Copertina
Autore Curzio Maltese
Titolo La questua
SottotitoloQuanto costa la Chiesa agli italiani
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2008, Serie Bianca , pag. 176, cop.fle., dim. 14x22x1,2 cm , Isbn 978-88-07-17149-9
PrefazioneEzio Mauro
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe politica , paesi: Italia , religione
PrimaPagina


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Indice


  7 Le ragioni di un'inchiesta di Ezio Mauro

 13 La questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani

 15 Prima di cominciare

 33 1. I soldi del vescovo
 47 2. L'otto per mille segreto
 59 3. La Crociata dell'Ici
 73 4. Turisti in nome di Dio
 89 5. Un'ora che vale un miliardo
103 6. I misteri dello lor
119 7. Roma, città del Vaticano
133 8. La carità

145 Per concludere
155 Nota dell'autore
157 Tabelle
169 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 15

Prima di cominciare



In quasi trent'anni di giornalismo, avevo felicemente ignorato il Vaticano e avrei continuato a farlo se non fosse stata la Chiesa cattolica a occuparsi molto, troppo, di me. E di altri cinquantotto milioni di connazionali. Il papa e i vescovi intervengono nella vita pubblica italiana - perfino nel dettaglio delle singole leggi - molto più di quanto non faccia l'Unione europea, alla quale siamo vincolati. Per quanto mi riguarda, ho voluto restituire la premura. Da anni, i corrispondenti esteri a Roma mi ripetono la stessa cosa: "Voi giornalisti italiani siete capaci di scrivere poemi sull'ultima mezza calza della politica e ignorate l'influenza della Chiesa. Mentre per noi una notizia sul papa vale venti volte una sulla crisi di governo. Il Vaticano è troppo importante per lasciarlo ai vaticanisti". Ogni mattina saluto il mio vicino di casa, Udo Gumpel, della tv pubblica tedesca, che esce per andare alla sala stampa vaticana. Ormai è diventato un esperto di teologia ratzingeriana: "Avete San Pietro in casa e nell'archivio Rai non ho trovato un'inchiesta sul Vaticano, soltanto messe e interviste ai vescovi. Se scoppia uno scandalo, come la pedofilia, dovete comprare i documentari della Bbc". Ho toccato con mano la rimozione del problema quando ho cercato di documentarmi sui finanziamenti pubblici alla Chiesa cattolica: in quasi ottant'anni dal Concordato, non era mai stata fatta un'inchiesta sul tema.

Esistono naturalmente molte belle inchieste sulle finanze vaticane, quasi tutte però fra gli anni sessanta e la fine dei settanta. Dallo scandalo Ior-Ambrosiano l'attenzione si attenua fino a spegnersi. Negli articoli di Ernesto Rossi su "Il Mondo" ho trovato molte tracce utili e una riflessione della quale ho verificato la stringente attualità. Sul numero del 17 maggio 1960, Rossi scrive: "Quando si tratta della 'roba' i monsignori del Vaticano hanno la pelle delicata come quella della principessina che non riuscì a chiudere occhio tutta la notte per il pisello che le avevano messo sotto sette materassi. 'L'Osservatore Romano' ha incassato in silenzio la documentazione, da me portata per dimostrare che Pio XII è stato uno dei maggiori responsabili della Seconda guerra mondiale; ma ha reagito violentemente alla mia moderatissima osservazione che la politica reazionaria della Chiesa e la sua stretta alleanza con la Confindustria devono essere considerate anche un effetto dell'ingigantimento del patrimonio della Santa Sede e degli ordini religiosi che hanno avuto in pratica le clausole finanziarie contenute nei Patti Lateranensi, e una conseguenza degli investimenti massicci fatti dalla Santa Sede e dagli ordini religiosi in partecipazioni azionarie delle società elettriche e degli altri maggiori gruppi che sfruttano monopolisticamente il mercato nazionale. Tali affermazioni, scrive 'L'Osservatore Romano', 'destano un sentimento di pena prima che di sdegno, infatti rivelano una mente chiusa alla comprensione di quanto trascende l'interesse materiale e contingente; incapace, dunque, di misurare la realtà che contempla con il metro del proprio squallore'. A distanza di quasi mezzo secolo, l'atteggiamento della Chiesa quando si tocca la "roba" non è cambiato di una virgola.

