Copertina
Autore Tomás Maldonado
Titolo Critica della ragione informatica
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1997, Campi del sapere Società
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe filosofia , informatica: sociologia , informatica: politica , scienze tecniche , architettura
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al sito dell'editore








 

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Indice

  7 Prefazione

 11 1 - Ciberspazio, uno spazio democratico?

 14 Teleputer
 19 La comunità virtuale
 22 Democrazia diretta o indiretta
 27 La rete senza centro
 31 La ragnatela e il labirinto
 34 Democrazia diretta e autonomia
 42 Repubblica elettronica
 48 Populismo e populismo informatico
 52 Identità e molteplicità di ruoli
 58 Persona e identità on line
 63 Un gioco?
 64 Democrazia e frammentazione del Sé
 67 Plasticità individuale e
    turbolenza sistemica
 75 L'uso on line del linguaggio
 81 Altre modalità di comunicazione
    on line
 85 Sapere individuale e sapere sociale
 88 Sull'opulenza informativa
 91 Conclusione

 93 2. Telematica e nuovi scenari urbani

 95 Scomparsa delle città e dei grandi centri?
 97 La città come configurazione comunicativa
100 Infrastrutture materiali e immateriali
103 Un "grande sistema tecnologico"
105 Telematica e lavoro
110 Vantaggi e svantaggi
112 Le categorie del telelavoro
116 Telematica e popolazioni metropolitane
119 Occupazione e mobilità spaziale
122 Metropoli tra esclusione e inclusione
127 Teledidattica come telelavoro
129 Problemi dell'interattività a distanza
133 Libro elettronico vs libro cartaceo

136 3. Corpo umano e conoscenza digitale

139 Consapevolezza del corpo
141 Artefatti e corpo protesico
143 Naturale-artificiale
147 Dall'opacità alla trasparenza del corpo
150 Oltre l'occhio nudo
154 Medical imaging e il rapporto reale-virtuale
157 Spazio reale e spazio virtuale
159 Percezione e locomozione
164 Virtualità e modellazione scientifica
167 Corpo e visione: il caso del colore
171 Colore e doppio binario
176 Colori e visione artificiale

179 Bibliografia
207 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 7

Prefazione

Questo non è un libro contro le nuove tecnologie informatiche, e neppure contro la prospettiva di una società altamente informatizzata. Il fatto che io prenda le distanze, senza mezzi termini, dall'ottuso conformismo e dall'euforico trionfalismo oggi dilagante nei confronti di quelle tecnologie, e del loro eventuale impatto sulla società, non deve trarre in inganno: nulla mi è più estraneo che un atteggiamento di pregiudiziale diffidenza sul ruolo della tecnologia. Mi auguro che la mia ormai lunga traiettoria di studioso (e di educatore) nel campo della progettazione di oggetti tecnici mi ponga al riparo dal sospetto che la mia posizione abbia qualcosa da spartire con una sorta di tecnoscetticismo camuffato.

Detto questo, io sono profondamente convinto che le tecnologie, se si vuole tutelare la loro carica innovativa, devono restare sempre aperte al dibattito delle idee. Disposte a esaminare (e riesaminare) non solo i loro presupposti fondativi, ma anche, e forse in primo luogo, i loro rapporti con le dinamiche della società. Ma tutto ciò, si sa, cozza apertamente con gli interessi di coloro che non vogliono turbare la quiete del giardino informatico. Chi non è a favore, sentenziano i ciberpoliziotti del pensiero, deve tacere.

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Pagina 11

l. Ciberspazio, uno spazio democratico?

Vi è oggi una speranza, assai cliffusa in alcuni settori della nostra società, che le teletecnologie interattive e multimediali possano contribuire a un drastico spiazzamento del nostro presente modo d'intendere (e praticare) la democrazia. Si confida che queste tecnologie siano in grado, in sé e per sé, di aprire la strada a una versione diretta, ossia partecipativa di democrazia. In questo modo, si argomenta, sarà possibile superare le debolezze, le incoerenze e le finzioni, tante volte denunciate, dell'attuale impianto parlamentare e rappresentativo della democrazia.

Ancora una volta, dunque, alla tecnologia viene assegnato un ruolo taumaturgico nel risolvere questioni di fondo della nostra società. E' un fatto che merita attenta considerazione, non soltanto per le implicazioni di carattere teorico che suscita, ma anche per gli interessi concreti che mobilita.

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Pagina 17

[...] Se prendiamo, per esempio la comunicazione via Internet è chiaro che l'utente è libero di decidere con quali persone o cose vuole mettersi in contatto. E ciò per il semplice motivo che, come dicono i promotori del servizio in rete, everyone and everything is on the net.

