Copertina
Autore Claudio Magris
Titolo Microcosmi
EdizioneGarzanti, Milano, 1997, Narratori moderni , Isbn 978-88-11-66258-7
LettoreRenato di Stefano, 1997
Classe narrativa italiana , viaggi
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Indice


Caffè San Marco              11
Valcellina                   37
Lagune                       57
Il Nevoso                    93
Collina                     117
Assirtidi                   151
Antholz                     189
Giardino pubblico           229
La volta                    265


 

 

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Pagina 11

CAFFE SAN MARCO
Le maschere stanno in alto, sopra il bancone di legno nero intarsiato, che proviene dalla rinomata falegnameria Cante - rinomata almeno un tempo, ma al Caffè San Marco le insegne onorate e la fama durano un po' di più; anche quella di chi, quale unico titolo per essere ricordato, può accampare soltanto - ma non è poco - il fatto di aver passato degli anni a quei tavolini di marmo dalla gamba di ghisa, che finisce in un piedestallo poggiato su zampe di leone, e di aver detto ogni tanto la sua sulla giusta pressione della birra e sull'universo.

Il San Marco è un'arca di Noè, dove c'è posto, senza precedenze né esclusioni, per tutti, per ogni coppia che cerchi rifugio quando fuori piove forte e anche per gli spaiati. A proposito, non ho mai capito quella storia dei Diluvio, qualcuno ricorda che dicesse il signor Schönhut, "shammes" tuttofare dell'adiacente Tempio israelitico, mentre la pioggia picchiava contro i vetri e i grandi alberi del Giardino Pubblico - in fondo a via Battisti, subito a sinistra per chi esce dal Caffè - sbattevano fradici nel vento sotto un cielo di ferro. Se era per i peccati del mondo, tanto valeva farla finita una volta per tutte, perché distruggere e poi ricominciare daccapo? Mica le cose sono andate meglio, dopo; anzi, macelli e crudeltà a non finire, eppure niente più diluvi, addirittura la promessa di non estirpare la vita dalla terra.

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Pagina 18

Afferrarsi al legno, senza paura, perché il naufragio può essere pure salvezza. Come dice la vecchia storia? La paura bussa alla porta, la fede va ad aprire; fuori non c'è nessuno. Ma chi insegna ad aprire? Da tempo non si fa altro che chiudere le porte, è un vero tic; per un po' si tira il fiato, poi l'ansia riafferra il cuore e si vorrebbe sprangare tutto, anche le finestre, senza accorgersi che così manca l'aria e che l'emicrania, in quel soffoco, martella sempre più le tempie, a poco a poco si finisce per sentire solo il rumore del proprio mal di testa.

Scribacchiare, liberare i demoni, imbrigliarli, spesso solo scimmiottarli con innocua presunzione. Nel San Marco i demoni sono relegati in alto, capovolgendo la scenografia tradizionale, perché il Caffè, con la sua decorazione fioreale e lo stile Secessione viennese, ricorda che quaggiù si può stare anche bene, una sala d'attesa in cui è piacevole aspettare, differire l'uscita. Il direttore, il signor Gino, e i camerieri, che arrivano al tavolo con un bicchiere dopo l'altro - talora assumendo l'iniziativa di offrire, ma non a tutti, tartine di salmone con un prosecco speciale - sono una gerarchia angelica minore ma affidabile, quel che basta per sorvegliare affinché gli esuli dal paradiso terrestre si trovino a loro agio in quell'Eden surrettizio e nessun serpente li alletti ad uscire con qualche falsa promessa.

Il caffè è un'accademia platonica, diceva agli inizi del secolo Hermann Bahr - il quale diceva pure che si trovava bene a Trieste, perché in quella città aveva l'impressione di non trovarsi in nessun luogo. In quest'accademia non si insegna niente, ma si imparano la socievolezza e il disincanto. Si può chiacchierare, raccontare, ma non è possibile predicare, tenere comizi, far lezione. Ognuno, al suo tavolo, è prossimo e distante rispetto a chi gli sta accanto. Ama il prossimo tuo come te stesso ovvero sopporta la mania del tuo vicino di mangiarsi le unghie, come lui sopporta qualche tuo tic ancora più sgradevole. Fra questi tavoli non è possibile far scuola, creare schieramenti, mobilitare seguaci e imitatori, reclutare discepoli. In questo luogo del disincanto, in cui si sa già come finisce lo spettacolo senza perdere il gusto di assistervi né l'indulgenza per le papere degli attori, non c'è posto per i falsi maestri, che seducono con false promesse di redenzione chi ha un ansioso e vago bisogno di redenzione facile e immediata.

