Copertina
Autore Claudio Magris
Titolo Alla cieca
EdizioneGarzanti, Milano, 2005, Nuova biblioteca 20 , pag. 344, cop.fle., dim. 142x210x30 mm , Isbn 978-88-11-66217-4
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

1.



Caro Cogoi, a dire il vero non sono sicuro, anche se sono stato io a scriverlo, che nessuno possa raccontare la vita di un uomo meglio di lui stesso. Certo, quella frase ha un punto di domanda; anzi, se ricordo bene - sono passati tanti anni, un secolo, il mondo qui intorno era giovane, un'alba umida e verde, ma era già una prigione - ho scritto per prima cosa proprio quel punto interrogativo, che si trascina dietro tutto. Quando il dottor Ross mi ha incitato a stendere quelle pagine per l'annuario, mi sarebbe piaciuto - e sarebbe stato onesto - mandargli tanti fogli con un bel punto interrogativo e basta, ma non volevo essere scortese con lui, così benevolo e gentile, a differenza degli altri, e poi non era il caso di irritare uno che ti può togliere da una buona nicchia, come la redazione dell'almanacco della colonia penale, e spedirti nell'inferno di Port Arthur, a prenderti il gatto a nove code sulla schiena se solo per un attimo, sfinito da quei massi e dall'acqua gelida, ti siedi per terra.

Dunque ho messo davanti a quel punto di domanda soltanto la prima frase, anziché tutta la mia vita, mia, sua, di chissachì. La vita - diceva Pistorius, il nostro maestro di grammatica, accompagnando con gesti rotondi e pacati le citazioni latine in quella stanza tappezzata di un rosso che la sera s'incupiva e si spegneva, brace dell'infanzia che ardeva nel buio - non è una proposizione o un'asserzione, ma un'interiezione, un'interpunzione, una congiunzione, tutt'al più un avverbio. Comunque mai una delle cosiddette parti principali del discorso - «Sicuro che dicesse proprio così?» - Ah... sì, dottore, può darsi, forse non era lui a usare quest'ultima espressione, doveva essere la maestra Perich poi Perini, a Fiume, ma più tardi, molto più tardi.

Quella domanda iniziale del resto non può essere presa sul serio, perché contiene già la risaputa risposta, come le domande che si fanno ai fedeli in un sermone, alzando il tono della voce. «Chi può narrare la vita di un uomo meglio di lui stesso?» Nessuno, si capisce, sembra di sentire il mormorio della gente che risponde al predicatore. Se c'è una cosa cui ho fatto l'abitudine, sono le interrogative retoriche, fin da quando, nelle prigioni di Newgate, scrivevo i sermoni per il reverendo Blunt, che me li pagava mezzo scellino l'uno e intanto giocava a bastone con la guardia, aspettando che venissi a giocare anch'io, così si riprendeva spesso quel mezzo scellino - niente di strano, ero là dentro anche perché avevo perso tutto al gioco.

Ma almeno là, in quella cella, mentre le scrivevo davanti a quei muri lerci, ero io a formularle, quelle domande fasulle, anche se era poi il reverendo a sbraitarle dal pulpito, mentre altrove, dappertutto, prima e dopo, per anni e anni e saecula saeculorum me le hanno gridate nelle orecchie, «Dunque quel pandemonio in Islanda lo hai combinato tutto da solo, così, per amore di quella povera gente rachitica e tignosa, senza che nessuno ti desse una mano a mettere a soqquadro l'ordine dei mari di Sua Maestà, vero, allora hai sputato senza pensare che eri là in fila con gli altri ad ascoltare il discorso del nuovo comandante del penitenziario», e giù col gatto a nove code, «così non riconosci quella faccia di comunista, non l'hai mai vista e quei volantini te li sei trovati in tasca per miracolo», e giù calci e bastonate, «allora non sei una spia, un traditore venuto a sabotare, fingendo di essere un compagno, la libera Jugoslavia socialista dei lavoratori, magari sei un porco fascista italiano che vuol riprendersi l'Istria e Fiume», e giù con la testa nel buco del cesso o a correre più svelto che puoi tra le file dei galeotti, che mentre passi davanti devono pestarti più forte che possono e urlare «Tito Partija, Tito Partija!» - ma da dove vengono queste urla, che fragore, non sento più, di chi è quest'orecchio assordato rintronato messo fuori uso, dev'essere stata una bastonata e se qualcuno l'ha data qualcuno l'ha certo presa, io o un altro.

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Pagina 25

2.



Dunque volete sapere se mi chiamo Tore. Vedo che siete in tanti, a chiedermelo. Se so cosa vuol dire on line? - Aye aye, signore. L'inglese resta la lingua di tutti i mari e anche Argo, come avete voluto chiamare questo affare tanto per fare gli spiritosi, è il nome di una nave. Della nave. Navigare necesse est, stava scritto anche sull'opuscolo che ci dava le istruzioni per diventare Cybernauti. Anche se io preferisco il nastro, come vedete; sì, mi piace la voce, specie quando voglio mandare qualcuno a farsi fottere. Come adesso voi, tutti pronti a incalzare un poveraccio con domande indiscrete, a spiarlo, a non perderlo di vista. Già, Argo è pure il nome di quel drago con cento occhi... Però non sono così sicuro che siate poi così tanti, magari anche tu, dall'altra parte, sei solo e non vuoi far sapere chi sei veramente - «Alt, in questo gioco non è ammesso cercare la verità. Comunque, a te piace interrogare, ma rispondere...» - E va bene, mi chiamo anche Tore (Salvatore) Cippico-Cipiko (Cipico), e se è per questo ho avuto pure altri nomi, era ovvio, in quegli anni di lotta clandestina. Altro che chattare. Anche il comandante Carlos, Carlos Contreras, fondatore del glorioso Quinto Reggimento, nucleo dell'Esercito Repubblicano spagnolo - No pasaràn, gridavamo, poi sono passati ma gli è costato caro, metro per metro, Viva la muerte, urlavano, e gliel'abbiamo data a tanti di loro, la muerte, e non abbiamo avuto paura di riceverla — anche Carlos, vissuto all'ombra felice delle spade, abituato a non distinguere più il sangue suo, versato generosamente e senza paura, e quello altrui - anche il comandante Carlos aveva tanti nomi, quando il Partito lo mandava in giro per il mondo in nome della rivoluzione, e anzi doveva mandarlo anche quaggiù, a organizzare il movimento comunista australiano. Quando cercava invano di organizzare l'ammutinamento dei marinai a Spalato e a Pola contro Tito e noi eravamo nel Gulag di Goli Otok sotto il kroz stroj, si chiamava invece ormai soltanto col suo povero vero nome, Vittorio Vidali.