Circa un anno fa, colpito dal volume di fuoco scatenato ogni giorno contro il governo Prodi dalle gerarchie ecclesiastiche, in un viavai di tonache sui telegiornali pubblici e privati, mi sono rivolto a un amico prete, cui mi legano stima e affetto. Uno che ha dedicato la vita alla lotta alla povertà, all'ignoranza e alla mafia, come io non sarei mai capace di fare. La risposta, nel tono spiccio del personaggio, è stata: "I vescovi fanno politica. Non vogliono il centrosinistra e si danno da fare per far cadere il governo. Vedrai che alla fine la vera spallata a Prodi la daranno loro".

Con un candore ormai perduto, avevo allora chiesto la ragione di tanto odio politico nei confronti del cattolicissimo Romano Prodi e di un centrosinistra assai timido sui temi della laicità, certo più vicino del berlusconismo agli ideali cristiani di solidarietà. "Nessun odio, semmai convenienza," è stata la risposta. "Il fatto è che da quegli altri i vescovi ottengono molto di più."

Mi sono ricordato di quelle parole nelle convulse settimane che hanno preceduto la caduta del governo Prodi. Travolto da una "spallata" finale dei vescovi. L'episodio più noto è la mancata visita del papa all'Università La Sapienza di Roma. Un caso da manuale; di più: da antologia storica del machiavellismo, di come si fabbrica un caso politico.

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Quale che sia la verità sul caso della Sapienza, la strumentalizzazione politica è evidente e di successo. Il 24 gennaio 2008 - il giovedì successivo all'adunata di San Pietro -, il governo Prodi cade per il voto decisivo dei gruppi di Clemente Mastella e Lamberto Dini, assai vicini al Vaticano. L'ipotesi di varare una nuova maggioranza e un governo istituzionale per le riforme, guidato dal presidente del Senato Franco Marini, svanisce quando il leader dell'Udc Pierferdinando Casini, in un primo momento favorevole, annuncia la propria volontà di andare subito al voto anticipato. Casini si era consultato il giorno stesso con il suo "consigliere spirituale", il cardinale Camillo Ruini. È la "spallata" finale di un processo di mesi e anni. Mesi e anni in cui le gerarchie cattoliche, dal papa in giù, non hanno mancato di criticare l'operato del governo di centrosinistra quasi ogni giorno, sia pure con l'aria di parlar d'altro, di questioni etiche o religiose.

Con alcuni picchi polemici davvero sorprendenti anche nella tradizione d'ingerenza della Chiesa cattolica negli affari interni italiani. Per esempio, le critiche del segretario di Stato Tarcisio Bertone alla "eccessiva pressione fiscale", già citata, o la lezione di buona amministrazione impartita da papa Ratzinger a Walter Veltroni, sindaco della capitale e capo del Partito democratico. A partire dalla "sofferenza del pontefice e vescovo di Roma per il degrado della sua città". Degrado nel quale il Vaticano - assai più potente, nella città Eterna, del Campidoglio - forse potrebbe assumersi qualche responsabilità, come si vedrà nel capitolo dedicato alle due sponde del Tevere.

In realtà, in Italia il rapporto fra Stato e Chiesa non è di reciprocità. La Chiesa può intervenire quando vuole negli affari interni italiani, mentre il contrario è vietato dall'articolo 11 del Concordato: "Gli enti centrali della Chiesa sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano". Le gerarchie ecclesiastiche, dall'alto di un magistero morale, possono dunque giudicare criminali le leggi dello Stato, criticare la pressione fiscale, mettere sotto accusa una Regione o un Comune per un'apertura sui diritti degli omosessuali, e allo stesso tempo invocare contro le eventuali (in verità, scarse) reazioni la protezione del Trattato. Il Vaticano è uno Stato estero che vive grazie all'Italia, ma ha il diritto di sputare nel piatto in cui mangia. Se davvero le questioni etiche - il divorzio, l'aborto, la procreazione assistita, le coppie di fatto - fossero così centrali e dunque non negoziabili, la Chiesa non dovrebbe più accettare di ricevere finanziamenti e privilegi fiscali da parte di coloro - Stato ed enti locali - che giudica nemici dei valori cristiani. Al contrario, non vi ha mai rinunciato. Anzi, ne chiede e ne ottiene sempre di più.