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Pagina 71

Viaggiare, come raccontare - come vivere - è tralasciare. Un mero caso porta a una riva e perde un'altra. Sull'isola dei Belli, chiamata così per la proverbiale bruttezza di alcuni suoi abitanti, c'era un tempo la vecchia Bela, una strega che faceva alzare i venti, rendeva infruttuosa la pesca di chi non era gentile con lei e, per analoghi motivi, sembra abbia fatto precipitare una volta un ricognitore con un solo gesto della mano. Elemento demonico, l'acqua è propizia agli spiriti malefici; sui dossi gradesi si temeva il Balarin, folletto maligno, o l'Ebreo errante, e la notte dell'Epifania si udivano, negli ululi del vento e nel cigolare delle porte, le Varvuole, le furie che venivano dal mare.

Ci si può immaginare il viso della vecchia Bela, verosimilmente sgradevole per gli anni e le offese ricevute dal crudele pregiudizio, e c'è da augurarsi che chi la ingiuriava come portatrice di scalogna sia veramente tornato spesso a casa a mani vuote. Il viaggiatore è un illuminista quando può sfata la cieca e irrazionale ferocia del mito; anche Ulisse - «colui che non si lascia affascinare», come lo chiama Circe - dissolve il ferino potere di maghe, giganti e sirene. La cattiveria verso chi è segnato dal marchio di portasfortuna è un razzismo peggiore del rifiuto dello straniero, perché mascherato, come ogni superstizione, da una pacchianeria sofisticata.

Nel casone di Pasolini sulla laguna, il poeta ha raccontato con la macchina da presa la storia della maga e della straniera vittima per eccellenza, di Medea. Devota ai torvi ma per lei familiari dèi della terra e della notte, vicina alle arcaiche e oscure radici del mito - all'indistinta totalità della vita - Medea è straniera nel mondo dell'uomo amato, Giasone, e in quella Grecia luminosa che nei secoli splende come la patria universale di ognuno. Perciò è condannata allo strazio più grande, ad essere la più straniera degli stranieri, la più inaccettabilmente diversa indotta, dalla violenza e dall'inganno subiti, a violare il più universale dei sentimenti, l'amore materno, diventando così, con l'uccisione dei suoi figli, mostruosamente diversa perfino rispetto a se stessa, al suo cuore, dopo essere divenuta estranea al mondo natio, la Colchide, e a quello d'elezione, la Grecia.

La sua tragedia riecheggia nei secoli, in innumerevoli rielaborazioni antiche e recenti, ma la sua storia tremenda resta refrattaria ad ogni moderno relativismo psicologico. Nel mito di Medea, è la ragione a irretire e a portare a rovina la fosca e ingenua magia; i filtri e i sortilegi della maga sono inermi dinanzi all'astuzia calcolante di Giasone e dei greci e la sua stessa passione, intensa e selvaggia come la vita, è facile vittima della rete di mediazioni in cui la civiltà l'avviluppa e la soffoca. Gli Argonauti che conquistano il Vello d'oro - grazie a lei, traditrice dei propri valori per amore - hanno la terribile e irresponsabile forza della giovinezza greca, sofisticata e innocente, cui il mondo, anche se sconosciuto o minaccioso, sembra offrirsi per essere preso e depredato. Nelle varie Medee create e ricreate dalla letteratura universale, la chiarità ellenica è una luce inquietante, una demonica trasparenza dell'orrore. Non è l'armonia classica e nemmeno il furore dionisiaco; lo spirito greco - la nave che va a depredare la Colchide - è anche assoluta e candida malafede, rapina che non arretra dinanzi a nulla, mercato di tutto ciò che v'è di sacro.

Il mare, infido e sconfinato, è lo spazio di questa avventura senza remore, che intacca leggi e altari e per la quale non c'è nulla di proibito; è lo spazio della storia sacrilega. Lo spirito greco è questa mobilità, infida come il mare; Medea - assassina del fratello e infine dei suoi stessi figli - è la custode del sacro, non di quello arcaico dei suoi riti, cui lei è magnanimamente pronta a rinunciare, ma di ogni sacralità della vita. L'incantata immobilità delle lagune gradesi può ben essere un simbolico fondale del mito, comunione di demoni e dèi, in cui Medea cresce e da cui viene strappata, attraverso l'amore per Giasone, dalla forza della civiltà laica e razionale della Grecia.

