Copertina
Autore Giorgio Manacorda
Titolo Il corridoio di legno
EdizioneVoland, Roma, 2012, intrecci 85 , pag. 160, cop.fle., dim. 14,4x20,4x1,4 cm , Isbn 978-88-6243-107-1
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

Le porte si aprono e un grande sospiro di sollievo si leva silenzioso confondendosi con l'aria fredda di Berlino. Oggi niente neve e niente ghiaccio. Siamo atterrati all'asciutto. Una volta non era così, faceva freddo e c'erano montagne di neve, sentieri scavati nella neve, muri di neve. Ci dovevamo aprire la strada spalando neve. D'inverno era la nostra punizione. Ogni infrazione alla disciplina finiva in neve. Ma nella neve facevamo anche l'amore, era così alta che il calore creava una sorta di cuccia, e poteva succedere quasi tutto con la figlia del fornaio, con la ballerina inglese del grande albergo o con la compagna di scuola dagli occhi azzurri. La neve. Una volta abbiamo chiuso fuori dalla finestra il ragazzino americano che camminava sui cornicioni. Siamo andati a cena e ce lo siamo dimenticato lassù. Quando lo abbiamo cercato, Jack non c'era. Lo abbiamo trovato in un gigantesco mucchio di neve: era saltato dal secondo piano e si era infilato in un buco profondo tre metri senza possibilità di muoversi. Poteva morire. Malgrado la disciplina e la sorveglianza, scappavamo di notte per andare a pattinare su qualche stagno gelato incespicando e cadendo, scontrandoci come sulle macchinine dei luna park.


Il collegio sembra bello solo dopo molti anni.


Sceso dall'aereo, in quell'autobus aeroportuale, stretto tra una pettoruta e ciarliera matrona tedesca e un francese palesemente schifato dei contatti umani, sballottato nelle imperscrutabili curve e giravolte che sull'immenso sgombro piazzale venivano imposte all'affollato automezzo dall'allegro autista, ero arreso agli eventi: potevano fare di me quello che volevano, sarei comunque rimasto in piedi mentre i ricordi mi invadevano e cancellavano quel trasbordo proprio come avevano cancellato il volo. La potenza dei ricordi. La loro selettiva ferocia. Per tutto il viaggio la mente era andata al mio compagno di stanza, Andrea - è per lui che sono tornato a Berlino. Ai tempi del collegio era fragile, ancora malato. Si abbandonava a lunghe lente passeggiate solitarie e più di una volta si era fermato sull'orlo di uno strapiombo pensando di fare il passo che mancava, quello che avrebbe messo fine alla sua vita senza infanzia e senza adolescenza. Gli altri correvano, si scalmanavano, giocavano e litigavano, lui li guardava in silenzio da lontano, isolato in una sua mesta superiorità. E non ci sarebbe stato nulla di male se quella diversità non lo avesse reso sospetto agli altri ragazzini, che forse sentivano la sua invidia, e quindi, inconsapevoli, gli erano ostili. Per questo, credo, fu oggetto della famosa Dusche, la doccia. Una condanna emessa da un tribunale anonimo nelle alte stanze dei ragazzi più grandi.


Svegliarono Andrea con una mano sulla bocca. Fu messo dentro una coperta e sollevato di peso. Quell'azione segretissima si rivelò di pubblico dominio appena dalla nostra stanza uscimmo nel corridoio di legno. Holzgang, così si chiamava il dormitorio delle medie inferiori. Il parquet scricchiolò, si aprirono le porte di tutte le stanze e un corteo di ragazzi seguì quel poveretto e i suoi aguzzini fino negli scantinati maleodoranti di grasso per scarponi, cucina e cessi. Fu spogliato e il pigiama buttato dalla finestra. Ebbe inizio la doccia gelida e rovente, poi di nuovo gelida poi di nuovo rovente. La pelle gli si arrossava. Non ricordo che si lamentasse con forza o con disperazione. Forse temeva torture peggiori, o pensava di meritarsi quella punizione, o forse gli piaceva. Non si è destinatari per caso di certe pratiche sadiche. I peggiori si avvicinarono con gli accendini accesi ai peli del pube, che non prendevano fuoco fradici com'erano, ma quella fiamma vicina al pene e ai testicoli evocava innominabili purificazioni, falò, danze, sacrifici. Un rassegnato terrore era negli occhi di Andrea, nel suo pallore da ragazzino malato, traspariva dalle efelidi sparse per tutto il corpo, dalla carnagione giallastra, dalla molle pelle appoggiata su una magrezza più da bambino che da adolescente. Fu imbrattato di grasso per scarponi e sistemato su una panca col sedere per aria. La latente omosessualità collettiva si sfogò sotto forma di tre ciabattate a testa su quel culo rosso nel quale fu infissa una candela accesa. Finito il barbaro rito, fu riportato in camera. Non parlava e non piangeva. Nudo davanti allo specchio cercava di asciugarsi e pulirsi.


