Copertina
Autore Stefano Malatesta
Titolo Il Grande Mare di Sabbia
SottotitoloStorie del deserto
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2001, I narratori delle tavole , pag. 304, dim. 140x214x24 mm , Isbn 978-88-7305-760-4
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe viaggi , paesi: Egitto
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Indice


 1.  Il Grande Uomo di Niafounqué, lo sceicco
     bianco e gli spiriti del Niger             11

 2.  Un tè con il dandy                         33

 3.  Il Grande Mare di Sabbia e un paziente
     non tanto inglese                          45

 4.  Asceti, anacoreti, monaci, eremiti         79

 5.  Il monte di porfido riflette bagliori
     rossastri                                  97

 6.  Alla ricerca dei mangiatori di tuberi
     nel luogo che non c'è                     115

 7.  Il 'Sahara Express"                       129

 8.  Il piccolo principe tra i tuareg          145

 9.  Matera, le oasi, e il bagno nelle foggara 155

10.  Lo Scatolone di Sabbia e gli italiani
     brava gente                               173

11.  Vladimir non aveva mai visto un deserto   227

12.  «Paura di morire? È di sposarmi che ho
     sempre avuto paura»                       237

13.  Il più grande libro sul deserto che sia
     mai stato scritto? Forse                  253

14.  La carica di Winston e le quattro piume   269

15.  Il beduino che portava le scarpe di Lobb  281

 

 

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Pagina 79

4.
Asceti, anacoreti, monaci, eremiti



Come quasi tutti i monasteri copti, anche quello di Sant'Antonio del Deserto, in Egitto, ha l'aspetto di una cittadella sahariana fortificata, difesa da torri e da alte mura color ocra che da lontano non lasciano vedere nulla al loro interno, dando l'impressione di chiuso e di caserma. Il deserto è sempre stato un luogo portentoso per tutte le religioni, dove sono avvenute rivelazioni impensabili altrove, perché la smisuratezza dello spazio vuoto induceva ai pensieri più arditi e quello che fantasticavano alcuni, non conoscendo limiti, si gonfiava e si innalzava, prendendo forme smisurate, destinate a cambiare il mondo. Queste rivelazioni non erano per tutti e si presentavano dopo che gli eletti avevano dimostrato di poter superare prove tremende e di non cedere ai mostri generati dalla loro paura. Ma ai comuni monaci, che non erano aiutati dalla fantasia e nemmeno tormentati da angosce escatologiche, il deserto appariva per quello che era, fonte di pericoli reali e non immaginari: un territorio senza legge, né pietà, in mano ai predoni e ai briganti, molto più determinati e letali di tutti i mostriciattoli che potevano uscire dal subconscio e molto più concreti. E se una comunità voleva darsi un insediamento, prima pensava a costruire una linea difensiva e poi agli ambienti interni. E anche i poveri pastori circondavano con siepi di rami dell'acacia spinosa le loro miserande capanne perché gli scorridori del deserto non facevano prigionieri.

Avevo letto una considerevole quantità di libri su questi monasteri. Sapevo che erano stati costruiti a partire dal quarto secolo, che il loro numero si era moltiplicato in modo straordinario per tutto l'Egitto, che san Gerolamo aveva detto: «Nel deserto sono sbocciati i fiori di Cristo» e molte altre cose ancora. Ma tra tante notizie storiche, dati anagrafici, biografie degli eremiti, non avevo trovato una risposta a una domanda che mi aveva incuriosito fin dall'inizio. Non era stato un formidabile paradosso, di solito ignorato dalle storie canoniche della Chiesa di Roma, che nel momento in cui il cristianesimo aveva trionfato, un numero crescente di fedeli si fosse rifugiato nel deserto a purificare la loro anima con la rinuncia e la solitudine? Fino a qualche decennio prima il modello del perfetto cristiano era stato un altro, di genere molto più eroico e combattivo, un soldato di Cristo mosso da un'incontenibile e assoluta fede che lo predestinava alla vittoria finale anche se finiva i suoi giorni nelle arene, o sulla croce. E adesso che Pan era morto, come aveva gridato tristemente quella voce quando una barca era passata davanti alla costa di un'isola greca, c'era chi aveva fatto della mortificazione del corpo e apparentemente anche dello spirito l'unica risposta possibile al messaggio evangelico. E la fama dei santi anacoreti e monaci era diventata così grande, che venivano in pellegrinaggio a cercarli dall'Italia, dalle Gallie e da più lontano ancora. Ma Cristo aveva insegnato un'etica fatta di ascesi e di null'altro?

