Copertina
Autore Danilo Mainardi
Titolo L'intelligenza degli animali
EdizioneCairo, Milano, 2009, Saggi , pag. 208, ill., cop.fle.sov., dim. 15x21x1,5 cm , Isbn 978-88-6052-215-3
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe scienze naturali , zoologia , etologia , natura , animali domestici , evoluzione , scienze cognitive
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Indice


Per cominciare... un gatto                               11

PRIMA PARTE
La sapienza delle specie e quella degli individui

Protozoi – sapienze innate e acquisite                   29
La sterna stolida e i pesci fuor d'acqua                 33
Due rane speciali                                        39
Una vita da crostaceo                                    44
Se manca il lupo                                         48
Topi, ghiande e ghiandaie                                51
Mimetismi                                                54
L'interruttore degli istinti                             61

SECONDA PARTE
L'intelligenza collettiva

Un individuo cos'è?                                      71
Lo strano caso dei ratti-talpa                           77
Segugi e lupi                                            80
Allevare i figli secondo natura
    (con un'anticipazione sulla nostra specie)           83
Altruismi                                                88
I succhiasangue, quando una ciliegia tira l'altra        93

TERZA PARTE
Cultura, capacità cognitive e altro ancora

La cultura dei topi                                     105
Le tradizioni degli scimpanzé                           114
La didattica delle beccacce di mare                     117
La mente del castoro                                    121
Le capacità cognitive di grilli e ratti                 125
La cognizione del mulo e l'eterosi                      130
La creatività comunicativa degli scimpanzé              135
Le esperienze adolescenziali degli elefanti             138
Gusci, corazze e carapaci                               141
Il polpo e la seppia, c'è dell'altro oltre alla mente   146

QUARTA PARTE
L'evoluzione degli animali nella mente umana

Gli animali cinematografici                             156
Raffaello e Leonardo — il cardellino e l'ermellino
    (o piuttosto era un furetto?)                       172
Pittori animali                                         177
Il kamasutra delle libellule                            186
Lucciole                                                188
Il leone e il suo doppio                                191

... E un gatto per concludere                           197

Suggerimenti di lettura                                 205


 

 

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Pagina 5

                                                        Solo el gato
                                                   apareció completo
                                                        y orgulloso:
                                      nació completamente terminado,
                                   camina solo y sabe lo que quiere.

                                                        PABLO NERUDA

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Pagina 13

L' Oda al gato, con cui questo saggio si apre, non ho mai pensato di tradurla. Mi piace così com'è questa poesia che allude alla sapienza felina.

E, rileggendola, rivado col pensiero. C'era una volta una baracca dove, di primavera, arrivavo coi miei cani d'allora, la Gilda e Felice. Il cuore era leggero. Adoravo essere solo coi miei cani lassù, nell'alto Appennino, immerso in una natura priva di gente umana. Eravamo, i miei cani e io, come una piccola muta vagante. Così vivevamo in quei giorni.

La baracca, o meglio quella piccola casa di legno, era la nostra base. Stava sull'alto Appennino e ogni volta, per me, era quasi un rito prendere subito in mano il disco di Gato Barbieri e, col sottofondo di quella musica, leggere l' Oda che stava scritta sul retro della copertina. Il disco era Bolivia, una musica bella.

Mi affascinava quella poesia. Fuori dalla grande finestra, prima che noi partissimo per le nostre esplorazioni, vedevo le cince saltellare tra le tenere foglie primaverili dei cespugli sotto casa. Sul prato, tra le ultime chiazze di neve sbucavano i primi crochi. Nell'aria sottile risuonava il cucù del cuculo.

Poi si saliva. Ci fermavamo al crinale e da un picco scrutavamo strapiombi misteriosi e verdissimi. Faggete secolari dove immaginavo che mai uomo avesse messo piede, e forse era così. Quasi impossibile, oltre che inutile, arrivarci. E allora, puntuale, mi tornava la curiosità: sarà rimasto, in quelle selve fitte ed esclusive, il gatto selvatico?

