Autore Claudio Magris
Titolo Non luogo a procedere
EdizioneGarzanti, Milano, 2015, La biblioteca della spiga , pag. 362, cop.rig.sov., dim. 14,5x22x3 cm , Isbn 978-88-11-68917-1
LettoreGiorgio Crepe, 2016
Classe narrativa italiana , paesi: Italia: 1940 , citta': Trieste , guerra-pace , storia criminale












 

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Sottomarini usati – compro e vendo. L'inserzione sul «Piccolo banditore» era del 26 ottobre 1963; evidentemente lui – travolto dai debiti, menato per il naso da promesse milionarie di varie amministrazioni pubbliche e perfino di ministeri, strangolato dagli usurai, perseguitato dai proprietari dei terreni e degli hangar dove aveva sistemato i suoi aeroplani e i suoi ponti militari bombardati, si era visto costretto a cercare di vendere qualche cimelio di particolare stazza, ma, nel momento stesso in cui si accingeva a vendere, era stato subito ripreso dalle sue Furie e aveva cercato anche di comperare – non si sa con quali soldi, ma comunque di comperare – sommergibili, Panzer o apparecchi per il dragaggio mine.

Poteva essere l'inizio; l'anticamera del Museo, appena entrati. Sulla parete di fronte all'ingresso un grande schermo nero, increspato da un tremolio indistinto, un rumore d'acqua in sottofondo; la sua faccia appare in quel buio, una fotografia dell'inizio degli anni Settanta. Testa che emerge dalle acque nere, occhi febbrili, furbeschi; righe di sudore, gocce d'acqua scorrono lungo gli zigomi pannonici. In mezzo alla sala, il sottomarino, un U-Boot della Marina imperialregia della prima guerra mondiale, acquistato o procurato chissà come. Sottomarini usati – compro e vendo. Voce pomposa, insinuante. Ricostruita, con un'abile elaborazione di varie registrazioni radiofoniche a Radio Trieste. Un innocuo avviso economico che diventa, grazie alla voce – riassemblata ossia vera, assoluta, non quella casuale e mutevole del momento in cui si parla – un adescamento, la profferta di un ruffiano nell'ombra. Entrare nel Museo come si entra in un night, promesse al neon; può essere una buona idea, pensava Luisa. Anche se mancava il clou, l'attrattiva più ricercata e chiacchierata, quei famosi taccuini. Un mistero iniziatico, privo del dulcis in fundo, la spiga di grano che consacra l'adepto.

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Da bambino amavo sparare con il piccolo cannone di legno. Belle battaglie, nel laghetto del giardino. È bello colpire, far cadere, ancor più bello far cadere in acqua. Navi e uomini vanno a fondo, spariscono; non si vede più niente, solo le incantevoli acque, anch'esse una grande bara, ancora un colpo, poi andiamo a casa, sarà l'ultima battaglia, l'ultima guerra, poi basta, però questa qui finiamola. Certo, la guerra, la gioia di distruggere, va recisa alla radice; va tagliata quella mano che brandisce l'elsa o spara con il cannone, poi la raccoglieremo e la metteremo in una teca nel Museo. Ce n'è già una, lo scheletro della mano di un ulano che stringe la sciabola di ordinanza degli ufficiali del III reggimento, una bella mano rinsecchita, una bella foglia d'autunno. Anche Leonardo – continuava l'appunto – il cui busto ornava il cortile del palazzotto a Gradisca, perché non si era limitato a dipingere i monti azzurri per la grossezza dell'aria, ma aveva progettato per Gradisca quei marchingegni per difenderla dai turchi? Complicate gabbie di legno e di ferro mimetizzate sott'acqua e sul fondo dell'Isonzo, in modo che quando i turchi, fanti e cavalieri, avessero attraversato il fiume, quelle gigantesche tagliole sarebbero scattate a imprigionarli, uomini e cavalli e zampe scalpitanti fra le lame e i lacci, lo scatolone emerge dalla corrente come una gogna, un grande giocattolo che contiene prede vive, animali che sbattono contro le sbarre. L'Isonzo ha il colore più bello del mondo, verde acqua, arrossato dal sangue che esce da quella gabbia e da tanto più sangue tanti anni dopo; intanto dalla città è facile saettare quei corpi avviluppati.

Bravo Leonardo, il sorriso della Gioconda al servizio della morte, ineffabile serenità dell'uccidere e del voler uccidere. Anch'io, pensava Luisa trascrivendo e sistemando quella pagina, quando vado a pescare faccio lo stesso, poco importa se nel fiume o sul mare vicino, il cielo illuminato dal sole e dal riverbero dell'acqua è una luce di felicità, un grande sorriso. Il pesce abbocca, l'amo gli squarcia la gola, il pescatore sorride tutto contento. In fondo lui aveva ragione, la vita è guerra, gli appunti parlano chiaro. «L'unica cosa è trasportare tutto in un Museo, dove non c'è più guerra perché non c'è più vita. Già scienziato a cinque anni e inventore a nove, a sedici ho ideato e progettato concretamente armi fantastiche e terribili, ma ho deciso che avrei reso noti quei modelli quando non ci sarebbero state più guerre nel mondo e quelle armi sarebbero divenute inoffensive e inutili. Bisogna rendere la vita – tutta la vita, ogni cosa – inutile, inusabile. Il valore d'uso è sempre, in qualche modo, il valore dell'assassinio. Spuntare le lance, arrugginire i fucili, ispessire il filo della lama, finché la vita sempre così affilata non tagli più.»