La civiltà greca vince, ma questa vittoria comporta un orrore non meno tenebroso delle oscurità della Colchide con i suoi draghi. Sradicata dal suo mondo verso il quale si è resa colpevole, tradendolo e cooperando alla sua rovina, morsa da questo sentimento di colpa e di spaesamento, respinta e disprezzata dal mondo greco al quale ha sacrificato il suo e nel quale non riesce a inserirsi, umiliata, tradita e calpestata da Giasone, all'amore del quale ha immolato tutto, Medea diviene preda di un dolore furente, che la conduce all'orribile uccisione dei propri figli, vendetta che è rivolta contro Giasone ma anche e soprattutto contro lei stessa.

Richiamandosi a tradizioni più antiche della tragedia di Euripide, Christa Wolf suggerisce, in un suo romanzo, che la memoria dei vincitori ha falsificato la verità e attribuito alla barbara straniera il delitto compiuto invece dal popolo di Corinto, che in un'esplosione di violenza avrebbe ucciso i figli di Medea. Nel mito nulla è accaduto e tutto viene solo raccontato e accade ogni volta che viene raccontato. Medea assassina dei propri figli è più credibile, più vera, perché ancora più vittima; nessuno è così vittima come chi viene straziato al punto di venire stravolto in se stesso, di perdere la sua umanità, di essere spinto al male. Nel film di Pasolini, la selvaggia vendetta di Medea è anche l'imbestiamento che la violenza occidentale provoca nel terzo mondo ch'essa aliena da se stesso, è il barbaro disordine che reagisce a un ordine barbaro.

Ma "Medea" è una tragedia e non sarebbe tale se non sanzionasse la necessità di quegli orribili eventi contro i quali pur insorge moralmente. La civiltà greca, nonostante tutto, è una luce che, alla fine, diffonderà l'umanità, ben più della primitiva Colchide devota ai draghi delle tenebre. La tragedia è che a portare questa fiaccola sia, indegnamente, Giasone, e con lui i reggitori e il popolo di Corinto, della Grecia. Giasone è menzognero, abile a ingannare gli altri ma anche se stesso, per ottundere la consapevolezza della propria colpa e fare il male convincendosi di non poter agire altrimenti; è disponibile a tutto sino a diventare inconsistente, un uomo senza qualità, senza centro né profondità, mera superficie ammantata di seduzione, di fascino diplomatico ed erotico, di bei gesti eroici. E' il prototipo della vanità maschile, insicura e devota solo alla propria immagine, pronta cinicamente ad assolversi in nome di una necessità superiore.

Perfino nel furore omicida, è Medea che conosce il senso autentico dell'amore, dei sentimenti, dei valori. Ma la Colchide, con la sua ferocia tribale, non è un'alternativa possibile alla Grecia di Omero, di Socrate e Platone, del mito e del logos che hanno colto l'essere alle radici. E' tragicamente cinico, un capriccio degli dèi, che l'araldo della luce ellenica nelle foschie barbare sia il meschino Giasone e che la sua vittima - il prezzo di quell'impresa epocale, la spedizione degli Argonauti - sia Medea, tanto più grande di lui. Ma è ancora più tragicamente cinico che quel capriccio degli dèi sia un elemento essenziale della civiltà greca. Questa dialettica senza remissione non permette di sognare paradisi incorrotti e ancora meno di contrapporli all'Occidente; anche nel film l'oblio incantato e sonnolento della laguna attutisce, ma solo per un attimo, l'insostenibile orrore della storia.

Ogni Medea è la storia di una terribile difficoltà di intendersi fra civiltà diverse; un monito tragicamente attuale su come sia difficile, per uno straniero, cessare veramamente di esserlo per gli altri. Medea mostra il trionfo dell'estraneità e del conflitto oggettivo fra genti e persone diverse. Anche per questo, nell'omonimo dramma di Grillparzer, Medea può dire che sarebbe meglio non nascere e che, quando ciò avviene, si può solo sopportare - senza intenerirsi o piagnucolare se stessi, come Giasone - questo male.

