peggio, la dannazione della memoria tende ormai a procedere oltre: a estendersi all'intera vicenda del socialismo e, su per li rami, alle componenti radicali della rivoluzione borghese e alle lotte di liberazione dei popoli coloniali (che, come si sa, anche nel paese di Gandhi, non poterono essere sempre pacifiche). Insomma, «il fantasma che si aggirava» sembra finalmente sepolto: da alcuni con onore, da altri con odio non dimenticato, dai più con indifferenza perché non ha più nulla da dirci.

L'orazione più graffiante, ma a suo modo più rispettosa, a questa definitiva sepoltura l'aveva anticipata uno dei maggiori cervelli avversari, Augusto Del Noce. Quando, anni fa, disse in sostanza dei comunisti: hanno perduto e vinto. Hanno perduto rovinosamente nella loro prometeica ambizione di rovesciare il corso della storia, di promettere agli uomini libertà e fratellanza, anche senza Dio e riconoscendosi mortali. Ma hanno vinto come potente e necessario fattore di accelerazione della globalizzazione della modernità capitalistica e dei suoi valori: il materialismo, l'edonismo, l'individualismo, il relativismo etico. Uno straordinario fenomeno di eterogenesi dei fini, che egli, cattolico conservatore e intransigente, pensava di aver previsto, ma del quale aveva poche ragioni per compiacersi.

Chi però al tentativo del comunismo ha creduto, in qualche modo vi ha partecipato, e solitamente senza dare segnali di allarme, ha il dovere di renderne conto, anche a se stesso, di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo frettolosa, se non occorre un altro certificato sul rigor mortis. Abbiamo tutti molti argomenti per aggirare l'ostacolo. Del tipo: sono stato un comunista italiano perché era prioritario per combattere il fascismo, difendere la democrazia repubblicana, sostenere le sacrosante rivendicazioni dei lavoratori; oppure, sono diventato comunista quando il legame con l'Unione Sovietica o l'ortodossia marxista erano ormai in discussione, oggi posso aggiungere una circoscritta autocritica al passato e una forte apertura al nuovo. Non basta? A mio parere non basta, perché non rende conto di un'impresa collettiva che, nel bene e nel male, ha coperto molti decenni, e va considerata e compresa nel suo insieme. Non basta soprattutto per trarne una lezione utile per l'oggi e per il domani.

Sento troppi ormai dire: era tutto uno sbaglio ma sono stati i migliori anni della nostra vita. Per alcuni anni, sotto botta, questo misto di autocritica e di nostalgia, di dubbio e di fierezza, soprattutto tra le persone semplici, mi è sembrato giustificato, anzi una risorsa. Ma col passare del tempo, e soprattutto tra intellettuali e dirigenti, mi pare ormai un accomodante compromesso con se stessi e con il mondo. E torno di nuovo e di più a chiedermi: ci sono argomenti razionali e convincenti per opporsi all'abiura e alla rimozione? O quanto meno ci sono buone ragioni e condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul comunismo, anziché archiviarla?

A me pare di sì.

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Pagina 20

Insomma, a voler essere sinceri, si può dire, parafrasando alcuni classici del marxismo, che ci troviamo di nuovo di fronte a una fase nella quale «il vecchio mondo può produrre barbarie ma un mondo nuovo non appare in grado di sostituirlo». La ragione di questa impasse non è difficile da vedere, anche se è molto difficile da rimuovere. Neoliberismo e unilateralismo, contro cui in questa fase si combatte giustamente, sono l'espressione e una delle varianti di qualcosa di più profondo e permanente, che è intervenuto nel sistema portando all'estremo la sua originaria vocazione. Dominio dell'economia su ogni altra dimensione della vita individuale e collettiva; dominio nell'economia del mercato globalizzato, e nel mercato delle grandi concentrazioni finanziarie sulla produzione e, nella produzione, dei servizi rispetto all'industria, e di beni immateriali per consumi indotti rispetto ai bisogni reali; declino invece della politica, nella forma degli stati nazionali, sovrastati da compatibilità che la travalicano, e insieme svuotata dalla frammentazione e dalla manipolazione di quella volontà popolare che doveva orientarla e sostenerla; infine unificazione del mondo ma nel segno di una precisa gerarchia al cui vertice permane una soverchiante potenza. Un sistema dunque in apparenza decentrato, ma nel quale in ultima analisi le scelte più importanti sono concentrate nelle mani dei pochi che detengono decisivi monopoli: in ordine crescente, quello tecnologico, quello sulle comunicazioni, quello finanziario, quello militare.

A reggere il tutto – come sempre più di sempre – la proprietà nella forma di capitale, alla ricerca incessante e irrinunciabile del proprio accrescimento, processo che ha conquistato piena autonomia rispetto al territorio in cui si colloca e a ogni diversa finalità che lo vincoli; che attraverso l'industria culturale può direttamente conformare bisogni, coscienze, stili di vita; che può selezionare il ceto politico e intellettuale; che può condizionare politica estera, spese militari, indirizzi della ricerca; che, infine ma non per ultimo, può anche rimodellare i rapporti di lavoro scegliendo il dove e come reclutarlo e le forme più adatte a minarne il potere contrattuale.