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Sarebbe stato meglio non dare subito la scheda biografica, tutta e completa, ma spezzarla in frammenti successivi nelle diverse sale del Museo, infanzia adolescenza guerra dopoguerra e morte. Sebbene lui non credesse a quest'ultima, la considerasse un errore logico-linguistico, come risultava dal suo DUD. Oppure entrare subito in medias res, come si conviene a un poema epico, in cui, se tutto va bene, l'inizio lo si conosce appena a metà, quando ci si avvicina alla fine. Come nella vita, del resto, e non solo quando si viene a sapere per caso, tanti anni dopo, quello che per esempio ti ha combinato tuo marito. Questo potrebbe anche non succedere se lui per esempio non ha combinato niente o te l'ha detto subito, quasi in tempo reale, che magari è ancora peggio.

Ma è di te che tutto lo vieni a sapere dopo; di come eri da bambina, in un tempo che non puoi ricordare; di come si sono conosciuti i tuoi genitori, di come è stato demolito il ghetto quando non erano ancora nati neanche i tuoi nonni e forse neppure i bisnonni. Anche il Museo dovrebbe essere un guazzabuglio del prima e del poi, come le cose che mostra e racconta. Però sarebbe bello poter invece cominciare da principio, come la Torah. Da principio, Dio creò il Cielo e la Terra. Da principio o almeno quasi, perché pare ci fossero già Tohu e Bohu, il Caos e il Vuoto, quelli non mancano mai e ti impediscono di cominciare veramente qualsiasi cosa e qualsiasi storia. Ma con lui, per esempio, si poteva iniziare, anche contro la sua volontà, se non con la nascita – o, a rigore, nove mesi prima, quando propriamente inizia la sua storia – almeno con l'infanzia, l'adolescenza, di cui raccontano, anche se frettolosamente e con il fiato grosso, i suoi taccuini.

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La grande fotografia del T-34, che lo mostra di fronte, assomiglia a quella di un enorme pachiderma che sbarra la strada a un'immensa pianura alle sue spalle. 26 tonnellate. Cannone da 76,2 millimetri lungo 40 calibri, capace di perforare agevolmente qualsiasi corazza dei carri tedeschi all'attacco nell'Operazione Barbarossa, l'invasione dell'Unione Sovietica, e impervio alle bocche da fuoco di quei carri. Motore Diesel di 12 cilindri a V che riduce la possibilità di incendio e consente una velocità sui campi di battaglia sino ad allora sconosciuta ai tank, 55 chilometri all'ora. Cingoli larghissimi (55 centimetri) — zampe mastodontiche di giganti preistorici — che consentono di muoversi nella neve e nel fango senza sprofondare. Preistoria del futuro, l'uomo che ritorna piccolo fra i mammut costruiti dalle sue mani e sempre più indocili e disobbedienti al cornac che li pungola seduto sulla loro testa.

«Bontà, provvidenza della macchina che sostituisce l'uomo, salvandolo anziché distruggerlo come in tante stupide favole. È il T-34 che salva la Grande Madre Russia quando i nazisti la attaccano nel 1941 e si trovano davanti un esercito quasi senza generali, fucilati da Stalin, e militarmente confuso e arretrato, perché il dinosauro del Cremlino aveva messo al bando i princìpi strategici stabiliti genialmente dal maresciallo Tuchačevskij, mettendolo al muro per il suo genio e proibendo la formazione delle grandi unità corazzate da lui volute, sicché i tedeschi all'inizio dilagano in Russia come lame nel burro, travolgono armate prendono città e dopo ogni attentato fucilano cento ostaggi per ogni loro uomo caduto in un agguato, finché si infrangono contro la spessa ma mobile muraglia dei T-34 (53.000 esemplari, in tutta la guerra, dopo la battaglia di Kursk ulteriormente potenziati con cannoni da 85 millimetri e corazze ancora più compatte). Una muraglia cinese fatta di cannoni; grossi elefanti come torri di Babele sulla scacchiera ma veloci, fulminei nell'infiltrarsi staccando le punte nemiche corazzate che avanzano dalla fanteria che le segue e isolando così i mezzi corazzati tedeschi, anche i Tiger e i Panther, costringendoli ad arrestarsi e colpendo quindi a morte il Blitzkrieg del Führer. Ecco, quel T-34 mi sembra l'immagine della grande Russia, vulnerabile e invincibile, paziente e dolente, il paese in cui le strade che portano a Mosca, per chi le percorre per distruggerla, passano per Poltava, per la Beresina, per Stalingrado... È vero, io mi sento spesso tedesco, certo più tedesco che slavo, specie a Trieste, ma...»

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Sala n. 23 – Uno scaffale attaccato alla parete; libri ritti, appoggiati diagonalmente o orizzontali, sì da mettere in vista solo il dorso con il titolo. Inserite qua e là, fra i libri – ben visibili e illuminate, in qualche caso ingrandite – schede con citazioni di suo pugno e variamente colorate, simili ai soldati-carte da gioco di Alice nel paese delle meraviglie.

Sun Tzu, L'arte della guerra (VI-V secolo a.C.). «Dirigere il destino del proprio nemico. Sottometterlo senza combatterlo. Le truppe devono assomigliare all'acqua, che scende dall'alto e si raccoglie in basso – evitare i punti di forza e concentrarsi sui vuoti.» Aggiunta di suo pugno: «Acciaio o acqua? Quando un fiume è in piena, argini per contenerlo o canali per lasciarlo defluire?».

Flavio Vegezio, Epitoma rei militaris (fine IV secolo). «Azioni a sorpresa che provochino gravi perdite all'avversario e certamente terrore, ma senza mettere a rischio la vita dei propri soldati...»

Raimondo Montecuccoli, Trattato della guerra (1641) e Della guerra col Turco in Ungheria (1670). «Che l'armata non combatta mai tutta in una volta...» Nota di suo pugno: «Il primo a capire l'importanza dei commando, delle azioni terroristiche, il nuovo Machiavelli. L'"Escuriale animato", come lo chiamavano, maestro di Napoleone ma anche dei partigiani norvegesi e dei terroristi».