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Pagina 82

Con uno slancio titanico - che mescolava autentico rigore scientifico, intuizioni anticipatrici, antiquate macchinosità e ingenuità inevitabili in un provinciale isolato - Francesco de Grisogono voleva liberare la creatività umana dai capricci del caso e dall'ingiustizia della sorte che, com'egli sapeva troppo bene, la tarpano e la condizionano; se il genio è inevitabilmente soggetto all'accidentalità degli eventi, il calcolo concettuale, con la sua macchina che permette tutte le operazioni possibili, imponendo a esse la sua inflessibile logica, si libra al di sopra della casualità che irretisce gli uomini, anche i geni.

L'aspetto più affascinante di questo disegno prometeico è la stesura delle tabelle che lo scrittore compone nei "Germi di scienze nuove", per schedare l'infinita varietà del mondo, in maniera da sistemare il materiale di quelle combinazioni che dovranno estrarre dalla realtà tutte le invenzioni e le scoperte possibili. Classifica generi e sottogeneri di elementi (inavvolgibili: bacillari, arcati, contorti, circuenti), le 36 determinazioni di un ponderale o le 21 determinazioni di un avvenimento, le locuzioni e le operazioni traslocative, gli strumenti elettriferi e i sonoriferi, le 17 parti degli alterraggiferi, le 143 modalità di un'azione, i 28 fenomeni fisiologici e gli altrettanti fenomeni psichici, le sostanze friabili, fogliacee, mucillagginose, schiumose, allappanti... Suggerisce ricerche sperimentali ora geniali ora balzane, indagini circa l'influenza del vuoto sulle variazioni della resistenza elettrica del selenio per effetto della luce o esperimenti per verificare se il dato X(2)^n ha la proprietà di arrestare la putrefazione dei cadaveri.

Fra quelle tabelle, quei calcoli e quei segni matematici si affacciano, incasellate e inafferrabili, la seduzione e la prolissità del mondo, l'immensità degli spazi celesti e gli abissi del cuore. Quella "hybris" totalizzante, che maneggia l'onnipotenza, mette a nudo l'indifesa piccolezza dell'individuo sperduto tra gli infiniti e ancor più fra le enigmatiche cose finite, il suo struggente amore per la vita, ch'egli cerca di afferrare come un pescatore che voglia catturare il mare con la sua rete. Solo la nuda matematica, con i suoi segni astrusi per un profano come geroglifici, può far emergere la grazia misteriosa e terribile del vivere; è la malinconica onestà positivista ottocentesca, col suo rigore e con la sua ingenua fede di poter eliminare la metafisica, che rende autentico il senso del mistero, non detto e anzi accanitamente messo al bando come un errore di calcolo in un'operazione.

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Pagina 108 [ frontiera-confine ]

Le cronache parlano, con ossessiva insistenza, di frontiere e confini. Un loro compendio è custodito, manoscritto, nel castello a Kozarigée. E' in tedesco; l'autore Franz Schollmayer, lo compilò nel 1923, per ricapitolare le vicissitudini di quelle terre e soprattutto dei principi Schónburg-Waldenburg, dei quali era al servizio. Nel tempo si ripetono i conflitti fra i signori del Nevoso - per l'autore, e per i cronisti precedenti, Schneeberg - e la città di Laars, con tutte le complicazioni giurisdizionali, e soprattutto i conflitti fra i boscaioli del Nevoso e quelli di Cabar, oltre Klanska Polica. Quella è la linea di un confine insistente e fatale; forse già conteso fra gepidi e celti, era la frontiera romana contro gli scordisci, molto più tardi un tratto contestato della frontiera fra impero d'Austria e regno d'Ungheria e regolato definitivamente da una commissione mista austro-ungherese appena nel 1913, poi frontiera fra Italia e Jugoslavia e infine fra Slovenia e Croazia, sino a ieri dunque fra due Repubbliche della medesima Federazione e oggi fra due Stati, non in guerra ma inclini a guardarsi con diffidenza. «Per forza, è un croato», diceva Milka, che gestiva il Planinski Dom a Sviscaki, quando raccontava che la figlia aveva divorziato dal marito.

Guerre fra imperi e fra bracconieri, beghe di famiglia, sassate di quartiere, svolte della Storia e minimalismo quotidiano di baite nel bosco; quei lugheri di cui le cronache lamentano le incursioni - in Slovenia o rispettivamente in Croazia - sono il simbolo del secolare tributo di violenza che spesso esige un confine, idolo che chiede sacrifici di sangue. Necessità, febbre, maledizione del confine. Senza di esso non c'è identità né forma, non c'è esistenza; esso la crea e la munisce di inevitabili artigli, come il falco che per esistere e amare il suo nido deve piombare sul merlo.