Rispetto alle fasi precedenti, la novità più rilevante sta dunque nel fatto che, anche nei momenti e per gli aspetti in cui entra in crisi o segna un fallimento, il sistema riproduce comunque le proprie basi di forza e di interdipendenza e riesce a destrutturare o ricattare i propri antagonisti. Evoca e insieme seppellisce il proprio becchino. Per contrastare e superare tale sistema bisogna sempre più definire un sistema a sua volta coerente, occorre la forza per imporlo, la capacità di gestirlo, un blocco sociale che può sostenerlo, tappe e alleanze adeguate all'ambizione.

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Pagina 23

Perché il «secolo breve» è un'epoca grande e complicata, attraversata da tragiche contraddizioni ciascuna delle quali rinvia ad altre e reclama perciò una visione generale del contesto. Perché è ancora tanto vicino nella memoria collettiva da ostacolare il necessario distacco critico. Perché va controcorrente rispetto a un senso comune oggi prevalente, che non solo considera quel capitolo chiuso, ma più in generale nega che la storia possa essere, complessivamente e nel lungo periodo, decifrabile, negando così l'utilità di collocarvi il presente e di apprestare categorie interpretative adeguate. Infine, perché, per contrastare questo senso comune, occorrerebbe più che non in altri momenti una rottura della continuità, essere capaci di far emergere già in partenza dalla lettura critica del passato i primi abbozzi di un'analisi calzante del presente e un progetto di azione futura (questo fu il punto di forza del marxismo, anche negli aspetti che presto si rivelarono caduchi).

Ora, so benissimo di non avere affatto il tempo di vita, le competenze, le risorse di intelligenza per portare a un'impresa di questa portata un aiuto importante. Ma sento la responsabilità, non solo individuale ma per una intera generazione, di contribuirvi con quel poco di cui dispone. Il primo passo, per me, deve essere il lavoro di ricostruzione e di indagine su alcuni nodi cruciali della storia del comunismo italiano.

La scelta non ha motivazione autobiografica, e non è provincialmente restrittiva. Al contrario, proprio in questa scelta, circoscritta a un oggetto concreto, è implicita un'ipotesi di lavoro che va controcorrente, che costringe, e forse alla fine permette, qualche conclusione generale. Mi spiego. Oggi prevalgono due letture diverse del comunismo italiano, opposte tra loro e ciascuna con finalità molteplici e mosse da diversi versanti. La prima lettura sostiene, in forma più o meno grezza, che il Pci, almeno dalla fine della guerra, è sempre stato, nella sostanza, un partito socialdemocratico, pur senza volerlo dire e forse senza neppure saperlo; la sua storia è stata una lunga marcia, troppo lenta ma costante, di autoriconoscimento; quel ritardo gli è costato la lunga esclusione dal governo del paese, ma quell'identità sostanziale gli ha assicurato la forza e poi garantito la sopravvivenza, malgrado la crisi. La seconda lettura sostiene che malgrado la Resistenza, la Costituzione repubblicana, il ruolo avuto nell'ampliamento della democrazia, malgrado alcune prove di autonomia e l'ostilità a ogni ipotesi insurrezionale, in ultima istanza il Pci era un'articolazione della politica sovietica e portava in cuore la prospettiva di quel modello: solo verso la fine, ha dovuto arrendersi e cambiare identità. Entrambe queste letture non solo sono contraddette da troppi fatti, ma cancellano quanto di più originale e interessante c'è stato in quella vicenda.

Vorrei sostenere invece che il Pci ha rappresentato, in modo intermittente e senza svilupparlo pienamente, il tentativo più serio, in una certa fase storica, di aprire la strada a una «terza via»: di coniugare cioè riforme parziali, ricerca di ampie alleanze sociali e politiche, uso convinto della democrazia parlamentare, con aspre lotte sociali, con una esplicita e condivisa critica della società capitalistica; di costruire un partito fortemente coeso, militante, ricco di quadri ideologicamente formati, ma di massa; di ribadire la propria appartenenza a un campo rivoluzionario mondiale subendone i vincoli ma conquistando una relativa autonomia. Non si trattava di una semplice doppiezza: l'idea strategica unificante era che il consolidamento e l'evoluzione del «socialismo reale» non costituiva un modello che un giorno sarebbe stato possibile applicare anche in Occidente, ma il retroterra necessario per realizzarvi, nel rispetto delle libertà, un altro tipo di socialismo. Č questo tentativo che spiega la crescita della sua forza in Italia – che continuò anche dopo la modernizzazione capitalistica – e della sua influenza internazionale, anche dopo i primi e vistosi segni di crisi del «socialismo reale». Ma, allo stesso tempo, il suo successivo declino e il finale dissolvimento in una forza liberaldemocratica più che socialdemocratica obbligano a spiegare come e quando quel tentativo sia fallito. Permettono cioè di individuare le ragioni oggettive e soggettive di una parabola e di chiedersi se, come e quando si sono offerte strade migliori per correggerla.

Se questo è vero, e si riuscisse a dimostrarlo concretamente, allora la storia del comunismo italiano potrebbe non essere solo la storia di un partito, ma potrebbe dirci qualcosa di importante sulla vicenda complessiva sia dell'Italia repubblicana, sia del movimento comunista in generale, permetterebbe di valutarla nella versione migliore e di cogliere a fondo i limiti invalicati. (Forse lo stesso interesse, in un contesto del tutto diverso, e per chi ne fosse capace, potrebbe avere l'altrettanto specialissima vicenda del comunismo cinese, oggi tanto ammirata per i suoi successi economici, ma del tutto inspiegata nel suo passato e indecifrabile nel suo futuro.)