Eppure, quando Pablo Neruda compose l' Oda, sicuramente non pensava né al Gato jazzista né tanto meno a quell'altro, il felino selvatico. Pensava al gatto domestico, al micio di casa. Un gatto come quello che illustra la copertina di questo mio libro. E alludeva, Neruda, alla sua orgogliosa autosufficienza, alla sua sapienza quasi esclusivamente innata. Io però, proprio perché quei boschi sono stati il suo ambiente d'elezione, pensavo al misterioso parente selvatico, al Felis silvestris. Animale che, per sua necessità, doveva essere ancor più sapiente e solitario di qualsiasi micio casalingo. E poi più tozzo e scontroso. Dal pelo folto e tigrato, dall'acre odore selvatico. Sterminatore di topi e di arvicole. Terrore degli uccelli e delle lepri. Pescatore.

Che emozione, se mai l'avessimo incontrato.

Mi ripetevo: ce ne saranno ancora? Quasi impossibile vederli, molto più probabile, comunque, essere visti. Con gli occhi della mente l'immaginavo fermo su un ramo, teso in agguato o rilassato a godersi il sole tiepido di primavera.

Il gatto selvatico, sapevo, può spiarci in silenzio, senza produrre, finché si sa non visto, quel suo minaccioso brontolio oppure il soffio della sua paura.

Se sa di non essere visto, infatti, se non sente chiusa la fuga, tace e non si muove. Ma è preparato a farlo, perché è sempre teso a scattar via. E anche questa è sapienza.

Se qualche Felis silvestris ancora esiste, è proprio perché possiede questa sapienza.

È primavera inoltrata, ora, ma sopra i mille metri fa ancora freddo. Immagino le gatte silvestris che si danno da fare a svezzare la loro nidiata. Faccio un po' di conti: febbraio è il tempo dei lamentosi notturni strascicati miagolii d'amore, poi seguono due mesi abbondanti di gravidanza. Le nascite alla fine d'aprile. Sì, ora che è quasi giugno i gattini cominciano a gustare un po' di selvaggina; a fare, sotto lo sguardo attento della mamma-maestra, i primi crudeli ma ludici esercizi predatori. Appena esperti – ci vorrà del tempo – ognuno se ne andrà per conto suo (camina solo y sabe lo que quiere).

E niente più socialità, per ogni Felis, fino alla lussuria dell'inverno tardo. Ogni individuo un territorio, e nessuno può valicarne i confini.

Sanno leggere e scrivere, loro, e i loro confini sono pieni di segnali. Scrittura insieme chimica e visiva. Voi dite, ecco il gatto che si affila le unghie, e magari avete anche un po' ragione. Ma lui più che altro scrive: «Territorio privato, divieto d'accesso». Lo fa, visivamente, con gli artigli sulla corteccia, ma insieme chimicamente, perché lascia messaggi odorosi. Tra i cuscinetti ha infatti ghiandole rilascianti il suo speciale inchiostro felino. Da leggere col naso.

Tozzo animale è Felis silvestris, non come i nostri domestici. E una ragione c'è (una ragione c'è sempre): i domestici discendono da Felis libica, nordafricano. L'Egitto specialmente. Silvestris, invece, è adattato ai climi rigidi, e un corpo massiccio e con brevi appendici il calore lo disperde meno.


Se ho cominciato questo saggio riesumando l'antico ricordo di un gatto che forse ormai nel mio Appennino non esiste più, ma di cui molto mi hanno narrato gli amici montanari di una volta (lo chiamavano gatt puss, gatto puzzolente, per via di quel suo quasi insopportabile odore di selvatico), una ragione c'è. Lui, il gatto, sia il domestico che il selvatico, è infatti un concentrato di tutte le possibili sapienze animali. C'è in lui tanto istinto (la sapienza della specie), tanta capacità di apprendimento individuale e, perfino, un poco di cultura (la gatta insegnante). Ogni gatto possiede una mente sopraffina e soprattutto autonoma. Perché il gatto le cose ama farle da solo, senza bisogno, come i miei adorati socialissimi cani, di quegli «aiutini» che, per loro, sono un qualcosa cui sempre aspirano, prima di mettersi, ma solo se proprio è necessario, a ragionare in proprio.

