Autore Marco Malvaldi
Titolo Negli occhi di chi guarda
EdizioneSellerio, Palermo, 2017, La memoria 1077 , pag. 280, cop.fle., dim. 12x16,8x1,4 cm , Isbn 978-88-389-3684-5
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe narrativa italiana , gialli , regioni: Toscana












 

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Pagina 13

Prologo



Per avere un'idea di che posto sia Poggio alle Ghiande, la cosa migliore è descrivere il punto di vista di ognuna delle persone che incontreremo nel corso della storia.


Per l'architetto Marco Giorgetti, perito immobiliare, Poggio alle Ghiande è una tenuta agricola con palazzo padronale e relativi annessi abitabili facente parte del Comune di Castagneto Carducci, sezione A, Foglio 88, Numero 855 subalterno 1-13, sita in via della Carbonaia s.n.c. ovvero senza numero civico anche perché mettiglielo te un numero a una roba del genere, secondo il catasto è la tenuta più grossa della provincia, ma secondo l'architetto è più grossa la tenuta della provincia.


Per l'ingegner Giorgio De Finetti, agente immobiliare, Poggio alle Ghiande è la location ideale per il brand SeaNese, permettendo una perfetta sinergia tra il cool design della holding e la diversity della location, che essendo a trecento metri dal mare ma vicino alle colline possiede sia il fashion che il country. Detto in parole povere, il più grosso affare della sua vita.


Per SeaNese, holding immobiliare cinese del ramo villaggi vacanze, Poggio alle Ghiande potlebbe essele una magnifica oppoltunità pel investile nella Malemma toscana, nonché pel liciclale autotleni di denalo di plovenienza non tloppo chiala. Lo so, è una presa per il culo di cattivo gusto. Proprio come quello che questi tizi hanno intenzione di fare.


Per Alfredo e Zeno Cavalcanti, fratelli gemelli e proprietari della tenuta, Poggio alle Ghiande è il posto dove hanno abitato per la maggior parte della loro vita. Per questo motivo, Zeno la ama. Per lo stesso motivo, Alfredo la detesta.


Per Piotr Kucharski, uomo delle pulizie, Poggio alle Ghiande è il posto che gli dà da vivere lavorando in modo onesto e legale da quando è arrivato in Italia, ringraziando la Santa Vergine di Czestochowa assunta in cielo a cui Piotr è particolarmente devoto.


Per Raimondo Del Moretto, agricoltore e custode della tenuta, Poggio alle Ghiande è il posto che gli dà da vivere lavorando in modo onesto e legale da quando è uscito dal manicomio, ringraziando il signor Zeno che lo ha assunto a lavorare la terra ed al quale Raimondo è particolarmente devoto.


Per Giancarla Bernardeschi, professoressa di chimica in pensione e affittuaria dell'Appartamento Verde, Poggio alle Ghiande è un paradiso di erbe aromatiche per cucinare, alberi carichi di frutta da distillare e amici a cui fare assaggiare il risultato.


Per Riccardo Maria Torregrossa, meccanico di box di Formula 1 e affittuario dell'Appartamento Rosso, Poggio alle Ghiande è il posto in cui passare tutto il tempo che non passa in giro per il mondo a dormire al decimo piano di alberghi con le finestre chiuse e a parlare a voce troppo alta per via del rumore dei motori. Per cui una sdraio sull'erba, aria aperta, silenzio e un bel libro in mano, chi rompe i coglioni gli sparo.


Per Anna Maria Marangoni, casalinga campionessa di burraco e affittuaria dell'Appartamento Blu, Poggio alle Ghiande è il posto dove ha passato per ventisette anni le vacanze estive con il marito Giacomo. Quest'anno è il ventinovesimo. E il ventotto, direte voi? Molto semplice. L'anno scorso, in piena coerenza con la ricorrenza, il marito Giacomo ha detto a Anna Maria (parole di Giacomo) che si era rotto i coglioni di vivere con una stronza da ventisette anni ed è andato a vivere (parola di Anna Maria) con una stronza di ventisette anni. Cioè circa la metà di cinquanta, ovvero l'età di Anna Maria Marangoni: a volte, per capire veramente le cose, un po' di numeri valgono più di mille parole. Quanto al significato del numero ventotto, se avete un amico livornese ve lo può spiegare lui.