Ripensandoci bene, allora queste domande scivolavano via dalla mente con grande rapidità. Avevo scelto di dormire a Hurghada, un Lido di Ostia lungo trenta chilometri, in uno qualsiasi dei grandi alberghi della costa e la mattina mi svegliavo presto, andando a respirare la brezza impregnata della salsedine del Mar Rosso, che arrivava da un Sinai immerso in un orizzonte bluastro. Poi correvo o passeggiavo lungo la spiaggia deserta, con gli ombrelloni di paglia chiusi e la sabbia perfettamente passata al rastrello, ancora senza impronte, prima che arrivassero i bagnini tutti imbambolati a fumarsi una sigaretta con i piedi a mollo nell'acqua. Quando ero sicuro che i miei poveri neuroni avessero ricevuto sufficiente ossigeno per qualche ora, ritornavo nella mia stanza e quaranta minuti più tardi ero pronto per il deserto. Ricordo che lungo la strada il mare cambiava continuamente colore e si incontravano spiagge bianche e solitarie, luoghi incantati il cui splendore è rimasto per pochi attimi negli occhi e poi in quella memoria alla quale ci rivolgiamo nei momenti più difficili.

Costruito dopo la morte del santo dai suoi discepoli in un luogo chiamato el Galala el Qiblya, il monastero è naturalmente cambiato nei secoli, ma non molto, alimentato dalla stessa sorgente che continua a dare cento metri cubi d'acqua al giorno. Se la vita di Antonio è stata descritta come una serie di fughe, qui si è conclusa l'ultima sulla terra e spero per lui che nel posto dove si trova ora la sua irrequietezza abbia trovato quello che cercava. Aveva iniziato la vita di anacoreta in un'antica necropoli abbandonata, sconfiggendo i demoni che lo perseguitavano ed era passato nel deserto del Medio Egitto già lontano dal Nilo, sistemandosi in un forte abbandonato tra le montagne, dove rimase per venti misteriosi anni, senza che nessuno riuscisse a vederlo. Questo nascondersi non fece che accrescere la sua fama: fu raggiunto dai discepoli impegnati a non mollarlo, diventò notissimo e ricercato anche come taumaturgo. All'età di cinquantotto anni, il carismatico uomo di Dio, che più fuggiva la celebrità più se la trascinava dietro, trovò la forza di fare un altro balzo. Seguendo quello che gli dettava una voce, si uni a una carovana di nomadi e in tre giorni raggiunse una sorgente del gebel el Galala, da dove non si muoverà più.

I testi dicono che è stato il primo anacoreta della storia del cristianesimo, così come san Pacomio che si era ritirato nella Tebaide, un'altra area desertica vicino all'odierna Luxor, è considerato il primo monaco. Anacoreta è una parola che viene da anachóresis, che in greco sta a indicare una separazione: separazione dal mondo, dalle vanità, ma anche dagli affetti del secolo. Spinto da un desiderio profondo di pace, il cristiano autentico abbandona tutto e si spinge nel deserto per incontrare Dio e restare con lui in solitudine. Monaco viene da mónos, solitario e monastero è la casa del solitario, anche se sono in mille. E già il fatto che questi, come altri termini, áskesis, ascesi, koinóbion, vita in comune, siano stati creati e usati al di fuori del cristianesimo e in epoche precedenti a quella dei primi eremiti egiziani, ci fa capire che il fenomeno non è mai stato di esclusiva pertinenza della Chiesa di Cristo. Abbiamo sempre degli antenati e credere che il monachesimo sia nato in Egitto e di qui si sia propagato in tutto il mondo è solo una forzatura storica.

Presso i pitagorici, i cinici, gli stoici, i neoplatonici e in genere presso quelle che vengono chiamate culture pagane la ricerca dell'isolamento per incontrare deità superne in luoghi desolati è stata una pratica comune. L'India non ha conosciuto l'ascesi monacale dai tempi di cui non si ha più memoria? E gli esseni, una comunità tante volte paragonata alla comunità cristiana, non vivevano in edifici che per struttura e organizzazione assomigliano molto alle abbazie medievali, come sappiamo dai famosi rotoli di papiro trovati nelle vicinanze del Mar Morto? Gli stessi monaci cristiani avevano dei modelli ai quali si ispiravano. «I romani hanno Camillo, Regolo, gli Scipioni, i filosofi hanno Socrate, Platone e Aristotele. Noi abbiamo Elia, i figli di Rechab, che non bevevano birra o vino e abitavano sotto le tende...», ha scritto Gerolamo. L'unico elemento nuovo è stato forse un maggior distacco dalle cose terrene, una fuga mundi in senso anche materiale e non solo spirituale, come veniva predicando la Chiesa.