Insomma, ciò che desidero spiegare è che c'è tanta sapienza nascosta nella natura, tanta intelligenza. Noi però, con la nostra mente imbottita di pregiudizi, questa sapienza spesso non la cogliamo, non l'apprezziamo. E non sono intelligenti solo gli animali più evoluti, come le grandi scimmie, gli elefanti e i delfini, per non parlare appunto del cane e del gatto. Comportamenti intelligenti sanno produrli anche le specie più primitive e più semplici. Esiste infatti, preziosa, la sapienza degli istinti, diffusa in tutta la vita animale e capace di esprimere, e non raramente, risposte sorprendentemente raffinate. Una sapienza che, essendo oltretutto collaudata dalla selezione naturale, è la più adatta per consentire alle diverse specie non solo la sopravvivenza, ma una vita sana ed equilibrata. Salvo, purtroppo, quando interviene l'uomo, l'animale culturale per eccellenza, che proprio perché ha perso quasi completamente l'antica saggezza degli istinti, cioè le istruzioni di base per stare al mondo in equilibrio, può produrre, e in effetti produce, disastri a non finire. Strano animale è l'uomo, e sarà appunto il confronto con le altre specie a raccontarci, e spiegarci, il perché delle sue tante, e talora pericolose, peculiarità.

Seguendo gli itinerari propri della storia della vita e raccontando casi esemplari, siano essi noti da secoli o appena conosciuti, percorrerò l'ampia gamma delle differenti intelligenze naturali. Da quella degli istinti, che è la «memoria della specie», a quella dei singoli individui, che sanno fabbricarsi più o meno piccole sapienze personali, a quella dei gruppi, che si differenziano per tradizioni e dialetti. Dirò poi della sapienza collettiva, propria delle specie più sociali e somma di tanti individuali saperi. Mi piacerà infine soffermarmi su una caratteristica, il voler leggere ovunque «valori simbolici», in cui l'uomo eccelle. Caratteristica che purtroppo ha sempre impedito una comprensione oggettiva, autentica, della vita animale.


Entriamo ora, per approfondire l'affascinante argomento, più nel dettaglio.

L'intelligenza, per certi aspetti, è un po' come l'istinto: la gente comune sa benissimo di che si tratta, mentre gli studiosi non riescono mai a mettersi d'accordo. Il motivo è semplice. Gli studiosi vogliono definizioni precise, che descrivano concetti inequivocabili e soprattutto tali da consentire misurazioni che siano tra loro comparabili. Il che, sia per l'intelligenza che per gli istinti, è quasi un'utopia, trattandosi di fenomeni spesso compositi, e molte volte tra loro interdipendenti.

Partiamo allora dal sentire popolare, per cui l'intelligenza è la capacità di capire, di ragionare, di trarre logiche conclusioni che servano a risolvere problemi pratici e, per la nostra specie, anche teorici. Quanto all'istinto, mi piace definirlo (e sarà anche popolare ma non credo sia poi così sbagliato) come la sapienza, o la memoria, della specie, cioè quell'insieme di risposte prefabbricate (o scritte dentro) che vengono sparate fuori al momento giusto, indipendentemente, o quasi, dall'esperienza individuale. Risposte che pure, ed egregiamente, servono a risolvere problemi. A stare al mondo, in definitiva. E qui si sente, forte, la mano, che è una garanzia, della selezione naturale.

Ebbene, non c'è specie animale, salvo rarissime eccezioni, che, se ci rifacciamo alle definizioni «popolari» date sopra, non possieda almeno una briciola di intelligenza e di comportamento istintivo.

Se affrontiamo il problema in un'ottica evolutiva e, soprattutto, adattativa, istinto e intelligenza sono complementari perché se cresce l'una cala l'altro, e viceversa. In questo senso: le specie più ricche di intelligenza sono povere di istinti, quelle ricche di istinti hanno minori capacità intellettive, e il motivo è facilmente comprensibile. Gli istinti, essendo risposte prefabbricate (memorizzate nel Dna), funzionano bene nelle specie adattate in un ambiente stabile, perché in questo caso i problemi sono quasi sempre gli stessi. È inutile fare individualmente tentativi, passare attraverso possibili errori. Meglio ereditare la soluzione per via genetica. Le specie che vivono in ambienti mutevoli, o che sono colonizzatrici, devono invece essere preparate a risolvere sempre problemi nuovi, non prevedibili. Chiaro che in questo caso gli istinti servono meno. Il che non significa solo essere capaci di apprendere, ma anche avere curiosità, sapere come usare ciò che si è appreso, fare collegamenti, esperimenti mentali e così via (perciò, e per tanto altro, l'intelligenza è un fenomeno composito). Per fare solo un esempio: al koala, che si nutre solo di foglie di eucalipti, non serve assaggiare ogni tipo di foglie per sapere cosa è commestibile, mentre i ratti, che mangiano un po' di tutto, non solo devono assaggiare ogni possibile alimento, ma devono anche imparare a evitare i veleni, ricordandosi di quelle sostanze che li hanno fatti stare male.