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Pagina 28

Sono così un particolare archivio vivente e in soffitta.

Per una persona ormai anziana l'isolamento è dignitoso, ma per un comunista è il peccato più grave, di cui rendere conto. L'«ultimo dei mohicani» può essere un mito, il comunista solo, e arrabbiato, rischia il ridicolo se non si tira da parte.

Ma se il peccato (perdonate l'ironica concessione alla moda e alla convenienza che oggi spinge tanti all'improvvisa ricerca dí Dio) apre la via del Signore, proprio l'isolamento potrebbe permettere un utile distacco. Non posso affermare «non c'ero», non sapevo; qualcosa anzi l'ho detta quand'era scomodo, ho perciò la libertà di difendere ciò che non va ripudiato e di chiedermi ciò che si poteva fare o si potrebbe ancora fare al di là del bric-à-brac della politica di ogni giorno.

Non è vero che la storia passata, dei comunisti e di tutti, era già tutta predeterminata, così come non è vero che il futuro è tutto in mano ai giovani che verranno. La «vecchia talpa» ha scavato e continua a scavare, ma, essendo cieca, non sa bene da dove viene e dove va, o se gira in circolo. Chi non vuole o non può affidarsi alla provvidenza, deve pur fare ciò che può per capirlo e così aiutarla.

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Pagina 48

1.2 Il genoma Gramsci

Al momento del suo effettivo decollo, il Pci riceveva però in eredità anche una voce ancora in gran parte sconosciuta e segretata dal suo avversario fascista, una risorsa autonoma, i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, un cervello che aveva continuato a pensare, una miniera di idee.

Sul pensiero di Gramsci tornerò a più riprese, per mettere in luce elementi che rimasero sempre in ombra nell'elaborazione e nella politica del Pci e invece offrono ancora, anzi soprattutto ora, spunti preziosi per una discussione sul presente, l'originale lettura della storia italiana, nella sua particolarità e insieme nel suo valore generale. Ora mi preme considerare la «fortuna» di Gramsci, cioè il come, il quanto, il quando, egli sia intervenuto e abbia inciso nella graduale definizione di una specifica identità e strategia del comunismo italiano, dapprima sotto traccia, poi in piena evidenza, infine declinando, fino alla riduzione a santone dell'antifascismo, esempio di moralità, poliedrico intellettuale. Parlare cioè, prima che di Gramsci, del gramscismo come genoma operante in una grande forza collettiva e nella cultura di un paese.

I suoi Quaderni richiedevano una mediazione che li rendesse comprensibili e lasciasse un segno al di là di una ristretta cerchia di intellettuali. Le condizioni costrittive del carcere e la censura da aggirare, le ricorrenti malattie, la parzialità delle informazioni e dei testi cui aveva accesso obbligavano Gramsci a un linguaggio spesso allusivo, a scrivere in forma di appunti, ad avviare riflessioni sospese e riprese più tardi; non avrebbero perciò permesso a quegli scritti di raggiungere il fine che egli stesso si proponeva e che sosteneva lo sforzo eroico di un cervello che in solitudine continuava a pensare. Non bastava dunque uno scrupoloso lavoro filologico che riproducesse fedelmente e ne interpretasse i singoli frammenti. Occorreva, fin dall'inizio, un rischioso e progressivo tentativo di enucleare gli elementi essenziali e ricostruire un filo conduttore in grado di penetrare in vaste masse e obbligare anche gli avversari a farvi i conti. Per restituire a Gramsci insomma il ruolo che aveva avuto, íl capo e l'animatore di una grande impresa politica; e anche alle sue ricerche teoriche il carattere da lui stesso sottolineato, di una filosofia della prassi.

Questa mediazione c'è stata, con effetti potenti: Gramsci è presto diventato, ed è rimasto, un punto di riferimento della ricerca politico-culturale, in Italia e nel mondo, tra i comunisti e non solo. Tale mediazione è stata compiuta non da qualche grande intellettuale, o da una scuola, ma con un'operazione intenzionale e organizzata promossa da Palmiro Togliatti e con la partecipazione di un grande partito. Conservazione perigliosa dei Quaderni, progressiva pubblicazione con un provvisorio raggruppamento degli appunti in grandi temi, studio collettivo fortemente sollecitato. La favola recente, che Togliatti avrebbe riservato la custodia dei Quaderni agli archivi sovietici per toglierli di circolazione, è un ridicolo rovesciamento della verità, così come è artificialmente esagerata la tesi che la loro prima edizione sia stata fortemente censurata e manipolata, quindi infedele. Certo l'obiettivo di Togliatti non era solo quello di tributare un omaggio a un grande amico, né solo quello di offrire un contributo alla cultura italiana. Era un obiettivo politico in senso forte, quello di usare un grande pensiero e un'autorità indiscussa per dare un'identità nuova al comunismo italiano. Qualcosa di simile era già avvenuto nel processo di formazione della socialdemocrazia tedesca e della Seconda internazionale: Marx letto e diffuso attraverso Kautsky e in parte con l'avallo del vecchio Engels. E comportava il prezzo di una lettura riduttiva. Togliatti stesso, poco prima di morire, lo riconobbe quando, in una recensione cui non venne dato gran peso, disse in sostanza questo: noi comunisti italiani abbiamo un debito con Antonio Gramsci, abbiamo costruito largamente su di lui la nostra identità e la nostra strategia, ma, per farlo, lo abbiamo ridotto alla nostra misura, alle necessità della nostra politica, sacrificando ciò che egli pensava «molto oltre».