A questo pensavo aspettando i bagagli. A mia parziale discolpa posso solo dire che non avevo infierito, ero stato uno spettatore attonito. Ma il peggio per Andrea venne dopo. La doccia aveva reso visibile a tutti il suo stato di paria, era un appestato. Nessuno parlava più con lui se non per dargli ordini o insultarlo. Se posso tentare di migliorare la mia immagine, ricordo che lo difesi più di una volta. Una in particolare: era accerchiato sul pianerottolo della sala studio e suo fratello Silvestro, che si vergognava di lui, spalleggiato da un tedesco un po' isterico e molto aggressivo, lo stava provocando fra i lazzi degli altri. Io mi sono interposto e sono riuscito a farli smettere. Non so, forse era solo pietà.


La luce fredda davanti all'aeroporto, la ricerca di un taxi, il vento che mi taglia la faccia, l'inadeguatezza del mio cappottino italiano di colpo fanno scomparire tutti i pensieri del viaggio. Sono a Berlino per un'indagine. Mi devo documentare sul soggiorno di Andrea in Germania. Dopo tanti anni, è il personaggio chiave della mia inchiesta. Potrei dire che hanno inviato me perché conosco la lingua, ma in realtà non mi ha inviato nessuno. L'indagine è tutta mia, affonda le radici nella nostra giovinezza. Non potevamo immaginare quanta parte della nostra vita futura si sarebbe giocata in quegli anni, in quel collegio.


Berlino mi riporta indietro, molto indietro, mi riporta all'Institut auf dem Taubenberg immerso nel verde nord della città: i campi, i prati e soprattutto i boschi di Reinickendorf e i silenziosi quartieri delle ville e dei giardini. Castelli, fattorie, laghi e corsi d'acqua. Una pace appena disturbata dal non lontano aeroporto di Tegel. Dove sono atterrato già col pensiero a quei luoghi e a quegli anni, e non solo per ragioni sentimentali: in quei luoghi comincia questo mio racconto. Non sono qui per visitare il vecchio Internat, sono qui per Andrea, che a Berlino si è rifugiato quando in Italia la rivolta studentesca è fallita. Dopo la rivolta, infatti, si erano perse le tracce di Silvestro che ne era il leader, mentre di Andrea si sapeva che era riparato in Germania. Gli altri fuggiaschi erano quasi tutti andati in Francia, a Parigi, e lì si erano riuniti in comunità, con i loro capi, i loro discorsi, le loro mitologie e i loro eroi. Ma quelli, bene o male, erano dei militanti. Andrea aveva deciso di starne alla larga, e poi non sapeva il francese, mentre parlava benissimo il tedesco. Aveva deciso di tornare a Berlino. Ma in tutti quegli anni cosa aveva fatto? Chi o cosa era diventato?


Trovare Lotti è stato facile, il suo albergo era sempre lì, nascosto dalla folta vegetazione, appena-sopra il ruscello, ai limiti dell'hinterland berlinese, non lontano dal collegio. La breve salita una volta sterrata era ormai asfaltata, sulla destra alberi ad alto fusto e sulla sinistra la siepe che nascondeva il vecchio muro di cinta.

Alla reception una bionda anoressica mi ha detto:

- Le chiamo subito la signora. Chi devo annunciare?

Ha digitato un numero interno ed è apparsa Lotti, sempre uguale a sé stessa, solo la sua femminilità era addirittura più carica, meno esplosiva, forse, ma non meno evidente. Sembrava tranquilla, tristissima e radiosa. Non smette di essere la donna più donna che io abbia mai conosciuto, ho pensato, ammirandone il seno, i fianchi, e l'energia sopita e pervasiva. Mi ha preso per mano e mi ha portato su un divano in fondo al salone. Ci siamo seduti, e lei ha tentato di sopportare il silenzio guardando fuori dalla grande vetrata. Ma c'erano solo nuvole e alberi al di là del prato all'inglese. Niente vento, tutto era immobile come in un quadro di Hopper.