Uno scaffale occupato solo da due libri, messi in grande rilievo. Carl von Clausewitz, Vom Kriege (1832-1837) e Mao Tse-tung, La guerra rivoluzionaria (1936-1938). «Forse nessuno come loro due ha capito che la guerra è la totalità, la connessione più stretta del particolare con l'universale; ogni soldato in marcia e ogni guerrigliero nella giungla in attesa di aprire il fuoco quali parti organiche del Tutto. Kultur, Tao. Il Tutto è il Vuoto della vita in cui ogni cosa si colloca. Per capire la guerra e dunque per vincerla bisogna conoscere tutto ciò che confluisce nella guerra ossia tutto, le buste paga, la pubblicità televisiva, la curva dei matrimoni, dei divorzi e degli stupri, i pranzi in famiglia, le fiabe raccontate dalla nonna, la fraternità che si crea solo in guerra, il compagno accanto a te – tuo fratello più dei figli di tuo padre e di tua madre, per lui fai quello che non faresti mai per loro, tornare indietro sotto il fuoco per trascinarlo ferito nella trincea.

Sì, la morte, d'accordo – ma la fraternità nella morte, tutti uguali nella morte e dunque tutti fratelli.» Si accende una musica nella sala. «Cimitero di noi soldà / forse un giorno ti vengo a trovare / tapìm tapìm tapùum / tapìm tapìm tapùuum...»

«Ogni morte è una festa della dialettica, Mao Tse-tung. Fiore che muore nel frutto, fiore che morendo fa frutto. Guerra, furia del dileguare. Tutto sta eterno dinanzi allo sguardo di Dio – ricorda, dottoressa Brooks? Sono sicuro che leggerà questo foglio – amaLo in me, per questo istante... È la morte che fa dell'istante una vita, ogni istante è vivo ed eterno come quello che lo annienta – ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum. Il generale Giap inchioda la guarnigione francese e la mette fuori combattimento con attacchi frontali che rompono ogni regola strategica, pochi anni dopo metterà in ginocchio la più grande potenza mai esistita... La guerra è democratica, egualitaria; atterra i grandi cedri del Libano diritti e superbi e convinti di esserlo per sempre... Il Signore, Dio degli eserciti ossia dell'universo, come oggi preferiscono dire i preti. Guerra totale, diceva il generale Ludendorff, ma solo perché la vita è totale. Il pesce mangia il verme, il pescatore pesca il pesce, gli acidi sciolgono il grasso nello stomaco di chi ha mangiato il pesce, chi mangia il pesce presto sarà come il verme. La guerra è Kultur, la Kultur muore e fa frutto nella guerra.»

Sir Basil Liddell Hart: «Lo studio della guerra, considerato come un ramo del sapere, richiede il metodo di lavoro che si segue all'Università, così come l'atteggiamento mentale che colà viene inculcato» (The Ghost of Napoleon, 1933).

«Filosofia della guerra corazzata, Tank Philosophy» (Archivio Luraghi).

Gregor von Rezzori, Un ermellino a Cernopol (1958). Metamorfosi dell'immagine della bella guerra. Dalle file ordinate e perfette delle parate e delle marce al caos scomposto della battaglia alle file nuovamente ordinate e perfette delle tombe nei cimiteri.

Stefano Jacomuzzi, Waterloo: l'epopea impossibile? manoscritto s.d. La battaglia è caos o geometria? I quadrati e le cariche nei Miserabili o nei Cento giorni di Joseph Roth, morte e strage ordinate come le uniformi. Tutto si tiene. Nella Certosa di Parma, come a Little Big Horn nei ricordi di Alce Nero, si conquista senza accorgersene un casolare, ci si ferma a mangiare mentre vicino passano nemici all'attacco o in fuga. Thackeray, La fiera delle vanità: brandelli di notizie arrivano sconnessi in città dal fronte, quelli che arrivano per ultimi superati da quelli che si sono persi per strada e che annunciano il contrario. A El Alamein Ottavio Missoni, mandato a riparare un telefono in un bunker in mezzo al fuoco, torna indietro alle linee italiane; vede un carro armato: «Come on come on», grida il soldato sulla torretta. Cossa te parli inglese, mona», risponde lui che non ha visto la divisa. Quando l'altro gli punta contro il mitragliatore, alza le mani: «Mona mi...».

Era certo un'imperdonabile scorrettezza professionale, Luisa se ne rendeva conto, ma, colta da un improvviso slancio di simpatia per lui e per quel furore che lo dilaniava, non poté far a meno di aggiungere indebitamente in fondo al foglio, imitando meglio che poteva la sua calligrafia – un vero falso – due frasi di Sun Tzu, che lui aveva annotato ma poi cancellato con un tratto di penna: «Non elogiare la vittoria. Non amare la guerra».

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STORIA DI LUISA II



Zia Nora e zio Giorgio - Gershom, quando sarebbe venuto il suo momento, in cui si chiama col suo vero nome chi scende nella fossa - non frequentavano molto, aveva raccontato a Luisa la mamma. Ogni tanto una cena, un dopocena con musizieren; le loro due figlie, sue cugine, suonavano discretamente il violino - oh, niente yidl mitn fidi e altra roba da ghetto, precisava lo zio; musica beffarda e struggente davanti alla vita e alla morte, d'accordo, ma il Dudel - Dudel non fa per noi, non siamo zingari e da noi si suona grande musica classica, da buon salotto triestino di una volta. Sara non sapeva suonare, a Salvore violino e violoncello non sono proprio di casa, semmai la fisarmonica; ma lei amava la musica di quelle sere, diceva anzi che in quella musica c'era tutta la vita.