Per Enrico Della Rosa, flautista, direttore d'orchestra e a tempo perso pittore, e Cristina Salitutti nei Della Rosa, violinista e un tempo ormai perso modella, affittuari dell'Appartamento Giallo, Poggio alle Ghiande è un'oasi di calma da settembre a maggio e un allevamento di nipotini da giugno in poi. Entrambi aspetti che la rendono, più che gradevole, necessaria.


Per Margherita Castelli, filologa e archivista, Poggio alle Ghiande è la sede di una collezione d'arte di un certo pregio, raccolta da Zeno nel corso degli anni e bisognosa di una accurata e completa opera di catalogazione ed attribuzione, particolarmente nel settore paesaggistico, che vanta opere di Renato Natali, Llewellin Lloyd, alcuni macchiaioli minori e forse addirittura un Segantini.


Per Piergiorgio Pazzi, infine, Poggio alle Ghiande è il posto dove avrebbe finalmente rivisto Margherita, i suoi occhi verdi, il suo ciuffo viola, il suo sorriso a labbra appena socchiuse e tante altre cose a cui Piergiorgio quasi si stupiva di non pensare.


Su una cosa sola tutte queste persone sarebbero d'accordo: che Poggio alle Ghiande non è, e non sarà mai, un posto in cui arrivare e restare indifferenti.

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Pagina 17

Inizio



Uno degli stati d'animo più belli dell'essere umano è quello del viaggio di andata. Specialmente se uno è in treno.

Eccessi di velocità, colpi di sonno, mancanza di benzina non ti riguardano; del viaggio da un punto di vista tecnico non hai niente di cui preoccuparti, e mentre il treno ti culla tu puoi cullare le tue aspettative.

Se poi sei talmente fortunato che il tuo treno è sulla tratta da Genova a Roma, puoi anche spegnere impunemente il cellulare - scusa se ho visto solo ora la chiamata ma sai, con tutte quelle gallerie il segnale non prende mai - e goderti il viaggio senza dover essere costretto ad affrontare la vita che si svolge altrove.

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Pagina 78

Quattro



- Le piace?

Piergiorgio, dopo un attimo, si voltò verso Zeno Cavalcanti e fu costretto ad essere sincero.

- Sì, effettivamente sì. Questo mi piace. Mi dà un'emozione.

E come, se mi dà un'emozione. Un quadretto piccolo, semplice, una casetta in riva al mare seminascosta da un piccolo muretto di mattoni.

Non era tanto il soggetto ad essere bello, quanto la luce. Perché il dipinto sembrava veramente riflettere la luce del mare e di un paese sul mare, alle due di pomeriggio di un giorno d'estate - e qui Piergiorgio non avrebbe potuto essere meno preciso. Le due, le due e mezzo al massimo, né l'una né le tre. Era quella, la cosa del quadro che lo colpiva.

Accanto a lui, Zeno dondolò la testa, approvando.

- Llewelyn Lloyd. Marciana Marina. Lei ha ottimi gusti. Questo le piace, quindi. Ne sono lieto.

Dopo di che, il suo anfitrione tacque, in evidente attesa.

Piergiorgio, rendendosi conto che il silenzio non era previsto come opzione, cercò di essere meno bugiardo possibile. Gli pareva brutto dire al suo ospite che a lui dell'arte figurativa gliene importava meno di una mazza, e che chiunque vedesse qualcosa di esteticamente notevole in alcune delle opere che gli erano state mostrate - per esempio il filmato in bianco e nero di un omino che camminava a passo allucinato intorno a un quadrato fatto per terra col nastro adesivo - fosse oggettivamente mezzo scemo.

- Comunque, in generale, mi ha fatto una impressione notevole. Si ha l'idea di qualcosa di vero, di cercato, di sentito, non di allestito.