- Quando alla fine del liceo ce ne siamo andati da Berlino - ho cominciato; è bastato questo e mi ha detto di aver rivisto Andrea sulla Hohepromenade, tempo addietro, seduto su una panchina. Lei si era avvicinata incredula e si era seduta accanto a lui che seguitava a dare da mangiare a uno scoiattolo:

- Mi ha domandato come stavo. Bene, gli ho risposto e tu? Bene, mi ha detto. Sei qui in vacanza? No, sono qui per rimanere. Così, capisci, come se ci fossimo visti il giorno prima. Sono arrivato da tre giorni, ha detto.

Lotti gli aveva chiesto perché non era andato subito da lei, e Andrea sorridendo le aveva risposto: "Con quello che ti ho fatto!" E avevano riso tutti e due al ricordo del taglio della coda di cavallo.

- Io comunque l'avevo capito che era un disperato atto d'amore, e glielo ho anche detto. Ma non mi doveva far soffrire così. Perché aveva smesso di scrivermi? La vita, mi ha risposto, le ragioni che mi riportano qui.

Ma a Lotti quelle ragioni interessavano poco, le bastava che Andrea ci fosse di nuovo.

- Ormai era un uomo, aveva quasi trent'anni. Tu lo conosci. Sarà sempre scontento e insoddisfatto. Ma è restato con me, almeno per un po'.


Forse per lei la mia indagine non aveva molto senso, ma ho provato lo stesso a dirle che secondo me Andrea aveva lasciato Roma e il Movimento perché aveva capito prima degli altri come sarebbe andata a finire; così senza dire niente a nessuno era tornato. Sapeva che l'avrebbe trovata ad aspettare, a modo suo anche lui l'amava, e magari era contento, certo aveva bisogno di riposo, se non fisico, mentale. Una vacanza per decidere che fare della propria vita: Lotti, la Germania, un lavoro e magari dei figli, o l'Italia, la lotta armata, la galera o addirittura la morte. Io so che non ci credeva, al sol dell'avvenire:

- Che c'entra Andrea con il terrorismo?!

Le ho dovuto rispondere che nessuno di noi, in un modo o nell'altro, l'ha potuto evitare. Ci sono cose che non capiremo mai.

- Lui non era un assassino!

- I soldati non sono assassini, basta pensare di combattere una guerra, una guerra giusta, come tutte le guerre da quando esiste il mondo. Ma Andrea non ce l'aveva con gli altri, come gli assassini veri. Lui ce l'aveva con sé stesso.

- Come era tornato se ne è andato, e io spero sempre che si ripeta il miracolo della Hohepromenade, spero sempre che suoni alla mia porta, o mi scriva o mi telefoni; ormai si sarà sposato e avrà avuto dei figli con un'altra.

Dopo qualche secondo le ho chiesto se sapeva perché era tornato a Berlino. Si rendeva conto che non era necessariamente per lei, ma non importa, ha aggiunto.

- Vorrei solo sue notizie. È da allora che non so più niente. Nessuno qui sa niente, neppure Steiner.

- Steiner?

- Andrea era andato a lavorare in una casa editrice. Sembrava perfino tranquillo, e molto soddisfatto del suo lavoro.

- Ma allora perché è tornato a Roma?

- Lui non raccontava la sua vita in Italia.

- Devo sapere che cosa è successo a Berlino.

- Per aiutarlo?

Con un filo di voce mi ha chiesto cosa doveva fare. Le ho detto di fissarmi un appuntamento con quell'editore.