Mi sono dilungato sul caso Sapienza perché anche per me, come per Clemente Mastella, la folla di San Pietro ha rappresentato, nel mio piccolo, "un'illuminazione". Decisiva per la nascita di questo libro. La prima domanda a cui si vuol rispondere è semplice: perché negli ultimi anni le gerarchie cattoliche hanno deciso di appoggiare il centrodestra? La scelta è evidente e testimoniata anche dai flussi elettorali. I cattolici praticanti in Italia sono calcolati in un terzo circa della popolazione, quanti cioè dichiarano di andare a messa (in realtà, quelli che ci vanno davvero sono ancora meno) e di essere influenzati nel voto dall'opinione del papa e dei vescovi. La percentuale coincide con il numero di italiani che dona l'otto per mille alla Chiesa cattolica. Questo elettorato cattolico, dalla comparsa del maggioritario nel 1994, si era sempre diviso a metà nel voto fra destra e sinistra. Ma nel 2006 si è spostato in maniera massiccia verso il centrodestra: due terzi dei consensi contro un terzo andato alle liste dell'Unione. La spiegazione ufficiale è la prevalenza di alcuni temi etici nella polemica elettorale, per esempio i Dico, le coppie di fatto, il presunto attacco ai valori della famiglia da parte del centrosinistra. Ma le gerarchie cattoliche usano i temi etici per mascherare importanti interessi economici. La vera differenza fra un governo di centrodestra e uno di centrosinistra non sta tanto nella difesa dei valori cattolici o laici - assai timida nel secondo caso, almeno rispetto agli altri paesi europei. La differenza reale sta nel diverso atteggiamento nei confronti della perenne "questua" di danaro pubblico da parte del Vaticano.

Si tratta di un do ut des fra due caste, quella dei politici e quella ecclesiastica, che passa sulla testa dei cittadini. Gli italiani spendono per mantenere la Chiesa più di quanto spendano per mantenere l'odiato ceto politico. Ma non lo sanno. Non lo sa il terzo di cattolici praticanti e non lo sanno gli altri due terzi. A differenza di quanto accade in tutte le altre democrazie, compresi i paesi a forte tradizione cattolica, la base del finanziamento alle religioni - in questo caso una sola - è involontaria. Prescinde insomma dalla spontaneità dell'offerta, regola democratica in materia dai tempi dei padri fondatori americani. È il frutto di accordi fra nomenklature, circondati dal silenzio dell'informazione. I cittadini italiani conoscono, più o meno, i motivi per cui pagano le altre tasse. Ma non conoscono la ragione per la quale sborsano ogni anno una singolare e ingente tassa ecclesiastica, che anzi non sanno neppure di pagare.

Questo libro si propone un piccolo obiettivo: informare sui meccanismi di finanziamento pubblico alla ex (?) religione di Stato. Non è un libro anticlericale, per quanto non ci sarebbe nulla di male se lo fosse. Non si occupa di questioni etiche o ideologiche, ma soltanto di conti. Non si troverà una sola parola o frase su una serie di temi più o meno pruriginosi che "fanno vendere" e alimentano le pubblicazioni anticlericali, per esempio i casi di pedofilia o le vessazioni rivelate dagli ex aderenti all'Opus Dei.

Personalmente, sono convinto che l'asse portante e vitale della cultura italiana sia il dialogo fra laici e cattolici, e non l'irrilevante confronto fra "cultura di sinistra" e "cultura di destra". A parte il prezioso lavoro di Carlo Pontesilli e Maurizio Turco, da anni impegnati sul fronte dell'inchiesta sui costi della Chiesa, le principali informazioni usate in questo libro sono state raccolte da fonti cattoliche. Da laico riconosco e rispetto il diritto dei cattolici di intervenire e pronunciarsi come e quando vogliono sui temi etici. Ma sono anche consapevole che in questo paese la libertà di un laico è considerata inferiore a quella di un cattolico. Un laico non può offendere una persona sulla base di un pregiudizio personale, né può intromettersi nella vita privata o giudicare le scelte sessuali altrui, tanto meno boicottare le leggi dello Stato, o accusare il prossimo di reati inesistenti. Per esempio, sostenere che la Chiesa cattolica "ruba" il danaro pubblico. Un cattolico invece può offendere qualcuno perché è ebreo, o musulmano, o omosessuale, invitare i medici a boicottare la legge sull'aborto e bollare come "assassine" le donne che ricorrono a una pratica legale sancita dalle leggi dello Stato e approvata da un referendum popolare. D'altra parte, sarebbe interessante sapere se un medico obiettore musulmano sarebbe messo sullo stesso piano dei medici cattolici.