Bisogna tuttavia intendersi su questa conclamata possibilità di assoluto libero accesso alla rete. Si tratta di un punto cruciale, nell'odierno dibattito sul rapporto informazione-democrazia. Perché una cosa è la possibilità di un libero accesso all'informazione, tutt'altra la probabilità che i cittadini possano farne uso. La possibilità di stabilire contatto con everyone ed everything può essere tecnicamente (e legalmente) garantita, ma non significa che ciò effettivamente accada. E questo per due ragioni.

In primo luogo, perché un universo di accesso omogeneamente disponibile solleva, per forza di cose, il problema dei vincoli soggettivi di accesso, vale a dire dei vincoli che gli attori stessi si pongono in consonanza con i propri valori, credenze e preferenze, senza escludere i pregiudizi che da questi derivano. Non si cerca senza sapere ciò che si vuole trovare e dove trovarlo. Il che, nei fatti, implica una scelta di detertninati obiettivi e itinerari e una conseguente rinuncia ad altri.

In secondo luogo, vi è il problema delle limitazioni esterne della nostra libertà. Malgrado ci venga assicurata quella che Isaiah Berlin chiama la "libertà negativa", ossia, nel nostro caso specifico, l'"assenza d'interferenza" nell'uso della rete, l'effettiva probabilità di godere di tale libertà è minima.

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Pagina 20

Ecco perché le comunità virtuali si configurano come punti di ritrovo (o di rifugio?) in cui si coltivano soprattutto le "affinità elettive".

Personalmente, nutro forti dubbi che da un tipo di comunicazione come questa si possa ricavare un sostanziale arricchimento della vita democratica. Le comunità virtuali, in quanto associazioni che derivano da una libera e spontanea confluenza di soggetti con unanimi vedute, sono comunità con scarsa dinamica interna. Per il loro alto grado di omogeneità, tendono a essere decisamente autoreferenziali. E non di rado si comportano come vere sette, in cui l'esacerbazione del senso di appartenenza conduce, nei fatti, a escludere qualsiasi differenza di opinione tra i suoi membri. E' il fenomeno intravisto da A. de Tocqueville nella sua penetrante analisi della vita democratica negli Stati Uniti: "Gli americani," scrive, "si dividono con grande cura in piccole associazioni molto distinte per gustare a parte le gioie della vita privata. Ognuno di essi vede con piacere che i suoi concittadini gli sono uguali... io credo che i cittadini delle nuove società, invece di vivere in comune, finiranno per formare piccoli gruppi".

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Pagina 47

Abbiamo già tentato prima di stabilire quali siano le somiglianze e le differenze tra il sistema comunicativo vigente generato dal televisore e quello, in procinto di nascere, generato dal teleputer. Credo di aver dimostrato che esistono le discontinuità, ma anche le continuità. E che queste ultime, nell'ottica dei problemi che stiamo discutendo, sono tutt'altro che secondarie. Personalmente, ritengo che molte delle critiche che sono state rivolte, in questi ultimi cinquant'anni, ai media tradizionali valgono per gli attuali new media."

Vorrei citare un saggio di G. Sartori (1989) "che a mio parere è molto indicativo in proposito. In questo testo, il politologo italiano fa una lucidissima analisi di ciò che egli chiama il "videopotere". Egli allude, in particolare, al potere politico (e culturale) della televisione. Tuttavia risulta piuttosto chiaro che la stragrande maggioranza dei rilievi critici che egli fa alla televisione possono essere trasferiti, senza forzature, al teleputer. Sartori, per esempio, denuncia il mito che la televisione, abbattendo tutte le barriere, favorirebbe la nascita del "villaggio globale". In realtà, il villaggio globale non sarebbe, contrariamente a ciò che credeva McLuhan, un villaggio che diventa globale, ma piuttosto un globo che diventa villaggio, un globo composto di "una miriade di piccole patrie". In breve, il globalismo nasconderebbe il localismo.

Questa osservazione, vera per la televisione, lo è ancora di più per lo scenario che si presume globale di un ciberspazio generato dal teleputer. Un altro esempio: la tendenza della televisione, secondo Sartori, alla tecompressione, ossia a far scomparire, per mancanza di tempo, l'inquadramento e la spiegazione dei fatti presentati, come dimostra il ricorso, tra l'altro, alle frasi a effetto sempre più brevi (sound bite) e la limitazione (fino all'eliminazione) delle "teste parlanti" (talking heads). Questa tendenza la ritroviamo anche, e con caratteristiche ancora più acute, in tutte le forme di comunicazione legate al teleputer.

Populismo e populismo informatico

A parte la natura rozza o sofisticata, tecnicamente arretrata o avanzata, delle versioni più frequenti di repubblica elettronica, rimane il fatto - insisto - che esse hanno molte cose in comune. Una di queste, forse la principale, è che tutte rendono tributo, in un modo o in un altro, a una concezione populista della democrazia.