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Pagina 31

Stefano non si era ridotto come Franz, anzi, aveva conquistato un suo vanesio portamento, dava l'impressione di essere sicuro di sé, di tagliare la folla e il giorno senza deflettere e senza riflettere. Insomma, era molto diverso dal ragazzo che mi ricordavo, e lo conoscevo bene perché con Stefano avevamo in comune una cosa molto importante, il luogo dei bisogni primari. Il corpo non perdona, e non perdona tutti i giorni. Se la neve è stata la mia consolazione durante quell'esilio, i bagni condivisi erano una vera e propria punizione, quella promiscuità, gli odori, e soprattutto la non disponibilità nel momento del bisogno. Era la cosa peggiore, ma dopo tanti anni di collegio, una serie di invereconde manovre e astute strategie, mi ero guadagnato un bagno tutto per me, o quasi. Un vero privilegio. Completamente rivestito in legno, emanava un buon odore di pino e di cera. Era luminoso e accogliente. Aveva tappetini marroni, attaccapanni in legno chiaro, una grande vasca di ghisa con i piedini a forma di foglia e i rubinetti a becco d'anatra cromati e un po' lisi, le manopole a raggi tondi che terminavano con una pallina perché non sfuggissero tra le dita umide e saponose. Era l'unica stanza da bagno di tutto l'Internat. Gli altri si dovevano accontentare delle docce in comune. Ma, accanto ai tanti pregi, aveva qualche innegabile difetto. Il primo, tollerabile, era che lo dovevo dividere con il mio compagno di stanza. Un inglese che la sera si levava gli occhi e li metteva nel bicchiere, a mollo nell'acqua. Non dimenticherò mai la prima volta che si tolse le lenti a contatto. Mi sembrò che enucleasse dal cranio una protesi di vetro. A parte l'orrido rito serale era un bravo ragazzo, gentile, riservato e molto metodico, regolare in tutto. Quindi anche nell'uso del bene più prezioso che avessimo in comune. La convivenza era possibile. L'imperfezione vera di quel bagno, peraltro portentoso, era una porta che, incastonata in quella avvolgente boiserie, comunicava con la stanza di Stefano e di un tedesco di nome Eberhardt, il quale sapeva già che avrebbe fatto l'ingegnere, e questo sembrava dargli una serenità che rasentava la saggezza, come se dicesse al mondo: voi non lo immaginate, ma io sono una persona positiva, pratica. Io costruirò le strade su cui voi camminerete, le case in cui voi abiterete. Non potrete vivere senza di me. Era calmo, appagato. E noioso. Era nato cinquantenne. Ma non disturbava. Lui e l'inglese orbo si erano dati dei turni. Stefano, invece, soffriva di emorroidi, e non parlava d'altro con una voce che riusciva a essere allo stesso tempo afona e stridula. A modo suo non era brutto con quel nasino piantato come un oggetto estraneo nel bel mezzo di un viso olivastro perfettamente ovale, quasi da fanciulla. Ma il problema, per me, era che con la scusa dei suoi - capisco - non trascurabili problemi invadeva il mio buen retiro. Quel bagno era diventato la mia casa, il mio bozzolo, la mia culla. L'unico luogo in cui potevo stare da solo. Lì studiavo, ascoltavo musica, lì piangevo e ridevo, lì mi accadeva di mangiare e lì talvolta dormivo. Con Eberhardt e l'inglese tutto ciò era possibile. Non con Stefano. Basti pensare che aveva occupato per intero l'unica mensola, alla destra dello specchio, con una serie di bottiglie e bottigliette, creme, unguenti, sciroppi, che sceglieva con cura, variandoli in modo misterioso. Il rito era legato all'estro, all'ispirazione del momento, alla percezione delle più sottili vibrazioni di innominabili parti del suo corpo. Mandava giù cucchiaiate di quei composti oleosi, "per facilitare" diceva. E c'era dell'autentico entusiasmo nella comunicazione urbi et orbi del grande risultato, quando arrivava. I due stranieri, l'inglese e il tedesco, non sarebbero mai giunti a tanto. Rispettavano la mia dolce follia come io rispettavo i loro turni. Ora, a distanza di anni, capisco che anche io dovevo essere una presenza difficile per Stefano, il quale sopportava la mia occupazione del prezioso locale solo in virtù della mia autorità di anziano, e dell'imperio della mia colite. Infatti i miei bisogni erano spesso perentori, immediati e ineludibili. Il problema non era intestinale ma mentale. In quei momenti misuravo tutta la mia inadeguatezza alla vita e la mia solitudine. Stefano invece aveva una ragazza con cui rimpiazzare la madre assente. E gliel'avevo procurata io convincendo Annalisa, in modo subdolo, lo riconosco, delle nascoste qualità del mio "compagno di bagno". Lei era una moretta esuberante con i fianchi larghi e un incarnato rosa ciliegia. Ciarliera, simpatica forse, se non fosse stata disturbata da un aggressivo devastante buon'umore. Schiacciato tra le dotte, ansiose disquisizioni anali di Stefano e il continuo trillare degli entusiasmi di Annalisa, ma soprattutto desideroso di allontanare lui dal mio eremo, avevo pensato bene di liberarmi di tutti e due accoppiando la di lei delirante spensieratezza alla di lui esegetica maniacale attenzione a ciò che accadeva nel punto più oscuro, ma non per questo meno sensibile, del suo corpo. Fatto sta che, sotto i miei attoniti occhi di ruffiano, l'operazione andò in porto con grande facilità, come se non avessero aspettato altro: l'inconsapevole diffusa espansiva vitalità di Annalisa si fuse senza residui apparenti con la limitata miserrima silenziosa dolorante cupezza di Stefano. Le due visioni del mondo, e i loro corpi, si sposarono in una elementare e imprevista quanto armoniosa complementarietà. Fu così che mi ritrovai solo, depresso, e invidioso della loro felicità.