Anche l'amore non corrisposto, come il mio per la musica, aveva detto una volta. Sì, all'inizio, quando è venuta a stare con noi, era malinconica, aveva ricordato - ma molto più tardi - zia Nora, ma c'era tanta vita in quella malinconia, mentre poi... In quella musica, aveva aggiunto Sara, c'è la legge più profonda della vita. Forse pure dell'amore, zio Giorgio, l'amore è tutto ciò che non si ha, che non ho, anzi l'amour c'est tout ce que l'on n'a pas, me l'ha fatto leggere in un libro la mademoiselle che mi dà lezioni di francese. Gli zii avevano pensato anche a questo, com'era tradizione, senza peraltro rinunciare alle lezioni di tedesco della Fräulein, si capisce, in famiglia si era sempre saputo alla perfezione il tedesco e non sarebbe stato certo un Hitler qualunque a far cambiare loro tradizioni, predilezioni e abitudini. La musica che Sara non avrebbe mai saputo suonare diceva l'essenza stessa della vita, ovvero diceva che quest'ultima non sarebbe mai stata, in quel futuro palpitante e fluttuante come il baluginìo del mare, veramente la sua vita e che per lei vivere avrebbe significato riecheggiare dentro di sé quell'assenza.

Comunque, a parte il musizieren, alle ragazze, a lei come alle cugine, piacevano anche cose più amabili e divertenti, uscire con amici e amiche, incontrare persone, ballare, cosa che è possibile e piacevole anche per chi non sa suonare la musica di quel ballo. Così, quando la signora Preston - la moglie del maggiore Preston, un ufficiale americano del Governo militare alleato che reggeva dalla fine della guerra il territorio di Trieste reclamato dalla Madre Patria e sul quale il maresciallo Tito protendeva avide mani che le vignette dei giornali italiani mostravano come piedi dalle dita tozze e sporche — li aveva invitati a una delle serate nella sua villa di Scorcola, gli zii avevano ringraziato ma declinato, forse perché non avevano troppa voglia di vedere alcuni ospiti che presumibilmente avevano frequentato pochi anni prima altre serate e ufficiali di altri eserciti. Tuttavia le cugine, con una certa amabile prepotenza filiale, avevano ottenuto il permesso dei genitori di accettare l'invito della gentile e giuliva signora e avevano cominciato, ogni tanto, a frequentare le belle ville con vista sul mare e un paio di camerieri in giacca bianca, piacevole brusio di parole confuse nel vento sulla terrazza col tintinnare dei bicchieri e talvolta, per i più giovani, qualche giro di ballo. Non che fossero granché, quelle sere, ma sul mare che si vedeva dalle terrazze si accendevano braci viola e arrivava un vento che, Sara lo sentiva, doveva essere passato per Salvore.

Non si parla della guerra, in quelle sere. Non di quella finita, se si può dire così. Un po' di quelle in Africa o in Asia, che sono lontane e non c'entrano né con i tedeschi né con gli italiani né con gli slavi. C'entrano con i comunisti, che ci sono dappertutto, in tutto il mondo. Un po' di politica, specie locale, visto che gli invitati sono, più o meno, quelli che contano in città; il Territorio libero, le pretese di Tito, le ferite della città mutilata. Ma non ci sono teste calde, su quella terrazza. Neanche sulla terrazza della villa del colonnello Lerch, qualche tempo dopo, una bella villa che il colonnello ha affittato per un paio d'anni sul Carso, perché Trieste gli è rimasta nel cuore e per quegli ufficiali alleati, anche se fino a poco prima nemici, sente una sincera fraternità d'armi. Bastano pochi, pochissimi anni, e non conta più se quella trincea la si è difesa oppure conquistata; in ogni caso, da una parte o dall'altra, con bravura e coraggio. Chi è questo Lerch, aveva chiesto Sara agli zii, domandandosi pure perché trovasse vagamente repellente quel signore compìto, col suo viso banale e le sue labbra dure e vili. Un austriaco, aveva risposto suo zio senza alzare gli occhi dal giornale, il presidente dell'Associazione degli esercenti di Klagenfurt, dove ha anche un bel Caffè. E aveva cambiato discorso.

No, neanche Lerch era stato la causa dell'emicrania. Nemmeno quando Sara, improvvisamente avida di sapere – non capiva ancora cosa, un segugio che fiuta un odore confuso ma irresistibile che comanda di essere seguito – si era messa a indagare chi fosse quell'uomo, quel presidente degli esercenti, che il maggiore Preston e anche altri ufficiali americani e inglesi chiamavano colonnello. Speravo che lasciasse perdere, avrebbe detto più tardi zio Giorgio, ma... Non che molti avessero una gran voglia di parlarne. Anzi. Neanche i suoi zii. Finché Sami Goldfaden, il sarto che era scampato alla Risiera salvando la vita – e, a quanto pareva, a differenza di altri sopravvissuti, pure la lingua e la voglia di parlare – si era sbottonato. Colonnello Ernst Lerch, capo di stato maggiore di Globočnik ovvero del Höherer SS- und Polizeiführer per il Litorale adriatico, boia in capo alla Risiera, addetto a inviare i prigionieri della Risiera alla piccola camera a gas locale o nei campi di sterminio in Germania o a eliminarli personalmente. SS-Hauptsturmführer Lerch, addetto al mattatoio e ora ospitale e ospitato partecipe della dolce vita triestina. Niente di speciale, modesta e piccola ma pur sempre dolce vita di provincia, di una provincia amputata da una cortina di ferro e che cerca di svagarsi in attesa che il sipario si alzi o anche non si alzi, dopotutto si è per fortuna dalla parte giusta del teatro, seduti su belle poltrone davanti al sipario calato a chiacchierare, salutarsi, incontrare conoscenti, come avviene appunto agli spettacoli; complimenti, dice ancora salutando, secondo l'uso triestino di un tempo, qualche signore più attempato.