Non c'è dubbio che nei discorsi sulla democrazia ,cor in rete è sempre presente un esplicito richiamo ai valori del populismo. Ma il populismo, si badi, non va visto come un corpo di dottrina unitario. A dire la verità, esistono almeno tre grandi tradizioni populiste: quella del farmer statunitense, quella dell'anarchico russo e quella del caudillo latinoamericano. Fra queste tre è alla prima, per ovvie ragioni, che si deve attribuire una diretta influenza sull'ideale politico del ciberspazio.

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Pagina 52

Ora, a ben vedere, il problema vero (il più attuale) non è tanto l'elitismo quanto il populismo. Sull'elitismo ormai sappiamo tutto (o quasi). Sul populismo invece alcune ulteriori precisazioni sono necessarie. Ho cercato di mostrare che l'aspetto più saliente di ogni populismo è la connaturata tendenza a credere che i cittadini siano, nelle loro scelte, infallibili. In pratica, tale atteggiamento porta di solito all'esaltazione demagogica di ciò che si chiama la "gente".

Ma l'idea di gente non è affatto neutrale. Chi invoca la gente pensa soprattutto a coloro che, in linea di massima, potrebbero confermare (o legittimare) le proprie opinioni, non a quelli che ad esse sono avversi. In questa ottica, la gente s'identifica prevalentemente con coloro che appartengono alla propria nazione, località, razza, classe, religione o genere, oppure con coloro che condividono la propria ideologia o partito. Non mi sembra eccessivo dire che il populismo, con il suo retorico appello alla gente, è anche, in ultima analisi, una forma di elitismo, perché include certa gente e ne esclude altra.

Il populismo informatico non è un'eccezione. Ma ciò che talvolta fa credere che lo sia è il suo modo, occorre ammetterlo, molto particolare di rivolgersi alla gente. Il populismo informatico si dichiara al servizio di tutta la gente, senza esclusioni di sorta. Ma la verità è un'altra. Nel fragore di una sedicente comunicazione universale telematica, è l'idea della gente intesa, anche qui, come la "mia gente" che s'impone.

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Pagina 66

In poche parole, il sistema della modernità avrebbe in sé gli anticorpi per scongiurare i propri effetti collaterali perversi. Alla tendenza alla "disaggregazione' (disembedding) si contrapporrebbe una tendenza alla "riaggregazione" (reembedding) e gli impegni impersonali (faceless) cederebbero il passo agli impegni personali (facework). Giddens non è invero molto esplicito su come, in pratica, questa autoregolazione spontanea si verificherebbe. Non c'è dubbio che la globalizzazione in atto ha fatto emergere dappertutto, come è noto, virulente reazioni localiste, ma dedurre da questi (o simili) eventi una legge sul comportamento sistemico della modernità mi sembra un'idea piuttosto azzardata.

Comunque sia, l'analisi compiuta da Giddens, per certi versi assai vicina a quella di Gergen e Lifton, è di sicuro molto aderente alla realtà che tutti abbiamo sotto gli occhi. In questo, i seguaci della democrazia diretta on line si affrettano a vedere una clamorosa conferma delle loro tesi. In un mondo globalizzato, in cui il valore delle istituzioni e dei luoghi e l'identità delle persone appaiono seriamente minacciati, la comunicazione via rete sarebbe quella che meglio corrisponde alle esigenze di un mondo così configurato.

C'è qualcosa di vero in questo, ma ciò che non è vero in assoluto è che la comunicazione via rete non possa avere altro compito che quello che le viene assegnato, ovvero il compito di contribuire, e sempre di più, a disaggregare le istituzioni, a smarrire i luoghi e a vanificare l'identità delle persone.

Plasticità individuale e turbolenza sistemica

Può essere utile, a questo punto, riprendere il tema dell'identità (o meglio: della non identità), un tema che, come abbiamo già segnalato, è centrale nelle escogitazioni dei teorici del ciberspazio. E' stato giusto rilevare, come hanno fatto Gergen, Lifton e Giddens, che la società moderna, nei suoi più recenti sviluppi, si delinea come un potente generatore di mutamenti che, di fatto, possono destabilizzare l'odierno assetto cormplessivo dei ruoli.

Si sta oggi palesando che, soprattutto nelle categorie definite culturali e sociali, alcuni ruoli che si credevano insormontabili vengono sostituiti da altri che, appena dieci anni fa, erano sconosciuti. Un fatto questo che, come s'intuisce, riguarda direttamente la dinamica dell'identità delle persone. Sicché, non è un fatto che va discusso in astratto, ma nel contesto tutt'altro che astratto di quella turbolenza sistemica tanto peculiare dell'attuale fase del capitalismo. Una turbolenza i cui effetti si fanno sentire a livello di macrosistema, ma anche, e io direi innanzitutto, a livello degli individui. Una turbolenza che viene a mettere a soqquadro i parametri di riferimento (e orientamento) delle persone, a scombussolare le loro certezze esistenziali, a mettere ulteriormente in dubbio il diritto (da sempre, invero, assai illusorio) di costruirsi la propria biografia nel "mondo della vita".