Quando parlo di lettura riduttiva non mi riferisco a manipolazioni o a censure del testo, che molti più tardi cercarono con accanimento e che il successivo ed esemplare lavoro di Valentino Gerratana dimostrò non aver avuto grande peso, quanto a una sapiente regia – pur necessaria al loro primo apparire – nel raggruppamento degli appunti, nella lunga cadenza della loro pubblicazione e nei commenti che l'accompagnavano e la stimolavano. In tutto questo non è difficile cogliere il limite imposto e accettato dal contesto dell'epoca. Anzitutto lo sforzo, per lungo tempo, di non rendere troppo esplicito quanto in Gramsci innovava e modificava rispetto al leninismo o confliggeva con la sua versione staliniana; in secondo luogo lo sforzo di sottolineare in Gramsci quanto serviva alla valorizzazione della continuità lineare tra «rivoluzione antifascista» e «democrazia progressiva»; infine il rinvio, più o meno consapevole, a tempi più maturi di alcune tematiche anticipatrici.

Così, l'attenzione si sarebbe concentrata su due grandi temi. Il primo, ovvero il Risorgimento italiano come «rivoluzione incompiuta», per la rimozione della questione agraria, e «rivoluzione passiva», per la scarsa partecipazione delle masse e la marginalizzazione delle correnti politiche e culturali più democraticamente avanzate, il cui sbocco era il compromesso tra rendita parassitaria e borghesia. Il secondo, ovvero l'autonomia relativa e il valore della «sovrastruttura», in polemica con il meccanicismo volgare, penetrato attraverso Bucharin anche nella Terza internazionale, e quindi la maggiore attenzione che occorreva dedicare al ruolo dell'intellettualità, dei partiti politici e degli apparati statali.

Temi letti, non a caso, con una particolare curvatura interpretativa, inconsapevolmente selettiva. Da un lato enfatizzando ciò che giustamente collegava Gramsci ai Salvemini, ai Dorso e ai Gobetti (la fatale arretratezza del capitalismo straccione e della cultura nazionale bigotta), ma mettendo in ombra la critica del compromesso cavourriano, il rapido corrompimento del parlamentarismo nel trasformismo, le ambiguità del giolittismo, la polemica con il crocianesimo, i veleni insorgenti del nazionalismo, la «questione romana» come remora non ancora superata nella Chiesa, insomma quei processi parziali e distorti di modernizzazione, che avrebbero portato alla crisi dello Stato liberale e alla nascita del fascismo. Dall'altro lato, la giusta riaffermazione dell'autonomia della «sovrastruttura» tendeva a diventare una separazione della dinamica politico-istituzionale dalla sua base di classe e portava lo storicismo marxista a diventare storicismo tout court.

Altri temi gramsciani restarono infine a lungo marginali nella riflessione teorica e ignorati in quella politica. Penso allo scritto su Americanismo e fordismo, anticipatore di ciò che non molto più tardi sarebbe arrivato anche in Italia, e già era visibile, come velleità, nella politica fascista. O alla giovanile passione di Gramsci per l'esperienza consiliare, del tutto diversa da quella russa, che egli stesso aveva accantonato, scoprendone i limiti ma che, rivisitata, avrebbe non poco aiutato a interpretare l'imminente fase della Resistenza e, molto più tardi, l'insorgere del Sessantotto. Le conseguenze di quella riduttiva scoperta del pensiero di Gramsci non sarebbero state, nell'immediato e nel lungo periodo, solo di carattere culturale. Due in particolare: l'ostinazione nel non riconoscere e analizzare la portata e la rapidità del processo di modernizzazione dell'economia in Italia e in Europa; e la concezione del partito nuovo (partito di massa certamente, capace di «far politica» e non solo propaganda, educatore di un popolo, ma ancora lontano da quell'intellettuale collettivo, interlocutore di movimenti e istituzioni dal basso, promotore di una riforma culturale e morale che Gramsci riteneva importante in un paese rimasto indenne dalla riforma religiosa).

Insomma, almeno in partenza, l'eredità gramsciana si offriva e veniva accettata come fondamento di una via di mezzo tra ortodossia leninista e socialdemocrazia classica, più che come sintesi superante dei loro comuni limiti: l'economicismo e lo statalismo. Un «genoma» appunto che poteva svilupparsi, o semplicemente agire sopravvivendo, imporsi pienamente o deperire. Lo vedremo all'opera. Tuttavia a me pare che l'interpretazione che Togliatti dall'inizio avviava di Gramsci non fosse né abusiva né immotivata. Non abusiva, perché il motore che muove e caratterizza i Quaderni è effettivamente la riflessione critica e autocritica sul fallimento della rivoluzione nei paesi occidentali (alla quale, lui come Lenin, aveva creduto), sulle sue cause e le sue conseguenze. Egli fu il solo, fra i marxisti della sua epoca, che non si limitò a spiegarla con il tradimento dei socialdemocratici, o con la debolezza e gli errori dei comunisti; e allo stesso tempo non ne trasse affatto la conclusione che la Rivoluzione russa era immatura e il suo consolidamento in Stato un errore. Cercò invece le cause più profonde per le quali il modello della Rivoluzione russa non poteva essere riprodotto nelle società avanzate, ma era il retroterra necessario (e il leninismo un prezioso contributo teorico) per una rivoluzione in Occidente di percorso diverso ed esito più ricco. Tutto il suo sforzo di pensiero infatti poggiava su due fondamenti, riassumibili in poche frasi. Innanzitutto un'analisi: «In Oriente lo Stato era tutto, la società civile primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte». In secondo luogo un principio teorico, continuamente richiamato con una citazione di Marx tratta dalla prefazione a Per la critica dell'economia politica: «Una formazione sociale non perisce prima che si siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni di esistenza di questi ultimi siano state cavate nel seno stesso della società».