Sembrerebbe tutto chiaro, e magari lo fosse, ma non è così. Perché anche il koala ha bisogno – e sto parlando di quello che mangia – di fare una sua speciale esperienza, che inizia e si conclude già mentre beve il latte materno, che profuma di eucaliptolo. È sufficiente ciò per indirizzare il suo monotono comportamento alimentare. Ma uno scienziato può ancora definirlo istintivo quel comportamento così logico, così sensato, così sapiente? Ecco la difficoltà delle definizioni. E anche il ratto, pur apparentemente così libero di comportarsi come vuole, non è privo di istruzioni genetiche. A parte il fatto che le sue tendenze esploratorie, le sue capacità di apprendimento, sono trasmesse geneticamente (sono caratteristiche proprie della specie), anche la diabolica capacità di riconoscere, a posteriori, i veleni, segue tragitti comportamentali, capacità di fare i giusti collegamenti, che sono «scritti dentro». Dunque perfino le qualità intellettive si ereditano, anche se poi lo sviluppo e l'esperienza possono (o meno) fortificarle. Animali geneticamente identici possono, a seconda delle loro storie e dunque delle esperienze che hanno vissuto, divenire diversamente intelligenti.

Ho scritto che praticamente ogni animale può possedere un briciolo di intelligenza. Già certi protozoi sono in grado di apprendere a evitare uno stimolo fastidioso. Si pensa che soltanto i parassiti interni (come il verme solitario), vivendo in un ambiente più d'ogni altro stabile e prevedibile, siano totalmente privi di capacità di apprendimento. Sarà proprio così? Si attendono conferme. L'uomo, notoriamente, è l'animale più povero di istinti (di moduli fissi di attività), seppure non di pulsioni, e, per converso, più ricco di capacità intellettive. Sarebbe comunque errato tentare di fare una gerarchia naturale delle intelligenze. Ogni specie ha infatti sviluppato capacità diverse a seconda delle necessità che il suo stile di vita esige.

Tra le prestazioni caratterizzate dal cosiddetto comportamento intelligente vi è quella di sapere raggiungere un obiettivo, quando l'animale è in qualche modo impedito dalla presenza di un ostacolo. Ciò richiede, com'è ovvio, una prestazione che consideri la necessità di sviluppare un aggiramento che temporaneamente lo obbliga ad allontanarsi dall'obiettivo stesso per poterlo poi raggiungere. Gli scoiattoli sono tra gli animali più abili a risolvere immediatamente tale tipo di problema, detto in termine tecnico detour. È verosimile che tale abilità discenda da necessità adattative imposte dall'ambiente in cui vivono. Gli scoiattoli infatti devono, per quanto possibile, cercare di evitare di scendere a terra dove maggiore è il rischio di venire predati. Così, per raggiungere un obiettivo, per esempio spostarsi da un albero all'altro, sono normalmente costretti a effettuare degli arborei detour.

Intelligente è poi, decisamente, l'uso simbolico di oggetti. Una femmina di macaco (Macaca mulatta), per esempio, grazie a uno speciale addestramento compiuto nell'istituto di zoologia dell'Università di Monaco in Germania, ha dimostrato di riuscire a comprendere l'uso simbolico del denaro. Essa, per essere più precisi, ha appreso a introdurre in una macchinetta automatica degli anelli colorati ottenendone in cambio una certa quantità di noccioline americane o dei pezzi di banana. Attraverso questo tipo di esperienze è riuscita a distinguere sei diversi valori e, durante le prove cui era sottoposta, ha sempre mostrato di preferire gli anelli con il valore più elevato o, per usare le parole di Walter Fiedler, lo sperimentatore, le monete con il maggior potere di acquisto.

Un'altra interessante capacità, mostrata da certe specie, è quella di sapere addizionare quantità numeriche. Molte specie di uccelli e di mammiferi sono dotate di una limitata capacità di contare e pertanto di riconoscere grandezze numeriche diverse, mentre una scimpanzé di sei anni di nome Sheba seppe non solo apprendere a riconoscere i numeri, ma addirittura a compiere semplici addizioni. Sheba veniva portata a spasso per il laboratorio dalla sua addestratrice, Sarah Boysen, dove poteva vedere, in tre luoghi diversi, alcuni oggetti alimentari (per esempio una banana, due noccioline e due zucchine). A questo punto, per ottenere il cibo, Sheba doveva scegliere in un gruppo di carte quella che rappresentava il totale dei diversi oggetti osservati. Le addizioni compiute da Sheba risultavano corrette per l'80 per cento dei casi e ciò anche quando, al posto di vero cibo, venivano utilizzate carte con sopra una cifra, in modo da richiedere all'animale un conteggio su base puramente simbolica.