Ma quali sono le cause di un simile stato di turbolenza? Esse sono ovviamente molte e della più svariata natura. Tra queste, per il discorso che stiamo svolgendo, due soprattutto mi sembrano le più rilevanti: da un lato, la scelta strategica di una globalizzazione forzata in cui il capitalismo, in un contesto concorrenziale surriscaldato, insegue l'ambizioso disegno di stabilire, con relativa indifferenza per i costi sociali, un dominio planetario, dall'altro le sempre maggiori difficoltà che scaturiscono dall'impatto destabilizzante delle nuove tecnologie, in specie quelle laborsaving, sul mercato del lavoro nazionale e internazionale.

Due fattori che hanno contribuito a mettere drammaticamente allo scoperto ciò che, non da ieri, si sapeva: nel mondo moderno l'identità della persone è sottoposta, e lo sarà sempre di più, ai mutevoli vincoli e condizionamenti del mercato del lavoro. Perché nella nostra società, volenti o nolenti, il mercato del lavoro tende a configurarsi come un vero e proprio mercato delle identità. In questo, occorre ammetterlo, Marx non ha avuto torto. Sicuramente, la sua idea, per dirla in breve, che dietro la mercificazione delle cose ci sia sempre la mercificazione degli essere umani, l'idea insomma della "reificazione" (Verdinglichung), sembra avere una sua definitiva conferma.

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Pagina 72

Ma perché in una democrazia è importante conoscersi e conoscere gli altri? Perché laddove ciò non avviene la democrazia ne soffre? Una risposta può essere cercata in alcuni schemi interpretativi contenuti nella teoria dell'agire comunicativo di J. Habermas. Nella sua complessa teoria, derivata da una rivisitazione critica di Peirce, Weber, Bühler, Schütz, Wittgenstein, Austin e Searle, il filosofo tedesco distingue tra un "agire strategico" (strategisches Handeln) mirante all'influenza o al successo (erfolgsorientiert) e un "agire comunicativo" (kommunikatives Handeln) mirante all'intesa (verständigungsorientiert).

Per Habermas, quest'ultima modalità d'azione è fondamentale nella vita democratica. In sostanza, egli sostiene che una democrazia, se vuole restare tale, deve non solo tutelare ma anche promuovere un particolare agire comunicativo pubblico, un agire che privilegia la deliberazione razionale, soprattutto in quei casi in cui più attori sono chiamati a decidere su questioni di fronte alle quali, in partenza, non c'era accordo. D'altro canto, però, l'intesa che l'agire comunicativo di Habermas rincorre va ben al di là del contingente. Infatti, egli ipotizza uno scenario in cui i parlanti, "grazie alla comunanza di convinzioni motivate in modo razionale", riescono a superare "le proprie concezioni dapprima soltanto soggettive" e "si accertano insieme dell'unità del mondo oggettivo e dell'intersoggettività del loro contesto vitale". Questo scenario evoca una situazione ideale, giacché i parlanti dimostrano di essere ormai in possesso di quella "competenza comunicativa" essenziale in un'etica democratica del discorso.

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Pagina 74

Come si vede, tanto in Schütz come in Habermas, emerge con chiarezza che un ottimale agire comunicativo suppone l'esistenza di un ambiente in cui gli attori hanno la possibilità di interagire con il (o in funzione del) loro quotidiano "mondo della vita". In pratica, ciò significa, a mio parere, alcune cose molto specifiche: a) che gli attori possano agire in compresenza fisica e in reciproca visibilità; b) che gli attori possano pubblicamente esporre, senza timori o apprensioni di sorta, le motivazioni personali che sono alla base di loro giudizi o scelte; c) che ci siano le condizioni in grado di assicurare a tutti gli attori partecipanti le stesse opportunità - in termini, per esempio, di tempo messo a disposizione - per esprimere le proprie opinioni e argomentare in difesa delle proprie idee.

Certo, questo è un modello ideale di agire comunicativo democratico. Nella realtà non tutti questi requisiti potranno essere allo stesso tempo e nella stessa misura rispettati. Ma una cosa è fuor di dubbio: un siffatto modello, pur in una versione meno ambiziosa, si situa agli antipodi del modello di comunicazione interpersonale on line. In quest'ultimo si negano la presenza fisica e la reciproca visibilità, si nasconde la propria identità e un'equa opportunità di espressione è difficilmente verificabile.

In apparenza, la comunicazione interpersonale on line, per la sua reale (o presunta) natura diretta e indipendente dalle istituzioni, potrebbe essere reputata, e non pochi lo sostengono, come il primo tentativo di contrastare, per dirla con Habermas, la "colonizzazione" da parte del sistema sociale del "mondo della vita". Insomma: per la prima volta il "mondo della vita' avrebbe trovato un suo adeguato mezzo di comunicazione.