L'esame di maturità si avvicinava, e non si può dire che lo studio fosse la mia passione. Comunque in qualche modo ce l'ho fatta, ce l'abbiamo fatta tutti, ed eravamo felici - ma sapevamo che non ci saremmo più visti. Stefano tagliò corto: partì subito giurando eterno amore alla sua esuberante moretta. Io no, io sono rimasto ancora una settimana, rinviando di giorno in giorno. Non volevo tornare perché non sapevo cosa fare. Non volevo andare all'università, non mi piaceva studiare, ma non volevo neppure andare a lavorare. Ho pensato all'esercito, ma l'ho scartato perché troppo pericoloso. Sono partito quando ho capito che sarei entrato in polizia. Mi sembrava una bella cosa lavorare per la sicurezza di tutti. A mio padre dissi che era ora che anche i democratici e quelli di sinistra entrassero nelle forze dell'ordine, sennò non cambiava mai niente. Scegli una strada difficile, mi disse. E aveva ragione. Quanta ragione avesse l'ho sperimentato durante il movimento studentesco. Mi sono trovato faccia a faccia con i miei coetanei - io, almeno fino a un certo punto, la pensavo come loro, ma lo scontro era inevitabile. È stato allora che ho rivisto Stefano, l'ho rivisto in una fotografia e senza pensarci l'ho cerchiato di rosso, come facevamo quando nelle manifestazioni, spesso cruente, riconoscevamo qualcuno. Aveva i capelli lunghi, l'eskimo e una specie di barba, ma era lui. Avrei voluto cancellare quel cerchietto a pennarello rosso, non lo volevo mettere in evidenza, non lo volevo denunciare. Ma la voce del mio superiore mi arrivò da dietro e dall'alto:

- Quello è uno pericoloso, è già schedato, ha tirato qualche bottiglia Molotov. Si chiama Stefano non so cosa. Tu che ne sai di lui?

- No, niente, stavamo in collegio insieme, tanto tempo fa.


Michele non l'ho rivisto in fotografia, me lo sono trovato davanti durante uno degli scontri più duri, nei giardini di una famosa facoltà universitaria. È uscito da un cespuglio con una sbarra in mano, mi veniva addosso determinato, per fare male, ma io l'ho riconosciuto subito: niente barba, niente baffi, capelli corti e una normale giacca di pelle. Ho abbassato il manganello e ho alzato la visiera del casco. Ci siamo guardati negli occhi, ma quell'attimo mi è stato fatale, mi sono arrivati alle spalle, mi hanno scaraventato per terra, tolto la pistola e strappato il casco, ma mentre rotolavo contro un albero ho visto Michele urlare e prenderli a sprangate, recuperare la pistola, buttarmela accanto e sparire. Il freddo Michele sentiva il legame delle nostre origini, non sfuggiva, neppure lui, agli anni della nostra formazione tedesca. Se Stefano era l'olivastro ragazzino ossessionato dalle emorroidi, Michele era già allora di tutt'altra pasta. C'è un episodio che lo descrive bene. L'usanza della Dusche - di fatto tollerata dalla direzione del collegio come forma di autogoverno dei ragazzi - diventò di dominio pubblico quando un ragazzino scappò in piena notte e fu trovato per caso mezzo assiderato nella neve. I genitori fecero causa al collegio, i giornali nazionali sbatterono i mostri, cioè noi, in prima pagina, e insomma ci furono inchieste, indagini, e interrogatori presso l'equivalente di un nostro commissariato di polizia. La stanza bassa e fumosa, tre o quattro tavoli ognuno con un gendarme e uno studente. Il caldo denso risultante dai termosifoni, dalla traspirazione di troppe persone e dalle troppe sigarette. Ero molto spaventato e quindi molto spavaldo. Il poliziotto, per niente benevolo, mi interrogava in un suo impreciso italiano. Io infatti, essendo arrivato da poco, parlavo un tedesco che era più che altro un non-italiano: un gergo collegiale che mescolava tutte le lingue in un involontario casuale esperanto adolescenziale. A una mia risposta arrogante, il teutonico milite, rubizzo per eccesso di grassi e di alcol, impallidì palesando sulle guance una rete di venuzze complessa e ramificata, che si accese lampeggiando quando, alla precisa domanda se era vero che al ragazzino erano stati bruciati i capelli con uno o più accendini, risposi sicuro che ciò non corrispondeva a verità. Il pallore si trasformò in ira e l'ira in un pugno sul tavolo, accompagnato da una serie di improperi in tedesco e minacce in italiano. Il tutto riassumibile nel concetto di menzogna. Mi feci un veloce esame di coscienza e poi risposi che no, non mentivo. Non gli erano stati bruciati i capelli. Il poliziotto ghignando cominciò a elencare la lunga serie di pene cui un ragazzino come me sarebbe andato incontro se non avesse detto la verità. Stavo per ribadire la mia versione quando, dal tavolo accanto, Michele, madre italiana e padre tedesco, mi disse ridendo:

- Ma no, non i capelli, vuole dire i peli del cazzo!

In tutta onestà non potevo certo negare che ci fosse stato un tentativo di incendio del pube, e non persi l'occasione di spiegare all'attonito poliziotto, che non capiva cosa ci fosse da ridere, la differenza intercorrente tra capelli e peli, e in particolare i peli dell'intima regione corporale in questione. Tra me e Michele correvano sguardi di ilare stupida complicità, ma alla mia ammissione il milite si placò. Michele era leggero, silenzioso, gelido nelle battute ma sempre presente; in qualche modo adulto, era pronto ad aiutare senza pretendere nulla in cambio, lo faceva solo perché capiva e non gliene importava niente, con altrettanta freddezza avrebbe potuto girare gli occhi da un'altra parte e ignorarti del tutto. Il suo era un disperato spietato complesso di superiorità.


I sodali di Silvestro erano dunque i compagni degli anni tedeschi. Un gruppo molto antico garantisce segretezza e fedeltà. Solo se si fanno insieme le stesse esperienze, le prime esperienze, ci si conosce davvero. Gli stessi traumi e gli stessi dolori rendono le persone simili, un clan, una setta con un inconfessato patto di sangue: chi ha vissuto la sua prima sera in collegio sa che è fatta di silenzio, anche se ti parlano, se ti spiegano con neutra attenzione come devi fare, quali sono i tuoi spazi. Ma nessuno ti dice perché sei lì. Dovresti saperlo, ma non lo sai. Non sai niente. Non sai come si chiude la finestra, non sai quali sono i tuoi cassetti, non sai dov'è il bagno, non sai chi sono i tuoi compagni di stanza, non sai che lingua parlano, hai capito che lì ne parlano tante, una diversa dall'altra, e tutte ti sono ignote. Non sai cosa puoi fare e cosa non puoi fare. Non sai cosa ti succederà. Non sai regole, regolamenti, usi e costumi. Qualcuno ti sorride, qualcun altro fa finta di non vederti. Qualcuno ti guarda sfottente: vedrai, pivellino. Vedrai, piccolo italiano pallido e spaventato. Poi vince la stanchezza e vince l'età, e ti addormenti per la prima volta in un paese straniero, per la prima volta gettato nel mondo. Per la prima volta solo. Più tardi capirai che sei solo, ma uguale. Questa è la solidarietà: stessa esperienza, stessi miti, stessa ferocia.

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Pagina 83

Sono tornato indietro e ho trovato Lynn che stava litigando con un uomo anziano e uno più giovane, una specie di bruto sporco massiccio e curvo, mentre l'altro, l'anziano, nella sua tuta da lavoro aveva perfino un bel portamento. Il giovane stava per metterle le mani addosso, quando io l'ho presa per un braccio e le ho detto:

- Andiamo via!

- Sono mio padre e mio fratello! - ha urlato, mentre quelli le davano della mignotta, e chissà dove andava girando che spariva continuamente:

- E questo chi cazzo è? - fa il bruto avvicinandosi minaccioso.

Lei si mette in mezzo:

- Questa è anche casa mia. E ci porto chi mi pare. Lui sta con me. Lui è il mio ragazzo! Va bene?

Il padre, per mettere pace, sibila:

- Lasciala andare. Che tanto sparisce comunque. Non lo sai?

Ce ne siamo andati mentre qualcuno, più lontano, scaricava un camion di mobili usati. Due ragazzi dipingevano di rosso una credenza. Raro sull'Olimpica il rombo delle macchine. L'aria era calma, e quella piccola conca tra il Tevere e Monte Antenne sembrava dimenticata da Dio.