Dunque mi chiamo Salvatore – come Giasone, diceva beffardo il compagno Blasich, guaritore, colui che salva, medico che conosce i farmaci di vita e di morte. La Storia è una camera di rianimazione ed è facile sbagliare dose e mandare all'altro mondo i pazienti che si volevano salvare. Salvatore; per gli amici, in dialetto, Tore. Salvatore Cipiko, poi Cippico, negli anni Venti, quando eravamo tornati in Europa e Trieste, Fiume, l'Istria e le isole del Quarnero erano divenute italiane, i Vattovaz erano diventati Vattovani e gli Ivancic Di Giovanni o almeno Ivancich, tutti nomi s'ciavi resentài come si deve, Isonzo e Jadransko More filtrati e depurati in Arno.

Ho avuto anche altri nomi, come si usava nella lotta clandestina. – «Sì, Nevèra, Strijèla e...» – Basta. Tutti sapete tutto, su di me, tante spie contro uno solo... Questo PC controlla il mondo ancora meglio di quell'altro, si capisce, il vecchio PC è andato in tilt chissà da quanto. La Storia preme un tasto e il Partito scompare; io sono scomparso con lui eppure adesso premo un tasto e faccio scomparire gli sconosciuti curiosi che vogliono sapere i miei nomi. Quello di Jorgen non me l'ha dato una cellula di Partito, ma un'altra, sempre cellula, però d'altro genere – ma ogni cosa a suo tempo. Port Arthur, un secolo e mezzo fa, Dachau e Goli Otok, ieri, ora. Attenzione con quei tasti; altrimenti si finisce per cancellare qualche pezzo e poi non si capisce più niente, non si sa chi è che parla, di chi è quella voce – quando cambia per conto suo, e ti viene su diversa, dalla gola e da non so dove, non la riconosci neanche tu -

Comunque, problemi vostri. Noi in ogni caso parliamo volentieri. La voglia di parlare ce l'avevamo anche prima, solo che non c'era quella di ascoltarci. Anche Lei doveva saperne poco o niente, dottor Ulcigrai, se, come ho visto in quella mia cartella, per raccapezzarsi ha dovuto farsi prestare qualche studio su quella vecchia atroce storia dimenticata. È quella la vera Storia Nosologica, non la mia – è la Storia che è ammalata, impazzita, non io. O forse sono pazzo perché mi illudevo di poterla guarire, pazzo come tutti i guaritori, come Lei, come Giasone, che per una pelliccia di pecora scatena distruzione e delitti orrendi e follia...

Prenda nota, dottore, completi la scheda, spieghi ai Suoi aiutanti il kroz stroj, quell'ingegnoso atroce sistema che mette i detenuti in balia dei loro compagni di sventura, a straziarsi a vicenda a più non posso per ingraziarsi i superiori... Fate magari anche una prova fra voi, così capite meglio. Scriva, se vuole Le detto io, ma scriva. Magari l'avesse fatto allora, quando ci sterminavano e torturavano, e tutti sordi e zitti; le urla non attraversano il braccio di mare, non arrivano neanche ad Arbe, l'isola più vicina a Goli Otok, l'infernale Isola Nuda. Anche Calva, la chiamano. Diomio, pure Arbe aveva avuto il suo inferno, quando gli italiani l'avevano scelta per massacrare gli slavi...

Spero l'abbia capita bene, quella storia. Come siamo venuti in Jugoslavia, nel '47, per aiutare quel paese, che si era liberato dai nazisti, a costruire il comunismo, come per questo abbiamo lasciato le nostre case, a Monfalcone, e sacrificato tutto, noi che portavamo già nelle nostre carni il marchio degli aguzzini fascisti di mezzo mondo, e come poco dopo, quando Stalin e Tito hanno cominciato ad azzannarsi, gli jugoslavi ci hanno accusato di essere spie di Stalin, traditori della Jugoslavia, nemici del popolo, e ci hanno deportati, torturati, massacrati su quell'isola, senza che nessuno sapesse, volesse sapere niente... Vede, io sono stato a Dachau, ho messo in gioco la mia vita per cancellare tutte le Dachau dalla faccia del mondo. Dachau è il culmine, l'apogeo inarrivabile del male, ma almeno tutti hanno subito saputo cos'era Dachau, chi erano gli assassini e chi le vittime, mentre a Goli Otok erano compagni a massacrarci e a dire che eravamo traditori, ed erano ancora altri compagni a non voler saperne niente, a chiudere a noi la bocca e agli altri le orecchie. E se nessuno ascolta, tacere o vuotare il sacco è la stessa cosa; anche straparlare da soli per la strada, gesticolando e facendo musi, non è un granché.

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