- In pratica, non le ha dato l'idea di una mostra.

- Esatto. Sì, non mi ha dato l'idea di una mostra.

Zeno restò qualche attimo in silenzio, mentre Piergiorgio rimaneva lì, come un liceale alla lavagna, a chiedersi se per caso non avesse detto qualcosa di estremamente idiota.

- Ellallà, questo sì che è un complimentone - disse l'architetto Giorgetti dopo qualche secondo. - Comunque sono d'accordo, sì, sì, assolutamente d'accordo. Si vede una ricerca, una vita. Un filo logico, una unità d'intenti coerente e al tempo stesso in continua evoluzione.

- Lei è troppo buono, architetto. Comunque sì, non dà l'idea di una mostra.

- Spero di non aver...

- Ma assolutamente, professor Pazzi, assolutamente. Sa cosa diceva un grande critico d'arte delle mostre?

E qui Zeno Cavalcanti levò la mano al cielo, preparandosi a declamare, ma venne anticipato dall'architetto Giorgetti con un tempismo da avanspettacolo:

- Le mostre, virgola, sono come la merda. Servono a chi le fa, virgola, ma non a chi le guarda -. Risatina da orsetto di peluche. - Federico Zeri, un grande. Se non mi sbaglio, ma mi sembrava che fosse lui.

- Assolutamente. Lei sa di cosa parla, amico mio - confermò Zeno con eleganza non priva di una puntina di divertito sarcasmo. - E lei, professore, cosa ne dice?

- Secondo me la prima virgola non ci andrebbe - disse Piergiorgio, cercando di empatizzare con quell'aria di elaborato ed elegante tentativo di presa per il culo nel quale si sentiva messo in mezzo. - Che questo sia il percorso di una vita, è notevole, e credo che abbia un significato. Ma a parte quello, non credo di avere la competenza per parlare.

E chi vuole intendere, intenda. Se si parla di genetica, so cosa dire. Se si parla di malattie, so cosa dire, quasi sempre. Se invece si parla d'arte, be', diciamo che posso ascoltare volentieri, se chi me ne parla è bravo.

- Competenza - ripeté Zeno a bocca piena, ma insoddisfatta, come se stesse facendo i gargarismi con un collutorio al gusto di sgombro. - È una parola brutta, tecnica. Non mi piace. Preferisco sensibilità.

- Va bene, possiamo chiamarla sensibilità. Oppure capacità di riconoscere. Ecco, riguardo ad alcune opere che mi ha mostrato, io non sono in grado...

- Di dare loro un valore?

- No, è più radicale. Di riconoscere se sono opere d'arte, direi.

- Le due cose non sono così separate come crede, sa? Però, visto che lei è un medico, proviamo a fare un esempio. Ad esempio, forse lei saprà che nel 2010 uno scultore cinese, Zhu Cheng, ha realizzato una Venere di Milo utilizzando esclusivamente escrementi di panda.

- No, non lo sapevo.

E ora che me l'ha detto, spero di dimenticarmelo alla svelta.

- Bene, io le chiedo: lei comprerebbe un oggetto del genere per metterselo in salotto?

Mentre Piergiorgio si chiedeva se era possibile dare una risposta negativa di pesantezza tombale senza passare per grezzo, l'architetto Giorgetti gli si rivolse con aria premurosa:

- Prima di rispondere, tenga conto che l'opera in questione è rinchiusa in una teca, eh. Il tanfo non si sente.

Piergiorgio ridacchiò.

- Prima di rispondere, se fossi un vero collezionista d'arte dovrei chiedere anche quanto mi costerebbe.

- Domanda corretta - disse Zeno Cavalcanti. - Se mi ricordo bene, l'opera è stata comprata da un collezionista svizzero per circa cinquantamila euro.

- Bene. Con cinquantamila euro, mi permetterà, preferisco comprarmi qualcos'altro. Di roba schifosa ne vedo già abbastanza sul lavoro.

- E se lei fosse ricco come un sultano?

- Guardi, se fossi un sultano avrei altri passatempi che non l'arte.