Si tratta però di un'apparenza ingannevole. Per le ragioni prima addotte, nella comunicazione interpersonale on line siamo davvero a un grado zero del "mondo della vita".

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Il risultato di codesto riduzionismo stenografico non è una maggiore concisione nel pensiero, neppure uno stile espositivo più limpido e sobrio, ma soltanto un depauperamento dei contenuti referenziali. Gli interlocutori si trovano sommersi da un profluvio di acronimi, di "faccine", di abbreviazioni e di neologismi. Il fatto curioso è che questo sistema di simboli, presentato come un nuovo espediente comunicativo, è in prevalenza al servizio di messaggi di una trivialità e vuotaggine esasperanti.

Il che non deve stupire. Le costruzioni gergali, si sa, quando vanno oltre certi limiti, non favoriscono ma ostacolano una libera e proficua comunicazione. E ciò per due ragioni: a) perché il gergo funziona come contrassegno di appartenenza a un dato gruppo, congregazione o setta, insomma: come un "lasciapassare" iniziatico, e pertanto concorre di fatto a rendere sempre maggiore il distacco tra coloro che sono in possesso del gergo, ossia gli inclusi, gli ammessi, e coloro che non lo sono, ossia gli esclusi, i non ammessi; b) perché il gergo si configura come un fattore di autocompiacimento e di autolimitazione. Di solito i suoi cultori non riescono a sottrarsi al fascino nominalista insito in ogni gergo, ossia la tentazione di credere che basta nominare diversamente le cose per conoscere le cose. Senza rendersi conto, peraltro, che dietro la pirotecnica dei nuovi termini si nascondono spesso vecchi concetti ormai scartati, in quanto anacronistici, dal pensiero scientifico o filosofico. Questi equivoci esercitano un'influenza negativa sugli studi relativi alla conversazione on line. E anche, ciò che è più importante, sul modo in cui questa viene praticata.

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A questo punto, mi accorgo che sono necessarie ulteriori precisazioni. Esse riguardano, per esempio, in quale misura sia vero l'assunto che più informazione è uguale a più sapere e più sapere, dal canto suo, uguale a più potere. In apparenza: la domanda può sembrare meramente retorica, giacché una risposta positiva sarebbe in ogni caso scontata. Eppure le cose non sono tanto semplici. E' difficile mettere in dubbio, perché troppo ovvio, che il potere richiede (e presuppone) il sapere. Ciò nonostante, l'ipotizzata catena di transitività (più informazione = più sapere; più sapere = più potere) ha un anello debole. Mi riferisco alla prima equazione. Personalmente, sono persuaso che questa, a differenza della seconda, non è convincente. La crescita del sapere non si può spiegare solo in termini di crescita dell'informazione. Anzi, come vedremo più avanti, l'aumento del volume complessivo dell'informazione circolante si configura talvolta come un fattore negativo per un approfondimento del sapere. Ciò che si guadagna in estensione, si perde in spessore.

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Conclusione

A causa di quest'ultimo giudizio, e di molti altri precedenti, mi espongo al rimprovero - ne sono pienamente consapevole - di avere una visione troppo prevenuta verso le nuove tecnologie nella società democratica. La verità è che la mia circospezione riguarda esclusivamente i fumosi scenari che prefigurano l'avvento di una società in cui, grazie al contributo appunto delle nuove tecnologie - e solo grazie a tale contributo -, sarebbe possibile realizzare l'antichissimo sogno di una democrazia genuinamente partecipativa. E per di più: planetaria. A mio parere, questo non è uno scenario credibile. Vi sono fondate ragioni - e alcune credo di averle fornite - che lo dimostrano.

Ma perché mai, mi chiedo, si continua, contro ogni evidenza, a proporre scenari di questo genere? Una spiegazione forse esiste. In un mondo in cui tutte le visioni ideali sul nostro futuro sono state messe in fuga, il capitalismo cerca oggi affannosamente di occupare gli spazi lasciati vuoti. E lo fa ricorrendo, come era prevedibile, a un'ambiziosa "metanarrazione". In essa si annuncia, tra l'altro, l'arrivo imminente della "repubblica elettronica". Una repubblica che, in quanto altamente informatizzata, si configurerebbe - ci assicurano - come la più democratica delle repubbliche.

Allo scopo di pubblicizzare tale scenario, le grandi multinazionali dell'informazione e della comunicazione hanno messo in opera un'efficientissima macchina di consenso politico-culturale e commerciale. Nulla di strano dunque che un considerevole numero di persone, in particolare nei paesi industrializzati, siano oggi portate a scambiare un ingannevole miraggio ideologico con la realtà.

Nondimeno, la mia posizione critica su questi sviluppi non scalfisce minimamente il fatto che le nuove tecnologie siano in grado, in specifici settori, di concorrere a migliorare la qualità della nostra vita e ad aprirci fruttuosi canali di partecipazione democratica. Lo abbiamo già segnalato nel caso dei servizi pubblici, dell'informazione scientifica e della didattica, e lo vedremo ancora nei prossimi capitoli.