La rivoluzione dunque è per Gramsci un lungo processo mondiale, per tappe, in cui la conquista del potere statale, pur necessaria, interviene a un certo punto secondo le condizioni storiche, e in Occidente presuppone comunque un lungo lavoro di conquista di casematte, la costruzione di un blocco storico tra classi diverse, ciascuna portatrice non solo di interessi diversi ma con proprie radici culturali e politiche. Nel contempo, tale processo sociale non è il risultato graduale e univoco di una tendenza già iscritta nello sviluppo capitalistico e nella democrazia, ma altrettanto il prodotto di una volontà organizzata e consapevole che vi interviene, di una nuova egemonia politica e culturale, di un nuovo tipo umano in avanzata formazione.

Non era dunque abusivo il tentativo togliattiano di usare Gramsci come anticipatore e fondamento teorico del «partito nuovo» e della «via italiana al socialismo», in continuità con il leninismo e con la socialdemocrazia delle origini, ma da entrambi distinguibili. Parte di un processo storico mondiale avviato e sorretto dalla Rivoluzione di ottobre ma non imitazione tardiva del suo modello. Non abusivo, ma neppure immotivato, perché nasceva da grandi novità intervenute dopo la stesura dei Quaderni. La vittoria sul fascismo si era raggiunta, il ruolo decisivo che vi aveva svolto l'Unione Sovietica era riconosciuto, e vi avevano partecipato movimenti di resistenza armata in molti paesi dell'Europa orientale, occidentale e meridionale, già erano in corso potenti movimenti di liberazione anticoloniale e una rivoluzione in Cina; tutto questo obbligava il capitalismo a un compromesso e si aprivano anche in Occidente spazi a conquiste sociali e politiche di rilievo. Tuttavia la vittoria era stata ottenuta attraverso un'alleanza con stati e con forze ben diverse, in Europa con governi e leadership apertamente conservatori; la resistenza armata, a differenza del primo dopoguerra, non accennava a prolungarsi in un'insorgenza popolare e radicale; soprattutto emergeva nel mondo, nei fatti se non ancora negli orientamenti, la supremazia economica e militare di una nuova potenza che la guerra anziché logorare aveva lasciato intatta, e con essa si era concluso a Jalta un patto per il dopoguerra che era un vincolo ma anche una garanzia.

Anche chi, come Gramsci, era andato più avanti nella ricerca di una nuova strada, non poteva prevedere né l'una né l'altra di queste novità: né l'impetuosa avanzata del comunismo nel mondo, né il consolidamento del capitalismo in Occidente. Perfino Trockij, nella sua riconosciuta lucidità, poco prima di essere assassinato, prevedendo la guerra imminente e pur avendo detto che l'Unione Sovietica andava aiutata a resistere, aveva appuntato: «Se da una nuova guerra mondiale non si affermeranno una rivoluzione in Europa e un sovvertimento in Urss del potere burocratico, dovremo ripensare tutto». E appunto questo avrebbe fatto, non so dire in che modo, se fosse sopravvissuto, lo stesso Gramsci: riconoscere il quadro nuovo storicamente emerso, riconoscere i limiti imposti dai rapporti di forza nel mondo e in Italia, mobilitare tutte le nuove risorse per conservare e rafforzare in una nuova «guerra di posizione» la propria identità autonoma e comunista, per trasformare cioè una possibile nuova «rivoluzione passiva» in una nuova egemonia, ciò che — diceva — i mazziniani avevano mancato, anzi non avevano neppure tentato di fare, nel Risorgimento.

Questa ricostruzione degli «antefatti», dei quali non sono stato partecipe né testimone, ma che ho solo tentato, tenendo in mano i libri e usando il senno del poi, non ha nulla di originale o poco conosciuto, serve però a restaurare la verità, a contrastare censure e giudizi oggi correnti come idola fori: da qui può e deve partire la riflessione sulla storia del comunismo italiano.

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18. I fatali anni ottanta


Confesso che a questo punto sono stato per settimane e mesi bloccato nel mio lavoro da un dubbio profondo.

Dopo ciò che era accaduto, ciò che stava accadendo e sarebbe accaduto nel giro di pochi anni – in Italia e nel mondo, sul piano politico, economico-sociale e culturale – esisteva ancora per il Pci una possibilità effettiva di incidere sull'ulteriore corso delle cose, o quanto meno di conservare gran parte delle sue forze e l'essenziale della sua originale identità per il futuro? Era un dubbio legittimo, ma la scelta che ne conseguiva era molto pesante, perché, implicitamente, portava a giudicare velleitario e irrilevante il tentativo compiuto da Berlinguer di imprimere una svolta nel 1980, e a legittimare la successiva decisione di Occhetto di ratificare la fine del Pci nel 1989. Ho quindi passato al setaccio sia la mia memoria personale di quel decennio, sia la storiografia e la memorialistica che hanno prevalso. E ne ho tratto la convinzione che la storia degli anni ottanta è stata meno lineare e scontata di quanto si creda. A tale convinzione mi hanno persuaso, per così dire, due «sorprese».