Il bosco è insieme esaltazione e cancellazione di confini. Una pluralità di mondi differenti e contrapposti, pur nella grande unità che li abbraccia e dissolve. Anche la luce, nella foresta, ha tagli netti, che creano paesaggi diversi e, nello stesso istante, tempi diversi. C'è la luce nera nel folto più profondo e quella verde subacquea sotto una volta di rami che s'intreccia sopra il sentiero; mentre nelle radure d'oro è ancora giorno alto, trasparenza leggera, pochi metri più in là, nella selva, è già sera, un'ombra greve.

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Pagina 219

Pochi metri più avanti, verso Obertal, vicino al negozio Leitgeb, c'è la bottega di un intagliatore di legno. Fuori della porta c'è un tronco con un'escrescenza mostruosa, dietro è tutto un presepe di Madonne, san Giuseppe, animali, una religiosa umiltà del legno che rende domestica pure quella protuberanza maligna. La scultura lignea, che ha avuto il suo apogeo nel xvi secolo, è tipica del Tirolo e ignora rigide distinzioni fra scultore, intagliatore e artigiano; l'arte è solo la mano che fa un buon lavoro.

Al banchetto funebre i commensali sono tanti; è tutto un salutarsi e ritrovarsi, gente venuta da diverse frazioni della valle, e che non si vedeva da anni, si scambia notizie sulle famiglie, partenze e ritorni, ricoveri in ospedale, e getta il seme per qualche buon affare. La morte non scioglie, bensì annoda; è un rito della coesione sociale, una forza centripeta. Un uomo che muore è una piccola stella che collassa, acquistando densità e massa e attirando intorno a sé gli altri corpi della società. Qua e là si vedono le facce secolari della valle, guance paonazze di vino e bocche sdentate, ma la fisiognomica generale attesta una civiltà composta e distesa, i volti non sono più quelli della folla che schernisce il Cristo nelle vecchie pale d'altare delle valli, bensì volti di un civile e progredito benessere.

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Pagina 223

Sarebbe più interessante parlarne con Heinz, ma lui su questo tema tace e il suo silenzio è adeguato a quella ferita. - Un vero "eingeklemmt", incastrato e bloccato - come Norbert C. Kaser, lo scrittore che ha volutamente incarnato nella sua esistenza e nella sua opera questo inceppamento. La più viva letteratura tirolese ha fatto propria questa autodenuncia, assumendola quale condizione di autenticità e trasformandola in una beffarda e aggressiva autocelebrazione. Gli scrittori tirolesi godono di una fortuna invidiabile ossia di un gretto establishment politicoculturale che, proclamando le incorrotte e schiette virtù della "Heimat" e della sua tradizione, conferisce involontariamente importanza e autenticità a ogni deviazione, anche banale ma comunque liberatoria, da questo modello. Grazie al conservatorismo talora retrivo della cultura ufficiale sudtirolese, è facile essere uno scrittore osteggiato e meritarsi considerazione in virtù della prepotente ostilità dei benpensanti. Atteggiamenti letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o patetici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo.

Un sintomo evidente di tale ritardo è la canonizzazione post-mortem di Kaser: il giovane sensibile e ribelle, disoccupato e alcoolizzato, frate cappuccino e militante comunista, dolente e schernitore, morto giovanissimo dopo essersi negato alla stesura di ogni libro compiuto ed espresso in glosse e frammenti, è un autore rispettabile ma la leggenda che se ne è impadronita, una vera agiografia del dissenso, è il rovescio complementare delle liturgie della "Heimatliteratur", certo prive del suo reale dramma.

Gli scrittori tirolesi sono ossessionati dal confine - dalla necessità e difficoltà di varcarlo - e dall'identítà e ricercano quest'ultima nella negazione dell'identità compatta cara al potere culturale del loro paese. Con la sofferta ma abusata e facile retorica frequente negli scrittori di frontiera, per esempio quelli triestini, si collocano anch'essi volentieri dall'altra parte, addolorati ma pure compiaciuti di sentirsi italiani fra i tedeschi e tedeschi fra gli italiani, avidi di essere brutalmente attaccati dai custodi delle memorie patrie per poter dire, con declamata sincerità, che soffrono di non saper dire a quale mondo appartengono.