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2. Telematica e nuovi scenari urbani

Accanto alla questione, già discussa nel capitolo precedente, di un ciberspazio che si vuole accreditare come spazio democratico ideale, esiste anche la questione, non meno controversa, di un ciberspazio che si propone come spazio urbano ideale. Vale a dire, come un nuovo modello di città che, tramite una capillare digitalizzazione del suo impianto, sarebbe in grado di superare tutti i mali che oggi affliggono la città tradizionale.

Alla base di questo vi è la credenza, ormai molto diffusa, che i mezzi telematici potrebbero incentivare l'esodo lavorativo dalla città verso altri luoghi dell'armatura urbana, e pertanto contribuire a decongestionare il traffico cittadino e a ridurre gli effetti nocivi di quest'ultimo sull'ambíente.

Non si può, in linea di principio, scartare un simile scenario. Ma in questo caso, come in quello di una democrazia diretta on line, l'atteggiamento da assumere deve essere di estrema cautela, perché le città - è superfluo ricordarlo - sono organismi complessi e, di solito, riluttanti a lasciarsi imporre, "per diktat", dall'esterno (o dall'alto) modelli destinati a stravolgere il loro ordine vigente. Perché il guaio con le città è che esse amano più la persistenza che il cambiamento, soprattutto quando il cambiamento prospettato risponde a un disegno che punta esclusivamente alla razionalizzazione (e ottimizzazione) di tutti gli aspetti della vita urbana.

Basta ricordare, in proposito, le esperienze deludenti avute, negli anni sessanta e settanta, con alcuni modelli di programmazione e analisi territoriale ispirati alla cibernetica, alla teoria dei sistemi, alla programmazione lineare o alla ricerca operativa. E mi riferisco, sia chiaro, non a tutti i modelli di questo genere ma solo a quelli che ci promettevano, tramite una sofisticata formalizzazione, un controllo totale dei processi urbani. Costrutti autoreferenziali, astratti, spogliati di ogni legame con la realtà.

Lo stesso può accadere con il modello telematico. Vi è il rischio infatti che l'indubbia vocazione onnicomprensiva e onnipervasiva delle tecnologie telematiche alla base di questo modello possa incoraggiare i suoi fautori a darne una versione totalizzante. E non è un rischio ipotetico. Le esercitazioni utopistiche sulla città telematica sono ormai all'ordine del giorno. in linea generale, sulle esercitazioni utopistiche non ci sarebbe nulla da obiettare. Nel passato, le proposte avveniristiche dei filosofi, dei romanzieri e degli architetti sulle città, senza escludere le più ardite o eccentriche, ci hanno sicuramente consentito di intravedere altri mondi urbani possibili. Il che non è poco.

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3. Corpo umano e conoscenza digitale

Negli ultimi tempi, tra i proseliti del ciberspazio il corpo (umano) non gode di molta stima. Alcuni, i più indulgenti, lo vedono con bonaria, rassegnata diffidenza. Altri invece esprimono nei suoi confronti un protervo, astioso disprezzo. Il nostro corpo sarebbe, per loro, antiquato, sorpassato, infine: obsoleto. Rimasto immutato per migliaia di anni dovrebbe ora essere cambiato, sostituito da un altro più all'altezza delle nuove, incalzanti sfide che provengono da un ambiente sempre più condizionato dalle nuove tecnologie.

Un artista australiano, noto per le sue fantasiose performances bioniche, scrive: "E' tempo di domandarsi se un corpo bipede, dotato di visione binoculare e con un cervello di 1400 cc, costituisce una forma biologica adeguata". La sua risposta è negativa. E aggiunge: "Non ha più senso considerare il corpo un luogo della psiche o del sociale, ma piuttosto una struttura da controllare e da modificare. Il corpo non come soggetto ma come oggetto, non come oggetto di desiderio ma come oggetto di riprogettazione". E ancora: "Non è più di alcun vantaggio rimanere umani o evolversi come specie, l'evoluzione termina quando la tecnologia invade il corpo" (Stelarc, 1994, pp. 63, 64 e 65).

Certo, questo modo di pensare (e di esprimersi) appartiene al tradizionale stile fideistico e volontaristico proprio dei manifesti delle avanguardie artistiche. Si annunciano, in tono apodittico, imminenti trasformazioni epocali, senza chiarire, in termini plausibili, come ciò potrebbe avvenire. Non vorrei escludere che di fronte a queste temerarie elucubrazioni sia possibile, e persino culturalmente giustificato, assumere un atteggiamento condiscendente, argomentando che dopotutto si tratta solo di provocazioni poetiche, alle quali va riconosciuto il merito di smuovere un mondo troppo saturo di certezze.