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Pagina 173

10.
Lo Scatolone di Sabbia
e gli italiani brava gente



Un'asciutta mattina di novembre, appesantito da troppi bagagli, due grandi valigie e una borsa riempite di libri, sono partito per Tripoli, nemmeno due ore di aereo da Roma. E se avessi potuto, mi sarei portato dietro ancora altri libri, perché sono affetto dalla sindrome dell'archivio: ho bisogno, in ogni momento, di leggere subito, sul posto, tutto quello che è stato scritto di un qualsiasi argomento che mi occupa la mente. Soprattutto le note. Una forma malsana di conoscenza che fa di me non un vero viaggiatore, ma un bibliotecario in trasferta.

Ero già stato in Libia due o tre volte, l'ultima nel 1985, quindici anni prima. E proprio all'aeroporto di Tripoli avevo vissuto uno dei più curiosi e veramente imprevedibili momenti che mi siano capitati nel mio lavoro di giornalista. C'è però bisogno di una premessa che non piacerà a tutti, perché va a ledere uno dei pochi miti rimasti quasi intoccati in Italia: quello degli italiani "brava gente". Più di altri popoli, noi siamo pronti all'autodenigrazione, al vilipendio del nostro modo di essere cittadini, democratici, contribuenti, soldati, organizzatori e lasciamo perdere i poeti e i navigatori. Infatti basta attaccare in coda a questi termini la precisazione "all'italiana" e immediatamente tutto quello che dovrebbero avere di buono viene annullato e volge al peggio. "All'italiana" è quasi sempre un marchio negativo, oggetto dei nostri commenti sarcastici, con qualche eccezione: il calcio, il cibo, i vestiti e una volta il cinema.

Non bisogna fidarsi di questa tendenza all'autodenigrazione, che ha aspetti schizofrenici. Perché quegli stessi italiani pronti a stracciarsi le vesti, poi non cambierebbero mai paese dove vivere. E perché mai? Inoltre in Italia, non so quando e non so come, forse con il cinema neorealista dopo la seconda guerra mondiale - prima il regime non lo avrebbe permesso, il duce ci voleva tutti cattivi - è nato un mito come forma di compensazione alla insufficienza di qualità civili. Noi avremmo in abbondanza, in tutti gli strati sociali, una qualità rara e nobile, spiritualmente superiore che qualcuno, Dio, la provvidenza, il caso, ci avrebbe insufflato nell'anima come risarcimento dei vistosi difetti: la bontà, o se la parola vi sembra troppo inzuccherata, l'umanità. Gli italiani sono assolutamente convinti di essere "brava gente".

Questa convinzione include anche la nostra storia coloniale. Noi saremmo stati colonizzatori diversi, molto più portati a fraternizzare con i locali di altri popoli europei (soprattutto con le donne), più alla mano e assolutamente incapaci di azioni indegne. Infatti, quando in tutto il mondo uscì Il leone del deserto, un film interpretato da Anthony Quinn, che raccontava la vicenda di Omar el-Mukhtar, uno dei capi della resistenza libica, fatto impiccare da Graziani, l'Italia fu percorsa da un'ondata di sdegno contro questo kolossal finanziato da Gheddafi. Come si permettevano? Gli italiani brava gente non potevano aver commesso tutte quelle infamie mostrate nel film e mandato senza ragione alla forca un vecchio stanco e ferito. Mentre la Francia aveva trattato come un eroe il capo della resistenza berbera nel Marocco, Abd el Kader, dopo averlo sconfitto e fatto prigioniero.

Anch'io mi ero indignato, come quasi tutti, non sapendo che il film forse era stato al di sotto della verità storica per quanto riguardava il comportamento dei nostri truci generali (i libri di Angelo Del Boca dovevano ancora uscire). E qualche tempo dopo venni mandato dal giornale a Tripoli, perché gli americani, in una delle loro inconsulte ritorsioni, avevano bombardato la città con lo scopo evidente di seppellire Gheddafi sotto le bombe mirate. Ma già allora, come avverrà anni più tardi in Serbia, le bombe che non potevano sbagliare, si sbagliarono, anche di molto e per poco non saltò in aria tutta l'ambasciata francese. I morti furono numerosi, tra i quali la figlia adottiva di Gheddafi, un lutto che non contribuì a rasserenare i rapporti tra la Libia e gli Stati Uniti. All'aeroporto di Tripoli c'era una grande agitazione e nei locali semilluminati ronde di miliziani con i kalashnikov andavano e venivano nervosissime, come se attendessero da un momento all'altro lo sbarco dei marines (ricordate le parole dell'inno degli americani: «From the hills of Montezuma, to the shores of Tripoli...» Nei primissimi anni dell'Ottocento i marines erano già sbarcati sulla coste della Libia e in teoria avrebbero potuto farlo di nuovo).