Tutto ciò è letteratura, spesso buona. Finché esiste, aggressiva e potente, la livida ideologia della "Heimat", devono esserci poeti che, come Kaser, propongono di arrostire l'aquila tirolese; sono certo essi i veri eredi di quell'aquila, perché la letteratura tirolese, anche senza risalire ai suoi grandi del Medioevo come Oswald von Wolkenstein, è stata ricca di voci duramente critiche nei confronti della visceralità e dell'angustia sociale del proprio mondo, come i drammi di Schónherr o Kranewitter e i loro desolati quadri di brutalità contadina. Ma ormai sarebbe ora che l'aquila tirolese venisse arrostita, mangiata e digerita una volta per tutte, senza più bisogno di sputare sui suoi ossi, così come sarebbe ora di scrollarsi di dosso la fissazione polemica del confine, smettendo di considerarla una peculiarità tirolese o triestina e rendendosi conto che essa può riguardare un milanese non meno di un abitante di Antholz o del Carso. Nel loro scherno contestativo, molti scrittori tirolesi esibiscono sentimenti troppo buoni, sbandierano ideali di libertà, protesta, deterritorializzazione, "Niemandsland". Sentimenti e ideali lodevoli, a differenza di quelli dei loro calunniatori, ma che non bastano per fare poesia. Non è un caso che un autore significativo come Franz Tumler sia passato attraverso un'esperienza realmente cattiva ossia l'adesione giovanile al nazismo, poi superata, che - ovviamente solo perché è stata superata - gli ha permesso di capire a fondo il Súdtirol e il nesso demonico che può sussistere fra senso del confine e pathos dell' "Anschluss".

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Pagina 240

Fra gli animali del Giardino primeggiano i gatti. Sarebbe possibile farne un'anagrafe attendibile, perché la popolazione felina del Giardino è stabile, gli intrusi sono rari e ancor più rari i transfughi. Si possono seguire le generazioni, il disperdersi delle cucciolate, l'annodarsi di nuove famiglie, i meandri delle endogamie. Una dinastia centrale e pluriramificata è quella fondata da un gatto nero, grosso e monocolo, che non ha bisogno di rizzare il pelo per difendere il territorio, e da una scialba gatta tigrata, smilza e nervosa, in lite con tutti. Ci sono i gatti nevrotici per colpa di Luigino che, quando vede una bestia prenderne un'altra per la collottola e tenerla sotto miagolando, crede che stiano azzuffandosi e li separa sul più bello con secchielli d'acqua.

Il gatto non fa nulla, semplicemente è, come un re. Sta seduto, accovacciato, sdraiato. E' persuaso, non attende niente e non dipende da nessuno, si basta. Il suo tempo è perfetto, si allarga e si stringe come la sua pupilla, concentrico e centripeto, senza precipitare in alcun affannoso stillicidio. La sua posizione orizzontale ha una dignità metafisica generalmente disimparata. Ci si sdraia per riposare, dormire, fare all'amore, sempre per fare qualcosa e rialzarsi subito dopo averla fatta; il gatto sta per stare, come ci si stende davanti al mare solo per essere lì, distesi e abbandonati. E un dio dell'ora, indifferente, irraggiungibile.

Ci sono i ghiri e i ricci, con la loro bonarietà casalinga. Gli uccelli, tanti uccelli; a sera il loro canto comincia di colpo, tutti insieme, un vento che si leva tra le foglie in un assordante stormire che dopo un po' non si avverte più, come il fragore di una cascata. Qualche gabbiano, risalito dal mare, volteggia spaesato, a volo lento. La civetta, sempre su quel platano cavo, è una vecchia zia, fastidiosa quando si fa sentire e di cui si sente la mancanza quando tace. Ma c'è soprattutto il falco. Almeno dicono che ci sia, che venga giù dal Carso a cercare prede. Dicono anzi che sia un gheppio e lo hanno visto con la testa grigia bluastra, il petto giallo macchiettato di nero e la coda con la punta bianca. Qualcuno lo ha visto fare lo spirito santo, quasi immobile nell'aria muovendo appena le ali, e Lucia dice che lo ha visto piombare su un verme grosso e grasso che pareva una biscia, vicino al lago, farlo a pezzi col rostro e mangiarlo.

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