Probabilmente mi metterei in salotto varie copie della Venere di Milo, sì, ma di ciccia, pensò Piergiorgio. Nel frattempo, l'architetto Giorgetti aveva cominciato a camminare su e giù per la stanza, in modo dondolante, canticchiando con voce da baritono: «... cinque... ... dieci... ... venti... ... trenta...».

- Io, invece, me la comprerei. - La mano destra del collezionista roteò in aria, oscillando piano, come a gettarsi alle spalle oggetti cari ma ormai troppo vecchi. - Mi ricorda che dalla composizione di parti ignobili, come gli organi interni, il sangue, tutta la roba schifosa che lei diceva prima, può nascere un oggetto nobile come l'uomo. Se ci fermiamo a vedere di cosa è fatto, ci perdiamo cosa può fare. Al tempo stesso, mi ricorda che anche questo oggetto nobile e totipotente non può scordarsi di essere fatto di parti ignobili, che possono prendere il sopravvento da un momento all'altro sul suo nobile intelletto. E che prima o poi dovrà soggiacere alle leggi biologiche di queste sue componenti, indifferenti alla sua nobiltà, e morire. Forse è per questo che non mi sono mai sposato.

- Ah, non perché è frocio? - chiese l'architetto Giorgetti, continuando a camminare avanti e indietro.

Ci fu il solito momento di silenzio viscoso che accompagnava le uscite dell'architetto, prima che qualcuno aprisse bocca.

- Comunque - continuò Zeno Cavalcanti, a cui apparentemente le esternazioni dell'architetto scivolavano via come acqua su una lontra - il discorso di fondo è questo. Mettiamo che qualcuno le mostri quest'opera, dottor Pazzi. Le chiedo: lei sarebbe in grado di dimenticarsi di averla vista?

- Temo proprio di no - rispose Piergiorgio, sincero.

- Ecco, vede. Lei non se la dimenticherà mai. Cosa significa questo, a livello fisiologico? - Le mani di Cavalcanti si mossero, piegando e trafilando l'aria come a forgiare un cancello immaginario. - Significa che nel suo prezioso ed unico cervello, qualcosa è cambiato, ed è cambiato per sempre. Lei ha prodotto delle nuove sinapsi, delle inedite volute cerebrali, dei ponti fisici fra neuroni che prima si ignoravano. È un cambiamento fisico, non un'operetta morale, dico bene?

- Senti lì il Cavalcanti giovane com'è preparato - disse il Cavalcanti vecchio con aria bonaria. - Lo hai letto sulla «Settimana Enigmistica»?

- L'età dell'inconscio, di un neurologo premio Nobel. Eric Kandel, mi sembra. Un libro molto interessante. Lo conosce?

- Kandel? Certo. Anzi, sarebbe grave il contrario - rispose Piergiorgio. - Però questo testo non lo conoscevo. Deve essere notevole.

- Molto interessante - confermò Zeno. - Un libro sulle interconnessioni tra arte, medicina e letteratura nella Vienna di fine Ottocento. Glielo consiglio vivamente. Non lo veda come uno sfoggio, ma credo che anche lei potrebbe trovarci cose che non ha mai preso in considerazione. Anch'io, dal mio punto di vista, ci ho trovato cose che ignoravo, e tenga conto che di cose sull'arte ne ho lette parecchie, in vita mia.

- Confermo - si inserì Alfredo. - Del resto, non hai mai lavorato in vita tua. Se uno non ha un cazzo da fare dalla mattina alla sera, leggere tanto è naturale. Anch'io leggerei, se avessi tempo.

Il collezionista sorrise con l'espressione magnanima di chi si vede rivolgere un complimento meritato.

- Allora, caro professor Pazzi, per costruire nuove sinapsi lei ha bisogno di proteine. E queste proteine il suo corpo le produce quando si attivano determinati geni. E cosa serve per attivare questi geni?

- Un'emozione.