Caro Friedrich,

il Tedesco, Stefano e Michele per me non sono solo dei nomi. Soprattutto l'amante del ragazzo, il Tedesco: mi ricorda un giovane pugile omosessuale del collegio. Sono quasi certo che si tratti dei miei compagni della nostra reclusa adolescenza. Tutti meno uno, Alberto, il migliore di noi, morto troppo presto in un incidente aereo. Mi rendo conto che per te è difficile capire da dove viene tutto questo, ma una cosa te la devo raccontare. Avevamo un professore di latino, un tedesco con casa a Roma. Herr Doktor von Staufenberg parlava un italiano pieno di venature romanesche e battute pesanti. Era tutto pacche sulle spalle e che vi frega di studiare, ma divertitevi, io alla vostra età... Possedeva un piccolo aereo, cosa che ci faceva impazzire, anche perché da Roma a Berlino era arrivato con quel suo improbabile veicolo a elica, riuscendo a stento a valicare le Alpi. Lui diceva che era stato bellissimo ma ammetteva di avere rischiato la vita. Raccontava ridendo che pochi anni prima, agli inizi dei '50, aveva sorvolato un comizio del Movimento Sociale Italiano scaricando un centinaio di pitali di plastica insieme al proprio biglietto da visita. I fascisti, aveva saputo, erano andati a cercarlo, ma lui intanto aveva cambiato casa.

- Così ho utilizzato tutti quei biglietti da visita ormai scaduti! - e gli occhi gli ridevano ai due lati del naso aquilino e sopra i baffoni da tricheco.

Una sera, già dormivamo, ci siamo visti capitare in camera il professore che ci ha buttati giù dal letto dicendo:

- Basta dormire, stasera ci si diverte. Vestitevi che vi porto a ballare!

Abbiamo chiamato anche Alberto, Stefano, Michele e Franz. Silvestro si è girato dall'altra parte borbottando che rischiare per andare a ballare era da scemi, che i rischi si prendono per le cose serie. Noi l'abbiamo mandato a quel paese e siamo saliti su un pulmino Volkswagen del collegio che il professore aveva - diciamo così - preso in prestito per quella notte. Ci siamo avventurati nel buio lungo strade piene di curve e dossi che Herr Doktor affrontava con grande allegria e stridore di gomme. Eravamo in uno strano stato d'animo: stavamo facendo una cosa proibitissima, ma la facevamo con un professore. Se ci beccavano cosa sarebbe successo? Secondo me, lungi dal perdonare noi, avrebbero sbattuto fuori anche lui, o soprattutto lui: un professore che capeggia una banda di debosciati che scappano di notte dal collegio e vanno per balere! Saremmo finiti male tutti e sei. In effetti la fuga stava per prendere una brutta piega, ma non per il collegio e le sue punizioni. Con un lunga frenata sulla ghiaia di un piazzale pieno di macchine, il prof si fermò davanti a un locale di periferia, un dancing, così c'era scritto a cubitali caratteri calligrafici rossi e blu. Siamo entrati e subito i maschi hanno cominciato a squadrarci oltre i bordi dei boccali di birra mentre le fanciulle facevano finta di niente. Era chiaro che eravamo stranieri e in particolare italiani, la cosa già di per sé non deponeva a nostro favore. Il professore, inoltre, benché tedesco, era chiassoso ed espansivo peggio di un italiano. Noi eravamo su di giri per l'evasione notturna, per la corsa in macchina e per la prospettiva di rimorchiare o soltanto di toccare una ragazza. Forse questi desideri e la connessa eccitazione trasudavano dal nostro comportamento, anche solo dai nostri sguardi. Io ero il più timido, ma di gran lunga quello che ballava meglio; con Lotti facevamo un rock acrobatico che non aveva niente da invidiare a quelli del cinema, così gli altri mi hanno buttato avanti. Ho resistito finché ho potuto, poi alla partenza di Rock Around the Clock mi sono rivolto a una biondina che avevo già controllato essere all'altezza del compito, e le ho chiesto se voleva ballare con me quel meraviglioso rock-valzer o valzer-rock. L'accoppiata del vecchio valzer con il rock l'ha colpita e con un luminoso sorriso si è alzata e ci siamo esibiti in un ondeggiante, aggraziato e non eccessivo rock classico che ha fatto il vuoto intorno a noi e si è concluso tra gli applausi dei miei amici e di qualche ragazza, ma nel silenzio ostile degli altri maschi e delle loro compagne. Non era tollerabile che quattro o cinque italiani in pochi minuti occupassero tutta la scena facendo brillare gli occhi delle annoiate ragazze. La situazione si aggravò quando anche gli altri, professore compreso, si lanciarono nel ballo. Il professore ballava da vecchio viveur, leggero ed elegante nei balli classici, dai lenti alle mazurche, che il padrone del locale alternava ai boogie e ai rock. Con grande saggezza non scendeva sotto le quarantenni, le accompagnava al centro della pista, le cingeva con un lieve inchino e le faceva volare, mantenendo anche nei lenti opportune distanze. Voleva essere d'esempio per noi, ci voleva dire: attenti, comportatevi bene, vi ho portato qui ma il clima è ostile, non fate passi falsi, non stringete le ragazze, non vi esibite troppo. Silenziose raccomandazioni che non servirono a molto, non so ancora se per la nostra esuberanza o solo per odio del proletariato svizzero nei confronti degli stranieri e degli italiani in particolare.