No, non erano state quelle strette di mano e quei convenevoli tra l'assassino e tante altre persone perbene a inturgidire quella vena che sporgeva talora improvvisa sotto la tempia di Sara. Scoprire che quelle belle terrazze illuminate erano l'altra facciata della Risiera – il salotto buono, di rappresentanza, di quello come di tutti i mattatoi – non l'aveva fatta vomitare; il suo stomaco non aveva reagito al male con quella debolezza dei moti peristaltici che, come del resto le lacrime facili, è propria delle anime troppo delicate per guardare e toccare il male, per pulire se necessario anche con le unghie lo sterco sanguinolento che monta da ogni parte. È facile vomitare; però è anche facile impedirlo, le pillole contro il mal d'auto sono efficaci pure per la nausea delle coscienze sensibili. Lei aveva sputato, quando aveva saputo che un sadico e ottuso boia, un imbecille burocrate dell'assassinio, è una persona come si deve, bene accetto a persone perbene che non farebbero male a una mosca – diciamo, per prudenza, che non hanno mai fatto male a una mosca, perché bisogna vedere cosa avrebbero fatto se si fossero trovate in una situazione in cui è normale spargere insetticidi e non solo sulle mosche.

Aveva sputato; uno sputo forte e ricco di saliva, cosa che non è da tutti in certi momenti.

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Dovrei ricevere una medaglia come resistente, altro che Commissione di epurazione, che ha avuto la sfacciataggine di convocarmi. Resistente ante litteram, ante marcia, quando ero ancora al liceo. Là sotto, in quei cunicoli noi tre ci opponevamo, come potevamo, si capisce, tre giovanotti non è che... Comunque ci opponevamo a quello sventramento che il regime e il suo podestà ebreo chiamavano ipocritamente risanamento. Già, pure togliere di mezzo gli antifascisti e gli slavi, e più tardi gli ebrei, per loro voleva dire risanare. L'olio di ricino, dopo tutto, è una medicina, spurga le sostanze nocive. Dedicherò una sezione del Museo alle evacuazioni forzate, di popoli, di gente, di paesi. Ne ho viste tante... In fondo, pure l'olio di ricino può essere un'arma, infatti lo è stato, dunque lo è... Ma allora anche il manganello, il tagliacarte, la sciarpa con cui quell'americano ha strangolato tante donne, certo più di quante pance abbia potuto bucare in guerra mio cugino Rudy con la sua baionetta, diomio, bucare che cosa poi, lui che si era fatto assegnare alle cucine e l'avrà magari adoperata solo per tagliarsi di nascosto un pezzo di carne... Ma allora, se ogni cosa può essere, è un'arma...

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Tua madre, dice qualcuno, può aver creduto che a tradirla, a denunciarla, fosse stato lo stesso avvocato Radich, l'unico che sapeva, magari per barattare il suo destino con quello di altri che gli premeva di più salvare, o chissà per quali motivi, e così - ma è solo un'idea, un'ipotesi di qualcuno, Sara, niente è certo, quando milioni di uomini vengono bruciati, l'unica cosa certa è che vengono bruciati - e così tua madre ha - avrebbe, si congettura - denunciato l'avvocato e le SS - c'erano pure due ucraini e un italiano - sono piombate in quella casa, trovando i Simeoni, tranne la piccola Ester, e portandoli via e alla morte. Ecco questa è l'unica cosa sicura, che tua madre e i Simeoni sono morti e morti in quel modo. Ed è l'unica cosa che conta. Il resto è solo fumo, come quello uscito da quei camini. E anche se tua madre, in quel momento in cui veniva arrestata per essere uccisa, sentendosi - a torto, sbagliando, ma non per malvagità - tradita avesse perso la testa, l'unica cosa che forse si possa fare in un simile momento, e nel delirio di furore, di vendetta, di paura, di disgusto, di odio per tutti e tutto e anche per sé stessa, se in quella forse inevitabile follia avesse anche... È difficile, quando il male trionfa, non fare il male e tu adesso non devi...

Non doveva cosa, Sara? Non doveva sapere di sapere, doveva brancolare a tentoni, sentirsi svuotare, avere quel mal di testa? Come invidiava quel dono che sembrava dato agli altri, a tanti altri, a quasi tutti; quella capacità di dimenticare, almeno di vivere come se si avesse dimenticato. Buonasera colonnello, sì, i Ravenna erano nostri vicini, forse Lei li ha conosciuti - ma questo non lo si diceva, si diceva soltanto «Buonasera colonnello», il resto neanche lo si pensava. E perché no? Vivere vuol dire sopravvivere, ognuno ha avuto tanti vicini di casa che sono morti, chi in un modo chi nell'altro, e non si sta sempre a indagare o a ricordare in che modo. Anche una delatrice poi assassinata dagli assassini cui ha detto ciò che non doveva dire dovrebbe essere dimenticata, ma anche se gli altri, quelli sempre meno numerosi che il venerdì si trovavano in sinagoga per non far mancare il quorum, l'avessero dimenticata, Sara non poteva, non avrebbe potuto. Cercava di farlo, di stordire quelle immagini e quelle parole che d'improvviso prendevano possesso di lei, assalitori che espugnano la cittadella, innalzano sui bastioni della sua autocoscienza bandiere obbrobriose, disegnano scritte oscene sulle pareti dei suoi lobi frontali su cui si sono arrampicati come le squadre speciali di un esercito.

Lasciava che quella pioggia battente scivolasse sul vetro, finché il rumore sempre uguale si attutiva; no, sembrava attutirsi, era sempre il medesimo rumore, ma così, sempre uguale, finiva per essere un rumore continuo di fondo di cui a poco a poco si cessa di accorgersi, così uguale com'è. Il vetro si appanna, le figure diventano indistinte; spigoli aguzzi si ottundono, ghiaccioli puntuti diventano molli e non fanno più male o almeno non più così tanto. I cani da slitta s'infilano sotto una coltre di neve, che tiene caldo, o almeno così pare, rispetto al gelo acuminato dell'aria. E si vive, bisogna pur vivere. Tirare avanti; mangiare, dormire, lavorare.