Precisamente, un'emozione. Ovvero un evento con cui il tuo corpo dice al tuo cervello che è successo qualcosa di inaspettato, che il suo pur avanzatissimo software di inferenza & previsione non è stato in grado di anticipare. E quindi, di fronte all'imprevisto, il tuo corpo reagisce inondandoti di neurotrasmettitori: dopamina, adrenalina, serotonina. Che sul momento ti dicono godi, fuggi, o urla, e contemporaneamente danno al tuo cervello istruzioni molecolari per costruire dei nuovi collegamenti, essenziali affinché tu ti ricordi che quelle bacche rosse sono buone, o che cadere da cinque metri fa tanto male, e tu non lo rifaccia più. È un meccanismo evolutivo: se noi esseri umani non ricordassimo bene le cose che ci hanno provocato le reazioni più violente, non saremmo sopravvissuti a lungo, e oggi il pianeta sarebbe dominato dai delfini, o dalle sogliole.

Zeno Cavalcanti concesse a Piergiorgio un garbato applauso, piccoli colpetti delle dita della destra sul palmo della sinistra aperta a coppa, posando prima su un tavolino il bicchiere di passito che si era portato dietro da tavola.

- Precisamente. Assolutamente. Un'emozione. Allora, se lei se lo ricorda per tutta la vita, possiamo concludere che l'ha emozionata. Si ricorda, all'inizio di questa nostra bella serata, come mi aveva definito, giustamente, l'arte?

Piergiorgio guardò Zeno e si sorprese di notare come gli sembrasse più vecchio e più schifoso di qualche minuto prima. Non tanto per l'aspetto dell'uomo, quanto per il sorriso a fior di labbra con il quale, accanto a lui, Margherita stava guardando l'anziano collezionista.

L'architetto Giorgetti alzò la testa dal proprio bicchiere, aprendo la bocca da sotto i baffi imperlati di piccoli Tarzan di vino liquoroso.

- Allora per lei anche Marina Abramović è arte? - chiese, senza che un singolo tarzanello perdesse la presa.

- Ma per carità - inorridì Zeno posando il bicchiere da cui stava per bere, come se anche solo il nome che l'architetto aveva pronunciato fosse solubile e in qualche modo velenoso. - No, qui bisogna essere chiari.

- Sì, appunto - disse Piergiorgio nell'orecchio di Margherita. - Chi minchia è Marina Abramović?

- È un'artista serba che fa installazioni un po' estreme - rispose l'architetto Giorgetti, che evidentemente sapeva leggere le labbra - oppure Piergiorgio aveva parlato a voce un po' più alta di quanto credesse, ma la verità non la sapremo mai.

- Dica pure schifose - replicò il collezionista. - Vede, dottor Pazzi, questa sedicente artista tempo fa alla Biennale di Venezia si piazzò in un palazzo con una montagna di quarti di manzo e cominciò a disossarli, gettandosi alle spalle gli ossi scarnificati, che rimanevano lì, accumulandosi per giorni e giorni. In teoria, una installazione che avrebbe dovuto comunicare l'orrore della guerra nella ex Jugoslavia. In pratica, una femmina in tunica che squartava delle bestie morte.

Zeno Cavalcanti ebbe un'espressione di autentico disgusto, non si sa se dovuto allo squartamento, alla femmina o alla tunica che magari era fuori moda.

- Particolare non trascurabile, intorno non c'era nessuna teca - precisò l'architetto. - Qui il tanfo si sentiva davvero. Parecchi amici sono stati concordi nel dire che intorno all'artista c'era un puzzo da varare una petroliera.

- Ma quale artista, architetto. Questa non è arte, questa è una bieca aggressione dei sensi.

- Sì, certo, non tutti sono in grado di sopportare il lezzo di una catasta di carogne putrefatte - accordò l'architetto. - Ma forse il punto è proprio questo, voglio dire. Lei porta ancora con sé l'impressione non proprio quotidiana di una valanga di ossi spolpati, e...

- Se lei crede che a farmi impressione sia veder squartare dei pezzi di bovino è fuori strada - rispose Zeno, compassato come sempre. - Ho passato la giovinezza a scotennare maiali, molti dei quali avevo visto crescere e che conoscevo per nome. Alcuni li avevo battezzati io.