Questo atteggiamento che, in linea teorica, avrebbe potuto essere il mio, non è privo di controindicazioni. La principale è che simili teorie trovano nei media ampia risonanza, e pertanto diffusa credibilità. Sono infatti molti ormai che, confortati peraltro dall'autorevolezza di Marvin Minsky, "pensano che il corpo si debba gettare, che il wet ware, la materia umida all'interno della scatola cranica, il cervello, sia da sostituire" (D. de Kerckhove, 1994, p. 58). La posta in gioco, filosoficamente e politicamente parlando, è troppo alta per prendere alla leggera queste affermazioni. Come vedremo più avanti, la progressiva artificializzazione del corpo è un fatto ormai palese. Ed è sicuro che, nel futuro, nuove protesi, sempre più raffinate, verranno ad arricchire le sue attuali prestazioni.

Dunque, il problema per me non è tanto la difesa a oltranza della sacralità naturale del corpo, ossia credere che tra tecnica e corpo non possano esservi, come peraltro sempre è accaduto, momenti di convergenza funzionale. Non c'è dubbio che tra vita naturale e vita artificiale i confini appaiono oggi sempre più sfuggenti. La tesi sostenuta da G. Canguilhelm, trent'anni fa, sulla continuità tra la vita e la tecnica, tra l'organismo e la macchina, sembra trovare ora definitiva conferma (G. Canguilhelm, 1965). Non ci sono gli androidi da una parte e i non-androidi dall'altra. Gli scambi sono adesso intensi e frequenti e i fenomeni di (quasi) ibridazione e simbiosi sono all'ordine del giorno (K.M. Ford, C. Glimour e P.J. Hayes, 1995).

D'altronde, il corpo è stato sempre condizionato (e persino detertminato e conformato) dalle tecniche socio-culturali. Basta citare le "tecniche del corpo" (M. Mauss, 1968) e le tecniche (o pratiche) sociali coercitive che si esercitano su un corpo diventato oggetto, su un "corpo-oggetto" (M. Foucault, 1975). Le prime ci spiegano come gli uomini, in ogni società, sanno servirsi del proprio corpo; le seconde come gli uomini, in ogni società, si servono del corpo degli altri ai propri fini.

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Senza entrare a discutere sulla natura di queste eventuali esperienze trascendentali del corpo, devo dire che la mia scelta di campo è un'altra. Per me, il corpo va piuttosto inteso come la nostra irrinunciabile realtà quotidiana, come il corpo vissuto ogni giorno, e in prima persona, da tutti e da ciascuno di noi, come il corpo che è sensorialità, sensibilità e sensualità, insomma come il corpo che siamo.

Personalmente sono persuaso che, prima di essere un oggetto di sofisticate escogitazioni metafisiche, o di stimolanti valutazioni di matrice psicoanalitica, o di avventati congetture fantascientifiche sul suo futuro, il corpo umano è un oggetto di conoscenza. Infatti, il modo di essere consapevoli del corpo appare intimamente legato alla conoscenza che, in ogni epoca, abbiamo avuto della nostra realtà corporale. Ma non solo: oltre che oggetto di conoscenza, il corpo è stato anche un soggetto tecnico, un punto di riferimento fondamentale della nostra operosità tecnica.

E' superfluo ricordare che il nostro corpo ha una storia. La storia dell'uomo è, tra le molte altre cose, la storia di una progressiva artificializzazione del corpo, la storia di una lunga marcia verso un sempre maggiore arricchimento strumentale nel nostro rapporto con la realtà.

Il che, in fin dei conti, non significa altro che la creazione di nuovi artefatti destinati a supplire (e completare) le connaturate mancanze prestazionali del nostro corpo. Nasce così, intorno ad esso, una variegata cintura di protesi: protesi motorie, sensorie e intellettive. Il corpo, insomma, diventa protesico.

Tuttavia il corpo protesico, il corpo che funge da soggetto tecnico (o meglio tecnificato), non ha solo una rilevanza operativa, non si pone solo al servizio della necessità di renderci più efficaci nel rapporto performativo con l'ambiente. Il corpo protesico è diventato, al giorno d'oggi, anche un formidabile strumento conoscitivo della realtà in tutte le sue articolazioni, senza escludere, sia chiaro, la sua medesima realtà.

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Virtualità e modellazione scientifica

Tra le questioni più importanti, nell'ambito della eidomatica, è probabilmente quella che ha diretta attinenza con le implicazioni epistemologiche della moderazione virtuale. Perché, va ricordato, le immagini di sintesi, senza tener conto del loro grado di virtualità - debole o forte, a finestra o immersiva - non sono altro che modelli matematici destinati a simulare visivamente oggetti e/o processi del mondo reale. Spazi astratti in grado di configurare spazi intuitivi e fisici.