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La Storia è tutta una crosta di sangue, grattarla via è ormai impossibile, ma forse sotto quell'escrescenza c'è ancora vita, acqua che scorre, un cuore che ama e non ha paura di Nor Yo Rī, il mostro che paralizza solo con lo sguardo. I Chamacoco dicono che sembra un caimano e vive nei pressi del Fortín Bogado, il luogo da dove non si torna indietro, la palude dell'ignoto e della morte. Sotto l'amaca c'è un cactus purulento che sembra avere occhi, buchi spugnosi e ributtanti, come quelli di Nor Yo Rī; lo chiamerò Hitler, non per nulla sono il più grande nomenclatore di cactus, il Battista delle escrescenze, riconosciuto dalle Accademie di tutta Europa, anche adesso che l'Europa non c'è più. Quel cactus mucillagginoso ha invaso la stanza come l' Opuntia ha invaso l'Australia con i suoi semi e le sue pale spinose, trenta milioni di ettari trasformati in boscaglie irte e sterili. L' Opuntia microdasys ha milioni di spine, milioni di baionette trafiggono l'Europa da parte a parte, il sangue sgocciola via come da un colabrodo; fra poco non ce ne sarà più, la soluzione finale è stata decisa alla conferenza al Wannsee, merito in gran parte di Heydrich, il nostro Reichsprotektor che l'ha voluta con passione particolare, sarà che odia gli ebrei perché a scuola lo deridevano chiamandolo Süss l'ebreo e allora lui per la rabbia di essere stato il capro espiatorio della classe appena ha potuto si è scatenato e ha voluto massacrare tutti gli ebrei, tutti i capri espiatori tutti in una volta, una volta per tutte. Chissà perché non ammazzare tutti i tedeschi, tutti quelli che gli sputavano addosso dicendogli « Süss, Süss»; magari un paio di quegli stessi, belli biondi e stur, hanno fatto parte più tardi della sua guardia del corpo a Praga e lui si è vendicato, senza rendersene conto, nel modo più crudele, facendoli diventare bestie e mandandoli a imbrattarsi di sangue.

Le spine pungono a sangue, ma quando il tino è stato ben ben spremuto non esce più vino, hai voglia a pigiare. Nel Reich millenario non ci sarà più una goccia di sangue, forse già adesso l'hanno spremuto completamente; tutto è secco, marciume secco, umanità disseccata come stoccafissi al sole, congelata come gli insetti incapsulati nella pietra. Per questo vincono, perché non c'è più loro sangue da versare per fermarli; il nostro presidente Hácha continua a correre intorno al tavolino piangendo come quella volta a Berlino, e Hitler e Göring gli corrono dietro col foglio di carta, già tutto bello scritto, resa incondizionata, e la penna perché lui firmi e lui scappa intorno al tavolo e piange e poi firma, avrebbe potuto almeno aprirsi una vena e firmare col suo sangue, è così che si fa col diavolo.

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Che cosa potevano essersi detti, il sergente americano sopravvissuto illeso alle granate tedesche che sembravano piovere lungo la linea gotica sulla Buffalo Division, 92 Infantry Division, il primo reparto formato interamente da soldati afroamericani, e arrivato poi con l'88a divisione nella città adriatica sospesa in un vuoto storico — TLT, Territorio libero di Trieste, Terra di Nessuno, caricatura della storia — e l'ebrea triestina che talora sembrava vergognarsi di essere scampata alle mazze ferrate e alla ciminiera di San Sabba, vergognarsi soprattutto di quella sua adolescenza felice a Salvore, di quel mare e di quel vento e di quel profumo di mare e di pini in cui lei sfrecciava come un gabbiano, mentre dall'altra parte del golfo si levava – chissà, si chiedeva talvolta Luisa, se, aguzzando lo sguardo, lo si sarebbe potuto vedere, probabilmente no, ma... – quel fumo che era anche sua nonna e pure chi era diventato fumo per colpa di sua nonna. Dalle piccole finestre di via Tigor, rivolte verso la collina di San Vito, dove anni dopo il rogo avrebbe scagliato il Museo e il suo demiurgo nell'invertitore, non si vedeva il mare. Sua madre l'aveva scelto – diomio, non è che avesse grandi possibilità di scegliere – perché non si vedeva il mare che da quella sera sulla terrazza con Ester le faceva male guardare. Già, anche lei aveva finito per detestare il mare – per detestarlo ancora più di quanto lo detestasse quell'altro capace di amare solo il ferro e il fuoco, perché lei lo aveva amato più di ogni altra cosa, e si odia più di ogni altra cosa ciò che si è amato e che non si può più amare.

Quella sera sono entrata dal niente nella storia del mondo, pensava Luisa mettendo a posto le carte. Non immaginava, non voleva immaginarsi quella sera, per il pudore dei figli cui disturba pensare ai genitori come amanti e che passano oltre a questo irritante e in fondo poco credibile pensiero; la storia della cicogna, in certi casi, non è poi così stupida. La disturbava pure chiedersi se si erano amati; se si amavano, anche se certi sguardi che aveva colto per caso, come un gabbiano coglie un pesce che guizza sull'acqua, le facevano pensare di sì; tenero sguardo, quasi teneramente canzonatorio quello di lui, un sorriso appena abbozzato, neanche un sorriso, l'attimo prima di un sorriso, una leggerezza per eludere la passione, mentre lei ritraeva lo sguardo dai suoi occhi e fissava un punto lontano, dura, ma una durezza che cedeva, che a poco a poco si abbandonava, le labbra lievemente dischiuse, un bacio a fior di bocca, una dolcezza — severa, sì, ma dolcezza — altrimenti ignota a quel viso.