Io non ho dubbi: percorrere la storia evolutiva delle intelligenze è un viaggio avvincente che non solo spiega la vera diversità, pregi e difetti, della nostra specie, ma che ci permette anche di scoprire, e apprezzare, quella pluralità di sapienze su cui la vita stessa si fonda.

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Pagina 39

Due rane speciali

Credo che lo sappiano proprio tutti, o almeno lo spero, che le rane depongono lunghe teorie di uova, che la fecondazione è esterna, che nascono girini e che questi poi si trasformano in ranocchie. Ce lo spiegano alle elementari e questa è la regola generale. Non poche però sono le eccezioni e una assai bizzarra è quella della piccola rana australiana Rheobatracus silus. Questa ranocchia, che vive solo in una zona limitata nel Sudest del Queensland, rappresenta il primo esempio, scoperto nel 1974, di uso dello stomaco quasi fosse un utero. Ed effettivamente durante l'eccezionale gravidanza si assiste a modificazioni dei tessuti stomacali tali che davvero si può parlare di una temporanea conversione di quell'organo in qualcosa d'analogo a un vero e proprio utero.

La straordinaria scoperta – dicevo – è piuttosto recente, e solo da poco tempo si è potuta avere una documentazione soddisfacente della riproduzione di Rheobatracus.

Un po' di queste piccole rane sono state catturate, mantenute in acquario, e così si ha avuto la possibilità di seguire, in tutte le sue fasi, il comportamento fino al parto.

E parto, forse, non sarebbe nemmeno la parola più adatta, trattandosi di anfibi. Forse sarebbe meglio usare il verbo «vomitare», che pure non è un granché, ma c'è chi l'usa. Fatto sta che mamma rana effettivamente, quando giunge il momento, vomita i suoi figlioletti, che non sono più girini, ma piuttosto piccolissime ranocchie.

E si tratta – racconta chi ha assistito a questo strano parto – di un vomito piuttosto robusto, dato che i neonati vengono sparati dalla bocca fino a sessanta centimetri di distanza. Un parto-sputo coi fiocchi, dunque. C'è da dire che questo esplosivo partorire sembra essere, in verità, piuttosto inusuale, perché ha luogo solo se la madre è un po' agitata. E la cattività in acquario certo non giova alla sua tranquillità.

Più spesso accade, invece, che mamma rana se ne stia tranquilla a bocca aperta e che le minuscole ranocchie, da venti a trenta, se ne escano loro, senza particolari aiuti d'origine materna. Sarebbe questo, insomma, il parto naturale.

A ogni modo, non voglio dire solo del parto-vomito, perché tutto il ciclo riproduttivo di Rheobatracus risulta essere assai istruttivo. Partiamo dunque dalle uova che, dopo essere state fecondate, vengono ingoiate dalla madre. E qui, nello stomaco, farebbero una gran brutta fine, se si trattasse di una specie normale. Sarebbe oltretutto cannibalismo. In Rheobatracus però durante questa sorta di gravidanza la madre «sa» (la sapienza degli istinti) che deve smettere di nutrirsi. Ogni funzione digestiva scompare perché, come si è detto, lo stomaco si trasforma in utero. Così, in questa imitazione di utero, i girini fanno la loro metamorfosi «al coperto», e crescono e crescono finché riempiono talmente tutto lo spazio disponibile che perfino i polmoni non sono più utilizzabili (le rane, anche questo dovreste saperlo, possono usare la respirazione cutanea). E si muovono pure, quei ranocchietti: attraverso la sottile pelle materna è persino possibile vederli scalciare.

Dirò ora di un'altra rana assai speciale, Pipa pipa. Anzi, per sorprendervi un po' (e lei è davvero sorprendente) attaccherò così.

Sogno o son desto? Vedo tante finestrelle, quasi degli oblò, non ordinati in due o più file come quelli delle navi, ma un'area intera tutta fitta di aperture, e da queste finestrelle circolari sbucano manine, oppure musi minuscoli dagli occhi furbi e neri.