L'architetto sollevò le sopracciglia a formare un grazioso arco a sesto acuto, di foggia vagamente gotica, e si rivolse verso Alfredo.

- Vero, verissimo - confermò Alfredo, con calma. - Vede, nostro padre voleva che un giorno entrambi fossimo in grado di condurre la fattoria, e quindi ognuno dei due doveva essere capace di svolgere tutti i lavori della fattoria, incluso macellare le bestie -. Alfredo trasse un respiro tra il diaframma e l'intestino. - Non è una cosa che ci si scorda, ma è una cosa a cui si può fare l'abitudine.

- Esatto - approvò Zeno. - Adesso, mettiamo da parte la norcineria e torniamo all'arte. Perché l'arte, architetto, l'arte è astrazione. Un disegno di femmina non è una femmina, è un simbolo. Un simbolo astratto, individuabile come femmina, ma non una femmina tout court.

- Capisco. Lei mi sta dicendo che non ci si può trombare un acquerello.

- Esattamente. Precisamente -. Per la prima volta, l'anziano collezionista approvò visibilmente i modi grevi dell'architetto. - La guerra provoca orrore e disgusto, e voi non sapete cos'è. Questo il concetto, e va bene, ma sono tutti capaci di provocare disgusto e orrore facendoti entrare in una macelleria. Ma bisogna essere Picasso per dipingere Guernica. E farti provare orrore e raccapriccio e sofferenza passando solo attraverso il cervello.

- E la vista - disse Piergiorgio.

- Prego?

- Anche la vista è un senso, come l'olfatto. L'arte passa attraverso i sensi, me lo ha spiegato lei poco fa. E l'olfatto è un senso esattamente come la vista. Ho come l'impressione che quello che la infastidisce tanto dell'opera di Marina Abramović sia il fatto di non poterla comprare.

- Quello che mi infastidisce di quest'opera, dottor Pazzi, è che non può durare - disse Zeno con forse un pochino troppa amabilità. - Riconosco che avrei difficoltà ad apprezzare una piramide di carcasse che marcisce nel mio giardino, ma la cosa importante è che l'immondo ammasso non mi sopravviverebbe. L'arte, l'arte vera, è fatta per essere eterna.

Piergiorgio lasciò decantare questa affermazione per qualche secondo, due o tre appena. Il tempo di dare la giusta enfasi a quello che stava per dire.

- Allora anche quadri e sculture, se è per quello, non sono arte - disse, pacatamente, come chi sa di dire una cosa ovvia. - Sono oggetti materiali, quindi destinati a corrompersi, a corrodersi, a rovinarsi. Pur tuttavia sono in grado di colpire i miei sensi, da quello più nobile e accettabile socialmente come la vista a quelli tanto deprecabili come l'olfatto.

L'architetto Giorgetti alzò nuovamente le sopracciglia, stavolta in foggia un pochino più medievale, probabilmente sorpreso dal fatto che anche Piergiorgio sapesse usare parole di cinque sillabe.

- Quando, poco prima, abbiamo parlato di quella scultura di guano...

- Escrementi di panda, per essere precisi - ricordò l'architetto.

- Sempre di cacca si tratta. Quando si parlava di questa opera d'arte, lei giustamente diceva che la cosa mi ha provocato un'emozione, e che quindi non me la scorderò.

Ora ti riconosco, diceva lo sguardo dell'architetto. Ma Piergiorgio continuò a guardare il collezionista.

- Il fatto è che mi ha emozionato parlarne, non guardare l'opera. Se lei mi parlasse di Guernica, se me lo descrivesse, non mi emozionerebbe. Guardare l'opera, invece, sì. La venere di cacca non è arte, casomai è letteratura.

Anche stavolta, Margherita sorrise.

E il sorriso sembrò a Piergiorgio molto più aperto di quello di prima.