Il volto del padre poteva talora rivelare una tristezza ancora più profonda, più antica; una storia anch'essa di schiavitù in Egitto e di cattività babilonese, di Galuth, di esilio, che risaliva a tempi remoti e si dilatava in spazi non meno vasti di quelli in cui i figli di Israele si erano sparsi per tutta la terra. Come apparivano sfuocate, banali, rispetto alla faccia nera di suo padre e a quella di sua madre dai grandi occhi obliqui come lune – o anche rispetto allo sguardo affettuoso ma insondabile di zio (prozio, per l'esattezza) Giorgio sotto le folte sopracciglia bianche – le facce degli altri, dei conoscenti che si incontravano in ufficio o a cena, facce di attori ignari che esistano altre parti, nel destino, oltre quelle che stanno recitando, caratteristi ora slavati ora un po' gigioni, maschere di quel teatro del mondo cui si erano abbonati sperando in un posto in palco.

Ecco, sarebbe stata curiosa di sapere che cosa avevano potuto dirsi all'inizio, prima di rendersi conto, o senza ancora volere rendersene conto, di ciò che sarebbe successo, che stava già succedendo. Per fortuna esistono le frasi di circostanza, i convenevoli, le regole della buona educazione, quella lingua asettica e innocua in cui si traducono gli opachi imbarazzi del cuore, anche quando non si è traduttori di professione. Ma parlare, dire la parola che salva... Come potremmo cantare le canzoni di Sion in terra straniera? Lingue tagliate di esuli che hanno in comune solo ciò che loro manca, un proprio posto nel mondo, e che si riconoscono toccandosi nel silenzio e nel buio, come prigionieri in una cella, o nel respiro affannoso per il lungo errare. Dere's no hidin' place down dere, I'm burnim too. Come potremmo cantare le canzoni di Sion in terra straniera? Non c'è posto dove nascondersi, anch'io brucio. Eppure hanno, abbiamo saputo cantarle, pensava Luisa, go down Moses tell old Pharao to let my people go e il popolo se ne è andato per il mondo, spesso inospitale quanto la prigione.

Deep river, il fiume Giordano è largo e profondo, ancora un fiume da attraversare, sempre ancora un fiume da attraversare, la Terra promessa sempre dall'altra parte. Le stesse canzoni, canzoni di tribù perdute, dieci di Israele, innumerevoli d'Africa; non c'è posto dove nascondersi aldiqua o aldilà del fiume e del mare, sotto il sole feroce che espone la preda al cacciatore. Corri negro corri, anch'io brucio, traversata del deserto, il treno blindato corre a Treblinka, il fetore dei corpi ammucchiati e della stagnante nuvola dei loro respiri è già quell'odore acido che avvertiranno fra poco smettendo per sempre di sentirlo un attimo dopo. Il treno della Storia ha un alito cattivo, pure le SS ne sono nauseate, non è piacevole per nessuno, anche se dà soddisfazione vedere come gli ebrei puzzano. Dunque è vero quello che si è sempre detto, adesso che non possono più spandersi unguenti e altre porcherie d'Oriente si vede come sono sporchi, anche quando vengono spinti sotto quelle docce restano sporchi. L'alito non è più cattivo, è vero, perché non c'è più alito che esca dalla bocca ma l'odore di tutta quella massa ammucchiata è disgustoso, per fortuna le squadre sono all'opera e il forno, il fuoco che purifica ogni sudiciume, è subito in azione.

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Mani si stringono, ci si scambia saluti e, quando il calendario lo suggerisce, auguri – Buon anno, Buon Natale, quando dopo un po' ci si conosce meglio magari Buon compleanno. Cosa? Macché auguri di vittoria, chi ci pensa più, acqua passata, adesso siamo di nuovo amici, tutti insieme, alleati. Neanche al colonnello Ernst Lerch – addetto a smistare i prigionieri della Risiera nella piccola camera a gas in loco o in Germania, a seconda dei casi e a seconda dei verbali redatti dalla banda Collotti a Villa Triste dopo le torture, o dalle varie polizie tedesche, Sicherheitsdienst, Sonderkommando, Einsatzkommando – neanche a lui spiace più che tanto che il Führer abbia perso la guerra. Non rimpiange nemmeno la carriera fatta alla Risiera, perché anche nella sua Klagenfurt, dove il Caffè Lerch va a gonfie vele, ha fatto strada ed è presidente dell'Associazione degli esercenti della città. Molto meglio presidente degli esercenti che colonnello; qualche fregola in meno, ma tanti meno rischi. Neppure il conte von Czernin, aiutante di campo di Globočnik, è troppo triste per la sconfitta del Reich. Anche lui è austriaco, figlio di un paese vittima del nazismo.

Dura è la vita in guerra a Trieste, per chi viene ammazzato e anche per chi ammazza, non è un lavoro facile, ma dolce è la vita in pace, si fa per dire, a Trieste nel dopoguerra, e Lerch vi ritorna volentieri. Quei tre begli anni tra il 1947 e il 1950 in una bella villa sul Carso e le serate con quei funzionari e ufficiali angloamericani, anche il colonnello Bowman, primo comandante del Governo militare alleato a Trieste, uomo di mondo, pare abbia un'amante slava e che non gli piacciano troppo gli italiani, specie quando manifestano in strada e in piazza per Trieste italiana, si può capire, tutti fascisti, gli italiani, e adesso servono poco anche contro i comunisti.