Questo è quello che vedo sott'acqua, un panorama incredibile ma vero. Dagli oblò fuoriescono, sforzandosi, piccole rane che subito si mettono a nuotare, in formazione, vicino a mamma. Mamma e figli, ranocchiette complete ma minime, vivono insieme per un po' e poi le piccole, le figlie, se ne vanno ciascuna per suo conto. E, se saranno fortunate, un bel giorno anche loro, le femmine sopravvissute, faran come mammà. Si trasformeranno cioè in rane porta-oblò.

Ciò che ho descritto con un po' di fantasia – ma neanche troppa – è il cosiddetto parto (siamo alle solite) della rana Pipa pipa, detta anche rana del Surinam. Anche in questo caso, come in quello di Rheobatracus, se per parto intendete la prima fuoriuscita di un piccolo dal corpo materno, allora parto può andar bene anche per le piccole rane del Surinam; se invece sottilizzate sul «da dove escono», allora no. Allora è meglio stare sul generale e dire nascita, perché quelle mica nascono da una vagina o da una cloaca. Da una schiena nascono.

Così stanno le cose (comincio ora dall'inizio): all'accoppiamento il maschio sta, per ore e ore, avvinghiato saldamente alla schiena della femmina, sul fondo di un ruscello; frattanto la pelle del dorso della femmina si ispessisce formando una sorta di cuscinetto. Poi, sempre stando uniti, i due anfibi si staccano dal fondo e nuotano un po'. È durante questo nuoto che le uova, uscite dalla cloaca femminile, vanno rotolando fin sulla schiena-cuscinetto. È qui che il maschio, che ha allentato un po' la presa, le feconda.

Poi hanno inizio le vere, sapienti «stranezze». A questo punto infatti le uova sembrano come infossarsi nella pelle che, crescendo lentamente, si solleva e le attornia inglobandole in cavità cupoliformi. Quanto agli oblò di cui dicevo, e cioè le aperture delle cupole, per una lunga fase dello sviluppo restano chiusi da opercoli derivanti dalle membrane delle uova stesse, mentre infine sono le ranocchiette che, sapientemente agendo dall'interno, li aprono. È allora che le si può ammirare sporgersi per prender, per la prima volta, conoscenza del mondo. E non è, davvero, uno spettacolo da poco.

Prendere conoscenza del mondo, veramente, è soprattutto un modo di dire, anche se non sbagliato, perché nella realtà il loro sporgersi ha anche altri scopi. Le ranocchiette infatti sono ancora ospiti di mamma ma, protendendosi all'esterno, catturano piccole prede. Ciò inizia, però, solo due mesi dopo che le uova si sono invaginate nell'accogliente e spessa pelle materna. E ancor prima c'è una lunga trafila da percorrere, quella che di solito gli anfibi fanno in libertà: la loro vita da quasi-pesci, cioè da girini. Per le rane del Surinam, però, niente libertà se si è girini. Vita da pesci sì, ma solo «in scatola».

Sono stato, fin qui, molto descrittivo ma poco esplicativo. Mi piace così, e mi pare che, tutto sommato, funzioni: prima raccontare quel che avviene, poi affrontare la questione del perché. E qui, in queste due peculiari ranocchie, di «stranezze» di cui dar conto ne avvengono parecchie. E «stranezze» non da poco. C'è però un punto di convergenza tra i due casi, e proprio ciò consentirà la spiegazione.

In entrambi i casi, infatti, i girini, quelli cioè che rappresentano la fase pre-metamorfosi, se ne stanno tutti sempre ben nascosti, acquattati o nello stomaco materno, nel caso dei piccoli Rheobatracus, o nelle comode cellette cutanee, in quello delle piccole Pipa. E perché mai? Chiaro: perché sarebbe troppo pericoloso per i singoli girini, e troppo rischioso per la specie, lasciarli vagare liberi nell'acqua. Troppi predatori acquatici nelle acque dove si sono evolute le due specie.