Nella ormai lunga storia della modellazione scientifica, l'avvento dei modelli virtuali di sintesi rappresenta una vera e propria svolta. I modelli tradizionali, per intendersi i modelli usati nell'Ottocento da Lord Kelvin, James C. Maxwell e Oliver Lodge, erano prevalentemente analogie visive di natura meccanica. Della stessa natura era il modello idraulico di cui si avvaleva William Harvey, nel Seicento, per spiegare la circolazione del sangue e la funzione di pompaggio del cuore.

I modelli di sintesi - virtuali o meno - e i modelli meccanici tradizionali hanno entrambi una funzione replicativa del reale, ma nel primo caso, a differenza del secondo, l'immagine replicata che ne risulta non è arbitraria. O, se vogliamo essere più cauti, diciamo che è arbitraria solo in minima parte. E ciò si spiega con il fatto che, mentre le immagini meccaniche tradizionali derivavano da una scelta, per così dire, metaforica, le immagini di sintesi sono invece il prodotto di un processo tecnico (a dire il vero, già presente nella fotografia, nella cinematografia, nella radiologia) che si svolge in diretto contatto generativo con l'oggetto che viene replicato.

[...]

E' stato detto spesso che la mappa non è il territorio, ma con l'avvento della realtà virtuale siamo di fronte a una mappa che diventa - o che si aspira a far diventare - qualcosa di molto simile a un territorio, una sorta di quasi-territorio.

Contrariamente a ciò che possono pensare coloro che sono immersi nell'uso quotidiano delle immagini di sintesi, medici o informatici, il tema del rapporto tra immagine virtuale e realtà non è argomento da lasciare ai filosofi della scienza o agli studiosi di eidomatica. Il tema deve (o dovrebbe) interessare parimenti coloro che, in un modo o in un altro, adoperano questo sistema di simulazione replicativa. Perché il problema del grado di similarità di queste immagini con la realtà oggetto della simulazione investe in pieno la questione, di vasta portata pratica, della loro affidabilità conoscitiva. La domanda è: interagire con la realtà virtuale è uguale a interagire con la realtà reale?

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Nell'analisi del problema relativo alla divaricazione funzionale tra il modello e il suo oggetto, può essere utile introdurre alcune ulteriori sfumature sul concetto di similarità, e inevitabilmente anche su quello contrario di dissimilarità.

K.M. Sayre e F.J. Crosson (1963), noti per i loro contributi alla teoria della modellazione, hanno richiamato l'attenzione sul fatto che mentre il processo generativo della dissimilarità è di natura finita, quello della similarità è di natura infinita. In altre parole, la ricerca della similarità non ha, a differenza di quella della dissimilarità, una soglia critica oltre la quale debba fatalmente fermarsi. Essa prosegue, ininterrottamente, fino all'infinito. Ovvero: la similarità assoluta tra immagine e oggetto reale è un traguardo che si allontana quanto più crediamo di essergli vicino. Gli oggetti frattali ci insegnano qualcosa al riguardo.

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Corpo e visione, il caso del colore

Nelle pagine precedenti ho discusso una varietà di argomenti, tutti orientati a chiarire come il nostro corpo, nel volgere di pochi decenni, sia diventato oggetto e soggetto della conoscenza digitale. Ho insistito a lungo sul fatto che questo avvenimento viene a confermare (anzi, a sancire definitivamente) una linea di tendenza che si era venuta configurando dal Rinascimento in poi: il primato della visione. Credo inoltre di aver fornito esempi assai persuasivi di come il primato della visione si manifesta in diversi campi della scienza e della tecnica. Al contrario, ho lasciato in sospeso la domanda, non meno importante, di come le nuove tecnologie informatiche possano favorire una migliore comprensione del fenomeno della visione.

Da sempre, i due grandi temi della visione e del linguaggio sono stati al centro della controversia filosofica. L'oggetto del contendere era (ed è ancora) la questione di tutte le questioni: il mondo che noi percepiamo (e di cui parliamo) è davvero il mondo, o solo in parte il mondo, o solo il nostro mondo? E' l'antica, e mai sopita questione della materia-mente. Trattandosi di una questione spiccatamente filosofica, è naturale che siano stati i filosofi per primi ad adoperarsi per trovare risposte. Negli ultimi tempi, però, la cerchia degli interessati all'argomento si è ampliata notevolmente. Ai filosofi sono venuti a sommarsi gli studiosi nel campo delle neuroscienze e delle scienze cognitive. E l'apporto scientifico di questi studiosi ha contribuito a un sostanziale arricchimento del tema in discussione. Ne hanno tratto profitto, di certo, gli stessi filosofi, soprattutto quelli che includono nella loro area di riflessione la scienza, la tecnica e il linguaggio. A questo proposito, è molto istruttivo il fatto che il colore, un tema assai frequente nella filosofia tradizionale della visione, venga oggi ripreso, seppur con un approccio diverso, dalle nuove discipline sopra accennate.

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