Neanche a Lerch piacciono gli italiani, né quelli che hanno tradito il Führer né quelli che sono morti per il Führer e che a Trieste piantavano un po' di grane contro l'Adriatisches Küstenland e pretendevano di reclutare soldati per la Repubblica di Salò e Mussolini. Il conte Czernin sorride e sorride anche il barone Wolsegger con i suoi capelli bianchi e il suo bel pizzo, già equilibrato Regierungspräsident ai tempi dell'Adriatisches Küstenland e soprattutto esperto di saggezza absburgica. Quei ragazzi che manifestano per le strade li fanno ridere, teppistelli ignoranti che scambiano la città fedelissima dell'Impero per la città italianissima inventata da alcuni furbacchioni ebrei.

Nella bella villa di Lerch ci si rivede tutti; il prefetto, il podestà e i due vicepodestà che il barone ha nominato con absburgica sapienza amministrativa, ora non sono più prefetti podestà e vicepodestà ma sempre presidenti o vicepresidenti di qualcosa. Né Lerch né Czernin né Wolsegger né nessuno si scandalizza che qualche persona perbene sovvenzionasse generosamente non solo le casse del governo di quel Küstenland ma anche i partigiani, non si sa mai. Ma chi se ne frega di Trieste e delle sue tristezze. Meglio parlare di Vienna, è un piacere per tutti. Mani si stringono, il sangue rappreso sotto le unghie è sparito da tempo; la Storia, anche breve, è una buona manicure.

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C'è chi parla e chi ascolta... Ascoltare è innocente? «Trieste dev'essere e sarà all'altezza dei compiti che la vittoria le serba», discorso inaugurale tenuto in Sala Littorio il 19 gennaio 1942-XX dal consigliere avv. dott. Cesare Pagnini, illustre studioso di Winckelmann, certo, un galantuomo e anche podestà fascista che nei giorni dello scontro finale darà una mano alla Resistenza. «Da questa guerra, oh camerati, la guerra del sangue contro l'oro, sorgerà la nuova Europa...» È colpa parlare, è colpa ascoltare, battere alla fine di un pranzo le mani anche solo per cortesia, per buona educazione? Come aveva detto Rainer a Miramare? «...il sorgere di una nuova idea europea che dovrà assicurare ai giovani popoli, in piena libera collaborazione, la loro esistenza nazionale e la loro libertà culturale. Noi proclamiamo dunque la nostra fede nel Führer che nell'ora del massimo pericolo è rimasto fedele ai destini dell'Europa, della sua libertà, della sua comunità in cui a ciascun popolo sia assicurato il suo posto.» Triplice saluto al Führer.

Belle parole, che i presenti possono anche ascoltare senza vergognarsi. 20 aprile 1945, compleanno del Führer, Castello di Miramare. Ma dov'è quel quaderno mezzo strappato, dov'è finito, non sarà mica bruciato, dopo tutti gli sforzi che ho fatto... Ecco, quella è l'ultima foto del Commissario supremo Rainer in divisa, dopo qualche giorno ha tagliato la corda, ed è scappato incontro alla sua morte per ora solo differita. Un po' più tardi, un anno dopo, comunque meglio che niente. Ma la foto, quell'altra foto, con tutti insieme dov'è che... Bisogna vedere, riconoscere quelle facce, chi c'era, chi brindava, libertà ai popoli, triplice saluto al Führer, odore di zolfo, fatti avanti, schreckliches Gesicht, questo fumo infernale ti si addice, teatro da quattro soldi del male, fatti vedere, fatevi vedere, le facce, le facce di quella festa di compleanno, di quelle cene, di quelle visite, le foto, qualcuno le ha rubate, sparite. Mi alzerò, devo alzarmi, tutte queste carte e questi mozziconi...

Rinfresco raffinato ma sobrio, a base di pesce, come dice il menu conservato nell'archivio del Castello di Miramare. Il Führer è sobrio, strano che non sia vegetariano; non gli piace che si scannino animali per la sua gola. Accarezza il suo cane lupo, è inorridito che in Cina mangino i cani. Il pesce, lo si può ammettere. Forse neanche soffre, stupido e freddo com'è. Non tutti soffrono ugualmente, non tutti hanno la stessa sensibilità. Il progetto Aktion T4 per l'eutanasia è molto umano; elimina i disabili, gli handicappati, gente che non ha le carte in regola per soffrire come gli altri. Sono le razze superiori a conoscere il dolore, il dolore di creare e di distruggere, di distruggere per creare. I negri, per esempio, soffrono meno dei bianchi. Gli ebrei, meno dei tedeschi. Per questo sembrano spesso così coraggiosi, quando entrano nella camera a gas. Gente sensibile soffrirebbe di più. Non si tratta di paura, noi di coraggio ne abbiamo più di tutti, ma di sensibilità. Anche allo sporco, per esempio. I tedeschi sono puliti, non sopporterebbero la puzza e il sudiciume dei lager come gli ebrei. Anche qui dentro c'è un tanfo...

Dunque il pesce va bene; il generale Esposito, dopo aver esaltato i vincoli di cameratismo tra le forze armate della Repubblica sociale e quelle del Reich, mangia una tartina di sardoni dopo l'altra, come del resto il federale Sambo, che se le merita dopo il suo discorso in tedesco col quale ha rivolto il fervido saluto delle Camicie Nere. Non solo sardoni e sgombri, anche filetti di orata e ombrina. Pescati nel vallone di Muggia, là dove sfocia il patòc, il rio Primario che scende da Valmaura e dalla Risiera. Ma tutto a puntino, controllato a dovere; con tanti nemici nascosti non si sa mai, qualcuno potrebbe metterci del veleno. Nessun pericolo di trovare in mezzo al pesce una tibia o una rotula umana, come è accaduto un paio di volte dopo che le SS avevano scaricato immondizie in mare, immondizie della Risiera. Porcherie di ebrei, magari anche di slavi. Il prefetto porge al Commissario supremo il saluto e l'augurio della nostra provincia.

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