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Pagina 190

Cercai di ricordare le descrizioni del deserto lasciate dai primi esploratori europei, dai grandi viaggiatori del passato e da quelli che lo avevano attraversato prima dell'era dell'automobile. Mi sembrava, a memoria, che fossero tutte segnate dall'orrore e dal terrore. L'estasi veniva riservata alle oasi, dove si arrivava stremati, ma ancora vivi, grati di essere scampati ai predoni, al caldo, alla sete e stupefatti di tutto quel verde. Ma mi potevo sempre sbagliare e così qualche giorno più tardi andai a tirare fuori dalla libreria tutti i libri di viaggi nel deserto che avevo, ed erano numerosi, cominciando dai classici come il Voyage a Tembouktou di René Caillié. Il francese era stato uno dei primi europei ad arrivare a Timbuctù, e con gli anni il suo racconto della traversata del Sahara era diventato un genere molto imitato: sofferenza e perseveranza del bianco indomito che non si arrende mai davanti alla natura impietosa e alle persecuzioni degli uomini. Era sbalorditiva la tenacia di quest'uomo che tremebondo per la febbre e coperto di piaghe continuava a scrivere il suo diario e a disegnare schizzi su un percorso tragico, raccontato come le tappe di un calvario. Perché il deserto, dove aveva dovuto subire gli sputi e gli oltraggi che i credenti riservavano a un cane infedele, gli si era presentato come una maledizione di Dio. Qualcosa di paragonabile all'inferno.

Anche gli altri, da Sven Hedin a Friedrich Hornemann - sto parlando dei deserti dell'Africa e dell'Asia -, da Dixon Denham a Heinrich Barth, gente che era scappata di casa per viaggiare, non avevano fatto altro che imprecare contro quelle che una sarcastica viaggiatrice inglese aveva definito «una maledetta duna dietro l'altra», parlando dei grandi erg nordafricani. E nell'Asia centrale gli Uiguri avevano chiamato Taklamakan, una parola che significa "impasse", trasformata poi in "se entri non esci", l'immensa pianura gibbosa attraversata dal fiume Tarim, una spettrale contrada dove la temperatura può scendere d'inverno fino a -35 gradi centigradi e d'estate ribolle fino a 50. E quando, tra le undici e mezzogiorno, si alzava il buran, un vento che arriva ai duecento chilometri l'ora, le carovane scomparivano sotto una tempesta di sabbia e di ghiaia, lasciando poche tracce. Mentre di notte nel deserto vagavano le anime maligne, tormentando i temerari che erano riusciti ad arrivare in luoghi così remoti e misteriosi. È stato qui che Marco Polo disse di aver sentito voci di spiriti che lo chiamavano in disparte.

Passai ore a sfogliare libri che raccontavano di marce della sete, di pozzi inquinati, di disperazioni e di atti di eroismo, senza riuscire a trovare una sola frase che stesse a indicare non un'attenzione, ma un qualsiasi riferimento alla bellezza di questi luoghi desolati, almeno per tutto l'ottocento, il secolo delle esplorazioni. Ma con il ventesimo secolo era nata una nuova sensibilità, erede o compartecipe della wilderness, che apprezzava la natura selvaggia e incontaminata: una sensibilità di genere nordico, perché i greci antichi e gli italiani di tutti i tempi hanno sempre detestato quello che era spontaneo e fuori misura, non regolato dalla mano potatrice e ordinatrice dell'uomo. E io sapevo dove le sabbie dell'Arabia erano state innalzate da una mistica laica a oggetto di contemplazione estetica: nella prosa a quattro dimensioni dei Sette pilastri della saggezza. T.E. Lawrence aveva capacità letterarie talmente superiori a quelle di tutti quelli che lo avevano preceduto, da imporre subito la sua visione del deserto intessuta di un lirismo epico, molto diversa da qualsiasi altra del passato anche per un'altra ragione. Durante tutta la durata della rivolta araba, non ci fu un solo Lawrence, ce ne furono due: l'agente inglese che aveva il suo ufficio al Cairo, all'Arab Bureau, e che curava gli interessi dell'imperialismo inglese. E, al di là del canale di Suez, El Orens che guidava i beduini all'attacco dei treni turchi e occasionalmente prendeva Aqaba. In un saggio polemico questo comportamento potrebbe far parte di un capitolo intitolato Lealtà divise, ma qui siamo più alla buona e vorrei solo sapere: da che parte stava quando raccontava bugie ai suoi amici arabi? O quando scriveva I sette pilastri? Dicono che l'ambiguità sia una dote letteraria. Non sarei così sicuro, ma il libro di Lawrence è una prova a favore.