Alberto, che era bruttino, mingherlino, ma il più intelligente e di gran lunga il più colto di tutti noi, si muoveva come un burattino di cui qualcuno lassù in alto tirasse i fili mettendo in difficoltà le ballerine al livello dei piedi, ma lui le investiva con una tale valanga di parole che dopo poco si facevano fare qualsiasi cosa rapite da quegli occhi scuri e lampeggianti, da discorsi che non avevano mai sentito e che non capivano del tutto, ma suscitavano in loro, a seconda dei casi, o una sommessa ilarità o qualcosa che potremmo definire abbandono all'onda dell'intelligenza. Un potentissimo afrodisiaco. Alberto era un vero e proprio incantatore di serpenti.

Michele, mezzo italiano e mezzo tedesco, ballava come un militare, rigido per imbarazzo o forse per freddezza. Era algido e calcolatore, ma senza un fine. I suoi calcoli non gli servivano a niente. Quella sera, con il suo tedesco perfetto, recitava la parte dell'ufficiale prussiano, e le ragazze naturalmente ci cascavano.

L'unico che non ballava era Franz, lui che danzava sul ring come una ballerina, se ne stava seduto al tavolo. Non si faceva neppure un lento, e io mi chiedevo se davvero non sapeva ballare o se, invece, si era assunto il ruolo di guardiano della situazione. Se ne stava lì, sentinella pronta a scattare al primo accenno di pericolo.

All'apparire di Kriminaltango, con il magico attacco brechtiano in medias res:

Und sie tanzen einen Tango
Jacky Brown und Baby Miller

il professore invitò con un inchino la sua dama facendo sfoggio di una classe d'altri tempi; li lasciammo da soli al centro della pista fino all'esplodere del ritornello:

Kriminaltango in der Taverne
dunkle Gestalten, rote Laterne

poi io trascinai al ballo anche gli altri - ma fu un disastro: il tango non lo sapeva ballare nessuno. I tedeschi cominciarono a segnarci a dito, a ridere piegati in due, insomma a sfottere. La situazione precipitò, anche perché Franz non ci pensò due volte ad affrontarli rivelando tutta la sua nobile e incazzata germanicità in difesa dei suoi amici italiani. Il ballo si fermò di colpo e noi corremmo ad aiutare Franz che del nostro aiuto, per la verità, non aveva proprio bisogno, ma dovevamo impedire che esplodesse la rissa. L'intervento del professore fece capire che non si trattava di un gruppo di italiani ma solo di un gruppo di amici di ambedue le etnie, se così vogliamo dire. In noi non c'era nessuno spirito di corpo come lo intendevano loro, non era una questione di razza o di nazionalità. In realtà quello che ci univa, a parte le affinità istintive, della simpatia, era la collocazione politica e l'intelligenza - e questo spiega l'amore di quel pazzo del professore di latino per il nostro gruppo, che egli si applicava a mantenere coeso e, anzi, a rafforzarne le motivazioni e l'antagonismo. Adesso penso addirittura che se lo fosse dato come compito "pedagogico-politico". Ci voleva insegnare a stare insieme e a combattere, se ce ne fosse stato bisogno. Quella fuga dal collegio, con i rischi che comportava anche per lui, si spiega solo così. Perché quell'istituzione era un concentrato di tutta la ricchezza e di tutto il potere del pianeta. C'erano i figli di ogni élite politica ed economica, e non ci piacevano. Anche al di là delle nostre posizioni ideologiche, erano quasi sempre molto stupidi e molto arroganti. Alla distanza, visto quello che sta succedendo, non si può certo dire che il lavoro del professor von Staufenberg sia andato perduto. Quel gruppo, mi pare di capire, ancora regge.

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