Ultima precisazione, prima di cominciare. Il sottotitolo de La questua - Quanto costa la Chiesa agli italiani - farà storcere il naso sia ai laici che ai cattolici. Per i primi non bisognerebbe mai scrivere "Chiesa" con la maiuscola per intendere la chiesa cattolica. I cattolici sono invece molto attenti alle distinzioni formali all'interno dell'organizzazione. Vaticano, Santa Sede e Cei, l'assemblea dei vescovi italiani, sono in effetti soggetti giuridici differenti, dunque: Quanto costano il Vaticano, la Cei e la Santa Sede agli italiani. Una volta scartati il politicamente corretto e il cattolicamente corretto, mi sono concentrato su quello di cui finanche l'autore capiva il senso: il costo della Chiesa, una e trina.

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L'otto per mille è la voce più nota nel costo complessivo della Chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre a essere poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Non so se si possa parlare di una "casta ecclesiastica" parassitaria come la "casta politica". Il parallelo può suonare blasfemo o fastidioso per molti. In Italia il pregiudizio sfavorevole, per non dire sprezzante, nei confronti della professione politica si accompagna a un riguardo assoluto per le esigenze del clero. Ma un dato almeno è certo: il costo della Chiesa cattolica per i contribuenti italiani è superiore al costo della politica. Ed è governato da un sistema di finanziamento ancora meno democratico.

Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all'anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L'equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all'anno." Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da "Il Mondo" e altri giornali, sulla scia del best seller di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La casta, e del precedente Il costo della democrazia, di Cesare Salvi e Massimo Villone, si arriva sommando gli stipendi di centocinquantamila eletti dal popolo - dai parlamentari europei all'ultimo consigliere di comunità montana -, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio. La somma di quattro miliardi è realistica, ma un po' gonfiata da forzature polemiche. Per esempio, è assai dubbio che esista davvero il mezzo milione di auto blu di cui si favoleggia da anni e che ha suscitato l'indignazione di molti opinionisti, a partire da Adriano Sofri. A meno di non considerare "auto blu" anche la Panda che il piccolo Comune di cinquemila abitanti mette a disposizione degli impiegati o dei tecnici per sbrigare una pratica o effettuare un rilievo.

Secondo la par condicio, bisognerebbe valutare il costo della Chiesa con lo stesso metro. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali. Con molta prudenza, si può stabilire che la Chiesa cattolica costa ogni anno ai contribuenti italiani una cifra vicina ai 4 miliardi e mezzo di euro, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell'otto per mille, i 950 milioni per gli stipendi dei 22.000 insegnanti dell'ora di religione ("Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire", nell'opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. L'ultima cifra, assai difficile da verificare, è di sicuro superiore nei fatti. Ben superiore. Nel 2004, per esempio, lo Stato ha elargito 258 milioni di finanziamenti alle scuole cattoliche, 44 milioni per le cinque Università cattoliche, più 20 milioni per il Campus Biomedico dell'Opus Dei (30 dal 2005), 18 milioni per i buoni scuola degli studenti delle scuole cattoliche. Nel 2005, l'ammontare dei contributi alle scuole non statali è stato di 527 milioni di euro (circolare ministeriale 38/2005). Nel 2006, a fronte dei tagli all'istruzione apportati dalla legge finanziaria, i finanziamenti diretti alla scuola privata sono stati incrementati fino a 532,3 milioni. Nel settore della sanità, le convenzioni pubbliche con gli ospedali cattolici classificati ammontano a circa 1 miliardo di euro, quelle con gli istituti di ricerca a 420 milioni di euro, quelle con le case di cura a 250.