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Pagina 210

L'Acacus di Fabrizio Mori

La mattina presto, quando il sole deve ancora sorgere, l'Acacus rimane invisibile sotto il cielo che non è mai veramente nero, ma turchino e l'unica cosa da fare è mettersi accanto al fuoco a riscaldare le ossa immobilizzate dal gelo della notte. Poi l'aria comincia a vibrare, i fondali dietro le montagne schiariscono, rivelando i profili smerlettati delle cime, sempre più netti sotto la luce diventata rosa e poi arancio, emergono i giganteschi pinnacoli isolati nella pianura, gli archi immensi, i pilastri megalitici e improvvisamente il paesaggio, che pochi minuti prima era annegato nel buio, appare ora popolato da fantastiche formazioni nate dagli sconvolgimento tellurici e trasformate dall'erosione. È una visione che sembra appartenere ai sogni o ai racconti delle fiabe, in cui si avverte, più che in qualsiasi altro luogo, il senso del remoto e della sospensione del tempo, dell'attesa dell'imprevedibile e del meraviglioso, come se qui non valessero le regole e le abitudini del mondo reale, ma di quello fantastico.

Il gebel (arabo per montagna) o tadrart (in tamascek, la lingua tuareg) Acacus non ha l'andamento di una normale catena di montagne, ma di un labirinto, con il versante verso Ghat chiuso e inaccessibile e quello che guarda ad est aperto e frastagliato, interrotto da canyon a loro volta attraversati da altri canyon e da uadi o sbarrati da gigantesche torri di arenaria che si sono ossidate all'esterno, mantenendo un colore più chiaro e più caldo all'interno, visibile nelle frane recenti. Lungo duecentocinquanta chilometri e largo cinquanta, è quasi completamente privo di vegetazione, eccettuate poche acacie spinose, i cui arbusti vengono manducati dai dromedari delle piccole carovane di passaggio e dagli asini selvatici. Quando piove, molto raramente, le sabbie fertilissime del deserto si ricoprono di una effimera peluche verdognola e quello che rimane delle acque, non avendo la forza di riempire gli uadi e renderli pericolosi, come succede in altre zone, finisce nelle ghelte, cavità irregolari della montagna, preziosi depositi per i tuareg. Ma diecimila anni fa qui non c'era il deserto, ma la savana e senza sognare di un verde lussureggiante, crescevano alberi e piante sufficienti per sostenere una popolazione animale diversificata tra predatori e predati, leoni, sciacalli, giraffe, bufali, struzzi, antilopi, e per consentire la presenza di una non sappiamo quanto numerosa popolazione umana, che dipendeva dalla raccolta di piante e radici e dalla occasionale, incerta e pericolosa caccia alle bestie selvatiche. La testimonianza di questa presenza, che è durata millenni e cioè fino a quando le condizioni climatiche lo hanno consentito, è sparsa su un numero incredibile di siti dell'Acacus, in aree riparate lungo i letti fossili dei fiumi ed è costituita da resti umani, da pietre lavorate o da terracotte frantumate, ma soprattutto da migliaia di incisioni e pitture.

Tra gli innumerevoli testi che avevo già letto prima di partire per la Libia, oltre quelli che mi portavo dietro, c'era Le grandi civiltà del Sabara antico, il saggio di Fabrizio Mori su questo meraviglioso complesso figurativo e artistico paragonabile al ciclo delle pitture rupestri degli aborigeni australiani nella Terra di Arnhem e alle grotte di Altamira in Spagna e di Lascaux in Francia. Ancora non sapevo che la via dell'Acacus passava per Trequanda, uno di quegli incantevoli paesi sparsi nelle colline tra Sinalunga e Montepulciano, circondati da boschi che danno al paesaggio un'intensità variabile con le stagioni, prima di arrivare alle crete della val d'Orcia. L'africanista (preferisco questo termine al più accademico paletnologo) si era ritirato da oltre venti anni a due o tre chilometri dal paese, in un casale che si trovava a poca distanza dal villaggio toscano dove passavo numerose settimane durante l'anno.

 

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Riferimenti


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Maillart, Ella "Kini", Oasis interdites
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    Venezia 1550
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