Così le ingegnose soluzioni, tutte in funzione di un'intelligente strategia antipredatoria. Lunghi lavori adattativi d'un'evoluzione che ha avuto il tempo e le strutture per metterli in atto, modificando fisiologia, morfologia e comportamenti. Un raffinato «disegno intelligente», come oggi si suol dire pensando ad altro, frutto però soltanto dell'opera della selezione naturale. E di tantissimo tempo. Quanto al risultato, o meglio ai risultati, sono fantastici perché poi tutto quadra, tutto poi ha un senso, a cominciare dalla femmina di Rheobatracus che, per il periodo in cui lo stomaco funziona da utero, smette di cibarsi, alla nuotata di coppia di Pipa maschio e femmina, a tutto il resto. La pelle cioè che s'ispessisce, le uova che s'invaginano, le metamorfosi nascoste, quegli anfibi ragazzini che sporgono le loro mani delicate per procurarsi il cibo... Tutto, insomma. Ed è proprio questa la sapienza della specie, una sapienza sì inconsapevole, ma calibrata all'ambiente e perciò perfettamente adatta alla sopravvivenza perché garantita dal collaudo antico e sempre valido della selezione naturale.

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Insomma, nelle altre specie c'è tanto istinto e, talora, un pizzico, o talora un po' di più, di cultura. In generale però la sapienza è più istintiva che non appresa. È perciò che tutto funziona sempre alla perfezione.

Per tornare alla nostra specie, c'è da dire che le istruzioni di origine culturale per l'allevamento della prole non solo hanno scavalcato, necessariamente eliminandola, l'antica sapienza degli istinti, ma hanno preso strade diverse scollandosi spesso da quelle indicazioni che avrebbe potuto suggerire la semplice osservazione dei comportamenti. Basta pensare ai bambini che, fino a non molto tempo fa, per tutto il primo anno venivano fasciati come mummie; basta ricordare le istruzioni date alle giovani coppie. Il neonato doveva dormire da solo, e se strillava bisognava lasciarlo fare. Prenderlo in braccio, come quella motivazione che mai ci ha abbandonato spingeva a fare, significava «viziarlo». Eppure – ora sappiamo – quel pianto altro non era che una richiesta di aiuto, naturale, in quanto adattativa, per ogni cucciolo che si sente abbandonato. Ora, se non altro, non è più così, ma anche oggi i bambini non sono allevati bene. Se così fosse, non ce ne sarebbero tanti affetti da disturbi psichici. Disturbi del sonno (incubi o paura di addormentarsi), dell'alimentazione (anoressia o bulimia), dell'apprendimento. Oppure enuresi, iperattività, stereotipie.

Il fatto è che i bambini, come tutti i cuccioli, hanno attese biologiche che non possono impunemente venire deluse. Si è molto parlato di periodi sensibili che cadenzano lo sviluppo intellettivo, sociale e affettivo umano. Anche se ora l'idea di periodi omologhi all' imprinting classico è un po' decaduta, o almeno si è sfumata, resta pur sempre il fatto che i bambini dovrebbero passare attraverso esperienze sociali che nelle grandi linee sono biologicamente programmate. Perché ciò avvenga devono crescere entro gruppi familiari stabili e molto presenti, fisicamente e soprattutto affettivamente. Che poi questi gruppi siano monogamici, poligamici o ancora più complessi e allargati, poco importa. E i bambini devono fare, all'interno di questi gruppi, esperienze ludiche, esploratorie, acquisire pian piano sicurezza e autonomia. Apprendere individualmente e socialmente. Tutto ciò avviene nelle popolazioni più primitive, dove la madre e il padre sono genitori attenti e partecipativi, dove ogni bambino dispone di molti contatti corporei, dove la didattica è ancora una cura parentale, al più utilmente integrata dall'apporto di altri membri del gruppo (altro che maestro unico!). Ma che succede nel mondo ritenuto progredito?

Ed è giusto – come purtroppo avviene – occuparsi quasi esclusivamente di curare, a posteriori, le crescenti patologie comportamentali e non di sforzarsi per cambiare, a priori, lo stile di vita che le provoca? Certo è più semplice, forse (nonostante tutto) meno costoso. Il problema è che nelle culture cosiddette avanzate la moderna gerarchia dei valori è tale per cui altre attività prevaricano il valore primario delle cure parentali. Possibile che occorra l'antica cultura naturalistica per comprendere tutto ciò? Dovrebbe essere ovvio ma purtroppo non lo è per niente che non basta, i bambini, rimpinzarli di merendine e poi sbatterli, abbandonati a se stessi, davanti al televisore.