Ma qui ci siamo limitati a calcolare nei costi la parte che si può serenamente ascrivere all'immenso capitolo degli "sprechi della sanità". Poi c'è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all'ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua - nell'ultimo decennio - di 250 milioni di euro. A questi 2 miliardi 900 milioni l'anno di contributi pubblici diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali. L'elenco è infinito, nazionale e locale. Sempre con prudenza, si può valutare in una forbice fra 400 e 700 milioni il mancato incasso per l'Ici (stime "non di mercato" dell'associazione dei Comuni), in 500 milioni lo sconto del 50 per cento su Ires, Irap e altre imposte, in altri 600 milioni l'elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l'Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Nel best seller Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Piergiorgio Odifreddi arriva a una cifra finale doppia: 9 miliardi di euro all'anno. I due calcoli coincidono in quasi tutte le voci, tranne una: le esenzioni fiscali. Valutando il patrimonio immobiliare della Chiesa in "alcune centinaia di miliardi di euro", Odifreddi considera il mancato gettito fiscale in 6 miliardi di euro. Con tutto il rispetto per il grande matematico, oltre che per l'incalcolabile (alla lettera) patrimonio della Chiesa, ci siamo limitati a una stima assai inferiore, circa un quarto, ma assai più semplice da provare. Il totale sfiora i 4 miliardi e mezzo all'anno: dunque, una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto, o un Mose, più un altro mezzo miliardo di euro. Mille miliardi di vecchie lire.

La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani più del sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Ma, soprattutto, in questa forma poco trasparente. Con una serie di automatismi calati dall'alto che prescindono totalmente dalla volontarietà del contributo alla religione (alle religioni), principio fondamentale di una democrazia. Francesi, spagnoli, tedeschi, americani pagano come noi il "costo della democrazia", sia pure con risultati decisamente migliori (questo è il vero problema). Nessuno altro popolo paga altrettanto, o nella stessa forma anomala degli italiani, il costo di una religione.

Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché, forse, non lo sanno. Il meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef, studiato a metà anni ottanta da un giurista esperto di diritto tributario all'epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille", ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono: Stato, valdesi, avventisti, assemblee di Dio, ebrei e luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell'84 sul "Sole 24 Ore" lo storico Piero Bellini. Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell'otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale": una mezza finanziaria, d'accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l'impegno nel Terzo mondo. Tutti argomenti veri. Ma quanto veri?

Fare i conti in tasca alla Chiesa è impresa disperata. Tuttavia, per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull'otto per mille. Su 5 euro versati dai contribuenti, la Conferenza dei vescovi dichiara di spenderne 1 per interventi di carità in Italia e all'estero (rispettivamente, 12 e 8 per cento del totale). Gli altri 4 servono all'autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, ogni anno rimane mezzo miliardo di euro nelle casse della Cei, che lo distribuisce all'interno della Chiesa a suo insindacabile parere, sotto voci generiche e imperscrutabili come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l'altro paradosso: se al "voto" dell'otto per mille fosse applicato il quorum della metà, valido per le consultazioni referendarie, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.

Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell'otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet Chiesa padrona di Roberto Beretta, scrittore e collaboratore dell'"Avvenire", il quotidiano dei vescovi. Al capitolo L'altra faccia dell'otto per mille, Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell'otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza? [...] E infatti," conclude l'autore, "i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere...". A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di Chiesa padrona, rifiutato in blocco dall'editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all'uso "ideologico" dell'otto per mille non è affatto isolata nell'universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: "I vescovi non parlano più, aspettano l'input dai vertici... Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi scelgono chi vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato". Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte il "dirigismo", il "centralismo" e lo "strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: "Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono".

La Chiesa di vent'anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall'egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall'universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. È una Chiesa povera eppure viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultratradizionalisti seguaci di monsignor Lefebvre. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l'antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, l'eroica lotta di don Puglisi a Brancaccio - il quartiere storico della mafia palermitana -, con l'impegno di don Italo Calabrò contro la 'ndrangheta a Reggio Calabria. Dopo vent'anni di "cura Ruini", la Chiesa all'apparenza scoppia di salute. Il Vaticano è il più ricco Stato del mondo per reddito pro capite, le gerarchie sono potenti e ascoltate a Palazzo, governano l'agenda dei media laici e influiscono sull'intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su un partito. Nelle apparizioni televisive, il clero è secondo soltanto al ceto politico e di poco. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction su santi e preti. Le voci di dissenso sono sparite.

Eppure, chiese e sagrestie continuano a svuotarsi, la crisi di vocazioni accelera al punto da aver ridotto in vent'anni i preti da 60 a 50 mila, i sacramenti religiosi come matrimonio e battesimo sono in diminuzione. Il clero è vittima dell'illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia di inverarsi la terribile profezia lanciata trent'anni fa da un teologo progressista: "La Chiesa sta divenendo per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo".

Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.

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Le campagne dell'otto per mille della Chiesa cattolica che ogni primavera, nei mesi precedenti la dichiarazione dei redditi, invadono l'etere, le reti Rai e Mediaset e le radio nazionali, sono considerate nel mondo pubblicitario un modello di comunicazione. Ben girate, splendida fotografia, musiche di Ennio Morricone, storie efficaci - a volte indimenticabili. Chi non ricorda per esempio quella del 2005, imperniata sulla tragedia dello tsunami? Si apre con l'immagine di un fragile villaggio di capanne, dalla spiaggia i pescatori scalzi scrutano l'orizzonte gravido di scure minacce. Voce fuori campo: "Quel giorno dal mare è arrivata la fine, l'onda ha trasformato tutto in nulla". Stacco sul logo dell'otto per mille: "Poi, dal niente, siete arrivati voi. Le vostre firme si sono trafsormate in barche e reti". Zoom su barche e reti: "Barche e reti capaci di crescere figli e pescare sorrisi". Slogan: "Con l'otto per mille alla Chiesa cattolica, avete fatto tanto per molti". Un capolavoro.

La campagna 2005, affidata come le precedenti alla multinazionale Saatchi & Saatchi, è costata alla Chiesa nove milioni di euro. Il triplo di quanto la Chiesa ha poi donato alle vittime dello tsunami: tre milioni (fonte Cei), lo 0,3 per cento della raccolta. Nello stesso anno, l'Ucei - l'Unione delle comunità ebraiche italiane - versò per lo Sri Lanka e l'Indonesia 200 mila euro, il 6 per cento dell"`otto per mille". Un'offerta in proporzione venti volte superiore, in un'area dove non esistono comunità ebraiche.

Gli spot della Chiesa cattolica sono per la maggioranza degli italiani l'unica fonte d'informazione sull'otto per mille. Ne conseguono una serie di pregiudizi assai diffusi. Credenti e non credenti sono convinti che la Chiesa cattolica usi i fondi dell'otto per mille soprattutto per la carità in Italia e nel Terzo mondo. Le due voci occupano il 90 per cento dei messaggi, ma costituiscono nella realtà soltanto il 20 per cento della spesa reale: l'80 per cento del miliardo di euro rimane alla Chiesa cattolica, per una serie di usi e destinazioni che le campagne pubblicitarie in genere non documentano.

Tanto meno, gli spot cattolici si occupano di informare che le quote non espresse nella dichiarazione dei redditi - il 60 per cento - sono comunque assegnate sulla base del 40 per cento di quanto è stato espresso e finiscono dunque al 90 per cento nelle casse della Cei. Questo compito, in effetti, spetterebbe allo Stato italiano. Lo Stato avrebbe avuto il dovere di illustrare e giustificare ai cittadini un meccanismo di "voto fiscale" unico al mondo. Inconcepibile non soltanto in nazioni in cui vige un ordinamento separatista fra Stato e Chiesa, come la Francia, ma anche nei paesi concordatari. In Spagna, le quote non espresse nel "cinque per mille" rimangono allo Stato, come suggerirebbe la logica. In Germania, lo Stato si limita a organizzare la raccolta dei cittadini che possono scegliere di versare l'8 o 9 per mille del proprio reddito alla Chiesa cattolica o luterana, o ad altri culti. È il sistema della "decima". Un sistema che rispetta un principio fondamentale della democrazia, espresso una volta per tutte dai padri degli Stati Uniti, che passano per, ed erano in buona misura, ferventi cristiani. Come scrisse Thomas Jefferson: "Nessuno può venir costretto a partecipare o a contribuire pecuniariamente a qualsivoglia culto, edificio o ministero religioso".

È esattamente il contrario di quanto avviene in Italia. A ogni livello, nazionale e locale, i cittadini sono "costretti", volenti o nolenti, consapevoli o meno, a contribuire pecuniariamente non a qualsivoglia culto ma a uno solo.

Eppure, la "decima" funziona molto bene in termini economici, laddove è applicata. Le ventisette diocesi tedesche sono fra le più ricche del mondo. Insieme alle diocesi cattoliche statunitensi, finanziate con le libere donazioni dei fedeli. Perché allora la volontarietà del contributo religioso non viene adottata anche in Italia?

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