- Magari a lei interesserebbe di più sapere come mai io e mio fratello siamo così, diciamo, divergenti? - Zeno Cavalcanti si guardò intorno alla ricerca di qualcosa per sedersi, e decise che il già nominato divano di falli in polimero termoplastico espanso poteva andare. - È per questo, in fondo, che è venuto qui, giusto?

Anche. Ma non solo. Di gemelli diversi in questi anni ne ho trovate parecchie coppie, ma di ragazze come Margherita nessuna.

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Dalla posta dell'architetto



Da: marco.giorgetti@studiochiorboni&giorgetti.it

A: paolo.giorgetti@distoc.unipi.it


Carissimo fratello mio,

ci sono costruzioni che durano, e costruzioni che durano un po' meno.

Il che, prima di iniziare a raccontarti di quello che è successo stasera, mi porta a renderti edotto della meravigliosa vita di Maramao di Atene.


Maramao di Atene era figlio di Bubusettete di Samo, architetto e scultore contemporaneo di Pericle, che si vide bocciare il proprio progetto per il tempio di Atena sulle colline dell'Acropoli, che prevedeva una costruzione gigantesca, con sei ordini interni di colonne, sovrastata da un fregio che riportava inciso, a lettere grandi quanto un elefante, la scritta «MIRATE POPOLI TUTTI DELL'ELLADE QUANTO CE L'HANNO GROSSO AD ATENE». Il progetto, ritenuto sfarzoso, ridondante e troppo costoso, venne bocciato severamente dall'assemblea, che consigliò all'architetto di concentrarsi su edifici di dimensioni ridotte e che, soprattutto, costassero meno.

Memore della batosta presa dal padre, il figlio Maramao realizzò il Partenino, con il quale tentò di simboleggiare l'austerità tipica del duro periodo storico. Il tempio era caratterizzato dalle ridotte dimensioni (era alto appena tre peli traci, pari a cm 59, e ci si poteva entrare soltanto strisciando sui gomiti, tipo incursori della marina) e dalla statua di Atena Sòdomos, o «Atena che ti va nel culo», una scultura della dea raffigurata in un altero gesto dell'ombrello. Il fatto che l'opera architettonica fosse stata costruita interamente con blocchi di feta ne compromise la funzionalità sin dai primissimi tempi dalla sua ultimazione, in quanto pare che al suo interno il puzzo fosse «superiore a quello di un manipolo di spartani dopo la battaglia (Diogene Laerzio)»; sentitisi offesi dall'architetto e dalla sua opera, gli ateniesi tramite voto democratico decisero per l'ostracismo preceduto dall'obbligo di mangiarsi interamente l'opera senza nemmeno un'olivetta per buttarla giù.


Questo, caro il mio, ci impone una doverosa riflessione sul come costruire il mirabolante complesso architettonico-ludico che ci accingiamo a cominciare per conto della SeaNese.

Perché sì, caro mio, ci siamo.

I fratelli Cavalcanti, Zeno didietro e Alfredo davanti, hanno finalmente rotto gli indugi e ci hanno comunicato la loro decisione di vendere la tenuta. Per inciso, la comunicazione non è stata esattamente una roba asettica da consiglio di amministrazione, quelle riunioni dove arriva l'amministratore dileguato e ti dice via Scàip che la policy dell'azienda impone un reasset delle competences e quindi, dopo aver analizzato la situazione, ci tocca analizzare un buon trenta per cento dei dipendenti, nel senso che glielo buttiamo nel culo e si licenziano, il consiglio a larga maggioranza approva e via, aperitivo, troie&coca.

La decisione ci è stata data a cena, con modalità quantomeno curiose, di fronte a tutti gli affittuari, i famigli e gli ospiti della tenuta. Infatti Alfredo, prima di comunicare, ha spiegato che i fratelli, non riuscendo a smuoversi dalle loro posizioni e non trovando nessun possibile terreno di discussione, avevano preso poco tempo prima di demandare la decisione alla biologia.