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La soluzione del dilemma, credo, sta in una constatazione di carattere evolutivo. Quando delle specie si trovano di fronte a un identico problema il più delle volte, soprattutto se non ci sono alternative valide, lo risolvono raggiungendo soluzioni che, almeno nel risultato, si assomigliano. I delfini, per fare un esempio classico, pur essendo mammiferi hanno evoluto una forma idrodinamica simile a quella dei pesci, risolvendo così il problema del muoversi bene e velocemente nell'acqua. Ebbene, lo stesso ragionamento non può che valere anche per le cosiddette menti degli invertebrati che, per le caratteristiche di volta in volta studiate, semplicemente somigliano (ma di analogia si tratta, non di omologia) alle menti dei vertebrati superiori.

Dato che stiamo discutendo di menti, o presunte tali, tra loro assai diverse e avendo stabilito, in prima istanza, che quella di una scimmia, oppure quella di un elefante, di un corvo, di un'ape o di un polpo, proprio perché provenienti da tragitti evolutivi separati e indipendenti, non possono, assolutamente, essere «la stessa cosa» ma, piuttosto, «cose diverse» caratterizzate semplicemente dal fatto di sapere risolvere certi comuni problemi, merita ora affrontare una curiosità che, singolarmente, in noi è spessissimo presente. E cioè: è possibile fare una «gerarchia di qualità» delle differenti menti che ormai conosciamo?

Quale sarebbe, in altre parole, l'animale più intelligente? Perché è questo, in realtà, ciò che alla gente comune, soprattutto, piace sapere. E sappiamo anche quale sarebbe la risposta che a noi umani piacerebbe ottenere.

Consentitemi, allora, di ragionarci un po' su.

Secondo me è fondamentale quanto abbiamo appena stabilito, e cioè che le diverse menti provengono da tragitti evolutivi separati e indipendenti, e che nel percorrere questi tragitti si sono andate affermando, per selezione naturale, quelle differenti proprietà che, nelle varie specie, sono state essenziali per la loro sopravvivenza. Faccio un semplice esempio. Per animali per cui è importante farsi tesoretti alimentari celati per i tempi magri, come le ghiandaie, le nocciolaie, gli scoiattoli e così via, essenziale è l'abilità di ricordare (detto volgarmente «tenere a mente») una quantità enorme – centinaia – di nascondigli. Ebbene, le ghiandaie e le altre specie «nasconditrici» questa capacità la possiedono e, da questo punto di vista, le loro menti sono decisamente superiori a quelle di tutti gli altri animali, uomo incluso. Ecco: se noi dessimo un'importanza primaria proprio al saper tenere a mente centinaia di nascondigli, indubbiamente le ghiandaie si piazzerebbero, in quella ipotetica classifica, assai meglio di noi.

Non ci sembra, però, molto importante quella capacità? È vero: dal nostro punto di vista non lo è, ma proprio qui sta il punto. Dal nostro punto di vista è così, ma da quello delle ghiandaie? Chiaro dunque che, qualsiasi tipo di classifica volessimo fare, questa sarebbe sempre e comunque influenzata, se non addirittura determinata, dal punto di vista di chi la fa. Non sarebbe, cioè, mai totalmente obiettiva. Per noi, in altre parole, sono importanti certe qualità mentali, per altre specie meno, o niente del tutto. Ed è per ciò che non le hanno evolute.

In questi ultimi anni, per fare un altro esempio, si è molto dibattuto sulle capacità che certe specie potrebbero avere di usare una grammatica e una sintassi di tipo umano. Lo sanno fare, forse, un po' gli scimpanzé, ma solo se addestrati, le orche, ma solo un pochino, e invece molto, pensate un po', gli storni. Che potrebbe significare questa strana distribuzione delle capacità grammaticali? Secondo me significa che soltanto per un sistema comunicativo come il nostro è essenziale il valore aggiunto della grammatica e della sintassi. Alle altre specie, salvo forse agli storni (ne ho parlato ampiamente nel mio Nella mente degli animali), probabilmente non serve a niente ed è perciò che questa capacità non fa parte del loro bagaglio mentale. Esattamente come al nostro bagaglio mancano certe straordinarie capacità della mente delle ghiandaie, dei pipistrelli e così via.

Conviene perciò rassegnarci. Voler a tutti i costi fare la classifica delle intelligenze è come voler farne una dove dovrebbero organizzarsi, in un'unica gerarchia, un ciclista, un maratoneta, un pugile, un nuotatore, un giocatore di pallacanestro... Non sarebbe una cosa seria.

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