Prima sorpresa: non solo il numero e l'importanza degli eventi di cui quel decennio è stato zeppo, ma anche il fatto che, nella maggioranza dei casi, quasi nessuno li avesse previsti né si sia sforzato di leggerne la dinamica e le immediate conseguenze. Che in un breve lasso di tempo si sia verificato un rivolgimento così esteso e così radicale, senza una grande guerra e senza una catastrofe economica, significa che esso era il risultato di tendenze già da tempo all'opera, e tanto più è interessante vedere come siano alla fine emerse e si siano sviluppate e sommate. D'altra parte, se tanti nuovi eventi sono giunti inattesi e sono stati a lungo poco discussi, ciò vuol dire che non erano scontati, ma erano il frutto di complessi tentativi, riusciti o falliti, sui quali intervenivano ulteriori scelte politiche giuste, sbagliate o suicide dei vari protagonisti ancora in campo.

Qui interviene la seconda e più importante «sorpresa»: quanta parte dell'esito finale era già segnata in anticipo e in tutti i suoi aspetti, e quanta invece poteva svilupparsi in modi diversi e portare a diversi approdi, in rapporto alla storia specifica che ciascun paese aveva alle spalle, alle risorse materiali e umane di cui disponeva, alle strategie politiche con cui gestiva la propria crisi? Mettere tutto insieme in archivio sotto la generica voce «la morte del comunismo» non corrisponde ai fatti.

Intendiamoci: che negli anni ottanta la storia del comunismo come movimento mondiale, ispirato dalla Rivoluzione di ottobre, si sia conclusa, è inoppugnabile. Č anche innegabile il fatto che ciò si riflettesse pesantemente su tutte le forze che di tale storia erano state partecipi, anche su quelle che gradualmente avevano compiuto autonome esperienze ed elaborato autonome tradizioni culturali. Su questo piano dunque niente sorprese: gli anni ottanta portavano là dove era fatale portassero, a una crisi complessiva del comunismo del XX secolo. Ma è altrettanto vero che una crisi, quando investe grandi e radicate forze, può essere affrontata in molti modi, produrre esiti diversi, liquidare del tutto il passato o salvarne una parte come risorsa per il futuro. Basta ripensare alla Rivoluzione francese nel lungo periodo, per cogliere questa evidenza. Ed entro tali limiti ho trovato negli eventi degli anni ottanta molti spunti per una riflessione non scontata.

Faccio alcuni esempi. Non era scontato o prevedibile che a guidare l'Unione Sovietica arrivasse all'improvviso Gorbacëv, né il suo tentativo estremo e radicale di riformare il sistema, né il suo rapido fallimento, né che quel fallimento aprisse la strada a una dissoluzione dello Stato e della società nel torbido regime di Eltsin. Così come non era scontato o prevedibile che in Cina, messa in frigorifero la rivoluzione maoista senza però rinnegarla, e con una prudente continuità politica del potere, si consolidasse uno Stato-continente, ed esplodesse uno sviluppo destinato a farla diventare un pilastro della nuova economia mondiale. Non era scontato che la straordinaria esperienza jugoslava si tramutasse, con lo stimolo europeo, in un feroce conflitto etnico, né che la situazione mediorientale, con l'intervento attivo di Israele e degli Stati Uniti, marcisse tragicamente per la nascita del fondamentalismo religioso. Né era scontato che l'Europa, anziché imboccare la strada suggerita da Delors sul piano economico e da Brandt sul piano politico, accettasse supina la logica reaganiana o comunque si rassegnasse all'impotenza politica dandosi istituzioni separate dalla sovranità popolare.

In questo contesto – nel quale la «crisi del comunismo» dominava ormai la scena ma le varianti possibili nel suo percorso non erano ancora cancellate – tornò a emergere, nel bene e nel male, l'originalità del comunismo italiano, in forma nuova, con molti contrasti, in fasi successive e distinte.


18.1 Il secondo Berlinguer

Alla vigilia degli anni ottanta, già per conto suo, il Pci si trovava in difficoltà serie. Il risultato delle elezioni politiche del 1979 di per sé non era quel dramma che la stampa descriveva. Il partito conservava il 30% dell'elettorato, due punti in più del 1972; aveva cioè perso, rispetto al massimo raggiunto, meno di quanto nello stesso periodo avessero perso i maggiori partiti socialdemocratici europei; e buona parte dei voti perduti erano andati a favore dell'estrema sinistra, non a destra. Un segnale più preoccupante si poteva però cogliere dall'analisi del voto: perché le defezioni erano avvenute nelle aree metropolitane e nell'elettorato operaio e giovanile che erano stati i settori trainanti dei precedenti successi. Il problema maggiore però era un altro, lo spostamento politico nei due grandi interlocutori sui quali il Pci aveva costruito il proprio disegno: la Dc e il Psi di nuovo uniti in una coalizione di governo, competitiva al proprio interno, ma esplicitamente e fermamente decisi a tenerne fuori i comunisti. Al Pci venivano così a mancare non solo alcuni deputati in Parlamento, ma una prospettiva politica credibile.