In pratica, hanno fatto convocare un genetista e si sono fatti analizzare (non nel senso di prima, eh, anche se credo che entrambi non disprezzerebbero) e si sono fatti dire chi di loro due aveva la maggior probabilità di campare di più, secondo le attuali conoscenze della scienza medica. La decisione era stata presa a priori: chi campa di più, ha ragione.

È venuto fuori che a campare di più, almeno secondo i dettami dei moderni Esculapii, sarà Alfredo. E senza attendere nemmeno l'esito delle controanalisi, come per l'antidoping, il dado è tratto.


Questo è quanto hanno detto a cena, stasera, dopo il caffe. E sarà stato il caffè, sarà stato il caldo, non ce n'è stato uno che non si sia incazzato come un ippopotamo, sembrava di stare nella sala d'aspetto dell'esorcista.

S'è incazzato Torregrossa, il meccanico, che è uno che non ci litigherei nemmeno se mi dessero un bazooka perché credo sarebbe in grado di annodarlo, che ha cominciato a dire te Zeno ci avevi assicurato che non avresti mai venduto e che non c'era alcun bisogno di vendere.

S'è incazzata Giancarla, l'alchimista, che non ha detto niente ma si è messa a sbriciolare le croste di pane che se al posto del pane ci fosse stato il collo di qualcuno sarebbe stato meglio.

S'è incazzato Piotr, il polacco, quello delle pulizie, che secondo lui vendere agli infedeli è peccato mortale e altre cose che non ricordo perché non lo càava nessuno e non vedo perché io avrei dovuto.

S'è incazzato il maestro Della Rosa, che ha cominciato a dire te guardalì vai a fidarti della scienza, certo lei professore se invece di venire qui a contare i telomeri andava un po' in camporella a sdraiare la sua amica con gli occhi verdi sui papaveri si stava meglio tutti, ma lì non è il caffè, è che era sbronzo.

A quel punto s'è incazzato Pazzi, già da uno con quel nome c'è da aspettarsi di tutto, dall'ira alla congiura, che s'è messo a sbraitare che era stato manipolato e che lui era uno scienziato e non uno stregone e che mai e poi mai se avesse saputo si sarebbe prestato a interpretazioni così ingiustificate di quella che era una mera probabilità, e che, cito a memoria, se volevano dare la responsabilità a lui avevano sbagliato palazzo e che avrebbe preferito di gran lunga anche lui andare a trombare invece di venire convocato a presa di giro perché qualcuno sperava che dicesse il contrario di quello che aveva detto e poi venire accusato di cose che non lo riguardavano.

A questo punto credevo si sarebbe incazzata anche la filologa, che come t'ho già detto ma te lo ripeto è una topa clamorosa, ma siccome è anche un crostino credevo sarebbe andata sul muso al Pazzi, e invece niente, si è alzata e è andata via.

Meno male che al posto suo s'è incazzato Raimondo, quel tizio che ti dicevo un paio di settimane fa, che all'interno della tenuta a parte lavarsi fa tutto lui. Lui però è valso il prezzo del biglietto, pareva un film di Sergio Leone. S'è piazzato davanti a Alfredo e lo guardava senza dire niente. Allora Alfredo gli ha chiesto se anche lui non avesse niente da dire, e Raimondo senza cambiare espressione gli ha detto «io so solo una cosa, che io son quello che ti scava la tomba».

E te lo metto fra virgolette, mio carillimo, perché sono state le sue esatte parole.


Insomma, mio carèrrimo, scene western, ma di quelle di quando s'era piccini, che andavamo al cinema con le fionde e le pistole a fulminanti.

E non s'è ancora acquietato, perché stamani ho già avvertito un po' di maretta e prima sentivo diverse persone giù davanti alla casa padronale che parlavano di Raimondo e lo cercavano. Via, tocca vestirsi e fare la valigia, perché mi sa che ora come ora questa gente non mi vede volentieri. Poi toccherà tornare, però, perché qualcuno lo dovrà costruire, l'ecomostro. Per il momento ti saluto,


Il tuo affezzzzzzionatissimo (con 6 zete, che non le metto a tutti),

Votàlfiasco Romeo Giorgetti

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