In un primo tempo il suo gruppo dirigente rifiutò di prenderne atto. Da un lato per la riluttanza a compiere un'autocritica esplicita sul recente passato, dall'altro perché era convinto che il nuovo centrosinistra fosse troppo diviso e incapace di governare un paese tuttora in crisi, quindi era transitorio. Occorreva tallonarlo e incalzarlo fino a quando la necessità di una grande coalizione, depurata dai suoi limiti, si sarebbe nuovamente riproposta.

Al suo interno si aprì tuttavia un conflitto, più tattico che strategico, nelle sedi riservate, ma spesso aspro. Il suo oggetto principale era il giudizio sull'evoluzione del Psi e sul «nuovo corso» avviato da Craxi. Dirigenti autorevoli pensavano che esso fosse reversibile facendo leva sulle estese alleanze nel sindacato, nelle cooperative e negli enti locali (chiudendo un occhio sulla questione morale) e che la ricollocazione governativa del Psi potesse anzi alla fine risultare utile per logorare la supremazia democristiana, sottrarle il consenso del ceto medio più moderno, costruire una nuova unità a sinistra e trovare un canale di comunicazione con la sinistra europea. Altri dirigenti, vicini a Berlinguer, giudicavano invece il craxismo molto più severamente, quasi il pericolo maggiore, come laboratorio di un nuovo tipo di anticomunismo e sintomo di una vorace redistribuzione del potere e coltivavano invece qualche speranza nelle contraddizioni sociali e politiche del mondo cattolico che attraversavano ancora la stessa Democrazia cristiana.

Entrambe quelle posizioni mancavano di fondamento. Perché la svolta sia del Psi sia della Dc non era solo dettata da uno stato di necessità, o da pure convenienze di potere, esprimeva tendenze più profonde della società e convinzioni più radicate. Rimettere nel gioco di governo un Pci ancora così forte, e legato all'idea di rilevanti riforme, comportava concessioni cui la classe dominante, anche quella più moderna, ormai si opponeva, e un governo con i comunisti avrebbe incontrato l'ostilità sia dei governi atlantici ormai spostati più a destra, sia del Vaticano ormai saldamente guidato dal papa polacco. Comunque, per tutti loro, era un rischio inutile portare soccorso al Pci, quando finalmente sembrava in difficoltà. Un dialogo poteva riaprirsi solo dopo averne ridotto la forza e modificato l'identità.

A rendersi conto della situazione reale, e a dare respiro al dibattito, intervenne, nel 1980, una svolta proposta da Enrico Berlinguer. Su questa svolta, sui suoi contenuti, sul modo in cui venne concretamente applicata, sul suo valore e i suoi limiti, i suoi iniziali successi e il suo sostanziale fallimento finale, una discussione vera è mangata allora e non c'è più stata. Al contrario si sono accumulati tanti equivoci che soffocano i fatti e deformano i giudizi. Anzi, peggio; più o meno consapevolmente essa è stata cancellata nella memoria attraverso un curioso meccanismo.

La morte commovente e improvvisa di Berlinguer ne ha fatto rapidamente un mito. Il mito, meritato e positivo, di un uomo integerrimo, modesto, tenace, leale sostenitore della Costituzione democratica di cui l'Italia aveva e avrebbe ancora bisogno. Per questo la sua opera politica veniva assunta in blocco. I suoi sostenitori considerarono un'offesa mettere in evidenza ciò che distingue, in Berlinguer, l'idea del «compromesso storico» dal tentativo estremo compiuto negli ultimi anni della sua vita per rivederne l'impianto. Di questo si sono giovati anche i suoi critici per rendere omaggio alle sue personali virtù ma soprattutto per sostenere che quelle stesse virtù, negli ultimi anni, lo spinsero a una rigidità ideologica e a un furore moralistico che gli impedivano di svolgere un vero ruolo politico incisivo. Per gli uni e per gli altri, una vera svolta nel Pci o del Pci non c'è mai stata: un «secondo Berlinguer» non è mai esistito. Perciò nei libri di storia se ne parla poco o se ne parla in modo edificante.

Il mio parere è certamente diverso e più problematico. Credo infatti, e spero di poter dimostrare che:

1) nei primi anni ottanta Berlinguer tentò una vera svolta, strategica e non solo tattica, culturale e non solo politica;

2) l'ispirazione della svolta non era solo e soprattutto rivolta a recuperare un'identità del passato ma anche a rinnovarla profondamente per fare i conti con una realtà in rapida e pericolosa trasformazione;

3) non si riduceva a una denuncia o a buone intenzioni, ma in grande parte diventava azione politica concreta e per anni ottenne risultati rilevanti;

4) fu ostacolata e alla fine vanificata non solo da fattori oggettivi soverchianti, di cui già ho parlato, né solo dall'opposizione degli avversari; ma anche dalla resistenza e dal dissenso interni al partito che lo stesso Berlinguer aveva modellato;

5) la svolta non prese mai una forma organica e compiuta; ma non per questo fu meno radicale: emerse piuttosto attraverso una serie di scelte eloquenti;

6) fu una proposta animata e spesso imposta da Berlinguer in base a un suo personale ripensamento, al suo potere carismatico in consonanza con un sentimento popolare, e facendo leva su occasioni che la situazione gli offriva;

7) per questo ritengo legittimo usare l'espressione «un secondo Berlinguer» senza considerarlo un'icona, ma anche senza ridurlo a sognatore di «reami immaginari».

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21.1 L'operazione Occhetto

Sono sicuro, per averlo tentato, che se domandassi, anche a persone competenti, quando è cominciata la fine del Pci, riceverei molte e differenti risposte: nel 1979, dopo il fallimento del compromesso storico sul quale si era impegnato tanto e a lungo; nel 1984, quando morì Berlinguer, il solo leader di grande livello, e che portò via con sé il tentativo di opporre resistenza efficace al vento che spirava; nel 1989, ovviamente, con l'avventura della Bolognina, che doveva portare alla rinascita e invece portò in breve al disastro; nel 1991, con una scissione che si dimostrò più corposa del previsto e mandò comunque molta gente incerta verso il disimpegno.

In ciascuna di queste risposte riconosco qualcosa di vero, perché tutti quei passaggi contribuirono, in sequenza, al decorso di una malattia mal diagnosticata e mal curata. Ma se si vuole, come voglio, stabilire l'elemento scatenante di una vera fase terminale balza agli occhi la scelta compiuta da Occhetto alla Bolognina, a condizione che la si integri con ciò che immediatamente l'ha preceduta e resa possibile, e con ciò che l'ha seguita nei due anni successivi.

L'«operazione Occhetto» cominciò nel corso del XVIII congresso, con molta audacia e idee poco chiare come, a suo tempo, la Perestrojka di Gorbacëv. E percorse la stessa parabola: un rapido avvio con largo consenso, poi difficoltà e aspre contese, infine, tre anni dopo, un fallimento.

L'inizio della svolta non fu, come a suo tempo quelle di Togliatti e di Berlinguer, espressa con scelte concrete e rischiose dalle quali via via nasceva una nuova strategia, ma attraverso una revisione ideologica ostentata.

La revisione non era molto argomentata, ma radicale. Investiva anzitutto la visione del proprio passato. In un'intervista Occhetto disse: «Il Pci si sente figlio della Rivoluzione francese (precisando, quella del 1789, ma escludendo gli infausti giacobini) e non, come si è sempre detto, erede della Rivoluzione di ottobre». Poco dopo, in un discorso, investiva Togliatti definendolo «incolpevole complice di Stalin». E infine anche Berlinguer: «Una terza via non esiste, noi non pensiamo di inventare un altro mondo. Questa è la società in cui viviamo e in questa società vogliamo lavorare per cambiarla». Anche la lotta di classe cessava di avere un ruolo primario, «perché ormai le principali contraddizioni della nostra epoca riguardano l'insieme dell'umanità». Insomma a essere «superata» era la via democratica al socialismo, il socialismo come formazione sociale distinta e antagonista rispetto al capitalismo.

Di tanta furia iconoclasta si accorse e si preoccupò perfino un vecchio e autorevole liberale come Bobbio, che scrisse sulla Stampa:

Mi domando se ciò che avviene nel Pci non sia una vera inversione di rotta. Si ha l'impressione che ci sia molta confusione. La precipitazione con cui si sta buttando a mare il vecchio carico mi pare sospetta. Si resta a galla sì, ma è vuota la stiva. Ci si illude se si crede che si possano trovare facilmente nuove mercanzie a ogni porto. Attenzione, c'è molta merce avariata in giro, molto materiale fuori uso che passa per nuovo.

Non si poteva dire meglio; ma a Bobbio sfuggiva un elemento importante. Dietro a quella iconoclastica revisione ideologica c'era un progetto politico fin troppo elementare. Smantellando la «diversità» comunista Occhetto, ma non solo lui, era persuaso di poter far crollare finalmente la conventio ad excludendum e di aprire la strada a un governo con dentro il Pci, molto migliore di quello esistente. Ma proprio qui emergeva il suo punto più debole.

Per nutrire infatti una tale speranza, e renderla credibile, occorreva non solo trascurare la realtà, ma costruirsene una di fantasia. Bisognava cioè ignorare: che l'assetto bipolare del mondo saltava, come in effetti stava saltando, ma non dava affatto luogo a un sistema multipolare, bensì a un mondo dominato da una sola potenza; che quella potenza da tempo perseguiva una linea neoliberista, e una restaurazione di classe, e là dove non arrivava a farlo pacificamente aveva le armi per imporlo; che il nuovo capitalismo finanziarizzato e globalizzato non premiava ma escludeva dal benessere la maggioranza dei popoli e delle persone; che in Italia in particolare si profilava una bancarotta, quindi un conflitto sociale, e il sindacato era diviso e indebolito; che i partiti di governo resistevano all'idea di inserire i comunisti nel governo non per dissensi ideologici, ma per difendere interessi e modo di governare su cui da sempre si reggeva il loro potere. E così via.

Per questo nel XVIII congresso, quando si trattava di discutere e decidere sui programmi, o sulle alleanze, sulla situazione internazionale vera, nel «Progetto Occhetto» si trovava un vuoto pneumatico.


21.2 L'unanimità sorprendente

Malgrado tutto ciò – la drastica liquidazione di una tradizione teorica spesso rivista ma tuttora radicata, il vuoto di analisi sulle novità emergenti, l'assenza di una proposta politica di cui nulla si capiva se non il fatto che doveva essere nuova – íl «nuovo corso» di Occhetto ottenne un consenso quasi unanime al XVIII congresso.

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